I siti della Magna Grecia: un panorama esemplificativo. La Sicilia indigena

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

I siti della Magna Grecia: un panorama esemplificativo. La Sicilia indigena

Vincenzo Tusa
Laura Buccino
Dario Palermo

Elimi

di Vincenzo Tusa

Gli Elimi abitarono nella Sicilia occidentale fin dall’VIII sec. a.C. e probabilmente anche da prima; di questo popolo si sono occupati soprattutto gli storici discutendo le varie fonti, in assenza quasi assoluta di testimonianze archeologiche: solo da poco tempo, infatti, si sono eseguite ricerche archeologiche nei siti elimi indicati dalle fonti e in altri siti non greci della Sicilia occidentale. Degli storici antichi che ci tramandano notizie sugli Elimi quelli maggiormente presi in considerazione sono Ellanico di Mitilene, Tucidide e Filisto di Siracusa. Secondo Ellanico (FGrHist, I, fr. 79), gli Elimi sarebbero stati delle genti cacciate dall’Italia in Sicilia: valutando cronologicamente gli avvenimenti che narra, questo sarebbe avvenuto nella prima metà del XIII sec. a.C. Per Tucidide (VI, 2, 3) sarebbero stati dei Troiani sfuggiti agli Achei dopo la guerra di Troia e approdati in Sicilia insieme ai Focei, ai confini con i Sicani, e avrebbero fondato le città di Erice e Segesta; sempre secondo Tucidide (VI, 2, 6), in un secondo momento, si allearono con i Fenici quando costoro, dalla Sicilia orientale, passarono nella Sicilia occidentale: questo sarebbe avvenuto nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.

Filisto (FGrHist, IIIB, fr. 46) ammette l’esistenza degli Elimi, ma nega che siano venuti in Sicilia. Altri autori accennano agli Elimi, spesso in maniera fantasiosa e riportando leggende; cito ancora gli Scholia vetera ad Licophronis Alexandra dove, al verso 964, è menzionata per la prima volta Entella come la terza tra le città elime. Riassumendo le notizie delle fonti antiche si può affermare che, escludendo Ellanico e Filisto, tutti gli altri ammettono la provenienza degli Elimi dalla Troade. Per la maggior parte degli storici moderni è incerta la provenienza degli Elimi (K. Freeman, E. Pais, G. Dunbabin, R. van Compernolle, B. Pace, J. Bérard, L. Bernabò Brea, M.I. Finley), mentre protendono per l’origine orientale A. Holm e J. Bovio Marconi e per l’origine italica Ch. Hülsen, L. Pareti e G. De Sanctis. U. Kahrstedt ha una posizione diversa che si fonda su un concetto politico e non etnico: egli pensa che gli Elimi siano una parte dei Sicani che ha avuto il proprio sviluppo sotto l’influenza della colonizzazione punica; questa diversità di opinioni ha una sua giustificazione: fino a qualche decennio fa non si era praticata alcuna ricerca archeologica nelle località elime indicate dalle fonti.

Di fonti archeologiche si occupò la Bovio Marconi nel 1950: prese in esame i pochi resti allora esistenti provenienti da rinvenimenti fortuiti e da un modesto scavo eseguito a Segesta nel 1942 (oggetti di bronzo e frammenti di ceramica incisa e dipinta, qualcuno proveniente anche da Erice), pervenendo alla conclusione che “non si possa negare la veridicità fondamentale della tradizione di Tucidide, compresa in un ampio orizzonte”. In questi ultimi decenni si sono eseguite varie campagne di scavi soprattutto a Segesta, ma anche a Erice, Entella e in altre località della Sicilia occidentale che, in base ai risultati degli scavi, non si possono considerare estranee alla “cultura” elima. A Segesta si è rinvenuto un grande santuario (83,4 x 47,8 m) ai piedi del Monte Barbaro su cui sorgeva l’antica città, una scoperta questa della massima importanza per la conoscenza di vari aspetti degli Elimi: religiosi, topografici, rapporti con la cultura greca, ecc. Pur non essendo completato lo studio, il materiale rinvenuto ci consente di datare il complesso architettonico, discretamente conservato nella sua struttura esterna, al VI e V sec. a.C.: visse cioè due secoli. Colpisce in questo santuario l’assenza quasi completa di ceramica e di terrecotte figurate che abbondano invece nei santuari greci.

All’interno del recinto è stata accertata l’esistenza, confermata da precise osservazioni geologiche, di un tempio dorico, completo di pronao e opistodomo, di cui restano in superficie resti di colonne, di capitelli e di architravi. Sempre all’interno è stato rinvenuto, non in situ, un frammento di lastra di pietra decorata in bassorilievo con una porta rastremata verso l’alto con la gola egizia, un motivo, com’è noto, di chiara derivazione orientale. Sempre a Segesta, da uno scavo eseguito per più campagne nelle pendici del Monte Barbaro, molto scoscese, si sono rinvenute, ovviamente buttate dall’alto, varie migliaia di frammenti, in massima parte indigeni dipinti e, in minor misura, con graffiti, di vasi greci figurati importati (corinzi, attici a figure nere e rosse) e pochi a semplice vernice nera, tutti databili dall’VIII-VII al IV sec. a.C. I frammenti indigeni graffiti recano spesso la figura umana molto stilizzata, altri cerchietti concentrici e motivi vari (linee punteggiate, denti di lupo, losanghe, ecc.): tipica soprattutto è quella ceramica che reca la figura umana che risente di lontani echi anatolici e che Bernabò Brea, tra gli altri, ha definito “elima”.

