I FONDAMENTALISMI NEL MONDO CONTEMPORANEO

XXI Secolo (2009)

I fondamentalismi nel mondo contemporaneo

Enzo Pace

L’anno terribile

L’attentato dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers di New York può essere considerato, a tutti gli effetti, un evento cerniera non solo nella storia contemporanea, ma anche per quanto riguarda una specifica tendenza ideologica, politica e religiosa affermatasi circa trenta anni fa e chiamata convenzionalmente fondamentalismo. Molti osservatori e studiosi hanno cominciato a chiedersi che cosa fosse avvenuto nella mente dei giovani attentatori per convincerli a compiere un’azione di così grave violenza, contro sé stessi e contro altri esseri umani del tutto innocenti. L’attentato è stato in realtà un evento drammatico preceduto e seguito da altri episodi simili, riconducibili in gran parte a un modo tecnicamente specifico di fare la guerra nel mondo contemporaneo: il terrorismo. In tale ambito rientrano le azioni di guerra compiute con ‘uomini-bomba’ che non vanno tanto a colpire obiettivi militari, ma attaccano in modo indiscriminato. Dal 1982, anno del primo attentato suicida compiuto da un militante ḥezbollāh in Libano contro l’ambasciata statunitense a Beirut, anche l’azione terroristica ha cambiato di segno. Chi la teorizza e la pratica, in effetti, non è solo interessato a creare un clima di paura nel campo avverso, colpendo civili e persone inermi, ma anche e sempre più, nei primi anni del 21° sec., a dimostrare che il sacrificio di vite umane è un atto purificatore estremo accetto agli occhi di un dio, degno di essere compiuto senza timore. Infatti, la lunga serie di attentati portati a termine in varie parti del mondo da uomini e donne (più recentemente, anche queste ultime), che si fanno esplodere addosso una bomba per arrecare il maggior danno possibile al nemico, da un lato mostra quanto stretto sia il legame fra una forma di pensiero religioso, radicale e intransigente com’è il fondamentalismo e, dall’altro, la convinzione di dover ricorrere alla violenza estrema per imporre il proprio punto di vista. L’estremismo religioso ha generato una forma di radicalismo dell’agire spingendo molti gruppi fondamentalisti a giustificare comportamenti che in linea di principio sono censurati dalle rispettive tradizioni religiose di riferimento, come nel caso del suicidio o della violenza rivolta a civili. Fra il 2000 e il 2005 gli attentati suicidi sono passati da 1139 a 4925, provocando una crescita del numero di morti in cinque anni da 778 a 8161 vittime (Tosini 2007). Il ricorso al metodo bellico di tipo terroristico non costituisce certo una novità nel corso della storia moderna e contemporanea. Ciò che appare nuovo è l’emergere di un profilo di combattente che in nome di un’idea religiosa è disposto a compiere azioni di estrema violenza, compreso il suicidio sacrificale di sé stesso, per infliggere al nemico il maggior numero possibile di vittime in una situazione di rapporti di forza militare asimmetrici. In molti casi alla dimensione religiosa si sovrappongono motivi più strettamente politici, come la lotta per l’indipendenza nazionale o la difesa di un territorio occupato militarmente (Afghānistān, ῾Irāq, Palestina), o ancora la ribellione alla sovranità di uno Stato che non tollera alcuna rivendicazione di autonomia o di indipendenza di parti del suo territorio (come nel caso della Cecenia o dello Srī Laṅkā).

I primi attentati suicidi, come abbiamo ricordato, furono programmati sin dal 1982 dal movimento libanese Ḥezbollāh, di tendenza radicale e di matrice mu­sulmana sciita. Il movimento si batte contro l’occupazione israeliana del Libano e in nome della difesa, al tempo stesso, dell’identità nazionale e dell’islam. Da allora sino al 2005 sono stati documentati ben 845 attentati con ‘uomini-bomba’ in tutto il mondo con una media di 27 attentati al mese nel 2005: complessivamente 11.689 morti (Tosini 2007), con picchi di numero di vittime raggiunti rispettivamente negli attacchi di New York, Madrid e Londra e soprattutto negli scenari di guerra dopo l’11 settembre, in ῾Irāq e, più recentemente, in Afghānistān. Il legame fra la lotta per l’affermazione dell’identità nazionale e il ricorso alla pratica degli attentati suicidi si è rafforzato, del resto, anche in quelle situazioni dove, solo dieci anni fa, il riferimento alla religione era marginale o indiretto da parte di almeno uno dei due contendenti. È il caso, per es., dello Srī Laṅkā. Negli ultimi cinque anni, infatti, si sono intensificati gli attentati condotti con la tecnica degli ‘uomini-bomba’ anche da parte dei gruppi più radicali delle tigri Tamil, l’esercito clandestino che lotta per l’indipendenza della zona nord-orientale dello Srī Laṅkā. La dimensione religiosa del conflitto è emersa gradualmente dopo la nascita del nuovo Stato nazionale cingalese, quando le classi dirigenti dichiaratamente filobuddhiste hanno fatto di tutto per imporre l’idea che la nazione è una e una sola, con una terra identificata come l’isola del Dharma (santificata, secondo i monaci buddhisti, dallo stesso Buddha che avrebbe messo piede sull’isola durante una delle sue predicazioni itineranti nel sud dell’India), una sola lingua (quella cingalese) e una religione (quella buddhista), entrando così in rotta di collisione con l’importante minoranza hindu, di lingua e cultura Tamil, che popola, dai tempi della colonizzazione inglese, le zone settentrionali dello Srī Laṅkā. Anche in tal caso, dunque, la rivendicazione d’indipendenza connota una politica d’identità, che necessariamente ha bisogno di attingere all’archivio dei simboli della memoria collettiva Tamil, per trovare tutti quegli elementi che possano rinforzare il senso di appartenenza a una minoranza nazionale oppressa e discriminata anche dal punto di vista linguistico e religioso (Pace 2004). I monaci buddhisti dello Srī Laṅkā, d’altro canto, hanno sviluppato una tendenza fondamentalista, invocando a più riprese la necessità della guerra santa (dharma yudhaya) contro i Tamil che pretenderebbero in sostanza lo smembramento di una terra integralmente santificata dal buddhismo nel corso dei secoli. Tutto ciò ha finito alla lunga per sospingere sia una parte dei Tamil sia altre minoranze religiose, per es., quella musulmana, verso posizioni ideologiche che possiamo assimilare al fondamentalismo. Dalla rivendicazione o dalla difesa della propria identità si passa a invocare la sacralità della terra dove si abita e si finisce poi per giustificare tale politica d’identità con ragioni di carattere religioso. Quando la tensione con i regimi al potere cresce, si rafforza nella coscienza di chi si sente represso e non ascoltato la convinzione che sia necessario ricorrere alla violenza estrema; diviene più plausibile, allora, il passaggio dalla guerriglia all’azione terroristica, motivata anche religiosamente.

