I musei e il collezionismo archeologico

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

I musei e il collezionismo archeologico

Giovanni Scichilone
Beatrice Palma
Carlo Roberto Chiarlo

La musealizzazione

di Giovanni Scichilone

I processi di musealizzazione, oggi testimoniati nei campi più diversi da decine di migliaia di istituzioni attive nel mondo (quasi 10.000 sono i musei solo in Europa), traggono le loro origini da due distinti filoni storici. Certamente più antico è quello che si espresse nella tesaurizzazione di beni ricchi di valori o significati particolarmente elevati per individui, famiglie, gruppi o intere comunità locali o nazionali, ma non necessariamente caratterizzati da "pregi artistici". Nel mondo occidentale si riconosce l'esistenza di siffatti nuclei di oggetti e degli atteggiamenti sociali da essi suscitati già nella Grecia arcaica (si pensi, ad es., ai tesori di santuari ellenici quali Olimpia e Delfi), assai più tardi a Roma (in vari edifici pubblici, celeberrimo tra i quali fu il Tempio della Pace) e poi, via via, fino ai tesori di istituzioni religiose e profane o di famiglie nobiliari e regali lungo l'intero corso del Medioevo. I valori spirituali o simbolici riconosciuti a queste "accumulazioni inalienabili" conferivano spesso caratteri di alta formalizzazione (fino alla ritualità) alla loro esposizione pubblica attraverso cerimonie civili o religiose, che in qualche caso ancora sopravvivono (ad es., per tesori di Stato o di istituzioni religiose). Altro è il filone del collezionismo, che oggi definiremmo d'arte o di archeologia, anch'esso anticipato nella Grecia d'età classica e, a partire dall'età tardorepubblicana, nel mondo romano; nel mondo moderno esso è presente almeno dal tardo XV secolo, quando assume già (ad es., nella Firenze medicea) la dimensione economico-finanziaria e l'immagine sociale che tuttora conserva. Nello stesso momento nasce (ancora una volta presso i Medici) il collezionismo etnografico che, in una visione integralisticamente cristiana ed eurocentrica, sembra collocarsi assai vicino alla curiosità scientifica verso "l'altro", percepito e descritto quasi esclusivamente come "rarità biologica". Altrettanto antico è lo sterminato filone del collezionismo d'interesse naturalistico e scientifico che, indipendentemente, confluirà nel museo scientifico moderno. Le collezioni di varia natura fiorite tra il XV e il XVII secolo, autentici incunaboli del museo attuale, sono di fatto tutte perdute nella loro integrità originaria, in qualche caso "diluite" in collezioni più grandi e diverse o stupidamente smembrate, come è accaduto ad esempio (ancora nel XX sec.) al celeberrimo e preziosissimo Museum Kircherianum, nato dall'opera di padre A. Kircher nella sede del Collegio Romano della Compagnia di Gesù, dal 1663 circa. Relativamente a queste collezioni, molte delle quali assai ben conosciute nella loro evoluzione attraverso inventari e cataloghi, si è teso a sottolineare prevalentemente l'interesse intrinseco dei materiali, ignorandone spesso i processi di formazione e le gerarchie logiche, elementi nell'insieme rivelatori del mutevole corso delle inclinazioni intellettuali delle élites nobiliari e, più tardi, borghesi d'Europa. È ragionevole ritenere che il museo moderno, erede di queste elaborazioni, nasca in Europa nel corso del XVIII secolo e si proponga subito come struttura logica, piuttosto che come pura giustapposizione di trofei da raccogliere e conservare; è infatti un imbarazzante equivoco, purtroppo ancora oggi ben radicato, quello secondo cui l'elemento più caratterizzante di un museo sia la qualità delle sue collezioni piuttosto che quella delle architetture concettuali ad esse sottostanti.