Motivi orientali riscontriamo anche nella ceramica dipinta che presenta una gamma vastissima di motivi resi con vari colori: nero, rosso, arancione, marrone scuro e altri ancora; non manca qualche motivo animale molto stilizzato. Il tutto dà l’impressione di un particolare tipo di ceramica di origine anatolica submicenea mediata attraverso Cipro. Non sono assenti altresì influssi del periodo geometrico e dell’inizio dell’Orientalizzante e sono recepiti inoltre alcuni caratteri salienti della tradizione locale influenzata, soprattutto, dal non lontano centro indigeno di Sant’Angelo Muxaro. Alcuni frammenti di ceramica attica importata recano incise a graffito delle iscrizioni, purtroppo non complete, in caratteri greci ma in lingua non greca: le iscrizioni sono state incise quando il vaso era già sul posto, cioè a Segesta. Qualche frammento è stato trovato anche in altre località dell’area elima; si tratta ovviamente della lingua degli Elimi, com’è stato riconosciuto dai vari studiosi che se ne sono occupati esprimendo idee diverse sulla collocazione glottologica: da R. Ambrosini, che pensa a una lingua anatolica (luvio), a M. Lejeune che ritiene si tratti di “un idiome proche des langues italiques connues”; L. Agostiniani, che ha studiato più a lungo le iscrizioni, conclude un suo lavoro del 1991 con queste parole: “...l’italicità dell’elimo è possibile, a mio avviso anche probabile, ma resta ancora, in larga misura, ipotetica”.

È stata trattata più a lungo Segesta perché, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, questo centro, sia per la quantità che per la qualità del materiale rinvenuto, può rappresentare bene la “cultura” degli Elimi, con una particolarità: le sembianze umane sui vasi si trovano solo a Segesta, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Per il resto, sia negli altri due centri menzionati dalle fonti antiche, Erice ed Entella, che in altri saggiati recentemente (Iato, Monte Castellazzo, Monte Polizzo, Monte Maranfusa, Monte Cavalli, ecc.), si rinviene ceramica incisa e dipinta simile a quella di Segesta che, com’è noto, s’incontra sia nella Sicilia occidentale che nella zona centro-meridionale dell’isola. È chiaro quindi che questo tipo di ceramica non può costituire una prova inconfutabile della “elimicità” di quel dato centro. A sua volta però ceramica di questo tipo non si trova in altri siti della Sicilia occidentale, ad esempio a Selinunte. Si può dunque propendere, pur con qualche dubbio, per la “elimicità”, anche se relativa, dei centri dove si rinviene questo tipo di ceramica.

Ancora un’altra osservazione: sembra accertato che i centri elimi, sia quelli indicati dalle fonti che altri che si possono considerare tali a seguito di ricerche archeologiche, si trovino su colline più o meno alte. A tale riguardo si potrebbe pensare che questa caratteristica degli Elimi sia connessa con la loro qualità di coltivatori della terra e forse anche di allevatori di bestiame: se così fosse, questa qualità degli Elimi giustificherebbe la stretta alleanza che sempre ci fu, in pace e in guerra, con i Punici; gli uni fornivano generi alimentari, gli altri i prodotti del commercio. Non si può non tener conto, infine, di una posizione a proposito dell’origine degli Elimi assunta recentemente da S. Tusa secondo la quale è ovvio inquadrare l’emergere degli Elimi come entità etnico-politica e artigianale a sé stante intorno all’VIII sec. a.C., così come si evince dai dati archeologici nel più ampio fenomeno di progressiva peninsularizzazione della primitiva cultura sicana dell’isola.

Lo studioso pensa in questo caso ai Siculi, agli Ausoni, ai Morgeti, agli Iapigi, ai Dauni, ai Peucezi, ai Messapi e adduce prove e considerazioni che certo fanno riflettere; egli però “non nega la possibilità di una effettiva confluenza di elementi anatolici che avrebbero giocato un ruolo non indifferente nella genesi dell’elemento elimo”. Come si evince da quanto esposto, le ricerche e gli studi finora effettuati non hanno fornito una visione compiuta e chiara degli Elimi: è normale del resto dato il breve tempo da cui ci si occupa di tale questione. Due aspetti però si possono ritenere certi: 1) gli Elimi costituiscono una entità diversa dai Sicani; 2) anche per la conoscenza degli Elimi vale, come per altri popoli, il concetto di formazione (si pensi agli Etruschi); a questa formazione hanno contribuito componenti diverse, non ultima quella anatolica. Ricerche, scavi e studi potranno dare in futuro una più approfondita conoscenza di questo popolo che, pur nella sua modestia, ha contribuito alla formazione della regione siciliana.

Bibliografia

G. Nenci - S. Tusa - V. Tusa (edd.), Gli Elimi e l’area elima fino all’inizio della prima guerra punica. Atti del seminario di studi (Palermo - Contessa Entellina, 25-28 maggio 1989), in ArchStorSic, ser. IV, 14-15 (1988-89).

S. Tusa - R. Vento (edd.), Gli Elimi, Trapani 1989 (con bibl. prec.).

Giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 settembre 1991). Atti, Pisa - Gibellina 1992.

S. Tusa, La “Problematica elima” e testimonianze archeologiche da Marsala, Paceco, Trapani e Buseto Palizzolo, in SicA, 25 (1992), pp. 71-76.

D. Zodda, Il problema degli Elimi e la storia di Erice, in Messana, 19 (1994), pp. 87-115.

Seconde giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 22-26 ottobre 1994). Atti, Pisa - Gibellina 1997.

Terze giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, Pisa - Gibellina 2000.

Sicani, Elimi e Greci. Storie di contatti e terre di frontiera (Catalogo della mostra), Palermo 2002.

R.M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi. Forme di identità, modi di contatto e processi di trasformazione, Milano 2003.