Il terrorismo malattia senile del fondamentalismo

Dall’anno terribile, il 2001, in poi si sono moltiplicati gli studi volti a spiegare e a capire le origini religiose del fenomeno terroristico e del suo legame con il pensiero fondamentalista. Va notato che parallelamente all’analisi scientifica di politologi, sociologi, storici e scienziati della comunicazione, si sono diffusi almeno altri due generi letterari di cui vale la pena dare conto brevemente. In primo luogo, il genere del pamphlet antislamico – di cui Oriana Fallaci è stata in Italia, e non solo, l’interprete più efficace – che per reazione ha fatto moltiplicare i saggi di risposta alla tesi che riduce tutto l’islam al fondamentalismo e alla violenza. In secondo luogo, è fiorita la letteratura sull’argomento (romanzi, novelle e racconti brevi) interessata a narrare come una persona possa diventare fondamentalista e decidere di compiere gesti estremi nel cuore di società aperte e non solo in scenari già segnati dalla catastrofe della guerra. In entrambi i casi, tuttavia, si fissa lo sguardo sul mondo musulmano, lasciando intendere che il fondamentalismo sia una prerogativa esclusiva dell’islam. Oltre a una delle ultime fatiche dello scrittore John Updike (il romanzo s’intitola seccamente Terrorist ed è apparso nel 2006; trad. it. 2007), va ricordato il caso letterario del pakistano Mohsin Hamid, autore di The reluctant fundamentalist (2007). Nel libro di Hamid, un successo letterario tradotto contemporaneamente in più lingue, si narra la trasformazione subita dal giovane pakistano, Changez, che da manager di un’importante società d’affari di New York decide – dopo l’attentato alle Twin Towers e durante l’invasione da parte degli Stati Uniti dell’Afghānistān – di diventare un militante musulmano radicale e di aspirare a emulare le gesta dei protagonisti dell’attacco terroristico.

Sia gli studi, sia i racconti hanno messo in luce come il fondamentalismo, in quanto modo di pensare e di plasmare gli stili di vita degli individui, contenga un potenziale di aggressività che si è manifestato nel corso degli ultimi anni, dal 2001 in poi, in misura crescente rispetto ai numerosi scacchi e fallimenti subiti dai vari movimenti religiosi di tipo fondamentalista, che non sono riusciti, salvo poche eccezioni (Irān), a imporre il loro punto di vista nelle società dove pure continuano a essere presenti. In altre parole, la sconfitta del loro progetto politico ha spinto alcuni a immaginare il ricorso alla violenza estrema come l’ultima, necessaria e coerente opzione per affermare le proprie idee. Siamo di fronte a una fase degenerativa del progetto e la violenza cui molti di tali movimenti ricorrono ne è il segno più drammatico, una sorta di malattia senile. L’allarme crescente nei confronti delle azioni terroristiche ha prodotto un mutamento nel punto d’osservazione del fenomeno fondamentalista. Esso è, infatti, analizzato non più e non solo come una corrente religiosa che fissa i propri canoni di fede a partire dall’idea che un testo sacro contiene una verità assoluta non interpretabile alla luce dell’evoluzione storica delle società umane, ma sempre più come una forma di pensiero e di azione che si presenta intrinsecamente violenta, intollerante, fanatica, non disposta a transigere in alcun modo sui principi che sono ritenuti non negoziabili.

Ciò precisato, e tornando all’associazione fra fondamentalismo e terrorismo, uno studioso statunitense, Mark Juergensmeyer, ha concentrato l’attenzione sulla violenza religiosa nel mondo contemporaneo, sostenendo che il fondamentalismo, nato come movimento religioso e politico, in vari contesti ha finito per esprimere tutto il suo potenziale di violenza simbolica, fornendo successivamente motivazioni e giustificazioni ad azioni di tipo terroristico. La violenza simbolica si è tradotta così in violenza reale (Juergensmeyer 2000). In tale analisi non si compie l’errore di attribuire solo ad alcuni sistemi di credenza religiosa, in particolare alle cosiddette religioni monoteiste, l’emergere dello zelo estremista. Chi agisce violentemente in nome di Dio, infatti, tende a giustificare razionalmente ciò che egli compie, poiché si sente investito da una missione speciale, sente di far parte di un’avanguardia di fede, di cui si fa difensore e interprete esclusivo e autorevole. Il fatto che generalmente i protagonisti di tali gesti estremi rifiutino con sdegno di essere qualificati terroristi è significativo; spesso essi, infatti, si autodefiniscono combattenti non solo di una giusta causa, ma di una causa superiore e trascendente verso la verità assoluta, che sarebbe messa in discussione e in pericolo nella società moderna.