Museografia e museologia

Nonostante qualche confusione circa l'esatto significato dei due termini ‒ talora addirittura sentiti come sinonimi ‒ non è difficile individuare nel primo di essi la disciplina e la pratica professionale che, attraverso la progettazione, conferiscono al museo la sua forma visibile ‒ dal particolare al generale ‒ attraverso tutte le necessarie mediazioni tecniche, tenendo conto non soltanto dei caratteri generali delle collezioni, ma anche dei bisogni e delle finalità suggeriti da esse e dalle autorità tutorie delle singole istituzioni. Alla luce di ciò, è corretto riconoscere nell'architetto la figura professionale esclusivamente o largamente responsabile dell'attività museografica. Nella museologia coesistono invece filoni e ambiti d'interesse assai diversi, primo tra i quali è quello storico, destinato a chiarire anzitutto l'evoluzione del museo (inteso sia come caso specifico sia come "tipo culturale") attraverso il tempo e lo spazio. Sin dall'inizio del XX secolo, con forte accelerazione dagli anni Cinquanta, una crescente attenzione è stata però rivolta a due altre aree di riflessione: quella politico-sociale e quella semiologico- comunicativa, tra loro ampiamente interconnesse. Esse studiano il museo in rapporto ai fini e alle azioni che esso ‒ qui ed ora ‒ va perseguendo in seno alla società, nell'ambito di specifiche politiche istituzionali, locali o nazionali. Indipendentemente o parallelamente sono stati poi approfonditi gli aspetti semiologici e di comunicazione, che fanno vedere sempre più chiaramente nel museo un potente strumento di comunicazione di massa, oltre che ‒ perfino involontariamente, a volte ‒ un efficacissimo tracciante di problematiche e tendenze della società. Detto questo, è facile vedere che, mentre la museografia segue, da protagonista sempre più autorevole e autonoma, la storia dell'architettura (soprattutto quella degli ultimi duecento anni, con una esplosione straordinaria nell'ultimo cinquantennio), la museologia ha un itinerario assai più complesso, che la vede oggi muovere in uno "spazio disciplinare" ancora fluido, definito dalla storia del collezionismo e della cultura, dalle scienze sociali e dalla semiologia. Per quanti si interessano più particolarmente a questi ultimi ambiti di indagine il museo è ben più che le proprie collezioni ed è interamente applicabile ad esso il celebre aforisma di M.H. McLuhan secondo cui "the medium is the message"; ciò sarà tenuto ben presente nel costruire e nel valutare l'azione di comunicazione culturale che esso certamente svolge, o potrebbe svolgere, nel mondo contemporaneo. La rilevanza del museo come protagonista di azione sociale era già chiara agli albori del XX secolo, quando istituzioni tra loro tanto diverse quanto il Brooklyn Children's Museum di New York ‒ forse il più celebre museo per l'infanzia ancora esistente ‒ e il Deutsches Museum di Monaco di Baviera ‒ in un certo senso il padre di tutti i musei della scienza e della tecnica ‒ dichiaravano come loro fine, assai oltre la semplice tesaurizzazione di oggetti, la costruzione di esperienze attive di apprendimento capaci di coinvolgere pienamente il fruitore. Da questi precedenti hanno preso le mosse le teorie e le prassi che ancora oggi dibattono di accessibilità, superamento di discriminazioni sociali o di altro genere, interattività, apprendimenti autoguidati ed altro, così come fu presto compreso che l'oggetto inteso come "feticcio" rimaneva per ciò stesso sostanzialmente escluso dalla produzione di conoscenze. Dopo la prima guerra mondiale, già negli anni Venti, O. Neurath (uno dei fondatori del Circolo di Vienna) esplorava forme e strumenti capaci di agevolare il trasferimento di conoscenze attraverso il museo, migliorandone il servizio alla società, soprattutto nell'educazione degli adulti; e, con tragica ironia, proprio mentre Neurath fuggiva nel 1934 alle persecuzioni razziali in Austria, la propaganda nazista utilizzava i musei (gli Heimatmuseen: musei della patria) per dirigere l'opinione pubblica, soprattutto nelle comunità agricole. Intanto in Francia si esplorava, per la prima volta approfonditamente in quegli anni, una moderna museografia etnografica con la creazione del Musée des Arts et des Traditions Populaires, inaugurato a Parigi nel 1934, presso il quale ebbe inizio l'attività professionale di G.H. Rivière, destinato a divenire uno dei massimi teorici della museologia sociale nel mondo. Dopo il conflitto mondiale, si avviava ancora in Francia, dagli anni Sessanta, uno studio sul ruolo del museo nei processi di educazione collettiva e A. Bourdieu ‒ con la sua scuola di sociopedagogia ‒ mostrava come il museo pubblico, nelle società economicamente sviluppate, tendesse a rimanere area di accesso privilegiato per i gruppi culturalmente ed economicamente egemoni, esercitando nei confronti dei suoi fruitori un potere di discriminazione (l'"arbitrario culturale") già semplicemente con la scelta univoca dei linguaggi impiegati. In logica sinergia prendeva corpo in quel decennio la "nuova museologia" degli ecomusei, dovuti largamente a Rivière e da lui stesso definiti come "strumento concepito, modellato e gestito congiuntamente da una autorità pubblica e da una comunità locale" come specchio diacronico del territorio e delle culture che vi si sono succedute; un'idea che ancora oggi è prodiga di sviluppi ovunque, dal Canada all'America Latina, dall'Africa al Sud-Est asiatico, dall'Australia all'Europa. Direzioni ancora diverse ha preso, relativamente al museo, il pensiero sociologico dei decenni a noi più vicini; specialmente nel Regno Unito e, più recentemente, nella Germania riunificata è stato dibattuto il ruolo che il museo e, più in generale, i beni culturali possono avere come generatori di un prodotto reso disponibile sul mercato (prevalentemente quello turistico) o come creatori/erogatori di un servizio, eventualmente offerto anche al di fuori dei modi e delle logiche di un mercato. Mentre la pressione delle tecniche di marketing (ispirate da interessi economici che vedono nel museo un punto di vendita privilegiato su un segmento di mercato comprensibilmente rilevante) già spinge qualcuno a considerare la misurazione di "indici di gradimento" per valutare l'azione del museo nel sociale, C. Campbell, sociologo a York, propone inquietanti e lucidi collegamenti tra la fruizione dell'arte nei luoghi deputati e i meccanismi più riposti dei consumi di massa. Negli