IACOPO di Angelo da Scarperia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

IACOPO di Angelo da Scarperia (Iacopo Angeli)

Paolo Farzone

Nacque a Scarperia, roccaforte fiorentina posta a difesa del Mugello, in data incerta. Solo parzialmente soccorre una testimonianza di Leonardo Bruni, che in un luogo del suo Commentarius dice che I., rispetto a lui, è assai più avanti negli anni. Tenuto conto che Bruni nacque nel 1369, si è arrivati a collocare la nascita di I. intorno al 1360. Si tratta però di un'indicazione generica, che la documentazione in nostro possesso non consente di precisare ulteriormente.

Sebbene un documento dello Studio fiorentino, risalente al settembre 1397, lo nomini come "Iacobus Angeli Lippi Sostegni", ai contemporanei egli appare essenzialmente conosciuto attraverso il patronimico Angeli. Del resto è probabile che in questo modo egli stesso preferisse essere chiamato, giacché in una nota di possesso apposta su un codice di Dionigi d'Alicarnasso egli si nomina "Iacobus Angeli".

Quasi nulla sappiamo della sua famiglia. Il padre, Angelo, dovette morire piuttosto precocemente se I., ancora giovanissimo, si trasferì a Firenze per seguire la madre, passata a seconde nozze. A Firenze si legò alla figura di Coluccio Salutati: non è possibile stabilire l'anno di questo incontro, né le occasioni che ebbero a determinarlo. Il tono di paterna sollecitudine che caratterizza le lettere spedite a I. dal cancelliere lascia tuttavia supporre che esso avvenne prima che I. fosse del tutto uscito dall'adolescenza. È certo a ogni modo che Salutati esercitò un influsso decisivo sul giovane discepolo, avviandolo agli studi letterari e alla passione per gli antichi. Fu probabilmente dietro suo consiglio che I. prese a frequentare la scuola del ravennate Giovanni Malpaghini, impiegato presso lo Studio fiorentino a partire dal 1394.

Condiscepoli di I. - secondo quanto riferisce una discussa testimonianza di Biondo Flavio, fondata su un ricordo di Bruni - furono Bruni stesso, Pier Paolo Vergerio, Poggio Bracciolini, Guarino Guarini, Ognibene da Padova, Roberto de' Rossi e Vittorino da Feltre.

Sabbadini (1906) riteneva che Biondo unificasse erroneamente nella figura di Malpaghini due diversi Giovanni, Malpaghini e Conversini, confusi per la comune origine ravennate. Non già alla scuola di Malpaghini, ma a quella pavese di Conversini andrebbero dunque assegnati gli umanisti settentrionali presenti nell'elenco di Biondo. Di parere diverso è Witt (1995), il quale ha dimostrato come nessuna delle testimonianze disponibili dia notizia, per i quattro umanisti settentrionali, di un vero e proprio discepolato presso Conversini. Comunque sia, va precisato che la questione riguarda non la posizione di I., che fu certamente allievo di Malpaghini, ma - ed è un aspetto non trascurabile - l'identità dei suoi condiscepoli.

Proprio alla figura di un allievo di Malpaghini, Roberto de' Rossi, si lega un fatto destinato ad avere grande rilievo nella vita di I., nonché, più in generale, nelle vicende del primo umanesimo fiorentino. Qualche anno prima che egli prendesse a frequentare le lezioni di Malpaghini, presumibilmente nel 1390-91, Rossi si era recato a Venezia, per incontrarvi i dotti bizantini Manuele Crisolora e Demetrio Cidone. A Crisolora Rossi aveva chiesto di essere avviato alla conoscenza della lingua greca. Benché circoscritta, l'iniziativa di Rossi creò i presupposti all'azione diplomatica e culturale che di lì a qualche anno, con il decisivo contributo di I., avrebbe condotto Crisolora a Firenze.