Da questo punto di vista, è importante segnalare il moltiplicarsi delle ricerche sui materiali prodotti dai movimenti radicali fondamentalisti; in particolare documenti riguardanti tutti quei militanti che hanno volontariamente messo in atto azioni estreme nel compiere un attentato. Essi hanno lasciato lettere o testamenti spirituali che, presi e analizzati nel loro insieme, costituiscono un materiale empirico di prima mano, un complesso di documenti etnografici autoprodotti, che consente di ‘guardare dentro’ la cultura della violenza religiosamente motivata, così come prende forma in un ambiente sociale influenzato dall’ideologia fondamentalista. Non c’è da stupirsi che molte informazioni provengano dal mondo dei combattenti estremisti di matrice musulmana, che spesso hanno affidato a brevi scritti o a video registrati poco prima di un attentato le motivazioni del loro gesto. È proprio questo ambiente che mediamente ha fatto registrare il più elevato numero di casi di suicidi sacrificali, definiti di martirio nel linguaggio religioso dei movimenti che li hanno promossi. In quest’ottica, un sociologo della religione francese di origine iraniana ha studiato i nuovi martiri di Allāh (Khosrokhavar 2002), cercando di cogliere le ragioni di ciò che egli ha chiamato martiro-patia che sembra aver colpito frazioni consistenti delle coorti giovanili di molte società a maggioranza musulmana e, in misura minore, alcune frange di giovani musulmani europei, intervistate in occasione di una sua ricerca sulla presenza di persone di cultura musulmana nelle carceri. Ciò che emerge dai suoi studi, così come da altri che possono essere consultati nel sito del centro di ricerca PRISM (Project for the Research of Islamist Movements: www.e-prism.org; 4 giugno 2009), istituito da Reuven Paz nel 2002, è che il documento attribuito a Muḥammad Atta (῾Aṭṭā), uno degli attentatori delle Twin Towers, costituisce una sorta di matrice di testimonianze simili. Ad affiorare, infatti, non sono solamente la retorica religiosa e la ripetizione di formule rituali, ma l’idea forte di compiere un’azione capace di far sentire i giovani attentatori (e attentatrici) come parte di una catena di testimoni il cui ultimo anello è lo stesso profeta Maometto. Ci si ricollega direttamente a un modello astratto di combattente sulla via di Dio, così come definito dal Corano, ripristinando – con un salto astorico notevole – il circuito della memoria religiosa che, secondo una delle matrici ideologiche dell’islamismo radicale e violento, si sarebbe spezzato dapprima sotto la pressione del colonialismo e, successivamente, per la volontà delle nuove classi dirigenti postcoloniali che hanno deviato dall’ortodossia e imposto una modernizzazione, recidendo progressivamente i legami con le pure origini della fede. Si dimostra così come il fondamentalismo in generale, e non solo nel caso appena citato, si faccia interprete di una politica della memoria collettiva proprio per contrastare il pericolo di perdita della stessa nelle società moderne.

In conclusione, se assumiamo il 2001 come l’anno terribile del fondamentalismo, l’interrogativo che ci si pone è se la violenza estremista e l’intolleranza siano una naturale espressione della natura stessa del fenomeno di cui stiamo parlando. Esiste un generale consenso fra gli studiosi nel sostenere come la violenza costituisca una possibile deriva dei movimenti di tipo fondamentalista solo quando, però, essi finiscono per convincere i propri militanti della necessità di mobilitarsi non tanto per difendere l’assolutezza di un sistema di credenza e per affermare un’identità religiosa ‘pura e dura’, quanto per non arrendersi quando tutte le altre possibili alternative di lotta politica sono state esplorate senza successo o sono state precluse dai regimi al potere. Si fa strada allora, e solo allora, l’idea che prima delle leggi di uno Stato o di un ordinamento giuridico cui obbedire, esista una lealtà più stretta e cogente, quella verso la legge divina. Per queste persone diventa problematico riconoscere l’esistenza di uno Stato che pretende di essere non confessionale o accettare di vivere in una società pluralista e aperta, in cui credere nel relativo diventa la regola aurea che permette ai credenti di diverse fedi di vivere sotto lo stesso tetto.

Fondamentalismi, democrazia e pluralismo religioso

È interessante notare come, parallelamente allo studio del fenomeno della violenza religiosa connessa al fondamentalismo, osservato dal punto di vista dei gruppi e dei movimenti che hanno portato sino alle estreme conseguenze il progetto fondamentalista (Strong religion, 2003), si sia sviluppato un importante filone di analisi, condotte soprattutto da studiosi di storia americana, teso a dimostrare l’impatto sulla democrazia statunitense dell’attentato alle Twin Towers dal punto di vista religioso. Molti predicatori fondamentalisti, infatti, che erano scivolati sullo sfondo della scena mediatica americana dopo gli anni della presidenza di Ronald Reagan, si sono rapidamente riaccreditati presso l’opinione pubblica all’indomani dell’attentato, e sono tornati a fare audience con i loro programmi televisivi decretando ad alta voce, e senza troppe remore, che la distruzione delle Twin Towers non è stato altro che il segno dell’ira divina per tutti i peccati sociali commessi da quella parte di americani e dei dirigenti politici liberali colpevoli di non aver contrastato mali sociali come l’aborto, l’omosessualità, la crisi della famiglia e così via. Dio ha abbandonato l’America perché la società americana si è dimenticata della parola rivelata dalla Bibbia e della missione assegnata da Dio stesso alla Nuova Gerusalemme, gli Stati Uniti appunto. Lo storico Emilio Gentile (2006) ha mostrato l’effetto della rinnovata predicazione fondamentalista sui repertori retorici cui è ricorso il presidente George W. Bush dopo l’11 settembre 2001. Nei discorsi tenuti nei mesi e negli anni immediatamente successivi all’attentato si possono cogliere infatti due registri simbolici. In primo luogo, l’idea secondo la quale l’America è stata aggredita perché qualcuno ha desiderato distruggere la democrazia, che trova negli Stati Uniti l’avamposto più elevato e il presidio più saldo in tutto il mondo. Da queste premesse, in secondo luogo, Bush ha tratto forza per giustificare, dapprima, la guerra contro l’Afghānistān nell’ottobre 2001 come lotta in nome di Dio del bene contro le forze del male e, successivamente, con esiti altalenanti sulla scena mondiale, la guerra contro l’Irāq di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn) nel 2003. Tutte e due queste guerre sono state rappresentate come una nuova guerra mondiale di liberazione dal terrore, evocando con accenti apocalittici, cari alla retorica biblica dei predicatori fondamentalisti, l’immagine di un dio che non sta dalla parte degli attentatori, ma dell’America stessa, chiamata da Dio a farsi carico di una missione salvifica nel mondo. Tale strategia comunicativa, in buona sostanza, al di là degli artifici retorici, rappresenta il tentativo di rianimare un nazionalismo religioso che in parte stride con la stessa vicenda storica americana, la quale impone il rispetto del principio costituzionale della separazione fra Chiesa e Stato, con il corollario dell’aconfessionalità dello Stato. L’operazione compiuta perciò da Bush e dal gruppo di consiglieri che lo hanno assecondato nella sua linea di condotta, in verità, è tutta politica e si inscrive pienamente in una prospettiva fondamentalista che non ha alterato più di tanto le regole del gioco democratico. Si tratta di una politica della religione che ha utilizzato il discorso religioso per legittimare scelte di guerra in risposta a quanto accaduto a New York in quel drammatico 11 settembre. In poche parole siamo in presenza, nella più grande democrazia del mondo, di un inedito nazionalismo religioso, già in nuce nella prima presidenza Bush del 1999 e che si è poi arricchito e precisato, nel fuoco della guerra al terrore, secondo la formula della nazione missionaria, quella in cui si sostiene che ha ricevuto da Dio, appunto, una missione speciale: difendere e, laddove è possibile, esportare la democrazia con le armi.

