I limiti della cooperazione allo sviluppo

ATLANTE GEOPOLITICO (2012)

Marco Zupi

Gli aiuti pubblici allo sviluppo, guidati dalla finalità politica di garantire maggiore sicurezza nel contesto della contrapposizione tra i due blocchi durante la Guerra fredda, sono tradizionalmente andati a sostegno dei processi di sviluppo dei paesi di Africa, America Latina e Asia. Inizialmente si trattava di politiche tese a promuovere la crescita economica, finanziando progetti infrastrutturali, nella convinzione che potessero discenderne benefici a cascata per le popolazioni. In seguito tali politiche si sono maggiormente articolate, puntando a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni più vulnerabili e finendo col divenire, di fatto, un complemento o spesso un sostituto di carenti politiche nazionali di protezione sociale.

Di fatto, le politiche di cooperazione allo sviluppo si sono date un mandato molto ampio e ambizioso - contribuire a ridurre la povertà nel mondo - e hanno finito col disperdersi in un ventaglio ancora più ampio di approcci e interventi: promuovere la democratizzazione e il rispetto dei diritti umani; garantire l’accesso ai servizi sanitari e scolastici di base; sostenere i gruppi più vulnerabili della popolazione; rafforzare le capacità governative e istituzionali di definire le politiche macroeconomiche e settoriali e di amministrare i servizi pubblici, in particolare nei cosiddetti stati fragili; alimentare lo sviluppo del settore privato e imprenditoriale; promuovere lo sviluppo sostenibile; favorire la ricostruzione e la pacificazione post-bellica attraverso missioni internazionali civili; soccorrere popolazioni colpite da calamità naturali. Si tratta di una gamma molto estesa di ambiti d’intervento, frutto di una progressiva accumulazione nel tempo di varie priorità che, anziché modificare gli indirizzi strategici, ha semplicemente generato una proliferazione di approcci non sempre coerenti.

Tuttavia, a fronte di un numero così alto di aree di intervento, frammentate in impegni sparsi in un centinaio di paesi beneficiari e che coinvolgono oltre 200 organizzazioni internazionali (cooperazione multilaterale), nonché le amministrazioni competenti e le agenzie nazionali di cooperazione allo sviluppo dei governi dei paesi donatori (cooperazione bilaterale), le risorse disponibili sono limitate. Oggi il flusso annuale di risorse a livello mondiale è piuttosto contenuto: circa 100 miliardi di dollari all’anno, pari a un terzo dei flussi di rimesse o degli investimenti diretti esteri verso i paesi in via di sviluppo e a un cinquantesimo dei proventi da esportazioni di quegli stessi paesi.

Alla luce di questa realtà, numerose sono le critiche che si possono avanzare. Da un lato, è diffusa la richiesta di aumentare le risorse finanziarie per rendere credibili le politiche: l’obiettivo è destinare almeno lo 0,7% del reddito nazionale lordo dei paesi donatori alla cooperazione allo sviluppo, favorendo anche una maggiore coerenza tra le diverse politiche (quelle commerciali e degli investimenti, le politiche migratorie e quelle ambientali) e il coordinamento tra gli attori coinvolti.

Altre critiche, di segno opposto, mettono in discussione l’utilità di politiche che reiterano gli stessi impegni da decenni, spendendo risorse finanziarie ingenti, senza che il costante mancato raggiungimento degli obiettivi produca cambiamenti di sorta. Questa critica accusa gli aiuti di essere controproducenti, guidati da una fallace logica della pianificazione dall’alto dei processi di cambiamento, che dovrebbe essere invece sostituita da più naturali logiche di mercato e da sperimentazioni su piccola scala. Si sottolineano anche i limiti di una logica e di un meccanismo perverso degli aiuti, che finiscono col rafforzare i sistemi clientelari e la corruzione nei paesi beneficiari, ritardando il processo di sviluppo e di democratizzazione anziché favorirlo.

Ulteriori critiche denunciano l’inefficacia dei piccoli progetti, giudicati incapaci di incidere sui processi complessivi di sviluppo e, quindi, l’inutilità di aiuti a progetto e la necessità di promuovere modelli di cooperazione centrati sui programmi, gli approcci settoriali e, tendenzialmente, il sostegno al bilancio pubblico.

Al di là di queste critiche puntuali, tuttavia, va evidenziato un limite di fondo. Le politiche di cooperazione allo sviluppo non si sono finora dotate di un sistema rigoroso e affidabile di valutazione dei risultati conseguiti, dell’impatto complessivo sullo sviluppo e la povertà, degli effetti prodotti e quindi della capacità degli interventi di trasformare la realtà nella direzione voluta. La conseguenza diretta è che vengono apprese solo lezioni episodiche, giudizi di segno opposto convivono e trovano possibili argomentazioni a sostegno del successo o del fallimento delle politiche. L’agenda internazionale sull’efficacia degli aiuti, promossa in sede di Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd), sta cominciando solo oggi e parzialmente ad affrontare questi numerosi limiti.

Contemporaneamente, i rapidi cambiamenti in corso nelle relazioni internazionali delineano nuovi scenari con cui le politiche di cooperazione allo sviluppo dovranno misurarsi, pena il rischio di una ulteriore perdita di efficacia.

Anzitutto, a differenza che in passato, la maggioranza dei poveri oggi non vive nei paesi a basso reddito, ma in quelli a medio reddito: il tema della povertà va dunque declinato assieme a quello della disuguaglianza, ignorato dalle politiche di cooperazione allo sviluppo.

In secondo luogo, i risultati positivi che a livello internazionale si stanno registrando in termini di riduzione della povertà sono riconducibili a cinque paesi (Cina anzitutto, Brasile, Vietnam, Indonesia e India), i cui successi non dipendono dalle politiche di cooperazione allo sviluppo e sono il frutto di politiche economiche eterodosse rispetto alle raccomandazioni Oecd.

Inoltre, proprio i paesi un tempo detti emergenti si vanno affermando come nuovi protagonisti della scena globale anche sul fronte della cooperazione allo sviluppo, mettendo in discussione i principi e le modalità definite in ambito Oecd e dando corpo a nuove forme di cooperazione Sud-Sud.

Contestualmente, si affacciano sulla scena della cooperazione allo sviluppo nuovi attori non statali, come governi subnazionali (a cominciare dalle regioni, nel caso italiano) e il settore privato profit e no-profit (comprese le fondazioni filantropiche), portatori di interessi legittimi e diversi.

Infine, le nuove priorità dell’agenda politica internazionale ridefiniscono gli obiettivi delle politiche di sviluppo nazionale: la stabilità finanziaria, le migrazioni internazionali, la sicurezza energetica, i cambiamenti climatici, la sicurezza alimentare. Tutti temi che concorrono a definire una nuova agenda della sicurezza, con cui finora le politiche di cooperazione allo sviluppo si sono molto marginalmente intrecciate.

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