Segesta

di Laura Buccino

Insediamento degli Elimi nella Sicilia nord-occidentale (gr. Ἔγεστα, Αἴγεστα, Σέγεστα; lat. Segesta). L’abitato sorgeva su due alture separate da una sella a est, nell’impervio massiccio del Monte Barbaro, non distante dalla costa.

La vicinanza con la più occidentale delle colonie greche, Selinunte, che mirava a espandersi politicamente ed economicamente nella zona della Sicilia abitata da Elimi e Fenici, favorì la precoce urbanizzazione e la profonda ellenizzazione del centro indigeno. Tucidide (VI, 2, 6) documenta l’esistenza di un trattato di epigamia, che permetteva i matrimoni misti tra i cittadini di S. e Selinunte, favorendo la coesione tra le due comunità. Oltre ai contatti commerciali e culturali, però, sono attestati anche conflitti per rivalità territoriali, dopo che S. alla metà del V sec. a.C. aveva esteso la sua egemonia su Mozia. In uno di questi scontri, nel 416 a.C. S. invocò l’aiuto di Atene, che intervenne in virtù del trattato stipulato nel 418/7, dando avvio alla disastrosa spedizione in Sicilia contro Siracusa. In un secondo conflitto scoppiato di lì a poco S. fece appello a Cartagine, altra tradizionale alleata, che nel 409 a.C. distrusse Selinunte, Imera e Agrigento. In seguito, S. fu conquistata da Dionisio I di Siracusa. Nella guerra che oppose Siracusa a Cartagine tra il 312 e il 306 a.C. passò per breve tempo dal fronte cartaginese a quello siracusano. Diodoro Siculo ci informa del brutale trattamento inflitto da Agatocle nel 307 a.C. di ritorno dall’Africa agli alleati Segestani, che non volevano soddisfare le sue esose richieste. Agatocle cambiò il nome della città in Dikaiopolis e la diede da abitare a chiunque vi si fosse recato spontaneamente, esuli, fuoriusciti e disertori. Dopo la conquista romana della Sicilia (241 a.C.), S. fu annoverata tra le civitates immunes ac liberae, secondo la testimonianza di Cicerone.

L’insediamento indigeno è attestato almeno dalla fine del VI sec. a.C. L’impianto urbano, noto essenzialmente grazie alla lettura delle foto aeree, a causa della natura del sito in forte pendenza era articolato su terrazze artificiali, che furono ampliate e regolarizzate in età ellenistico-romana. L’asse viario principale, con direzione est-ovest, proseguiva in un’arteria di collegamento extraurbano, che conduceva a Selinunte. Le case, disposte sui terrazzamenti e in gran parte scavate nella roccia, erano collegate da sentieri tortuosi, che colmavano i dislivelli di quota. Il rinvenimento di materiale votivo nel deposito di Grotta Vanella documenta la frequentazione di un’area di culto sulla sommità del Monte Barbaro da parte di indigeni e Greci nel V sec. a.C. Nella prima metà del V sec. a.C. fu eretta la cinta muraria inferiore, con torri e porte del tipo a corte interna. Le fortificazioni risultano in parte costruite, in parte ottenute riadattando le difese naturali e furono ripetutamente modificate. Su una collina a ovest di S., intorno al 430-420 a.C. fu eretto il celebre tempio dorico, attribuito a maestranze attiche presenti in loco, ma mai portato a compimento, come mostra l’assenza della cella. Un altro tempio periptero fu costruito nel V sec. a.C. in contrada Mango, su una terrazza a sud-est della città, frequentata sin dall’VIII sec. a.C. Il monumentale muro a grandi blocchi è stato interpretato come parte della recinzione del santuario o come struttura di contenimento.

Nell’abitato si segnala l’emergenza monumentale del teatro, costruito sull’altura settentrionale intorno alla metà del IV sec. a.C. e ristrutturato in età romana. L’edificio era in parte ricavato nel fianco di una collina, in parte sostruito da un terrapieno artificiale, sorretto da un muro di analemma (contenimento). Si conservano parte della cavea e resti dell’edificio scenico, ornato da figure di Pan sui lati. La cinta muraria fu risistemata, probabilmente in seguito agli scontri con i Cartaginesi (270-260 a.C.), tramite l’arretramento della linea di difesa e la costruzione della cosiddetta “cinta di mezzo”. La città fu ristrutturata dopo la conquista romana, nella seconda metà del III sec. a.C., secondo un impianto scenografico articolato in ampi terrazzamenti. Nell’altura settentrionale erano concentrati gli edifici pubblici, come il teatro e il bouleuterion (fine del II sec. a.C.) rinvenuto in scavi recenti, con pianta rettangolare e cavea iscritta semicircolare, di cui rimangono i sedili di pietra calcarea, l’ingresso settentrionale monumentalizzato da un portico e l’orchestra pavimentata in opus sectile con mattonelle esagonali e trapezoidali di calcare rosato. La grande iscrizione dedicatoria, incisa su quattro lastre pavimentali di calcare trovate reimpiegate in una cisterna, che menziona l’architetto Bibakos figlio di Tittelos e il direttore dei lavori Asklapos figlio di Diodoros, si riferisce a una fase precedente del monumento (inizi del III sec. a.C.).