I fondamentalismi contemporanei come forme di nazionalismo religioso

Non si possono fare parallelismi, ma è certo che il nazionalismo religioso è comparso non solo negli Stati Uniti, ma anche in altre società. Tale fenomeno, per es., è avvenuto in India con l’ascesa temporanea al potere del Bharatiya Janata party (BJP, il Partito del popolo Hindu) che invoca, quale fondamento dell’identità nazionale, la restaurazione di ciò che viene chiamato l’hindutva (la pura identità hindu) e che trova terreno fertile per espandere il proprio consenso fra i gruppi e i movimenti politici e religiosi del revivalismo neohindu (L’Inde contemporaine de 1950 à nos jours, 2006; Fernandes 2006). Questi gruppi sono portati, in generale, a dare una lettura fondamentalista dei testi religiosi (i Veda nella tradizione induista), forzando la tradizione che non prevede l’esistenza di un unico, inerrante testo sacro, per dedurre da essi l’idea che la terra degli antichi Arya sia stata contaminata dapprima dall’invasione musulmana, successivamente dalla penetrazione del cristianesimo all’epoca del colonialismo nonché dai modelli di società pluralista e di Stato secolare voluti dai padri fondatori dell’India indipendente e, per finire, dal Partito del congresso.

Qualcuno è arrivato a parlare recentemente di fascismo hindu, allo stesso modo in cui si parla di fascismo islamico a proposito dei movimenti radicali e combattenti di matrice musulmana. L’accostamento, dal punto di vista concettuale, oltre che essere antistorico, rischia per la verità di occultare la natura strettamente religiosa del fondamentalismo. Il suo totalitarismo, che lo renderebbe simile al fascismo o al nazismo o ad altre forme di pensiero totalitario, non è espressione in realtà di un’ideologia politica, ma di un’ermeneutica precisa dei testi sacri. Questi, infatti, sono interpretati come se costituissero la radice ultima e il fondamento assoluto dell’identità individuale e sociale, validi in ogni tempo e in ogni luogo, sottratti ai cambiamenti storici, poiché in essi è inscritto un modello perfetto di società.

Un altro esempio di nazionalismo religioso è offerto dai gruppi politico-religiosi radicali attivi in Israele. Questi movimenti, in nome dell’integrale rispetto della Torah, hanno concepito gli insediamenti nei Territori occupati dopo la guerra dei Sei giorni (1967), come la realizzazione del sogno di ricomporre i confini sacri della terra promessa, un segno dell’imminente avvento del messia. In tal caso si parla di sionismo religioso; esso si configura come una variante del fondamentalismo contemporaneo, poiché tiene assieme la dimensione religiosa e la dimensione politica. La credenza nella legge di Dio, immutabile, rivelata in un testo sacro, si associa rispettivamente all’idea della sacralità della lingua ebraica veicolo della rivelazione, all’intangibilità della terra e all’attesa dell’avvento del messia. L’insieme di tali elementi concorre a definire un nazionalismo religioso a tinte messianiche, dunque. A titolo di esempio può essere utile ricordare cosa accadde quando, nell’agosto 2005, prese avvio l’operazione, chiamata Mano tesa ai fratelli, di sgombero e distruzione delle colonie israeliane insediate nella Striscia di Gaza. L’allora primo ministro Ariel Sharon si trovò, come del resto il suo predecessore Yitzahak Rabin, ucciso nel 1995 per mano di un estremista ebraico subito dopo la pace con Yasser Arafat (Yāsir ῾Arafāt), a contrastare non solo la comprensibile rabbia di tante famiglie di ebrei che erano costrette ad abbandonare le loro case dove abitavano da molti anni, ma anche l’opposizione da parte di alcuni gruppi politici ultraortodossi, rappresentati in Parlamento, in difesa dell’integrità di Eretz Israel, la terra promessa che era stata faticosamente riconquistata dai coloni seguendo per così dire le linee confinarie tracciate nella Torah. La combinazione fra stretta osservanza religiosa, acuto senso della propria identità socioculturale e difesa, senza compromessi possibili, dei sacri confini della propria terra, costituisce, infatti, l’architettura del pensiero fondamentalista nell’ebraismo contemporaneo. Solitamente definiti come ultraortodossi, i gruppi che compongono il variegato arcipelago socioreligioso ebraico dentro e fuori Israele possono essere in realtà classificati in almeno due tipi. Il primo è caratterizzato da una forte tensione messianica; il secondo, invece, punta alla difesa della memoria e dell’identità religiosa di un popolo (quello ebraico), con una strategia politica volta a ricostituire i confini della biblica terra promessa. Il corollario ideologico che ne deriva è l’opposizione strenua e non irrilevante a ogni ipotesi di concessioni territoriali al popolo palestinese.