Con Loenertz (Correspondance de Manuel Calécas, p. 72 n. 1) va decisamente respinta l'ipotesi - già di Mehus, ma ripresa con determinazione da Novati (Epistolario di Coluccio Salutati, III, pp. 106 n. 3, 129 n. 1) - che I. avesse accompagnato Roberto de' Rossi nel suo viaggio a Venezia. A una simile congettura Novati era indotto, oltre che dalle notizie rinvenute in Mehus, dalla convinzione che il primo viaggio di Crisolora e Cidone in Italia si fosse svolto nel 1394-95. Con questa data si accordava infatti la testimonianza di Bruni, che riferiva di due viaggi in Italia compiuti da Crisolora e da Cidone: il primo quando la capitale bizantina si trovava sotto l'assedio dei Turchi, il secondo quando Crisolora era stato chiamato allo Studio fiorentino. Riusciva perciò naturale a Novati, seguendo la logica intrinseca a questa ricostruzione, saldare cronologicamente il viaggio di Rossi a Venezia e la partenza di I. per Costantinopoli, avvenuta nel 1395. Per questa via lo studioso giungeva a supporre che a Venezia, ove nel 1394 egli sarebbe giunto in compagnia di Rossi, I. avesse incontrato Crisolora e Cidone e che di là, mentre l'amico faceva rientro a Firenze, egli si fosse poi imbarcato per Costantinopoli. Questa ricostruzione dei fatti, in sé plausibile, risulta inficiata da quanto si legge nel testamento di Giovanni Lascari Calofero, redatto a Venezia nel luglio 1388 (Correspondance de Manuel Calécas, p. 64): nel documento Crisolora e Cidone vengono nominati esecutori testamentari e si annunzia imminente il loro sbarco in Italia. Cidone era sicuramente a Venezia nel principio del 1391, come attesta un privilegio ducale del 20 gennaio; da una lettera di Salutati a Crisolora, databile al 18 febbr. 1396, si apprende inoltre che questi era allora in sua compagnia. È assai probabile, dunque, che Rossi abbia incontrato i due bizantini non già nel 1394-95, come supponeva Novati, bensì nel 1390-91. Resta certo difficile, in questo modo, spiegare l'allusione di Bruni all'assedio turco di Costantinopoli, che mal si converrebbe alla data del 1390-91. Si potrebbe tuttavia ipotizzare, come suggerisce Rollo, che Bruni abbia indebitamente esteso al primo viaggio compiuto in Italia da Crisolora e da Cidone le condizioni storico-politiche nelle quali ebbe invece a svolgersi il loro secondo viaggio.

Nel 1395 I., incoraggiato dalla precedente esperienza di Rossi, partì per Costantinopoli. Probabile che tra i suoi programmi vi fosse, oltre all'apprendimento della lingua, quello di saggiare la disponibilità di Crisolora ad accettare la cattedra di greco presso lo Studio di Firenze. I. sbarcò a Costantinopoli nell'ultimo quarto del 1395, mentre la città si trovava sotto l'assedio turco. Vi rimase fino all'autunno del 1396, poco meno di un anno. Come si sia svolta la sua vita nella capitale bizantina non è dato ricostruire con esattezza. Si può però supporre che egli, accompagnato da raccomandazioni di Salutati e di Rossi, abbia da subito preso contatti con Cidone e Crisolora e che a quest'ultimo abbia chiesto lezioni di lingua greca. Fu in casa di Crisolora che I. ebbe modo di conoscere Manuele Caleca, teologo di raffinata cultura, ammiratore della tradizione patristica e scolastica dell'Occidente latino, fiero antipalamita.

Dell'amicizia tra i due rende testimonianza un gruppo di lettere, cinque in tutto, che Caleca inviò a I. tra il 1397 e il 1403. La prima di queste lettere, scritta da Pera, nei pressi della capitale, nella primavera del 1397, quando il destinatario era ormai rientrato in Italia, conferma che già a Costantinopoli I. si era cimentato con lo studio del greco.

Il documento tuttavia più significativo circa la permanenza di I. a Costantinopoli, il più ricco in ogni caso di suggestioni, è la lettera che il 25 marzo 1395 Salutati gli spedì da Firenze (Epistolario di Coluccio Salutati, III, pp. 129-132).

Essendosi risolta la Signoria a chiamare a Firenze Crisolora - scrive Salutati - egli spera di rivedere presto in Italia il suo carissimo I., accompagnato da Crisolora; continui intanto l'allievo a impegnarsi nell'apprendimento del greco, poiché molti già fallirono nell'impresa, impazienti di risultati che solo l'esercizio e la disciplina possono maturare. Non abbia dunque a spaventarsi delle difficoltà presentate dal lessico e dalla grammatica e provveda, piuttosto, a mandare a memoria il maggior numero possibile di parole e modi di dire, prestando attenzione ai loro usi e significati. Veda inoltre di esortare Crisolora ad accettare l'offerta fiorentina, in modo che siano realizzati gli auspici di tutti; né dimentichi di fare incetta, prima di rientrare in Italia, di quanti più libri potrà: poeti, storici, trattati di versificazione, lessici. Provveda nella fattispecie a procurarsi tutto Platone e tutto Plutarco, nonché un Omero scritto grossis litteris e, se gli sarà possibile, qualche repertorio mitologico. Delle spese non abbia a preoccuparsi, ché i Biliotti e lo Strozzi sono pronti a pagar tutto.