Un edificio con cortile lastricato e portico colonnato dorico, adiacente al lato sud del bouleuterion, è stato interpretato come peristylos, la palestra per i lottatori e i pugili del ginnasio. Nel terrazzamento sottostante, il maggiore di quelli ricavati nella roccia (oggi occupato dal piazzale di sosta), è stata riconosciuta l’agorà, pavimentata con lastre di pietra e delimitata in età ellenistica da stoài su tre lati (nord, ovest e sud), mentre a est si apriva spettacolarmente su uno strapiombo. Gli scavi hanno messo in luce, inoltre, lussuose case di età ellenistica, decorate con intonaci bianchi e dipinti, stucchi policromi, pavimenti in mosaico e opus sectile, come la cosiddetta Casa del Navarca sull’altura meridionale, così denominata per le originali sette mensole di pietra a forma di navi da guerra, datata tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C. Il proprietario della villa è stato identificato con l’Heraclius vittima di Verre di cui parla Cicerone. Dopo il I sec. a.C. fu eretta la cinta muraria superiore, impiantata su case tardoellenistiche, che si riallacciava al circuito più antico.

Una necropoli di età ellenistica (fine IV-III sec. a.C.) è stata rinvenuta ai piedi della collina del tempio, in proprietà Mancuso, con sepolture per lo più costituite da fosse scavate nel terreno per inumati, ma anche da urne fittili, provviste di corredo. Potrebbe trattarsi, data la cronologia dell’utilizzo, di un sepolcreto nato dopo il sacco di Agatocle del 307 a.C., frequentato per tutto il III sec. a.C. Tenuto conto della compresenza dei rituali funerari e della varietà di tipologie tombali è stato ipotizzato che la necropoli fosse frequentata da individui di etnie diverse. Altre tombe di età ellenistica sono state messe in luce sulla sovrastante collina del tempio dorico e nell’area antistante al sistema di fortificazione di Porta di Valle. I materiali epigrafici e i resti di edifici (criptoportico e horreum) rinvenuti nell’area dell’agoràforo testimoniano la continuità di vita fino alla piena età imperiale (III sec. d.C.), dopo la quale cominciò il declino di S., fino all’abbandono definitivo nel corso del VII sec. d.C., prima della rioccupazione del sito in età medievale.

Bibliografia

V. Tusa, s.v. Segesta, in EAA, VII, 1966, pp. 151-54.

R. Camerata Scovazzo, s.v. Segesta, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 197-203 (con bibl. prec.).

C. Michelini, Reimpiego di iscrizioni a Segesta, in M.I. Gulletta (ed.), Sicilia Epigraphica. Atti del Convegno Internazionale (Erice, 15-18 ottobre 1998), in AnnPisa, s. IV, Quaderni, 2 (1999), pp. 439-48.

Terze giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, Pisa - Gibellina 2000, passim.

L. Jannelli, Segesta, in L. Cerchiai - L. Jannelli - F. Longo (edd.), Città greche della Magna Grecia e della Sicilia, Venezia 2002, pp. 272-78.

Sicani

di Dario Palermo

Antica popolazione della Sicilia; i Sicani abitavano l’isola, a detta di Tucidide, al momento dell’arrivo dei primi coloni greci insieme a Siculi ed Elimi; da essi l’isola fu in un primo momento detta Sikanie, denominazione poi ristretta solo alla parte centro-meridionale nella quale in epoca storica il popolo dei Sicani era stanziato. Solo scarse notizie abbiamo dalle fonti antiche sui Sicani; le informazioni più complete sono quelle ricavabili da Tucidide e da Diodoro Siculo, i quali riportano anche pareri di altri autori la cui opera è perduta. Secondo Tucidide (VI, 2), i Sicani sostenevano di essere autoctoni; opinione respinta dallo storico ateniese, il quale dava invece come assodata l’origine iberica dei Sicani, forse sulla scorta della sua fonte primaria Antioco di Siracusa. A prova dell’origine iberica, Tucidide ricordava l’esistenza di un fiume Sicano in Iberia. Le stesse precisazioni si trovavano, secondo Diodoro Siculo, nell’opera di Filisto, forse attinte alla stessa fonte di Tucidide.

Assertore dell’origine autoctona dei Sicani era, secondo Diodoro, Timeo di Tauromenio, il quale rigettava come false le teorie sull’origine iberica; secondo lo stesso Diodoro, i Sicani avrebbero abitato in villaggi sparsi, riuniti attorno a un luogo forte che ne avesse facilitato la difesa in caso di necessità. Lo storico di Agira ricorda inoltre che i Sicani non costituivano una sola entità politica, ma che ogni comunità, spesso in lotta con le altre, aveva il proprio capo. Su di un punto, comunque, le fonti antiche sono d’accordo: e cioè che i Sicani in origine occupassero l’intero territorio della Sicilia e che in seguito si fossero ritirati nella parte centro-meridionale e occidentale; vi è però una diversa indicazione delle cause di questo ritiro: secondo Diodoro esso sarebbe stato provocato dalla paura indotta da ripetute e violente eruzioni dell’Etna; Tucidide invece attribuisce il ritiro all’avvento dei Siculi che andarono a occupare la Sicilia orientale scacciandone i Sicani.

Il nome dei Sicani ricorre poco nella storia dell’isola. È però significativo che, secondo Diodoro, la trattazione storica di Antioco di Siracusa avesse inizio con il regno di Kokalos, dinasta sicano che avrebbe accolto nella sua reggia di Inico il fuggiasco Dedalo, provocando così la spedizione in Sicilia di Minosse il quale vi avrebbe poi trovato morte. A Dedalo gli autori greci attribuiscono la costruzione per Kokalos dell’imprendibile fortezza di Kamikos, vanamente assediata dal re cretese, che oggi si identifica attendibilmente in Sant’Angelo Muxaro. La venuta dei Cretesi in Sicilia e la loro dispersione nel territorio dopo la morte del loro re deve senz’altro aver costituito un momento fondamentale nella storia dei Sicani, con riflessi fino alla piena età storica, allorché Terone, conquistata la città sicana, scoprì il sepolcro del re cretese e ne restituì le ossa ai suoi conterranei. Ritroviamo i Sicani coinvolti in episodi che riguardano la storia dei primi coloni greci in Sicilia, come la conquista di Omphake da parte dell’ecista di Gela Antifemo, che ne riportò fra il bottino una statua attribuita allo stesso Dedalo; negli Stratagemata di Polieno è ricordato anche lo stratagemma mediante il quale il tiranno agrigentino Falaride si impadronì della città di Ouessa e del suo re Teuto.