anni Novanta, mentre severe misure di finanza pubblica costringono ovunque sempre più l'intero comparto ad una visibile deriva verso il mercato del tempo libero, i Paesi ancora in ritardo nell'uso del museo a fini sociali (l'Italia fra questi) si vedono costretti a rinunciarvi, anche in quelle situazioni nelle quali questa o quella azione di promozione culturale ed umana ne potrebbero trarre beneficio. In generale, grande merito della museologia sociale è stato certamente l'essere riuscita ad adeguare il museo ‒ mezzo tradizionalmente rigido nella tutela della propria immagine plurisecolare ‒ alle necessità che i vari possibili fini suggerivano di tempo in tempo, dalle politiche per i disabili a quelle in favore di specifiche minoranze, dal supporto strutturato per programmi scolastici di medio e lungo periodo ad ogni sorta di azioni per l'apprendimento autoguidato o guidato degli adulti, dall'integrazione multietnica alle sperimentazioni con il volontariato. Le più alte strategie di politica sociale hanno riconosciuto nel museo un partner ideale, nonostante la "bassa visibilità" che queste azioni hanno se confrontate alle fin troppo facili politiche di immagine o di identità. È tuttavia possibile che, almeno in ambiti nazionali o locali più responsabili, si cominci finalmente a comprendere quanto queste ultime siano, oltre che effimere, potenzialmente pericolose per l'integrità stessa delle nostre istituzioni, costrette a convivere con un carico a volte insopportabile di valori simbolici che le espongono a rischi ricorrenti di azioni vandaliche, terroristiche o belliche. La museologia più recente, seguendo il pensiero di J. Baudrillard, E. Leach ed altri e sviluppando altresì intuizioni di K. Popper e di E. Gombrich, ha infine rivolto crescente attenzione alle motivazioni e ai caratteri del "collezionismo minore", diffuso nel corpo sociale con obiettivi e "valori" profondamente diversi da quelli tradizionalmente noti. La dimensione del fenomeno nelle società economicamente sviluppate ha già determinato i primi incontri tra il museo e questo collezionismo ‒ umile per vocazione e domestico per localizzazione prevalente ‒ che spazia dagli imballaggi commerciali ai mini-saponi d'albergo, dalle fascette di sigaro alle uova dipinte, dal giocattolo ad ogni sorta di oggetti d'uso. Inoltre, le tendenze e le radici che da questi studi vengono rivelate, oltre a intersecare la teoria del museo e forse in certo modo la sua storia futura, hanno fornito altri spunti per la comprensione dei modelli di rapporto tra museo e società. Profondamente diverse ‒ e tra loro anche distanti ‒ sono invece le linee di riflessione proposte dalla semiologia del museo, che ha approfondito negli ultimi decenni sia strutture e modelli capaci di renderne efficaci i messaggi, sia i "meccanismi" volontari e involontari a ciò connessi. Tali analisi sono state rivolte tanto alla forma e agli apparati visibili del museo quanto all'attività e alla storia stessa di esso, considerandolo sia come significante che come significato; esse, peraltro, hanno sviluppato ricerche e riflessioni condotte su altre categorie di segni, il linguaggio innanzi tutto. Grande rilievo hanno anche assunto, specialmente dagli anni Settanta, studi che applicano al museo conclusioni e principi maturati nell'ambito della teoria delle comunicazioni di massa, ovviamente adattandoli a un così caratteristico contesto nel quale si realizzano complesse stratificazioni di contenuti, linguaggi, stimoli visuali e domande. Tutto ciò inoltre viene influenzato non solo dagli strumenti di comunicazione prescelti e da tutte le caratterizzazioni del messaggio, ma anche (e in misura larghissima) dalla "abilità" del fruitore. Particolare attenzione ha rivolto a questi problemi la scuola museologica che, soprattutto per impulso di S. Pearce, è attiva in Gran Bretagna dagli anni Ottanta presso l'Università di Leicester. Nell'ambito di queste ricerche e del dibattito da esse suscitato, è stato fra l'altro mostrato che non è possibile ottenere un progresso nelle acquisizioni culturali del pubblico se il museo non è capace di stimolarne il coinvolgimento in processi multidirezionali che, collegandosi al patrimonio già acquisito dal fruitore, sappiano stimolarne la capacita di "produrre significati". In ogni caso oggi vediamo chiaramente che, a dispetto delle convinzioni di molti, il museo produce conoscenze attraverso meccanismi almeno in parte indipendenti dalla presenza di "oggetti"; questi ultimi, infatti, se destinati alla comprensione di una cerchia più ampia di quella degli "iniziati", devono essere inseriti in una complessa rete di relazioni, di allusioni e di metafore capaci di contestualizzare i materiali visibili e tangibili in un sistema di dati e conoscenze esterni ed estranei al museo. Da qui è facile intendere almeno una delle maggiori difficoltà inerenti alla costruzione dell'esperienza museale: quella del far convivere con successo oggetti e non-oggetti, realtà e metafora, percezione visiva e messaggi verbali in un sistema di gerarchie mirate non alla sacralizzazione di quanto il museo possiede, ma alla valorizzazione di ciò che esso sa e può insegnare. Da questa sintetica ricostruzione dell'evolversi della museologia nei decenni a noi più prossimi nelle società economicamente sviluppate si può intendere quanto siano complesse le mediazioni necessarie per compenetrare e amalgamare adeguatamente in uno stesso progetto l'essenza museologica (radici storiche, contenuti, linguaggi e destinazione dei messaggi, scopi, ecc.) e quella museografica, destinata a divenire, in ogni senso, struttura. Il fallimento di tali mediazioni condanna il museo ‒ come troppo spesso è accaduto e continua ad accadere ‒ a rimanere privilegio per pochi, destinato a comunicare solo frammenti di verità incapaci di esprimere un'azione coerente di promozione culturale al di là di pure emozioni. I contenuti si polverizzano in migliaia di "cartellini", i grandi temi della ricostruzione storica vengono naturalmente elusi, le radici dell'istituzione e delle sue collezioni sfumano nell'inconoscibile e altrettanto accade per le ragioni stesse del museo. In tali circostanze il museografo (troppo spesso ingiustamente esposto più di altri alle critiche) non può che accettare la riduzione del suo ruolo al ricucire un tessuto mai completato, nascondendone gli strappi sotto più o meno episodici virtuosismi professionali, in una semplice operazione