Successiva di soli tre giorni l'epistola ufficiale con la quale Salutati, per conto della Repubblica, rivolgeva a Crisolora l'invito a presentarsi a Firenze: con delibera del 23 febbraio si era infatti deciso di conferirgli l'incarico presso lo Studio; il compenso era stato fissato nella somma di 100 fiorini d'oro annui, da corrispondere per dieci anni. L'offerta della Repubblica, congiuntamente alle vive esortazioni di I. e ai rischi di una situazione politica che a Costantinopoli si faceva sempre più minacciosa, indussero Crisolora a partire per l'Italia; tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre del 1396 egli salpò da Costantinopoli con I. e Demetrio Cidone.

La data della partenza si deduce da una lettera dell'imperatore Manuele II a Cidone, nella quale gli viene mosso il rimprovero di avere abbandonato la capitale bizantina proprio nel giorno in cui era previsto l'arrivo di un sovrano. Poiché il sovrano cui si riferisce Manuele II è certamente da identificarsi con Sigismondo di Lussemburgo re d'Ungheria, giunto a Costantinopoli dopo la sconfitta di Nicopoli (25 sett. 1396) e qualche tempo prima dell'11 novembre (data di una sua lettera dalla capitale), è evidente che in questo lasso di tempo va situata la partenza di Crisolora, Cidone e I. da Costantinopoli. Non può invece essere condivisa l'opinione di Novati che I. rientrasse in Italia già nel settembre 1396, precedendo Crisolora e Cidone (Epistolario di Coluccio Salutati, III, p. 120). Una tale ipotesi si fondava, come ben vide Cammelli (p. 39 n. 2), sulla lettura erronea della data di un documento dello Studio, nel quale I. figura tra i testimoni presenti alla delibera che confermava Malpaghini. Pareva infatti a Novati che quel documento recasse la data del settembre 1396; invece, faceva osservare Cammelli, la data esatta del documento era settembre 1397: essa dunque non poteva conferire alcun sostegno all'ipotesi che I. avesse preceduto Crisolora e Cidone nel rientro in Italia.

Il 2 febbr. 1397, dopo aver indugiato qualche mese nell'Italia del Nord, tra Venezia e Pavia, Crisolora si presentò ai Priori delle arti di Firenze, per assumere formalmente l'incarico. Tra il 1397 e il 1400, cioè per tutta la durata della permanenza di Crisolora a Firenze, I. seguì le sue lezioni di greco allo Studio compiendo, sembra, progressi notevoli. In una lettera dell'inverno 1398 Manuele Caleca esprimeva a I. la sua soddisfazione per il fatto che quest'ultimo avesse completato in greco la sua missiva. Nella stessa lettera, inoltre, il teologo bizantino si diceva disposto ad aiutare l'amico, desideroso di formarsi una raccolta di testi greci (Correspondance de Manuel Calécas, ep. 33, pp. 211-213). Quali e quanti libri egli sia giunto a possedere ci è ignoto. Sappiamo però che prima del 1400 dovette avere tra le mani un codice del Gorgia di Platone, che spedì poi a Vergerio. Una nota di possesso riconduce inoltre a I. un manoscritto dell'XI secolo, contenente l'opera di Dionigi d'Alicarnasso: si tratta dell'Urb. gr. 105, conservato alla Biblioteca apostolica Vaticana; la nota di possesso, segnata sul verso del primo foglio, è riprodotta in Bianca, p. 151.

Muovendo dal raffronto tra la nota autografa di I. e la mano, sicuramente di un allievo di Crisolora, che nell'interlinea del ms. Urb. gr. 121, contenente opere di Luciano, ha trascritto una versione latina del Caronte, Concetta Bianca ha di recente avanzato l'ipotesi che quella mano possa essere identificata con quella di Iacopo. Data la natura non proprio significativa del termine di confronto (poche lettere di una nota di possesso), l'ipotesi è formulata con giusta cautela. Comunque sia, il ms. Urb. gr. 121, oggetto di accurate ricerche da parte di Berti, costituisce un testimone preziosissimo del metodo seguito alla scuola di Crisolora nell'apprendimento del greco (E. Berti, Alla scuola del Crisolora. Lettura e commento di Luciano, in Rinascimento, s. 2, XXVII [1987], pp. 3-73).