I Sicani compaiono ancora in un’iscrizione di V sec. a.C. rinvenuta a Samo che li ricorda come assedianti di una città, forse Endesa, nella quale erano rinchiusi degli Imeresi; Tucidide (VI, 62) cita i Sicani come abitanti del villaggio di Hykkara conquistato dagli Ateniesi durante la spedizione in Sicilia e da essi consegnato agli alleati segestani; nel 405 a.C., infine, un trattato stipulato fra Dionisio di Siracusa e i Cartaginesi (Diod. Sic., XIII, 114) li menziona come sottomessi a questi ultimi. Non si conoscono iscrizioni dell’area sicana e del tutto sconosciuta, tranne i rari elementi onomastici e toponomastici, ne è la lingua; a essa sono state talvolta attribuite alcune delle glosse genericamente riportate come “sicule” nelle quali siano riconoscibili elementi preindoeuropei; il quadro delle nostre conoscenze sui Sicani è, come si vede, generalmente sconfortante. In questa situazione, l’archeologia costituisce l’unica testimonianza probante sulla cultura e la storia dei Sicani.

I rinvenimenti archeologici permettono di riconoscere, in effetti, una netta distinzione culturale fra la Sicilia orientale e l’area sicana. Essa è interessata, infatti, dalla cultura cosiddetta “di Sant’Angelo Muxaro-Polizzello”, che presenta un aspetto caratteristico, determinato in larga misura dalla sopravvivenza di elementi più antichi, risalenti alle culture del Bronzo Medio e Tardo. Su questi elementi, ancora fortemente impregnati di ricordi egei – e il tipo della tomba a tholos è solo l’aspetto più monumentale di tali reminiscenze – si vengono poi a innestare elementi nuovi, come la decorazione geometrica, realizzata però con la tecnica tradizionale dell’incisione o dell’impressione, o la decorazione dipinta, che è certamente un portato del contatto con le produzioni delle colonie greche. Evidentissime sono le sopravvivenze di remota origine egea, forse con una connotazione specifica cretese, nel campo delle manifestazioni cultuali, così come ci sono note dalle aree sacre di Sabucina e della montagna di Polizzello, che giungono fino al pieno VI sec. a.C.

Il contatto con l’area egea non sembra però essersi spento del tutto neanche attraverso i secoli della Dark Age greca, come sembra dimostrare la già ricordata nascita della decorazione geometrica oppure la presenza di tipi quali il clipeo fittile e il vaso ornitomorfo, che rimandano ancora una volta all’ambiente cretese ma che non compaiono nella Gela di VII sec. a.C. e che forse ne costituiscono l’antefatto alla fondazione da parte di Rodi e Cretesi. Il riconoscimento della continuità fra le culture di media e tarda età del Bronzo e la successiva cultura “sicana” di Sant’Angelo Muxaro, d’altra parte, costituisce una conferma evidente della tradizione letteraria sulla occupazione della intera isola da parte dei Sicani: l’unico momento, infatti, in cui la Sicilia conosce una uniformità culturale su tutto il territorio è quello della cultura di Thapsos del XV-XIII sec. a.C.; appare quindi probabile che il nome Sikanie possa risalire proprio a questo periodo.

Bibliografia

L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958.

J. Bérard, La Magna Grecia, Torino 1963.

V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia. Sicani, Siculi, Elimi, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, pp. 3-110.

Giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 19-22 settembre 1991). Atti, I-II, Pisa - Gibellina 1992.

T. Lo Monte, L’origine dei Sicani alla luce delle tradizioni storiografiche e delle testimonianze archeologiche, in SicA, 29 (1996), pp. 67-90.

Seconde giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 22-26 ottobre 1994). Atti, Pisa - Gibellina 1997.

Terze giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina - Erice - Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, Pisa - Gibellina 2000.

Sicani, Elimi e Greci. Storie di contatti e terre di frontiera (Catalogo della mostra), Palermo 2002.

R.M. Albanese Procelli, Sicani, Siculi, Elimi. Forme di identità, modi di contatto e processi di trasformazione, Milano 2003.

Siculi

di Dario Palermo

Antica popolazione della Sicilia, dalla quale l’isola prese il nome. Al tempo della venuta dei coloni greci, occupavano la Sicilia orientale, da cui avevano scacciato i Sicani che vi abitavano in precedenza. Le fonti antiche sono concordi nell’assegnare ai Siculi un’origine italica: secondo varie tradizioni, essi abitavano dapprima il Lazio insieme ad Aborigeni e Pelasgi dai quali ne vennero cacciati; progressivamente migrati verso sud, avrebbero infine attraversato su zattere lo Stretto di Messina per occupare la loro sede definitiva. Da un re dei Siculi avrebbe preso nome l’Italia. Varia però negli scrittori antichi l’indicazione del periodo nel quale si verificò la venuta dei Siculi nell’isola. Dionigi di Alicarnasso ricorda l’opinione di Ellanico di Lesbo e Filisto di Siracusa, i quali collocavano l’evento rispettivamente 3 generazioni o 80 anni prima della guerra di Troia, cioè intorno al 1270 a.C.; per Tucidide invece la discesa dei Siculi in Sicilia sarebbe avvenuta 300 anni prima dello stanziamento dei coloni greci, quindi nell’XI sec. a.C.