In entrambi i casi, il valore che orienta l’azione sociale di questi gruppi è l’identità dell’essere ebrei in terra d’Israele, prima ancora di riconoscersi come cittadini di uno Stato democratico e pluralista, com’è lo Stato israeliano moderno. Allo stesso tempo, ancora, la legittimazione dell’agire in forme radicali deriva dalla convinzione che un ebreo osservante possa trovare nel libro sacro e nelle interpretazioni consolidate nelle tradizioni rabbiniche una fonte autorevole di norme etiche e sociali, oltre che un modello di società già prefigurato nella sua interezza. Infatti, gli ultraortodossi in senso stretto o haredim (letteralmente, coloro che tremano davanti alla parola di Dio) osservano tutti i comandamenti divini, mizwot, derivanti dalla Torah (Gutwirth 2004). Le mizwot sono norme d’ordine pratico, la cui piena realizzazione presuppone l’esistenza di una comunità capace d’integrare gli individui e di farli sentire corresponsabili di tutti gli atti che essi compiono. Per loro è necessario, quindi, costituire vere e proprie enclave nel territorio, zone franche dove le persone abbiano la possibilità di sentire fisicamente una prossimità religiosa che altrove non sarebbe possibile. Alcuni quartieri di Gerusalemme e di Tel Aviv, per es., oggi hanno assunto i caratteri di agglomerati urbani etnicamente e religiosamente omogenei, così come alcune aree di metropoli americane (come, per es., a New York, nel quartiere di Crown Heights di Brooklyn).

L’intransigenza mostrata dal nuovo sionismo religioso fondamentalista in Israele svolge in parte un ruolo nella spiegazione dell’insorgenza e poi nell’affermazione dell’estremismo religioso di un movimento palestinese come Ḥamās, soprattutto nell’arco di tempo che va dalla seconda Intifāḍa, scoppiata nel 2000, al moltiplicarsi di attentati con ‘uomini-bomba’ (ma anche con donne) fra il 2002 e il 2006, organizzati da gruppi affiliati ad Ḥamās. Questo movimento costituisce un ulteriore esempio di nazionalismo religioso, inedito e inatteso per quanto riguarda lo scenario palestinese e dei movimenti fondamentalisti in campo musulmano. Il movimento, infatti, fondato nel 1987 da Ahmed Yassin (Aḥmad Yāsīn), successivamente ucciso da un missile israeliano nel marzo 2004, è gradualmente emerso nel panorama mediorientale come un’avanguardia politico-religiosa che, soprattutto dal 2000 in poi, ha assunto sempre più il profilo di un movimento d’indipendenza per l’instaurazione di uno Stato islamico in Palestina. A fronte del declino dell’ideologia nazionalista dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), guidata sino alla sua morte, avvenuta nel novembre 2004, da Arafat, Ḥamās ha cercato di rianimare le speranze dei palestinesi ricorrendo apertamente al repertorio dei simboli religiosi (La vittoria di Hamas, 2006). Anche in questo caso il fondamentalismo assume la forma di un nazionalismo religioso intransigente e ostile non solo nei confronti del nemico storico israeliano, ma anche rispetto a tutti coloro che vengono giudicati dai leader e dai militanti di Ḥamās dei traditori della causa palestinese, individuati nei successori di Arafat, e, allo stesso tempo, della causa islamica. I rapporti fra Ḥamās e al-Fataḥ, che rappresenta l’anima laica del movimento di liberazione palestinese ed è disposta a mantenere aperta la via del negoziato con Israele, si sono deteriorati fra il 2006 e il 2007, in particolare a seguito sia della costruzione del muro che è servito a proteggere, almeno in parte, Israele dagli attacchi suicidi, sia del notevole successo riportato da Ḥamās nelle elezioni politiche del Consiglio legislativo palestinese del 25 gennaio 2006 (con la conquista della maggioranza dei seggi: 74 su 132). Il conflitto si è inasprito negli ultimi due anni ed è culminato nell’estromissione militare dalla Striscia di Gaza delle milizie di al-Fataḥ, trasformando Gaza in una sorta di enclave politico-religiosa (l’Hamastan) saldamente controllata dal movimento fondamentalista. Può essere istruttivo, a titolo di esempio, accennare a come i due contendenti utilizzino i mass media per dipingersi reciprocamente come acerrimi nemici della fede. Nei rispettivi canali televisivi, infatti, controllati da Ḥamās e al-Fataḥ, vengono mandati in onda videoclip, cartoni animati e altro materiale di propaganda nei quali l’uno accusa l’altro di tradimento e deviazione rispetto all’islam. Se ciò è comprensibile, in prima battuta, per un movimento che sin dalla sigla porta inscritto il segno d’appartenenza alla religione musulmana, risulta invece di non facile comprensione come mai un movimento laico di resistenza politica come al-Fataḥ, che non ha avuto bisogno di rifarsi al linguaggio religioso per mobilitare le coscienze dei palestinesi, abbia finito per adottare anch’esso un repertorio di simboli e una retorica politica che sovente fanno appello al vero islam e al nome di Dio. Così, per es., si può vedere come in un video prodotto da al-Fataḥ nell’estate 2007, si racconti di un saccheggio di una moschea di Gaza da parte dei miliziani di Ḥamās, dell’aggressione subita dagli inermi guardiani del luogo sacro e, infine, sommo sacrilegio, l’immagine di un Corano crivellato di colpi. Il messaggio è chiaro: i militanti di Ḥamās sono dei dissacratori e, dunque, non meritano rispetto; invocano l’islam, ma in realtà non sono dei buoni musulmani. In modo speculare, in un video prodotto dalla televisione di Ḥamās sotto forma di un accattivante cartone animato (dunque rivolto anche a un pubblico di bambini e ragazzi), i militanti di al-Fataḥ sono raffigurati come ributtanti topi che bruciano il Corano, strappano il velo a una donna, sparano contro una moschea: il salvatore della situazione è Ḥamās, che si presenta graficamente sotto le spoglie di un fiero leone (simile al film disneyano The lion king, 1994) che spazza via i nemici di Dio. Si gioca a rappresentarsi nel modo più negativo possibile e si dimentica di essere tutti palestinesi e di dover combattere per una causa comune, cercando di mettere in cattiva luce l’avversario di cui si misura l’autentica adesione all’islam. Ma la caricatura negativa nasconde solo la lotta in corso fra le due fazioni del mondo palestinese per l’egemonia politica, per chi riesce meglio a dimostrare di essere un vero combattente della causa del popolo palestinese e dell’islam. Un conflitto, dunque, che può essere definito fra opposti nazionalismi, uno più marcatamente religioso, Ḥamās, perché immagina di poter edificare in ciò che rimane della terra di Palestina uno Stato islamico, e uno più laico, al-Fataḥ.