Assai scarse le notizie relative alla vita di I. tra il 1397 e il 1400. Oltre il documento già ricordato del settembre 1397, abbiamo una lettera di Salutati, in data 17 luglio 1400, dalla quale I. risulta trovarsi non più a Firenze, ma a Stignano, presso la famiglia Salutati, dove il cancelliere, a seguito di un'epidemia scoppiata in città, lo aveva pregato di trasferirsi insieme con i figli e di badare ai loro bisogni.

Nella primavera di quell'anno Crisolora aveva deciso di lasciare l'insegnamento fiorentino. La scelta, forse motivata dalla notizia dell'arrivo dell'imperatore Manuele II nell'Italia del Nord, fu notificata alle autorità con lettera del 9 marzo 1400; due giorni dopo Crisolora era già a Pisa e di qui muoveva in direzione di Pavia, ove Gian Galeazzo Visconti lo avrebbe convinto a trattenersi fino al 1402.

Di I. non si hanno notizie fino all'estate del 1401, quando risulta trovarsi a Roma, presso la Curia pontificia. Prima di giungere a Roma aveva completato la versione latina della Vita Bruti, dalle Vite parallele di Plutarco. Il colofone del ms. Canon. class. lat. 214, della Bodleian Library di Oxford, riferisce infatti che la Vita Bruti fu volta in latino nell'anno 1400.

Con la Vita Bruti I., primo tra gli umanisti italiani, avviò la traduzione delle biografie di Plutarco. Sono attribuite a I., oltre alla Vita Bruti, traduzioni delle vite di Cicerone, di Mario e di Pompeo, eseguite in un arco cronologico tra il 1400 e il 1409-10. L'insieme delle biografie tradotte da I. è trasmesso da due raccolte manoscritte, contenenti versioni umanistiche delle Vite parallele. La prima è una raccolta di ispirazione guariniana, allestita tra il 1435 e il 1436 da Guglielmo da Ferrara (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 1877); la seconda è rappresentata dal citato codice di Oxford, sempre del secolo XV. Numerosi i manoscritti che recano traduzioni di singole vite. Nelle raccolte a stampa del secolo XVI le versioni di I. sono erroneamente attribuite al bolognese Achille Bocchi.

Come è stato dimostrato da alcuni studiosi (Weiss, Giustiniani, Resta, Cesarini Martinelli), è alla personalità di Coluccio Salutati che va ricondotto l'interesse per Plutarco nella cultura fiorentina fra Trecento e Quattrocento. Venuto a sapere dell'esistenza di una traduzione aragonese delle Vite parallele, eseguita nel 1388 su una versione in greco volgare per conto di Juan Fernández de Heredia, Salutati ne faceva richiesta al gran maestro dei cavalieri di S. Giovanni di Rodi, promettendogli in cambio una copia dell'Odissea tradotta da Leonzio Pilato. Egli ricevette la traduzione aragonese delle Vitae solo nel 1395; non dall'Heredia, come inizialmente aveva sperato, bensì dall'antipapa Benedetto XIII, Pedro de Luna. In un primo momento il cancelliere pensò a una traduzione latina del testo, da affidare a un membro della sua cerchia. Non è ben chiaro per quale motivo, in luogo della versione latina, fu un volgarizzamento a essere prodotto. Probabile che con l'arrivo di Crisolora a Firenze si fossero resi disponibili codici greci di Plutarco, facendo passare in secondo piano la traduzione aragonese. Il volgarizzamento fiorentino delle Vitae conobbe a ogni modo una larghissima fortuna. In questo quadro di acceso interesse per l'opera plutarchea si situano le traduzioni latine di I.: che egli abbia lavorato su manoscritti propri, recati in Italia da Costantinopoli, appare probabile; difficile è tuttavia identificare gli apografi da lui posseduti. La proposta di Manfredini, che rinviene nel codice Laurenziano 69, 3 + Laurenziano Conv. soppr. 169, esemplato a Costantinopoli nel 1398, il Plutarco commissionato nel 1396 a I. da Salutati, è giudicata non condivisibile da Rollo, sulla base di una diversa ricostruzione delle vicende del manoscritto.