di "forma". Eppure, al di là di parziali e occasionali anticipazioni, la museografia quale oggi la intendiamo nasce, col finire del Settecento, proprio dall'intento di porre ordine nel rapporto tra visione e comprensione, superando lo stadio delle emozioni visive che il collezionismo precedente aveva coltivate. Non a caso, i grandi progetti di musei che avviano in Europa questo processo nell'Ottocento (anzitutto a Berlino, a Monaco di Baviera, a Parigi e a Londra) mostrano una straordinaria attenzione ad alcuni temi che sono ancora oggi fondamentali e ai quali va fatto almeno un cenno: la creazione del percorso, inteso sia nella sua dimensione fisica e temporale (moto-pausa, contemplazione-riflessione, ecc.), sia in quella logica e intellettuale (sequenze per epoche, per maestri, per aree geografiche, per tipi o temi, ecc.); la riduzione delle ridondanze, ottenuta attraverso varie forme di dialogo tra un percorso principale e percorsi secondari, tra sale maggiori e "gabinetti" o tra esposizione permanente e depositi; la distribuzione e le qualità della luce naturale (con una precoce consapevolezza della sua pericolosità per la conservazione dei colori non cotti), ottenute sia attraverso lucernari filtranti, sia con aperture direzionali che ne esaltino le capacità plastiche. Tali qualità, ricorrenti in molti progetti ottocenteschi, sono passate spesso inosservate sotto un'evidente e talora perfino intimidatoria coltre di accademismo decorativo, che del resto il museo condivideva con tanti altri temi e tipi dell'architettura pubblica del secolo. In questo stesso filone si inserirono i grandi episodi della museografia archeologica dell'Ottocento: l'evoluzione dei Musei Vaticani a Roma, le sistemazioni dei materiali ercolanesi e pompeiani a Napoli, la musealizzazione dei frontoni di Egina a Monaco, l'acquisizione dei marmi dell'Acropoli di Atene al British Museum e poi ‒ via via ‒ gli esiti delle grandi esplorazioni del secolo, nell'area mediterranea ed oltre, con i loro riflessi (più o meno legittimi) a Berlino, a Parigi, a Londra e altrove. Sin da questi inizi, la museografia archeologica si è dovuta misurare con un elemento di tensione (quasi "di disturbo") rappresentato dalla necessità ‒ o almeno dalla possibilità ‒ di contestualizzare nell'esposizione "grande arte" e "arti minori" (oggi diciamo cultura materiale), che invece avevano trovato sedi, sviluppi e considerazione quasi sempre diversi e distinti nei musei destinati a culture non archeologiche; questa "tensione", del resto, è ancora pienamente attuale e vitale, come può chiaramente vedersi perfino nei più recenti momenti di evoluzione di quegli stessi musei ottocenteschi (specialmente l'ultimo Louvre e i vari allestimenti a Berlino) o in nuovi musei archeologici, quali quello di Mérida in Spagna. Certo è che l'impatto sociale delle grandi scoperte archeologiche ha contribuito a preparare già nell'Ottocento i "grandi numeri" che la museografia ‒ archeologica e non ‒ del Novecento ha dovuto affrontare. Al di là di ciò la museografia del XX secolo ha riproposto il museo come tema centrale dello sviluppo urbano e territoriale, di azioni sociali e, più recentemente, di politiche d'immagine, di sviluppo o semplicemente di profitto. Già dagli anni Venti il movimento moderno ‒ superata una tradizione ricca di spunti ‒ affronta il tema della frequentazione (con le sue esigenze e le sue conseguenze) come cuore della problematica del museo e del suo ambiente e ciò mentre la museologia si ridefinisce anch'essa in senso sociale. Come in parte si è notato a proposito del rapporto conservazione e museo, rimase in ritardo rispetto a queste riflessioni l'evoluzione della professione museale, che avrebbe dovuto invece essere naturale cerniera tra i due ambiti; anche qui il secondo conflitto mondiale ebbe devastanti conseguenze, pur se preparò straordinari sviluppi. Dagli anni Cinquanta infatti, con un crescendo ancora in atto, nascono o rinascono ovunque musei d'arte, archeologici, etnografici, di storia politica e militare, scientifici, di storia di singole scienze e di singole arti (musica e teatro anzitutto), di didattica scolare, di storia urbana e così via, per un totale planetario non stimabile con precisione. In questa dinamica, dalla fine del conflitto, alcuni maestri dell'architettura italiana si sono mossi in singolare autonomia, soprattutto nel riproporre in destinazione museale architetture storiche. I riconosciuti capolavori di C. Scarpa, F. Albini ed altri di quella generazione hanno creato e trasmettono un messaggio di straordinaria misura nell'equilibrio tra contenitore e collezioni, tra soggetti e strumenti dell'esposizione, tra percezioni del fruitore e rispetto della "verità scientifica"; ciò spesso anche in casi nei quali il personale scientifico di singole istituzioni non abbia saputo giocare un ruolo adeguato. Affiora in quegli anni negli Stati Uniti e presto si diffonde un nuovo "monumentalismo", il cui manifesto viene visto da molti nel progetto di F.L. Wright per il Solomon R. Guggenheim Museum di New York ed i cui sviluppi si vedono negli ampliamenti di musei americani, quali il Metropolitan Museum di New York e, più tardi, di altri nel mondo. Diverso è il percorso di una museografia che reinterpreta il proprio tema in chiave sociale, talvolta rinunciando a tutto quanto non sia struttura e funzione; esempio massimo e altissima utopia ne è stato a Parigi il Centre Pompidou, recente "vittima" di uno sfortunato, parziale rifacimento proprio nel suo piano destinato a museo. In generale, rispetto ad altre aree geografiche, l'Europa sembra aver privilegiato un rapporto assai sofisticato tra museo e città, dai Paesi scandinavi fino al Mediterraneo, come tra l'altro può cogliersi riconsiderando la ormai lunga storia del Premio Europeo per il Museo dell'Anno che, dal 1977, ha stimolato un amplissimo confronto tra gli architetti di tutto il mondo. Mentre, anche a sproposito, si parla sempre più del museo come "prodotto globale", il museografo ‒ divenuto demiurgo preferito per mecenatismi d'azienda, di città e perfino di Stato ‒ continua comunque a vivere una professione creativa che non può esaurirsi nel "segno forte". Protetti da una scorza di titanio o da cristalline piramidi, da un guscio di legno o da solide pareti che pur alludono ad una nave che affonda, sono ancora le collezioni e il pubblico gli unici indicatori attendibili del reale successo di un progetto museale.