Da un punto di vista archeologico, il riconoscimento del momento dell’arrivo dei Siculi in Sicilia deve quindi necessariamente basarsi sulla individuazione di elementi di carattere peninsulare, in un primo momento minoritari, ma successivamente estesi a tutta la parte orientale dell’isola. Diversamente pensava P. Orsi, il quale attribuì il nome di “siculi” a tutti i momenti culturali che aveva distinto nella preistoria della Sicilia immediatamente dopo il Neolitico. È stato merito di L. Bernabò Brea l’aver correttamente impostato il problema dell’identificazione degli elementi di carattere italico in Sicilia, a seguito dei suoi scavi nelle Eolie e della risistemazione della sequenza delle culture pre- e protostoriche dell’isola. Lo studioso ha osservato infatti che nella Sicilia orientale, a partire dal XIII sec. a.C., si possono individuare dei momenti di frattura, che segnano un profondo cambiamento nella cultura di questa parte dell’isola e che trovano riscontro con quanto avviene a Lipari, dove alle culture del Bronzo Medio, omogenee con quelle della Sicilia, si sovrappongono manifestazioni culturali di netto stampo italico, dette “ausonie”.

In concomitanza, nella Sicilia orientale le popolazioni locali sembrano arroccarsi in siti facilmente difendibili quali Pantalica, Caltagirone o Monte Dessueri, la cui nascita in questo periodo lascia pensare a uno stato generale di insicurezza forse dovuto alla presenza di elementi ostili nel territorio. Più chiari gli eventi nella fase successiva, detta “di Cassibile” (1050-850 a.C.), allorché, accanto alle forme tradizionali delle culture locali siciliane, compaiono elementi certamente allogeni e con forte impronta peninsulare. Così, accanto al tradizionale rito dell’inumazione entro grotticella artificiale, vi sono necropoli (Molino della Badia di Grammichele, Pozzanghera di Lentini), nelle quali è prevalente il rito dell’inumazione entro fossa o pithos; il villaggio della Metapiccola di Lentini è fatto di capanne rettangolari simili a quelle dell’Ausonio di Lipari e capanne del medesimo tipo compaiono a Morgantina, sede del popolo dei Morgeti, anch’esso di origine italica. Assistiamo inoltre in questo periodo a un significativo mutamento del repertorio delle forme ceramiche e degli utensili metallici, che si va sempre più differenziando dalle manifestazioni della Sicilia centrale e meridionale, la quale rimane invece legata alle tradizioni del Bronzo Medio e Tardo.

Il fenomeno di assimilazione e commistione dell’elemento culturale locale e di quello italico, che ha fatto parlare di una “formazione” in loco dell’ethnos siculo, piuttosto che di una sua venuta dall’Italia già interamente definito nelle sue componenti, è ormai compiuto nella fase di Pantalica Sud (850-730 a.C.), fatta terminare convenzionalmente in corrispondenza del primo impianto delle colonie greche in Sicilia. Questo evento segna infatti un momento capitale della storia dei Siculi. La colonizzazione greca, che si svolge fra l’VIII e il VI sec. a.C., parallelamente cioè alle fasi indigene dette “del Finocchito” e “di Licodia Eubea”, vede in un primo momento la resistenza dell’elemento siculo ai Greci, pur con l’introduzione nella loro cultura di molti elementi di origine ellenica, e successivamente la loro pressoché totale assimilazione e integrazione, per via di conquista militare oppure spesso per il fascino esercitato, soprattutto sulle classi più elevate delle città sicule, dagli usi e dagli oggetti dei Greci, fino a rendere l’aspetto culturale delle città dei Siculi praticamente indistinguibile da quello delle colonie greche.

Le entità politiche sicule si presentano d’altronde davanti ai Greci divise e quindi più deboli: l’unico tentativo di unificazione politica dei Siculi è quello di Ducezio, intorno alla metà del V sec. a.C., concluso con l’esilio e poi con la morte del protagonista, il quale però appare perfettamente integrato nel modo di pensare e di agire greco. Gli insediamenti siculi entrano così progressivamente a far parte dei territori delle colonie greche, soggiogati o spontaneamente aggregatisi, conservando però una specificità locale, segnata soprattutto dall’uso della lingua, della quale ci sono state conservate diverse iscrizioni, la più lunga delle quali, che presenta termini di tipo italico, era incisa su di un blocco inserito nella porta urbica della città del Mendolito presso Adrano. L’alfabeto siculo è di origine greca e se ne differenzia per la presenza di alcune lettere specifiche. Molte parole sicule sono inoltre tramandate da glosse di grammatici greci. Un forte radicamento hanno anche i culti dei Siculi, alcuni dei quali sopravvissuti alla prevalenza dell’elemento religioso ellenico: fra di essi il culto del dio Adrano, praticato in un santuario difeso da cani, o quello dei gemelli Palici, localizzato presso i conetti vulcanici del lago di Naftia. Questi culti sono vivi fino a età romana, man mano assimilati ad analoghe manifestazioni religiose greche.

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Morgantina

di Laura Buccino

Centro indigeno (gr. Μοργαντίνα, Μοργαντίνη; lat. MorgentiaMurgantia) dell’interno montuoso della Sicilia, nei pressi dell’odierna Serra Orlando.