La riconquista della scena pubblica

Ḥamās e al-Fataḥ si fronteggiano non solo, dunque, sul piano politico e militare, ma, come accade in tutte le guerre moderne, anche sulla scena mediatica. Rappresentando un campo d’azione per la battaglia ideologica da parte dei gruppi, movimenti e leader religiosi di tendenza fondamentalista, i media sono visti da questi attori sociali e politici come un mezzo di rappresentazione drammaturgica delle loro gesta. In tal modo essi ritengono di poter comunicare in un mondo distratto le proprie idee, farsi riconoscere nel mercato delle immagini e delle sigle religiose, a livello locale e mondiale. Sin dal primo apparire del fenomeno, del resto, i predicatori fondamentalisti americani hanno usato ampiamente i mezzi televisivi. Allo stesso modo, anche in quei movimenti che hanno scelto la violenza come metodo per imporre il proprio punto di vista, l’accesso ai mezzi di comunicazione moderni è ormai entrato a far parte del repertorio delle forme di azione e propaganda. Vari autori hanno analizzato la messa in scena di atti di terrorismo religioso, studiandone il grado d’impatto mediatico che si accompagna solitamente e proporzionalmente alla potenza distruttiva messa in atto nei confronti degli altri o di sé stessi, come nel caso degli attacchi suicidi. Le azioni compiute non hanno solo un effetto bellico, ma anche sul circuito della comunicazione globale. Esse diventano, perciò, contemporaneamente eventi di performance, per mezzo dei quali si compie qualcosa per ottenere un certo obiettivo, al tempo stesso militare e simbolico, e atti performativi, poiché chi li compie intende cambiare le cose, alterare le regole del gioco sociale, indurre il nemico a cambiare rotta e così via (Juergensmeyer 2000). Così, per es., nel caso di Atta, che guidò l’aereo contro le Twin Towers, o di Wafa Idris (Wafā᾿ Idrīs), una delle prime ‘donne-bomba’ a farsi saltare in aria in Palestina nel gennaio 2002. Entrambi erano consapevoli non solo di compiere un’azione di guerra, ma erano altresì lucidamente coscienti che i loro atti avrebbero avuto un effetto spettacolare. In due sensi: in primo luogo, per l’eco che avrebbero ricevuto in tutti i media nel mondo e, in secondo luogo, per l’impatto imitativo e pedagogico fra i giovani musulmani aderenti alle correnti più radicali del fondamentalismo. La violenza religiosa fa notizia e spettacolo; essa rappresenta, tuttavia, la forma estrema di una comunicazione con mezzi tecnologicamente moderni di cui ormai, con vari gradi d’intensità e di esposizione alla logica propria dei media, molte religioni, anche quelle più istituzionali, si servono per raggiungere un pubblico invisibile e per tentare di riempire per via elettronica i vuoti lasciati nelle chiese o nei luoghi di culto da tanti potenziali seguaci, persi per strada, da riconquistare e da motivare di nuovo alla fede religiosa. I vari leader dei movimenti fondamentalisti del mondo contemporaneo hanno dimostrato di saperci fare, di conoscere i linguaggi e la forza persuasiva dei mezzi di comunicazione, non più solo la televisione, ma negli ultimi anni soprattutto la forza pervasiva e persuasiva di Internet, delle chat, dei forum elettronici e dei tanti siti web che illustrano le posizioni di questo o quel gruppo fondamentalista. Ciò a cui abbiamo assistito, dal 2000 in poi, è l’aumento non solo di azioni spettacolari di terrorismo in nome di un dio, ma anche e soprattutto il moltiplicarsi di ciò che David Rapoport (Terrorism, 2006) ha chiamato rituali pubblici. La tesi dell’autore è che a chi compie atti di violenza politica estrema, legittimandoli su basi religiose, non interessa tanto colpire qualcuno che rappresenta una reale minaccia, quanto piuttosto il valore simbolico attribuito alla vittima. È come se egli compisse un rituale di sacrificio pubblico che rappresenta la doppia funzione di dimostrare la forza di una fede assoluta, portata sino alle estreme conseguenze, e, al contempo, di affermare il proprio punto di vista sul mondo, che giudica corrotto; il sangue della vittima, così come quello dell’officiante (nel nostro caso l’attentatore o attentatrice che compie un’azione violenta) possiede l’oblazione necessaria per combattere le forze del male, lavare i peccati e far trionfare la verità.

