CONTARINI, Iacopo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Iacopo

Giorgio Cracco

Figlio di Domenico, nacque intorno al 1193, da una delle più antiche e nobili famiglie veneziane: "de haut lignaje", precisa il da Canal.

Il C. discendeva infatti, secondo il cronista trecentesco, "per rectam lineam" da Domenico Contarini, il doge del secolo XI. Suo padre, che è forse da identificarsi con il Domenico che compare come consigliere ducale nel 1198, apparteneva al ramo di S. Maria Mater Domini, che in seguito fu detto di S. Silvestro (sestiere di San Polo).

A parte la data di nascita, ben pochi sono i dati biografici relativi al C. (c'è sempre il rischio della omonimia). Si sa, dall'epitafio inciso dopo la sua morte, che sposo una Iacobina, di cui peraltro si tace il casato. Dalle superstiti liste dei membri del Maggior Consiglio, risulta che ebbe almeno tre fio: Giovanni Pietro e Marino, ognuno dei quali è esplicitamente indicato come "fifius Iacobi S. Silvestri"; e che ebbe anche un fratello, lui pure di nome V!rino, come il nipote. La tradizione lo vuole, inoltre, padre dì un quarto figlio, Enrico, che sarebbe entrato in sacris, divenendo più tardi vescovo di Treviso. Ma deve trattarsi di equivoco: il Canal parla sì di un Enrico Contarini vescovo, ma si tratta di un figlio del doge Domenico (non del doge lacopo), che fu titolare della sede di Castello, non di quella di Treviso. Inoltre, nelle più recenti cronotassi dei vescovi trevigiani il nome di Enrico Contarini non compare mai, anche se rimane da coprire un "vuoto", quello degli anni 1273-11279 (e neppure Può trattarsi di quell'Enrico Contarini, vescovo di Torcello, che, testando nel 1285, nomina come madre Maria, e non Iacobina).

Nulla si può dire del patrimonio privato del C., giacché il suo nome mai viene citato in documenti mercantili o agrari, e neppure nei pochi testamenti editi e nei molti inediti sinora esaminati. Invece, qualcosa di più si conosce della !ua carriera politica: può essere lui quello iudex et consiliator che nel 1247 sottoscrive un atto insieme con Iacopo Ziani. Nel 1252 era presente, sembrerebbe in veste di consigliere ducale (ma il documento non è del tutto chiaro in proposito), all'ingiunzione formale fatta dal doge, in nome del Maggior Consiglio, ad Andrea Ghisi perché consegnasse al Comune l'isola e il castello di Andros. Nel 1260 è dato come advocator comunis. Nel 1261 fu tra i quattro legati (insieme con Egidio Querini, Andrea Zeno e Marco Badocr) che ebbero il compito di portare al neoeletto papa Urbano IV gli omaggi della Repubblica e la richiesta di appoggi dopo la caduta dell'Impero latino.

Dietro a questi dati, per quanto scarni, si indovina un personaggio di sicuro prestigio politico. E difatti è significativo che il 12 marzo 1265 (non nel 1268, come scrive il Limentani sulla scia del Canal) il Comune scegliesse lui e lacopo Dolfin come ambasciatori da inviare a Costantinopoli, presso l'imperatore Michele VIII Palcologo, con l'arduo compito di stipulare una tregua che sanasse almeno in parte i contraccolpi del disastroso accordo greco-genovese del 1261. Il mandato era il più ampiq possibile: i Veneziani si impegnavano in anticipo ad accogliere e confermare quanto i "nobiles supradicti, vel unus ipsorum, prout melius videbitur cis" avessero concordato. L'esito della missione apparve tuttavia deludente: "il loro operato - annota il cronista coevo - non riuscì gradito a messere il doge, né soddisfece i Veneziani"; la tregua dovette essere rinegoziata attraverso altri ambasciatori, e solo tre anni dopo, nel 1268, fu ratificata. Imperizia o cedevolezza del C. e del suo collega, che troppo avevano concesso al Paleologo? Oppure una calcolata manovra che attraverso le eccessive concessioni all'imperatore greco mirava a far fallire l'accordo e quindi a favorire il partito della riscossa contro i greco-genovesi? Nulla si può dire in proposito, se non che l'incidente occorso non determinò affatto il declino politico del C., il quale, il 3 apr. 1267 (secondo il Barbaro), fu eletto procuratore sopra le Commissarie, e in tale carica ancora si trovava quando, morto il doge Lorenzo Tiepolo alla metà di agosto 1275. cominciarono le grandi manovre per l'elezione del successore.