Secondo la tradizione tramandataci da Strabone, sarebbe stata fondata da Siculi guidati dal re Morges, da cui presero il nome di Morgeti, allontanati dalla Calabria a causa dell’avanzata degli Enotri. Il sito è costituito da un ampio pianoro, formato da una sequenza ondulata di colline e depressioni, che culmina con un’altura isolata a est, la cosiddetta Cittadella. Gli scavi americani, iniziati sistematicamente nel 1955, hanno permesso di localizzare la città e di conoscerne l’evoluzione urbanistica. Le prime tracce di vita risalgono all’età del Bronzo Antico, ma solo dall’età del Ferro è documentata l’esistenza di un insediamento stabile. L’abitato era concentrato sulla Cittadella, ma si estendeva anche sulla propaggine meridionale della collina, fino alla valle nell’odierna contrada San Francesco. I resti archeologici mostrano un graduale processo di ellenizzazione della popolazione indigena nel corso del VI sec. a.C., più evidente dalla seconda metà del secolo, grazie ai contatti con le colonie greche, in particolare Gela e Camarina. È argomento di discussione se nel centro indigeno si sia insediata effettivamente una comunità greca.

Nel 459 a.C. la città venne conquistata da Ducezio. I dati archeologici confermano l’abbandono dell’abitato arcaico sulla Cittadella intorno alla metà del V sec. a.C. Il capo siculo, sconfitto nel 451 a.C., riconsegnò la città a Siracusa insieme al territorio di cui si era precedentemente impadronito. Con la pace di Gela, nel 424 a.C. M. fu ceduta dai Siracusani a Camarina in cambio di un pagamento in denaro. Nel 396 a.C. fu conquistata da Dionisio I e da allora rimase sottoil controllo siracusano fino alla conquista romana, anche se nel 392 passò dalla parte del generale cartaginese Magone contro Siracusa. Agatocle vi arruolò soldati nel 317 a.C. Alla fine della prima guerra punica, nel 241 a.C. M. venne a trovarsi sulla frontiera tra il regno siracusano di Gerone II, cui apparteneva, e la nuova provincia romana di Sicilia. Nel corso della seconda guerra punica venne occupata dai Romani, cui si ribellò poco dopo, nel 214 a.C., seguendo Siracusa nella nuova alleanza con Cartagine. Riconquistata da M. Cornelius Cethegus nel 211 a.C., fu duramente punita e concessa a un gruppo di soldati ausiliari spagnoli. L’abbandono si colloca nella prima età imperiale, come attesta Strabone.

L’arrivo di popolazioni dalla penisola italica, attestato dalle fonti, appare confermato dal ritrovamento di ceramica appenninica negli strati dell’avanzata età del Bronzo. Le esplorazioni nell’area della Cittadella hanno messo in luce livelli di abitazioni dalla prima età del Ferro (metà del IX sec. a.C.), che hanno restituito ceramica e capanne distrutte da un violento incendio. Nel VI sec. a.C., sull’acropoli e sul pianoro sottostante furono costruiti naiskoi (piccoli tempietti) decorati da terrecotte architettoniche e modeste case a cortile. In contrada San Francesco, prospiciente la Cittadella, è stato messo in luce un santuario arcaico, forse dedicato a culti ctoni, formatosi alla fine del VI e monumentalizzato nel V sec. a.C. Alla fine del VI o all’inizio del V sec. a.C. l’acropoli fu cinta da una fortificazione, forse in connessione con la fase di espansione dei Dinomenidi, tiranni prima di Gela, poi di Siracusa, a scapito dei centri vicini. Alle pendici della Cittadella, a nord, si estende la necropoli arcaica, in cui sono attestati entrambi i riti funerari di inumazione e cremazione, con tombe a fossa e a camera (metà del VI - inizi del V sec. a.C.). Sono note altre due aree di necropoli di Morgantina.

Dopo la distruzione dell’abitato arcaico a opera di Ducezio, verso la metà del V sec. a.C. fu realizzato l’impianto ortogonale che si estende su tutto il pianoro di Serra Orlando. La pianificazione della nuova città mostra l’adozione di un modello urbanistico greco, con un  impianto impostato su due assi principali orientati sud-ovest/nord-est (le plateiai A e B), intersecati da numerose vie minori, che formano isolati di lunghezza variabile, dai 110 ai 130 m. Nel reticolo urbano è inserito il grande spazio rettangolare dell’agorà, la cui definizione risale quindi a questo periodo, sebbene sia stato edificato successivamente. Nella seconda metà del IV sec. a.C., nel periodo della rinascita delle città siceliote promossa da Timoleonte (346/5-338 a.C.), vi fu una ripresa dell’attività edilizia e furono costruite le mura, a doppia cortina, con quattro porte e diversi bastioni, che racchiusero un’area più ampia di quella effettivamente abitata (75 ha). All’età timoleontea risale anche il santuario di Demetra e Kore situato a nordovest della città, con piccolo cortile centrale, circondato da ambienti destinati al culto, e due altari, che sarà occupato da una casa nell’avanzato III sec. a.C.

La maggior parte degli edifici costruiti nell’area rettangolare dell’agorà, divisa artificialmente in due terrazze per ovviare ai salti di quota, si data nell’età di Gerone II di Siracusa (275-215 a.C.). Il progetto, attribuito a un architetto siracusano, sarebbe stato ideato intorno al 260-250 a.C. e realizzato prevalentemente nel corso della seconda metà del III sec. a.C. L’agorà superiore era circondata su tre lati da lunghe stoài coperte prive di colonnati. In quella settentrionale si è riconosciuto un ginnasio. La parte centrale della piazza è occupata da piccoli santuari, uno dei quali provvisto di sacello e altare fu obliterato dal macellum di età repubblicana. All’angolo nord-ovest dell’agorà, in una piccola piazza creata dall’incrocio della plateia A con uno stenopòs, fu costruito alla fine della prima guerra punica (240- 230 a.C.) il bouleuterion, a pianta rettangolare, formato da un cortile porticato e da un ambiente coperto, in cui rimangono i resti della cavea semicircolare. Nell’angolo nord-est, all’incrocio tra la plateia A e la stoà orientale, è stata scavata di recente una fontana monumentale con portico ligneo e due bacini di raccolta, impiantata nella seconda metà del III sec. a.C. All’estremità della stoà orientale si trova un edificio con peristilio centrale colonnato su tre lati, sul quale si apre una serie di stanze, identificato come pritaneo per la presenza di un focolare.