In tal senso, nella deriva terroristica che si è verificata in alcuni movimenti d’ispirazione fondamentalista, si è fatta strada l’idea che sia necessario non solo compiere un’azione di guerra, ma anche allestire una scena di drammaturgia pubblica per comunicare con efficacia e intensità un certo messaggio religioso o politico. Tutto ciò costituisce la forma esasperata e parossistica che altri gruppi religiosi, presenti in alcune grandi chiese storiche (da quella protestante americana a quella cattolica), pur non essendo assimilabili al fenomeno fondamentalista, hanno finito per scegliere per riconquistare il diritto di tribuna sulla scena pubblica, per poter meglio mobilitare in tal modo le coscienze e riattivare il consenso perduto. In altri termini, esiste senz’altro una differenza notevole fra Eric R. Rudolph (altrimenti noto come Olympic Park bomb perché accusato di aver piazzato una bomba ad Atlanta durante i Giochi olimpici del 1996), un terrorista cristiano, militante di un gruppo fondamentalista evangelico (della Christian identity), condannato all’ergastolo nel 2005 per aver attaccato varie cliniche dove si pratica l’aborto e alcuni luoghi di ritrovo di omosessuali, e le posizioni ufficiali di condanna dell’aborto da parte di altre Chiese protestanti americane o della Chiesa cattolica. Tuttavia, non c’è dubbio che già con il pontificato di Giovanni Paolo II e sotto la guida del nuovo papa, Benedetto XVI, alcuni episcopati cattolici in Europa abbiano moltiplicato gli sforzi per apparire come attori accreditati e autorevoli sulla scena pubblica. In Spagna e in Italia, in particolare, fra il 2003 e il 2008, i vescovi hanno ufficialmente organizzato grandi manifestazioni pubbliche che in forme pacifiche e democratiche hanno di volta in volta posto all’attenzione dell’opinione pubblica temi ritenuti cruciali per la dottrina cattolica (difesa della famiglia, battaglia contro l’aborto e riconoscimento delle unioni civili fra persone dello stesso sesso), affermandosi così come maestri di etica pubblica con l’intento finale di condizionare le scelte dei parlamenti nazionali su tali temi. Ci troviamo in tutti questi casi di fronte a una ripresa del potere diretto d’intervento della Chiesa cattolica non solo nella vita sociale, ma sempre più anche in quella pubblica con l’intento di proclamare l’esistenza di valori e norme divine che non possono essere ignorate da uno Stato laico e di diritto, pena la sua delegittimazione. Ciò non è del tutto nuovo nella storia delle chiese nazionali cattoliche in Europa. Tuttavia ciò che appare inedito è la lucida consapevolezza da parte degli episcopati cattolici che, laddove il cattolicesimo continua a essere la cornice culturale di riferimento della maggioranza di una popolazione (Polonia, Italia, Irlanda e Spagna), la Chiesa sente di potersi dotare di uno stile comunicativo nuovo: scendere in piazza per far parlare di sé come attore pubblico capace di organizzare eventi e rituali pubblici per dimostrare, in fin dei conti, che senza di essa non c’è più salvezza sia perché verrebbero meno i fondamenti morali di una società, sia perché si smarrirebbe la radice religiosa dell’identità di una nazione. Il profilo fondamentalista di tale azione si coglie allora per due aspetti salienti: in primo luogo, perché mette in discussione la separazione fra Chiesa e Stato in nome di un vincolo superiore che uno Stato deve rispettare quando si sforza di legiferare in ambiti di rilevanza etica, senza tener conto del pluralismo dei punti di vista religiosi ed etici presenti in una società aperta e democratica; in secondo luogo, perché ricorre a una predicazione pubblica performativa (che mira a far cambiare gli atteggiamenti dell’opinione pubblica e a condizionare le scelte delle forze politiche) trasformando il discorso sull’etica in politica dell’identità. In altri termini, parlando di famiglia, aborto, omosessualità e biotecnologia il fondamentalismo intende accreditarsi come l’ultimo baluardo non soltanto della verità assoluta (contro il politeismo o il relativismo dei valori), ma anche del fondamento ultimo, religioso s’intende, dell’identità di una nazione oppure, più recentemente, dell’Europa.

Il corpo della donna, l’ordine sociale e i fondamentalismi

I fondamentalismi hanno elevato il corpo della donna a simbolo di una battaglia culturale più ampia: riconducendo le differenze di genere fra donna e uomo all’ordine proprio di una società patriarcale, restaurando la gerarchia fra i sessi, limitando il raggio d’azione delle donne nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro, segregandole nella sfera privata, insistendo, in alcuni casi in modo ossessivo e sessuofobico, sull’abbigliamento e sul rispetto di regole del pudore tramandate di generazione in generazione. Da quest’ultimo punto di vista, i movimenti fondamentalisti, guidati sistematicamente da uomini, si sono sforzati di coprire il corpo femminile, sia in senso proprio sia in senso metaforico, con i veli (di vario tipo) reali e con gli ostacoli sociali che impediscono ancora oggi alle donne di praticare alcune professioni, scoraggiandole dall’entrare nel mercato del lavoro, costringendole a rispettare le regole proprie di una società patriarcale in materia di matrimonio, di divorzio ed educazione dei figli.