Presso i Grandi del Comune c'era il timore dell'avvento di un nuovo Tiepolo, ossia dì un doge che governasse da signore, infrangendo i vincoli posti dai consilia. Perciò i correttori della Promissione ducale si affrettarono a introdurre nuove norme, fortemente linlitative: il futuro doge doveva impegnarsi a non ricevere feudi per sé o per i propri figli, e a rinunciare a quelli che già detenesse; a non prendere in moglie una donna straniera (salvo il consenso dei consilia); a restare al di sopra delle contese politiche; a evitare qualsiasi rapporto con veneziani e non veneziani che potesse procurargli vantaggi o privilegi. La "correzione" anzi - fatto sinora mai rilevato - si spinse anche più oltre, nell'intento di coinvolgere, insieme con la prassi dei potere gogale, anche l'ideologia: la promissione del C., infatti, a differenza di quelle che la precedono nel sec. XIII, è la prima a esordire seccamente: "Nos Iacobus, Dei gratia Venecie, Dalmacie atque, Chroacie dux, dominus quarte partis et dimidie totius imperii Romanie, promittentes promittimus", ossia mutilata totalmente del prologo, che è quel discorso con cui il doge si presentava, al popolo, nella solennità di S. Marco, in atteggiamento quasi regalo e vantando una specie di investitura divina (il prologo ritornerà nelle promissioni più tardive, ma nel contesto nuovo della "serrata").

Dunque, le forze politiche erano d'accordo per nominare un doge "ridotto", ben controllato e controllabile dagli onnipotenti consilia, soprattutto dal Minus e dai Quaranta: ecco il senso della svolta politica in atto dopo la morte del Tiepolo. E la figura del C. dovette apparire, per questo scopo, come la più adatta: sia per le garanzie di consenso che offriva, sia (ove avesse tentato di "tradire") per la debolezza, connessa all'età, che dimostrava. In questo clima e con questi presupposti, il C. divenne doge di Venezia il venerdì 6 sett. 1275 (e non il A, come scrive il Romanin sulla traccia del Sanuto).

Che si fosse subito compreso che il nuovo doge era una personalità scolorita, priva di un proprio peso politico, lo fa capire anche il cronista coevo, Martino da Canal, il quale, dopo aver narrato e partecipato il cordoglio del popolo per la scomparsa dei Tiepolo, così prosegue: "avevo cessato di scrivere le storie di Venezia; ma riflettei, dentro di me, che sarebbe stato un torto troppo grande se non avessi messo per iscritto il racconto e l'avvenuta elezione" del nuovo doge. Ed elenca gli elettori delle varie "mani", concludendo con la proclamazione ufficiale dell'eletto e con il suo ingresso nella carica. Qui però s'interrompe, e passa a parlare repentinamente del nobile conte di Montefeltro, "al quale Dio conceda onore e vittoria": egli era "il falcone che abbatte gli orgogli". Il silenzio del cronista ha un solo significato: in tempi di tensioni e conflitti a tutti i livelli, un doge inerme come il C. non aveva storia: meglio il "falcone che abbatte gli orgogli", cioè il dominio di un uomo solo.

In effetti, anche a prescindere dalle delusioni del cronista, sarebbe difficile individuare, nel corso del dogado del C., l'impronta decisa di una politica personale: mancano, ad esempio, partes qualificanti introdotte dall'esplicita formula "Voluit dominus Dux". Il doge, nel nuovo contesto politico, poteva ben poco, anche nel caso avesse voluto: lo sopravanzavano i consilia, dei quali egli doveva farsi interprete fedele. Così al C. toccò assistere inerte a uno dei periodi più aspri della storia del Comune: appena entrato in carica, dovette affrontare il dramma della "gran penuria di biada nella Terra e carestia": poi, il flagello della peste ("e morirono assai persone", chiosa il Sanuto); infine, un terremoto disastroso, che peraltro colpì gran parte dell'Italia. E come se ciò non bastasse, ecco le guerre contro le tante forze che cercavano di strozzare e di affamare la Repubblica: in particolare, quella contro Ancona e quella contro Capodistria, che richiesero (secondo il Dandolo) la nomina di una giunta di savi fornita di pieni poteri; quella sempre latente, anche se non dichiarata, contro Genova (a causa dei ripetuti attacchi che falcidiavano uomini e merci lungo le rotte mercantili); per non parlare dei precari rapporti con l'Impero greco, con il quale si stipulò a fatica, nel 1278, una seconda tregua di durata biennale. Né una situazione siffatta. che richiedeva spese e sacrifici enormi (scaricati in gran parte sugli strati più deboli della popolazione) mancò di suscitare inquietudini e rivolte: aumentò infatti in questo periodo l'attività dei signori di Notte e dei Quinque de pace, ossia dei magistrati addetti all'ordine pubblico; venne perfino scoperta una congiura contro la Repubblica: quella ordita da Giovanni Saraceno, che fu bandito per sempre.