Bibliografia

Per una introduzione generale:

K. Hudson, Museums of Influence, Cambridge 1987; R. Lumley, L'industria del museo: nuovi contenuti, gestione, consumo di massa, Genova 1989; A. Lugli, Museologia, Milano 1992; R. Schaer, Il museo tempio della memoria, Milano 1996; M.C. Ruggieri Tricoli - M.D. Vacirca, L'idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Milano 1998. Sull'evoluzione storica e sulle tendenze del collezionismo: E. Hooper-Greenhill, Museums and the Shaping of Knowledge, London 1992; J. Elsner - R. Cardinal (edd.), The Cultures of Collecting, London 1994.

Sugli aspetti semiologici, sociologici e politici:

F.E.S. Kaplan (ed.), Museums and the Making of "Ourselves". The Role of Objects in National Identity, Leicester 1994; S.M. Pearce (ed.), Interpreting Objects and Collections, London 1994; E. Hooper-Greenhill (ed.), Museum, Media, Message, London 1995; S.M. Pearce, Experiencing Material Culture in the Western World, Leicester 1997.

Per l'architettura dei musei e la museografia si veda Museum (pubblicata dal 1949), rivista dell'UNESCO nella quale confluiscono i vari filoni di museologia e museografia, ed inoltre:

J. Earnscliffe, In through the Front Door. Disabled People and the Visual Arts: Examples of Good Practice, Gateshead 1992; P. Boniface - P.J. Fowler, Heritage and Tourism in "the Global Village", London 1993; R. Miles - L. Zavala (edd.), Towards the Museum of the Future New European Perspectives, London 1994; A. Huber, Il museo italiano, Milano 1997.