È accaduto, per es., che nel Sud-Est asiatico, sotto la pressione dei movimenti fondamentalisti di matrice sia induista (India) sia musulmana (Pakistan e Bangla Desh), le prime timide conquiste delle donne hanno subito nei primi anni del 21° sec. un arretramento nella legislazione e nelle pratiche sociali. Il caso del Bangla Desh è interessante perché, nonostante la Costituzione del 1972 sia ispirata a principi laici e i governi abbiano inaugurato politiche di pianificazione familiare per abbassare il tasso di crescita demografica, incoraggiando l’uso dei contraccettivi (oggi diffusi fra il 60% della popolazione), da dieci anni a questa parte si sono formati gruppi fondamentalisti musulmani che interpretano il ricorso ai metodi anticoncezionali come il segno della corruzione dei costumi morali. Le donne del Bangla Desh avevano conquistato una relativa libertà sessuale, compreso il diritto alla riproduzione; oggi, invece, soprattutto nei villaggi e nelle aree meno sviluppate hanno preso il sopravvento leader fondamentalisti che trascinano davanti a improvvisati (quanto illegittimi) tribunali locali donne accusate di adulterio per essere rimaste incinte in una relazione extramatrimoniale oppure prematrimoniale, pretendendo di applicare la condanna a morte, secondo la šarī῾a (la legge islamica), interpretata secondo una ben determinata tradizione rigorista. Tendenze simili si riscontrano anche in India, da parte di movimenti fondamentalisti hindu, e in Pakistan, a opera di gruppi che si rifanno al pensiero di un leader fondamentalista come Abul Ala Mawdudi (Abū al-A῾lā Mawdūdī). Anche nel mondo ebraico ultraortodosso l’osservanza scrupolosa dei precetti religiosi significa la restaurazione del ruolo differenziato e subalterno, dal punto di vista religioso, della donna rispetto all’uomo, palesemente in contrasto con i tentativi compiuti negli Stati Uniti da parte di gruppi che appartengono all’area dell’ebraismo riformato di riconoscere anche alla donna la possibilità di diventare rabbino.

Questione quest’ultima, del resto, ancora aperta e fonte di forti conflitti sia nel cattolicesimo, sia nella Chiesa anglicana d’Africa così come nell’islam, anche se dal 2005 a guidare la preghiera in una moschea di New York c’è una donna, Amina Wadud. Anche in Cina, nelle regioni del Nord-Ovest abitate dagli Uiguri, da qualche anno a questa parte il governo nomina donne musulmane responsabili delle moschee.

Senza entrare nei dettagli, è importante sottolineare le molte vicende che negli ultimi anni hanno visto in varie parti del mondo movimenti di donne attivi nel cercare di contrastare i gruppi fondamentalisti o i partiti politici d’ispirazione fondamentalista i quali mirano a influenzare le scelte dei governi in carica nei rispettivi Stati (come accade, per es., in Egitto, Afghānistān e in Israele). Per i fondamentalisti di diverse religioni la condizione della donna è come un libro aperto in cui essi tenacemente si sforzano di mettere ordine frenando ciò che considerano sintomo intollerabile di disordine sociale e religioso: l’emancipazione femminile e la rivendicazione da parte delle donne di una propria soggettività, compreso il diritto alla riproduzione, al di fuori dei tradizionali schemi propri di una società patriarcale. È come se simbolicamente il corpo della donna senza più l’imperio del velo o di altri indumenti che dovrebbero proteggerla dagli occhi indiscreti maschili diventasse il segno di una perdita dell’identità di un’intera società. Rivestire la donna è come tornare alle fonti della purezza di una società, spesso più immaginata che reale, valore questo che si ritiene conservato e custodito nei libri sacri, letti e interpretati come se fossero testi senza storia, senza alcun rapporto con le formazioni sociali in cui quei testi sono stati prodotti, nel tentativo di contrastare il movimento di liberazione femminile che è diventato nel frattempo un fenomeno globale.

Conclusione

Il fondamentalismo è diventato agli inizi di questo 21° sec. una definizione generica che indica un tipo di conflitto culturale e politico presente sia nelle società ultramoderne, sia in quelle in via di modernizzazione. La sua vocazione originaria di sposare religione e politica, immaginando che la via maestra per far trionfare una verità assoluta dovesse essere l’accesso alla sfera pubblica e la conquista del potere per instaurare un regime della verità, ha alla lunga svelato l’arcano della sua iniziale fortuna nel mondo contemporaneo e, allo stesso tempo, le sue profonde contraddizioni. Se per un certo tratto della loro storia i movimenti fondamentalisti si sono incaricati, infatti, di rappresentare il bisogno di ordine a fronte di società che si giudicava avessero smarrito o rifiutato i valori religiosi, nel corso del tempo, e soprattutto all’inizio del 21° sec., la pretesa di rifondare integralmente lo Stato e la società su basi religiose si è rivelata una missione impossibile, per almeno due ragioni che le vi-cende degli ultimi anni hanno messo in evidenza (Fondare i fondamentalismi, 2007).

La prima è lo scivolamento progressivo di alcuni movimenti di tendenza fondamentalista verso il terreno della violenza religiosa, in tutte le sue varianti più estreme, come nel caso delle azioni di tipo terroristico. La seconda è la relazione in molti casi stretta fra la difesa dei fondamenti assoluti di un credo religioso e la difesa dell’identità nazionale, una relazione che ripropone nella storia contemporanea forme di nazionalismo religioso che pensavamo superate dai processi di globalizzazione.

A tutto ciò occorre aggiungere un’ultima considerazione. Il progetto fondamentalista, anche se non è riuscito molto spesso a cambiare radicalmente le società e gli Stati che più da vicino ne hanno fatto esperienza, ha tuttavia prodotto effetti inattesi e indiretti al di là del suo stesso raggio d’azione. Da un lato, infatti, per far fronte all’avanzata dei movimenti fondamentalisti i governi degli Stati dove essi sono attivi hanno cercato di fare proprie alcune istanze dei movimenti stessi oppure, dopo averli repressi e emarginati, hanno accettato alcune loro idee trasformandole in atti legislativi per poter così meglio conservare il potere, dimostrando di essere magari più zelanti degli stessi fondamentalisti; dall’altro, di fronte ai tanti fedeli a oltranza che i movimenti fondamentalisti hanno saputo mobilitare, i rappresentanti istituzionali delle principali religioni si sono interrogati su quali strade intraprendere per rispondere alla loro crescita, finendo in molti casi e in tempi recenti per mettere in discussione la separazione fra Chiesa e Stato e i sempre più precari equilibri fra religione e politica.

Bibliografia

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