Non casuale appare la scelta di dare inizio alla traduzione con la Vita Bruti, scelta che andrà valutata in relazione alla circolazione di motivi antitirannici nella cultura fiorentina del periodo (degli stessi anni è il De tyranno di Salutati). Per ciò che concerne la tecnica di traduzione, essa appare sostanzialmente riferibile alle concezioni che sappiamo espresse in tale ambito da Crisolora. Un recente raffronto compiuto da Lucia Cesarini Martinelli tra il testo plutarcheo della Vita Bruti e la corrispondente versione di I., eseguito sul passo della morte di Cesare, ha permesso di cogliere alcuni caratteri peculiari del suo modo di tradurre. Il rispetto della struttura sintattica originaria induce a un impiego significativo delle forme participiali e non infrequenti sono le frasi nominali. La fedeltà all'originale si esprime, secondo il principio del transferre ad sententiam, nella volontà di rendere con esattezza il senso complessivo della frase, senza che ciò pregiudichi l'eleganza del dettato. Quanto al lessico, per lo più osservata risulta la rispondenza semantica tra vocabolo greco e vocabolo latino. L'analisi, benché condotta su una porzione minima del testo, è sufficiente ad attenuare l'asprezza con la quale i contemporanei giudicarono le versioni di I.: sulla base di un siffatto giudizio, la traduzione della Vita Bruti venne fatta oggetto di ampia revisione da parte di Guarini (ms. II.46 della Biblioteca Antoniana di Padova, alle cc. 33r-50v).

Trasferitosi a Roma, I. da principio trovò protezione presso un cardinale, di cui si ignora l'identità, come riferisce una lettera di Salutati, databile all'agosto del 1401 (Epistolario di Coluccio Salutati, III, pp. 520 s.). Nella medesima lettera il cancelliere menzionava la traduzione della Vita Ciceronis, ultimata da I. nel suo primo anno di permanenza a Roma.

A ogni modo, scriveva Salutati, provveda I., la prossima volta che scriverà, di mandare una copia della traduzione della Vita Ciceronis; se ciò dovesse riuscirgli impossibile, che mandi per lo meno il testo greco, affinché Bruni possa tradurlo. Cerchi infine di procurargli quel passo dell'Heroicus di Filostrato di Samo nel quale si discorre della persona di Ettore, perché ciò potrà essergli utile a soddisfare una richiesta di Pandolfo Malatesta, signore di Pesaro.

Entrambe le richieste di Salutati furono soddisfatte. Sappiamo che I. inviò a Firenze la sua versione della Vita Ciceronis: sia Salutati, sia Bruni ebbero però a giudicarla non buona, tanto che quest'ultimo si dedicò a un'opera di ritraduzione. Quanto all'Heroicus, I. non dovette limitarsi a inviare il passo in questione, bensì fece pervenire a Salutati l'intera opera. Questa fu poi visionata, per conto del cancelliere, da Leonardo Bruni.

Seguiva in calce alla lettera di Salutati un importante post scriptum. In esso Salutati dichiarava di aver ricevuto, poco dopo la stesura della missiva, una lettera di I., nella quale il discepolo gli annunziava di essere stato nominato scrittore apostolico "die solemnitatis sancti Iacobi". Questa ultima precisazione consente di risalire alla data del 25 luglio 1401.

Ai primi anni della sua presenza a Roma, tra il 1401 e il 1403, va assegnato anche il fortunato ritrovamento del testo integrale delle Filippiche di Cicerone, noto nel Medioevo solo in maniera lacunosa. Del rinvenimento, compiuto, si presume, durante uno dei numerosi viaggi al seguito della Curia, I. dovette dare immediatamente notizia a Salutati se costui, scrivendo nel dicembre del 1403 a Poggio Bracciolini, anch'egli passato da Firenze a Roma, mostra di attendere da Poggio una trascrizione del manoscritto posseduto da Iacopo.