L’agorà superiore era collegata alla terrazza inferiore in maniera scenografica tramite una grandiosa scalinata di calcare locale, segmentata in tre lati (metà del III sec. a.C.). La scalinata, interpretata come una tribuna per assemblee religiose o come ekklesiasterion, fu ampliata verso la fine del III secolo con l’aggiunta della terza ala a est e l’aumento di tre gradini in alto. Al di sotto, è stato individuato un altare, più volte ricostruito, accompagnato da un naiskos e connesso al culto di Zeus Agoraios. Il lato orientale dell’agorà inferiore era delimitato da un edificio rettangolare lungo e stretto, articolato in vani interni e rinforzato da contrafforti, costruito dopo la metà del III sec. a.C. e identificato con un granaio. Un magazzino analogo, più piccolo e più antico, databile all’inizio del secondo quarto del III secolo, è stato messo in luce al centro della piazza. Entrambi i granai sono stati posti in relazione con la Lex Hieronica, ricordata da Cicerone, e si è supposto che dovessero contenere le decime dovute a Gerone II, autore della legge. Sotto la piattaforma rocciosa del granaio occidentale è stato scavato un complesso di botteghe del III sec. a.C., di cui una destinata alla vendita di ceramica. Già nel IV sec. a.C., nel settore occidentale dell’agorà bassa fu costruito il teatro, che si appoggia alla retrostante collina. Dopo una fase più antica, in cui presentava una forma trapezoidale, fu ristrutturato secondo la forma canonica alla fine del IV sec. a.C.

Con il teatro doveva essere connesso l’adiacente santuario dedicato a Gea, a Hermes e alle divinità ctonie, posto al centro dell’agorà inferiore, il più grande e complesso dei santuari di M., l’unico rimasto in funzione dopo la conquista romana. Nella prima fase (V sec. a.C.) il santuario era incentrato su un pozzo sacro (bothros) e un altare rotondo. Nel III sec. a.C. fu provvisto di due cortili. Il cortile meridionale incorporò l’antico pozzo, attorno al cui ingresso fu costruito un recinto circolare. Il ricco deposito votivo rinvenuto conteneva, tra l’altro, lucerne per i riti notturni, vasi miniaturistici, soprattutto ciotole e coppe, monete e tabellae defixionum (laminette di piombo con maledizioni), che hanno rivelato i nomi delle divinità venerate nel santuario nei tempi più recenti. Il luogo doveva essere dedicato in origine a una dea della terra, identificabile con la Demetra dei Greci. Vicino al teatro sorgevano altre due aree sacre. L’agorà inferiore era chiusa a sud dalle mura, che in questo tratto seguivano un percorso irregolare. A est e a ovest dell’agorà si trovavano quartieri residenziali, in cui sono state messe in luce lussuose case a peristilio di età ellenistica, riferibili all’aristocrazia locale, con resti di decorazione parietale in I stile e pavimenti in cocciopesto o musivi, come la cosiddetta Casa del Capitello Dorico, alle spalle del pritaneo. Più a sud, sempre nel quartiere est, è stata scavata la Casa di Ganimede, che prende il nome dal soggetto raffigurato nel pavimento a mosaico di una delle stanze aperte sul peristilio (metà del III sec. a.C.).

Sulla collina a ovest dell’agorà è stato indagato un ampio quartiere residenziale, organizzato in isolati regolari, distinti dal reticolo viario e divisi longitudinalmente da un ambitus mediano, ciascuno dei quali comprende da tre a sei case, sia del tipo più modesto a cortile che più ricche a peristilio, risalenti alla metà del III sec. a.C., alcune abitate anche dopo l’occupazione romana. La metà dell’isolato II è occupata da una sola casa di 1100 m2, la cosiddetta Casa della Cisterna ad Arco. Nell’isolato IV, la Casa dei Capitelli Tuscanici che presenta una singolare pianta italica, articolata su due atri, con peristilio e giardino, era probabilmente la dimora di un importante personaggio romano (II sec. a.C.). In una zona più vicina alle mura, è stata individuata la cosiddetta Casa del Magistrato, distinta in due settori, uno di rappresentanza, con una grande sala quadrata provvista di nove letti per i banchetti, e l’altro riservato agli appartamenti privati. Da una casa del quartiere occidentale proviene con molta probabilità il tesoro di argenteria ellenistica (confluito in seguito a uno scavo clandestino al Metropolitan Museum of Art di New York) composto da vasi di argento dorato in parte connessi al simposio, in parte di destinazione sacra, che recano inciso il nome del proprietario Eupolemos. Il tesoro, databile stilisticamente nella seconda metà del III sec. a.C., fu interrato durante gli avvenimenti bellici legati alla presa romana di M. A sud del quartiere occidentale, a ridosso delle mura, si trovava un piccolo santuario di Demetra, con una casa quadrangolare adiacente, interpretata come la dimora del sacerdote. Al III sec. a.C. risale il grande santuario scoperto in contrada Agnese, forse dedicato ad Afrodite, con due tholoi. Dopo la conquista romana del 211 a.C. la città ridusse notevolmente la propria estensione e molti degli edifici pubblici vennero abbandonati.

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