In siffatto clima, il dogado del C. volse all'epilogo. Oltretutto, l'età si faceva sentire: negli ultimi tempi, "per vecchiaia stava in letto, né si poteva esercitare". A sostituirlo provvide il consigliere anziano Niccolò Navigaioso. A un certo punto lo stesso C. decise (o fu convinto) di lasciare la carica. Ciò avvenne tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 1280: una pars, presa il 15 marzo dello stesso anno in materia di stipendio del doge, già indica che si era in fase di correzione del capitolare per l'elezione del successore; il quale, difatti, fu eletto il 25. È pertanto esatto quanto si legge in calce alla promissione del C.: governò, a partire dal 6 sett. 1275, 4 anni e mesi 7, "et exivit de ducatu demense februar.".

Scrive il da Mosto che dopo la rinuncia il C. si ritirò "nel palazzo Bocassi a S. Luca, vicino al traghetto". Qui si spense poco dopo, il 6 aprile 1280. Volle essere sepolto nel chiostro dei Frari. L'arca marmorea, forse dorata, fu posta accanto a una parete dove un artista raffigurò in mosaico il doge e la dogaressa in ginocchio. Un epitaffio, datato 6 apr. 1280, recitava: "Hic requiescit Dominus Iacobus Contarenus Dux inciytus Venetiarum et Domina Iacobina eius uxor Ducissa".

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Secreta Collegio, reg. 1, ff. 25r ss. (ma anche 1r, 17r, 41r, rispettivamente per il Prologo alle promissioni di Iacopo Tiepolo, Lorenzo Tiepolo e Pietro Gradenigo); Ibid., Procuratori di S. Marco de Ultra, b. 157, n. 2 (per il testam. del vescovo Enrico Contarini); Ibid., M. Barbaro, Arbori de' Patritii veneri, II, f. 439. Indic. dei testam. ined. esaminati da G. Cracco, Mercanti in crisi. Realtà econ. e riflessi emotivi nella Venezia del tardo Duecento, in Studi sul Medioevo veneto, Torino 1981, pp. 9 ss. Cfr., anche, M. Sanuto, Vitae Ducum Veneticorum..., in Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 568-572; Urkunden zur Älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Boziehung auf Byzanz und Levante..., a cura di G. L. Fr. Tafel-G. M. Thomas. III (1256-1299), in Fontes Rer. Austriac., Diplom. et Acra, XIV, Wien 1857, pp. 62 ss., partic. 78, 98, 92 s., 133 ss. (per l'ambasceria a Costantinopoli e i rapporti con Michele VIII Paleologo); Deliberaz. del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di R. Cessi, I, Bologna 1930, pp. 271, 274, 277, 294 s., 299, 303 e passim;II, Bologna 1931, pp. 39 (de salario domini Ducis), 53 (per la carica di advocator), 120 (è il documento da cui non risulta con chiarezza se il C. ricoprì o meno la carica di consigliere dogale), 216 s., 290 s. (sulle tensioni sociali in Venezia al tempo dei C.); A. Danduli Chronica per extensum discritta, in Rep Italicarum Script., 2 ed., XII, 1, a cura di E. Pastorello, pp. 311 (per rambasceria a Urbano IV), 321-327 (per gli eventi relativi al dogado); R. Morozzo della Rocca-A. Lombardo, Documenti del commercio venez. nei secc. XI-XIII, Torino 1940, n. 783; Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 184 s.; M. da Canal, Les Estoires de Venise, Cronaca venez. in lingua francese dalle origini al 1275, a c. di A. Limentani, Firenze 1972, pp. LXIV n. 3, 355-373; F. Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVi siècles), Paris 1959, pp. 148 s.; H. Kretschmayr, Gesch. von Venedig, II, Die Blüte, Aalen 1964 (rist. dell'ediz. del 1920), pp. 52, 572; G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secc. XII-XIV), Firenze 1967, pp. 263 s., 288 s.; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, II, Venezia 1973, pp. 218-222; A. da Mosto, I dogidi Venezia nella vita privata, Milano 1977, pp. 91 ss.; G. Fedalto, Cronotassi e nomine vescouili a Treviso fino al Quattrocento, in Tomaso da Modena e il suo tempo, Atti..., Treviso 1980, pp. 107-118, partic. 117 (a dimostrazione che un Enrico Contarini figlio del C. ben difficilmente poté essere vescovo di Treviso).

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