Le collezioni archeologiche

di Beatrice Palma

La tradizione

Il riuso e il recupero delle antichità sono documentati per tutta l'epoca medievale, ma è nel XIV secolo che, sotto la spinta del primo Umanesimo in relazione ai viaggi esplorativi nel mondo ellenico (come quello di Ciriaco d'Ancona), si assiste all'arrivo di antichità dall'Oriente e al sorgere delle prime raccolte nei centri fiorentini e veneti. Alle origini di questa esperienza si collocano particolari classi di materiali ospitate in un nuovo tipo di ambiente, riservato alla riflessione e allo studio: monete, gemme, bronzetti, accanto ad oggetti religiosi, immagini sacre e naturalia, trovano sistemazione negli studioli di Francesco Petrarca e del trevigiano Oliviero Forzetta, o nella "camera rubea" di Palazzo Falier, esemplati dalle Wunderkammern d'Oltralpe. Ugualmente, presso la corte estense di Ferrara, il marchese Lionello favorisce il collezionismo di monete, scelta ampiamente condivisa dai discendenti che incrementeranno il camerino ducale con l'acquisizione di considerevoli nuclei numismatici, a cui si affiancheranno, già all'epoca di Alfonso I, ma soprattutto con il duca Alfonso II, importanti opere di statuaria antica. Componenti diverse caratterizzano le raccolte toscane del Quattrocento: se la tradizione dello studiolo è recepita da Cosimo il Vecchio, che predilige preziosi (cammei, pietre incise), e costituirà la base del tesoro di Lorenzo il Magnifico insieme ai vasi in pietra dura, un atteggiamento nuovo si coglie con Poggio Bracciolini, teso a ricercare sculture antiche, spesso acquistate in Grecia, da collocare nella villa di Terranuova nel Valdarno, sia nell'intimità dello studiolo che nello spazio aperto dell'hortus, sul modello della villa tuscolana di Cicerone. Una preziosa collezione di statue e ritratti antichi è formata da Isabella d'Este per lo studiolo e la grotta-ninfeo di Mantova, dove altri membri della famiglia Gonzaga (Sigismondo, Ercole, Vincenzo) promuovono l'acquisizione di sculture di notevole valore. Ricevono un'esposizione all'aperto anche alcune antichità riunite a Napoli da Diomede Carafa: evidente è la proiezione esterna dell'oggetto antico come simbolo di status sociale. Roma diventa, nel XV e XVI secolo, il centro propulsore del collezionismo antiquario. Nel corso del Quattrocento numerose sono le raccolte antiquarie, prevalentemente epigrafiche, poste nei palazzi romani, ad indicare l'avita discendenza municipale della famiglia, o al contrario il legame con la curia pontificia: ne sono esempi le collezioni di Pomponio Leto, Stefano Porcari, Lorenzo Manili, Andrea Santacroce, Prospero Colonna, Oliviero Carafa, ecc. Poco dopo la metà del secolo s'inaugura il collezionismo pontificio, a carattere ancora personale, con il veneziano Paolo II Barbo, appassionato ricercatore di gemme, monete e bronzetti. Nel 1471 viene creata nel Palazzo dei Conservatori la prima raccolta pubblica, con la donazione di Sisto IV al popolo romano del gruppo di bronzi antichi lateranensi. Segue nel primo decennio del Cinquecento la costituzione di un altro museo rivale: il Belvedere Vaticano, ad opera di Giulio II della Rovere, che vi colloca una serie di statue, presto soggette all'ammirazione universale. Nei primi anni del XVI secolo è però il fenomeno del collezionismo privato che si afferma rapidamente: affollati nei cortili di residenze patrizie (Galli, Sassi, Maffei, Santacroce, Della Valle) si trovano fregi frammentari, fronti di sarcofagi, are, statue acefale, teste e torsi mutili, come è noto da numerosi disegni dall'antico. Accanto al collezionismo di tradizione nobiliare, a Roma si anima anche un mondo di collezionisti minori, rappresentato da artisti, prelati, ambasciatori e privati, noti grazie alle pagine di Ulisse Aldrovandi e alle numerose testimonianze dei taccuini di studio, come quelli del napoletano Pirro Ligorio e dello spagnolo Alfonso Chacón. La moda collezionistica è oramai diffusa in tutta la penisola: in Veneto si assiste all'istituzione dello Statuario Pubblico con il legato Grimani e si segnala dovunque il fiorire di collezioni private di arte antica (si pensi alle raccolte Contarini, Loredan o Vendramin a Venezia, alle collezioni Bembo e Benavides di Padova, a quella Bevilacqua di Verona). A Milano, dopo la parentesi collezionistica di Ludovico il Moro, che tramite il Caradosso ottenne statue e pietre preziose da molte città italiane, si sviluppa anche la raccolta di epigrafi. Presso la corte milanese una considerevole collezione statuaria sarà documentata al tempo del cardinale Federico Borromeo. A Torino, verso il 1570, i Savoia iniziano a comprare dal mercato romano una serie di sculture da esporre nella Galleria di Palazzo Reale, che, con successivi incrementi, costituirà il nucleo fondamentale dell'attuale Museo di Antichità. Genova, che aveva manifestato il suo gusto antiquario fin dal 1400, importando antichità dall'Oriente con Andreolo Giustiniani, vedrà intensificare nei secoli successivi la richiesta di oggetti antichi per l'arredo di ville e palazzi (Imperiale, Rostan, Durazzo, ecc.). A Firenze, eccettuate le poche antichità medicee nel cortile di via Larga e le collezioni degli artisti Lorenzo Ghiberti e Giuliano da Sangallo, dopo il revival etrusco, è solo nel 1560 che Cosimo I crea la prima raccolta di statue, ricorrendo al mercato romano e al trasferimento di alcune sculture dalla villa sul Pincio. Le collezioni, che saranno accresciute dai discendenti e poi dai Lorena, trovarono sistemazione, oltre che nella Galleria degli Uffizi, in Palazzo Pitti e nel giardino di Boboli, anche nelle ville granducali nei dintorni di Firenze. Durante tutto il XVII secolo le collezioni archeologiche continuano a formarsi con vendite e dispersioni di raccolte precedenti, configurandosi quali manifestazioni di potere economico di alcune famiglie principesche (Aldobrandini, Borghese, Barberini, Ludovisi, Pamphili). La metà del secolo è dominata dalla personalità di Cristina di Svezia, figura di collezionista eclettica: monete, medaglie, gemme, disegni, pitture, opere di scultura antica, trasferite da Stoccolma e provenienti dal mercato antiquario, sono sistemate a Roma in Palazzo Riario alla Lungara (poi Corsini) e verranno lasciate alla sua morte al cardinale Azzolino, quindi acquistate da L. Odescalchi e vendute infine, nel 1724, a Filippo V di Spagna. Si distingue inoltre la collezione a carattere enciclopedico del gesuita A. Kircher, comprendente oggetti d'arte egiziani, greci, romani, paleocristiani, strumenti scientifici, reperti naturalistici ed etnografici, rara nel suo genere, anche se in ambiente bolognese aveva avuto dei precedenti con la raccolta di naturalia e artificialia di Ulisse Aldrovandi e con gli oggetti d'arte, di "meraviglie" e curiosità naturali del Museo Cospiano. All'inizio del XVIII secolo molte famiglie patrizie, colpite da crisi economiche, mettono in vendita le collezioni di antichità, fenomeno che favorirà la formazione delle raccolte private estere. In questo clima, dominato dagli acquirenti stranieri, dall'emigrazione dei capolavori dei Medici a Firenze e dei Farnese a Napoli, dalla spoliazione napoleonica, emergono a Roma le due preziose collezioni di scultura greca e romana messe insieme dal cardinale Alessandro Albani nel palazzo alle Quattro Fontane e nella villa sulla via Salaria. Le iniziative pontificie condurranno alla fondazione del nuovo Museo Capitolino sotto Benedetto XIV, che acquista nel 1733 la prima collezione Albani, alla costituzione del Museo Pio- Clementino e del Gregoriano, Egizio ed Etrusco. Si formano inoltre alcune raccolte private, che verranno presto disperse (Azara, Borgia, Capponi, Corsini, Falconieri, Odescalchi, Passionei). Il gran numero di scavi aperti a Roma e dintorni, in Etruria, a Ercolano, a Pompei e in Sicilia, porta alla luce nuove tipologie di materiali, che influiranno sul gusto dell'epoca e muteranno, in tutta la penisola, l'aspetto delle collezioni d'arte: pitture, ceramica, oreficerie, instrumentum domesticum. L'interesse per i dipinti antichi, dimostrato finora raramente (Aldobrandini, Barberini), si manifesta con la ricchezza di materiale pittorico nelle collezioni di Carlo III di Borbone; compaiono inoltre raccolte di vasi dipinti, tra cui di primaria importanza a Napoli quella di lord William Hamilton, mentre nella seconda metà del secolo successivo degna di ammirazione sarà quella formata dal principe di Canino, Luciano Bonaparte, con materiale vascolare proveniente dagli scavi di Vulci, poi alienata. Si segnalano preziose dattilioteche e raccolte di monete in ambiente romano e fiorentino (Carpegna, Stosch, Thorvaldsen, Zelada, ecc.), e presso le nobiltà locali (Nani a Venezia; Incisa, Geloso, La Turbie e Thaon di Revel in Piemonte; Mazzucchelli a Brescia; il principe di Torremuzza in Sicilia). Nascono e s'incrementano collezioni di terrecotte, lucerne, vetri, frammenti architettonici, suppellettili marmoree (Bellori, Campana, Canova, Ficoroni, Piranesi, ecc.) e di antichità etrusche (Gori, Guarnacci, Peruzzi in Toscana; Passeri a Pesaro). Si manifesta inoltre un nuovo interesse per l'oreficeria antica con la collezione della famiglia Castellani. Nel XVIII secolo le collezioni ricevono una prima organizzazione espositiva: ne sono esempi, in Italia, il Museum Veronense, il Taurinense (Savoia), il Cortonense (Venuti e Corazzi), il Museo Oliveriano di Pesaro, i Musei Borbonici di Portici e Capodimonte, il Museo Biscari di Catania e, all'estero, a Londra il British Museum e a Parigi il Louvre. Nel corso del XIX secolo si continuano a costituire, con criteri museografici, molte collezioni private (come a Roma quelle del Museo Barracco o la Campana e la Torlonia), ma verso la fine del secolo appaiono le prime iniziative pubbliche (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Museo Nazionale di Taranto, Museo Archeologico Regionale di Palermo, quest'ultimo incrementato dalle raccolte del barone Astuto da Noto). Nei musei organizzati del Novecento verranno sistemate nuove collezioni archeologiche, formate con il materiale sfuggito alla spoliazione delle grandi raccolte storiche, donato da privati, acquistato sul mercato antiquario e con i nuovi reperti da scavo; esempi sono il Museo Nazionale Romano (con le collezioni Ludovisi e Kircheriana), la Galleria Borghese, il Museo di Palazzo Barberini.

Il commercio antiquario

Il recupero dell'eredità classica e il desiderio da parte di grandi famiglie di legittimare il loro legame con il passato, dalle prime avvisaglie del XV secolo alle manifestazioni imponenti del periodo successivo, contribuiscono al sorgere del commercio antiquario, promuovendo al contempo le imprese degli scavi archeologici e i viaggi in Oriente. Il mercato levantino in questa prima fase è un importante centro di acquisizione di sculture per le collezioni di Lorenzo Ghiberti, di Poggio Bracciolini (che si serve come fornitore di Francesco da Pistoia), di Andreolo Giustiniani, di Vincenzo Bellini, dei prelati Grimani, e per le raccolte di preziosi risponde ampiamente alle richieste di Cosimo il Vecchio e Paolo II Barbo. Alla fonte veneziana si rivolge, su consiglio dell'umanista Pietro Bembo, Isabella d'Este, che rimane ugualmente attenta ai movimenti del mercato romano. Il flusso di sculture, che spoglia la città di numerosi capolavori, spinge Paolo III a istituire nel 1535 la carica di commissario alle antichità, deputato al controllo delle esportazioni. Tuttavia, con la concessione delle licentiae o patentes extrahendi, si permette costantemente di portare oggetti fuori da Roma. L'enorme patrimonio di antichità che emerge dal suolo romano diventa una fonte di guadagno attorno a cui ruotano figure di "cavatori", antiquari, mediatori, esperti e restauratori. Per incrementare le loro raccolte molte corti utilizzano come intermediari anche cardinali, ambasciatori, pittori e artisti che gravitano nell'ambiente romano. Un massiccio esodo di antichità avviene tra il 1567 e il 1570, quando gli antiquari Jacopo Strada e Nicolò Stoppio assicurano ad Alberto V di Baviera, per il costituendo Antiquarium, circa trecento sculture acquistate sul mercato romano e veneto. Inoltre nel 1576 il cardinale di Trento, Cristoforo Madruzzo, offre ad Alberto V una serie considerevole di antichità appartenute alla collezione di Girolamo Garimberti, che però rimangono nel giro di affari degli antiquari romani. Si assiste quindi all'immissione nel commercio antiquario di numerose sculture provenienti dalla dispersione di alcune collezioni cinquecentesche (Carpi, Garimberti, ecc.), che vanno per lo più a costituire le grandi raccolte romane del 1600 (Borghese, Ludovisi, Barberini, Giustiniani, Pamphili). Il movimento di antichità ha larga diffusione in Europa in pieno XVII secolo: la collezione dei Gonzaga di Mantova, ad opera dell'abile mercante D. Nys, attira gli interessi di collezionisti inglesi e francesi, ma è infine acquisita da Carlo I d'Inghilterra; sempre D. Nys fornisce pezzi provenienti dall'area veneta per le raccolte del conte di Arundel, Th. Howard, che cerca, in prima persona durante i suoi viaggi nel Mediterraneo e tramite agenti, oggetti che possano soddisfare la sua passione per le antichità. Il duca di Buckingham si avvale degli ambasciatori sir Thomas Roe a Costantinopoli e W. Wottow a Venezia e riesce ad ottenere parte della ricchissima collezione di sculture del pittore P.P. Rubens. Allorché le tre collezioni inglesi (quella di Carlo I e le raccolte Arundel e Buckingham) sono messe all'asta si crea una nuova circolazione di opere d'arte: in particolare suscitano le attenzioni dell'ambasciatore A. de Cardenas, di Cristina di Svezia, del cardinale Mazzarino. La raccolta di quest'ultimo viene ad aggiungersi a quella formata dal cardinale Richelieu, che aveva esportato da Roma negli anni Trenta più di un centinaio di sculture. Al mercato italiano attinge anche Cristina di Svezia, nella cui raccolta erano confluiti oggetti appartenuti a Rodolfo II d'Asburgo e numerose antichità acquistate tramite artisti e diplomatici dislocati in molte città europee. Alla fine del XVII secolo il commercio d'arte si concentra ad Anversa, ma all'inizio del XVIII secolo Parigi, Venezia, Amburgo assumono una nuova importanza. Nei primi anni del Settecento il mercato romano, alimentato non solo dallo smembramento di collezioni storiche, ma anche dalla febbrile attività di scavo condotta nei dintorni della capitale, è di continuo investito da trattative che portano un'enorme quantità di materiale all'estero: al 1720 risale l'acquisto di parte della collezione Giustiniani effettuato da lord Thomas Pembroke; tramite l'ambasciatore spagnolo F. Acquaviva, nel 1724 la raccolta statuaria già di Cristina di Svezia diviene di proprietà di Filippo V di Spagna; tra il 1723 e il 1726 la collezione di G.P. Bellori viene venduta a Federico Augusto II re di Polonia; nel 1728 per la mediazione dell'antiquario F. de' Ficoroni il barone R. Leplat, per conto del re di Polonia, realizza numerosi acquisti dalle collezioni Chigi, Albani, Nari, Verospi, che confluiranno nel museo di Dresda; nel 1731 il cardinale M. de Polignac porta in Francia un cospicuo numero di sculture, poi acquistate da Federico II di Prussia per i musei di Berlino. Attorno alla figura del cardinale Albani, collezionista, mecenate, mercante, si sviluppa un'attività commerciale legata alla Società dei Dilettanti a Roma. Nella seconda metà del Settecento si organizza infatti un commercio internazionale su larga scala, facente capo ad agenti inglesi, affiancati dall'équipe di restauratori diretta da B. Cavaceppi e C. Albacini, il primo operante anche per proprio conto. Gli antiquari M. Brettingham il giovane, G. Hamilton, J. Byres, Th. Jenkins, C. Morison, J. Clarke controllano il mercato di antichità e si attivano per rispondere alle esigenze collezionistiche dei loro compatrioti e dei tedeschi, coadiuvati dal consigliere Reiffenstein, agente per la corte di Russia, e dagli artisti F. Piranesi e G. Volpato, fornitori anche di Gustavo III di Svezia. I diplomatici J. Smith e R. Worsley a Venezia, gli ambasciatori H. Mann a Firenze, W. Hamilton a Napoli e R. Fagan in Sicilia formano ricche collezioni esportate poi in Inghilterra. A questa dispersione di antichità le autorità pontificie cercano di fare fronte con una serie di editti, che culminano con quello emanato dal cardinale Pacca il 7 aprile 1820, e con la costituzione delle Commissioni ausiliarie di Antichità e Belle Arti. Dopo la caduta napoleonica un grande movimento di acquisti si crea attorno ad alcune opere, che pur restituite non rientrano in Italia: le sculture Albani comprate da Luigi I di Baviera, che nel 1812 era riuscito ad assicurarsi anche i frontoni di Egina. In relazione ai recenti rinvenimenti della Grecia si sviluppa infatti un commercio di antichità che vede coinvolti gli Stati europei desiderosi di allestire un museo di antichità (ad es., L.S. Fauvel e M.G. Choiseul-Gouffier, le cui collezioni confluiranno nel Museo del Louvre). Venezia, coinvolta nel processo di smembramento delle collezioni locali, è per tutto il XIX secolo un fiorente polo antiquariale, dove numerosi commercianti si procurano antichità in gran parte vendute ad acquirenti stranieri. A Roma protagonisti del commercio della prima metà dell'Ottocento sono l'antiquario P.M. Vitali, vicino ai Torlonia e al principe di Baviera, e la famiglia Vescovali, punto di riferimento soprattutto per la nobiltà polacca. Dalla seconda metà del XIX secolo fino alle soglie del Novecento, accanto ai fratelli Castellani, il mercato è praticamente nelle mani di F. Martinetti, a cui si lega un ambiente internazionale di studiosi, archeologi e accademici, attraverso i quali si stabiliscono i contatti con i più celebri musei d'Europa (Copenaghen) e d'America (Boston, Baltimora, New York). Le famose case d'asta londinesi Sotheby e Christie, a cui si erano rivolti amatori e collezionisti già dal XVIII secolo, continueranno a svolgere un ruolo importante fino ai nostri giorni, affiancate dal mercato d'arte svizzero.

Bibliografia

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L'antiquaria

di Carlo Roberto Chiarlo

Con questo termine si intende comunemente la trattatistica archeologica, nonché il tipo di approccio all'antico ad essa collegato, nel periodo compreso tra il principio del XVI e la seconda metà del XVIII secolo; in altri termini, quanto fu prodotto tra le prime opere a stampa immediatamente dopo le iniziali sillogi manoscritte del Quattrocento e la grande svolta operata da J.J. Winckelmann (1717-1768). Gli elementi che caratterizzano l'antiquaria rispetto alla restante letteratura sull'antichità furono così definiti da A. Momigliano (1950): "gli storici scrivono in ordine cronologico, gli antiquari in ordine sistematico; gli storici presentano i fatti che servono a illustrare o a spiegare una certa situazione, gli antiquari raccolgono tutte le voci connesse a un certo soggetto, aiutino o no a risolvere un problema". In generale gli antiquari si mossero, nell'esegesi dei monumenti e dei reperti mobili, in una dimensione antropologica, la cui intensità e precisione furono tuttavia varie a seconda degli autori e dei momenti storici. Mancò all'antiquaria la capacità di ricostruire una linea di sviluppo dell'arte antica, che invece per le opere d'arte moderne era stata ben impostata e sviluppata da Giorgio Vasari in poi; quando con J.J. Winckelmann comparirà per i monumenti figurati antichi questa possibilità critica di lavoro, l'antiquaria andrà fatalmente esaurendosi. Essa svolse tuttavia un ruolo fortemente unificante tra arte antica e arte moderna, grazie alla raccolta e all'esegesi delle testimonianze figurative antiche, in quanto venne ad influenzare la produzione artistica. Altro punto da tenere presente per una corretta valutazione dell'antiquaria è la dimensione collezionistica, da considerare di volta in volta secondo diverse prospettive: il rapporto tra il collezionismo di opere antiche e moderne, grandi opere e piccoli oggetti, compresenza di oggetti diversi da quelli archeologici o artistici, inventari manoscritti, ricchi cataloghi a stampa, talora con importantissimi commenti (di cui splendido esempio è il Thesaurus Brandeburgicus selectus di L. Beger del 1696), rapporti tra collezionisti e viaggiatori. Agli esordi dell'antiquaria troviamo la figura di Pirro Ligorio (1513- 1583), la cui vasta produzione, rimasta quasi totalmente manoscritta e ancora oggi per buona parte da studiare, rappresenta il primo tentativo di affrontare sistematicamente il complesso dei monumenti antichi, dalle architetture alla cultura figurativa, ai riti, agli oggetti di uso quotidiano. Pirro Ligorio appare estremamente innovativo di fronte ai problemi che il progressivo aumento delle conoscenze sull'antico e la loro conseguente, necessaria organizzazione ponevano agli studiosi. Prova ne è il manoscritto della sua monumentale enciclopedia antiquaria, in ordine alfabetico, oggi conservato nell'Archivio di Stato di Torino. Degno di nota è anche, verso la metà del Cinquecento, il progetto dell'Accademia della Virtù di Roma di arrivare ad un corpus delle antichità della città; per i sarcofagi era previsto che alla riproduzione di ciascuno fosse aggiunto un commento antiquario e artistico. Un segno profondo lascerà l'opera di F. Orsini Imagines et elogia virorum illustrium ex antiquis lapidibus et nomismatibus expressa (1570), che, per l'organizzazione in classi sulla base dei soggetti rappresentati (personaggi illustri, poeti, filosofi, ecc.) di materiali figurativi su supporti diversi, costituirà un precedente importante per le successive raccolte, sia monografiche sia generali, considerata anche la fama di cui godette il libro. Su base classificatoria vengono organizzate anche le sillogi epigrafiche a partire dal XVI secolo fino al monumentale, ottocentesco Corpus Inscriptionum Latinarum, dove ritornerà l'organizzazione su base topografica già praticata nel Quattrocento (basti pensare alla Collectio antiquitatum di G. Marcanova). Nel panorama dell'antiquaria del Cinquecento non è da dimenticare l'opera del veronese O. Panvinio (1530-1568), che nel celebre De ludis circensibus, uscito a stampa solo nel XVII secolo, migliorò molto, rispetto al passato, la capacità di collegamento e di organizzazione delle varie fonti. È soprattutto con il XVII secolo che cominciano ad apparire lavori monografici finalmente in grado di muoversi su più vasti orizzonti, grazie anche a un sistematico e completo utilizzo delle fonti letterarie. Da ricordare, tra questi, il De funeribus Romanorum (1605) di G. Kirchmann, il De servis et eorum apud veteres ministeriis commentarius (1613) di L. Pignoria, entrambi con ripetute ristampe, e il De pictura veterum (1637) di F. Junio, che ancora oggi costituiscono, in particolare l'ultimo, utili strumenti di lavoro come repertori di fonti antiche. In una dimensione europea si collocano il medico J. Spon (1647-1685), accurato e meticoloso indagatore di monumenti, in particolare francesi, N.-C. Fabri de Peiresc (1580-1637), di vasta formazione culturale, collezionista di oggetti antichi e rarità varie in relazione con P.P. Rubens, e C. Dal Pozzo (1590 ca. - 1657). Quest'ultimo fu il promotore del monumentale Museo Cartaceo, ossia una raccolta di disegni di monumenti e oggetti, che costituirà sia un importante repertorio di immagini sia un valido strumento di ricerca per gli antiquari: fu sicuramente utilizzato nel Settecento da F. Bianchini e da Winckelmann. Un momento cruciale dell'antiquaria della fine del Seicento è inoltre rappresentato dall'ambiente che a Roma gravitava attorno alla notevolissima figura di G.G. Ciampini (1633-1698): l'importanza non è data solo dalle opere di Ciampini (i Vetera monumenta... del 1690 o il De sacris aedificiis... del 1693, che riprendono la tradizione dell'antiquaria cristiana già instaurata da A. Bosio al principio del secolo), ma soprattutto dai personaggi che a lui fanno riferimento, in primo luogo F. Buonarroti e F. Bianchini. Del primo, la cui opera è stata attentamente indagata da lavori recenti, sono da ricordare le Osservazioni istoriche sopra alcuni medaglioni antichi (1698), le Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro (1716), le Explicationes et conjecturae (1726), aggiunte al De Etruria regali di Th. Dempster. La lezione di Buonarroti non andrà perduta: dopo un cinquantennio, per ricordare solo un esempio, G.B. Passeri (1610 ca. - 1679) la riprenderà in una serie di lavori, di cui il principale è costituito dalle monumentali Picturae Etruscorum in vasculis (1767-75), dove l'organizzazione stessa dei materiali è condotta, per esplicita ammissione dell'autore, secondo una dimensione che possiamo tranquillamente definire antropologica. Non solo vi è il consueto legame tra vaso e decorazione all'interno della dimensione rituale, ma i pezzi si susseguono secondo il filo che li lega allo svolgersi della vita umana: vita, rito e mito sono strettamente connessi. Oltre al tipo di approccio qui ricordato, Buonarroti appare importante soprattutto per le future vicende dell'antiquaria toscana settecentesca, quale lievito scientifico per i successivi sviluppi di A.F. Gori (1691-1757) e di G. Lami (1697-1770) e per la stagione di impegno culturale e civile che a queste figure fu connessa. Complessa e articolata appare la figura di F. Bianchini (1662-1729), celebre ai suoi tempi anche come astronomo e studioso di cronologia, che avviò all'amore verso l'antico il giovane Alessandro Albani, alla cui famiglia fu sempre strettamente legato. Bianchini riassume bene due tendenze presenti nell'antiquaria tra la fine del Seicento e i primi anni del secolo successivo: la mnemotecnica e l'uso dei materiali archeologici come prova della storia, due filoni strettamente legati e che sono alla base dell'Istoria universale (1697) prima, della Demonstratio historiae ecclesiasticae (uscita postuma nel 1752) poi. Quest'ultima è un museo immaginario, illustrato da splendide tavole, a cui si accompagna un vasto ed eruditissimo commento, dove la disposizione cronologica degli oggetti segue la storia e non l'evoluzione delle forme artistiche; da ricordare che lo stesso Bianchini aveva realizzato in Vaticano, nei primi anni del Settecento, un piccolo museo con queste stesse caratteristiche, i cui materiali andarono poi ad arricchire le collezioni Albani. Il periodo a cavallo tra XVII e XVIII secolo vede anche l'uscita di tre monumentali opere, per alcuni aspetti ancora oggi strumenti e non solo oggetto di studi: il Thesaurus antiquitatum Romanorum (1649- 99) di Graevius, il Thesaurus antiquitatum Graecarum (1697-1702) di I. Gronovius e il Lexicon antiquitatum Romanarum (1713) di B. Pitiscus. A queste opere si aggiunge nel 1729 l'Antiquité expliquée et représentée en figures, del benedettino francese B. de Montfaucon (1655-1741), che risponde innanzitutto all'esigenza di razionalizzazione e di selezione di una massa ormai enorme di materiali noti; il lavoro è per molti aspetti una vera e propria summa delle conoscenze e dei sistemi classificatori dell'antiquaria. La complessa attività di de Montfaucon deve essere valutata su orizzonti ben più ampi di una semplice erudizione antiquaria, pur di altissimo livello: siamo di fronte alla grande tradizione di studio dei benedettini, che sa muoversi agevolmente su scenari europei e che, anche per i riflessi teologici con conseguenti problemi con la curia romana e gli ambienti culturali ad essa legati, suscitò interessanti e fecondi dibattiti. Poco prima l'altro grande benedettino maurino, J. Mabillon (1632-1707), con il suo viaggio in Italia e i successivi fitti contatti, aveva saputo stimolare la cultura italiana. Il nome di A.-C.-Ph. conte di Caylus si identifica tradizionalmente con l'antiquaria stessa, grazie alla sua opera più nota, il Recueil d'antiquités égyptiennes, étrusques, romaines et gauloises (1752-67). Con la seconda metà del Settecento, in conseguenza delle nuove frontiere aperte da Winckelmann, inizia il progressivo, ma inesorabile declino dell'antiquaria; con l'Ottocento lo studio dei monumenti antichi avrà ormai dimensioni del tutto nuove. Tuttavia non si dovrà dimenticare che lo stesso Winckelmann ebbe una produzione scientifica di tipo antiquario di tutto rispetto e di alta qualità e che la sua straordinaria sensibilità per le forme artistiche non gli impedì né l'approccio sistematico, né finissime esegesi (quali la Description des pierres gravées... del 1760 e i Monumenti antichi inediti del 1767). Inoltre, se ben nota è l'insofferenza di Winckelmann per la cultura antiquaria, in particolare per talune insufficienze di fronte al progredire del mondo e della cultura, tuttavia quella dello studioso tedesco non fu l'unica voce critica: all'interno della stessa tradizione dell'antiquaria vanno almeno ricordati A.F. Gori e G.B. Passeri, che pur senza uscire dalle prospettive tipiche dell'antiquaria, ne indicarono i limiti compilativi e il comparativismo talora meramente paratattico. Più significativa appare l'introduzione dell'opera Monumenta Peloponnesiaca (1761) di P.M. Paciaudi (1710-1785), che rifiutò sia lo sfoggio di infiniti confronti (gli unici che dovevano prodursi erano quelli che scaturivano dal monumento stesso e non da una consolidata erudizione), sia la divisione in classi. Nella sua opera i monumenti esposti erano di due tipi soltanto: alii scilicet Scripta, alia vero Figurata, preannunziando così future specializzazioni sulla base del codice comunicativo. Va infine ricordato che le opere dell'antiquaria, in particolare di quella settecentesca, lasciarono con le loro splendide tavole, soprattutto quelle relative alla pittura vascolare, una profonda traccia nell'evoluzione dello stile artistico: uomini come J. Flaxman (1755- 1826) ne apprezzarono e ne ripresero la linearità essenziale, nella ricerca di un futuro culturale che si riteneva migliore.

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