Nel 1405 si registra l'episodio forse più amaro della carriera romana di Iacopo. Venuto a conoscenza del fatto che l'ufficio di segretario apostolico era rimasto vacante, Bruni si era presentato a Roma, nel marzo di quell'anno, con l'ambizione di ottenere l'incarico. Tuttavia il disegno dell'aretino incontrò, inaspettatamente, le resistenze di Iacopo. Incoraggiato dalle perplessità del pontefice, che vedeva in Bruni un candidato brillante ma eccessivamente giovane, e confidando altresì negli anni di esperienza accumulati in Curia, I. pretese per sé l'ufficio ambito da Bruni. A fronte della contesa, Innocenzo VII si vide costretto a rinviare la scelta al momento in cui ulteriori elementi non gli avessero consentito di giudicare per il meglio. L'occasione gli si offrì qualche settimana dopo, quando fu raggiunto da una lettera di Giovanni di Francia, duca di Berry, nella quale si chiedeva al pontefice di rinunziare al papato. Avrebbe ottenuto la nomina a segretario apostolico, stabilì Innocenzo VII, chi dei due candidati avesse elaborato la risposta migliore. Sostenuto da una più sicura padronanza dei propri mezzi espressivi, Bruni riportò la vittoria e, con essa, la designazione a segretario apostolico. Mediante due epistole subito egli informò Salutati della contesa sorta a Roma e del contegno avuto da I. nei suoi riguardi. Non sembra però che le due lettere abbiano mai raggiunto Salutati, che risulta comunque informato della faccenda. Dell'8 ott. 1405 è una lettera di Salutati a I., nella quale gli si muove il rimprovero di essere entrato in competizione con l'antico compagno di studi. La ricostruzione che Salutati fa dell'accaduto, fondata sulla supposizione che l'ufficio fosse stato assegnato all'aretino a seguito di un precedente rifiuto di I., conferma che non da Bruni, ma da altra fonte egli traeva le sue informazioni. Pur scritta per I., la lettera di Coluccio venne recapitata a Bruni, affinché questi provvedesse a trasmetterla al destinatario effettivo. I. non l'avrebbe mai letta: ritenendo opportuno non esasperare ulteriormente gli animi, Bruni si risolse a non consegnargliela. L'anno seguente Salutati morì.

Quali sentimenti suscitasse nell'animo di I. la sua morte, può desumersi dai due epigrammi funebri che I. compose per la tomba del cancelliere (pubblicati in Epistolario di Coluccio Salutati, IV, pp. 485 s.); in essi trovava solenne celebrazione l'impegno speso da Salutati nel governo della cosa pubblica e nella diffusione della cultura antica. Ancora una morte, quella di Innocenzo VII, avvenuta nello stesso anno, è invece materia di una lunga epistola che I. scrisse a Crisolora che, con i due epigrammi funebri in onore di Salutati, rappresenta l'unica composizione originale che di lui ci sia pervenuta.

Nella lettera, pubblicata da L. Mehus in L. Dati, Epistolae XXXIII (pp. 61-95), I. si sofferma sulla morte di Innocenzo VII e sull'elezione del nuovo pontefice, Gregorio XII. A un excursus etimologico sull'origine del termine pontifex segue un dettagliato resoconto delle procedure di elezione e di insediamento del papa. I. ha cura di sottolineare le differenze tra rito cristiano e rito ortodosso, di cui egli ha avuto modo di rendersi conto personalmente in occasione della sua permanenza a Costantinopoli. L'epistola è databile con una certa sicurezza all'inverno del 1406, posteriormente cioè all'elezione di Gregorio XII (3 dic. 1406).

È nel periodo che seguì alla morte di Innocenzo VII che si colloca la fase più intensa e meglio documentata dell'impegno culturale di Iacopo. Decisivo risultò l'incontro col greco Pietro Filargis, nominato cardinale nel giugno del 1405: uomo coltissimo, amico di Crisolora, protettore di Uberto Decembrio, raccoglieva intorno a sé i fautori di una politica filoellenica. Non stupisce perciò che egli abbia mostrato da subito vivo interesse per la personalità di Iacopo.

Fu per soddisfare a una richiesta del cardinale che I. tradusse due opuscoli plutarchei, il De Alexandri fortuna e il De fortuna Romanorum (Oxford, Bodleian Library, Canon. class. lat., 294, cc. 253v-270v e London, British Library, Harley, 5411, cc. 105r-140r). La genesi delle due traduzioni è senz'altro da riferire al culto, non scevro di implicazioni politiche, nutrito da Pietro Filargis per la figura di Alessandro Magno. Poiché nell'epistola di dedica si fa riferimento al titolo cardinalizio di Filargis, ne consegue che le versioni furono eseguite da I. tra il giugno 1405 e il luglio 1409, data in cui Filargis, eletto dal concilio di Pisa, salì al soglio pontificio col nome di Alessandro V.

Negli stessi anni, probabilmente, I. avviò la traduzione latina della Geographia di Tolomeo, riprendendo una precedente iniziativa di Manuele Crisolora.

Che Crisolora avesse eseguito una traduzione parziale dell'opera tolemaica è noto attraverso una testimonianza dello stesso Iacopo. Nel proemio alla sua versione della Geographia I., nel giustificare la scelta di volgere in Cosmographia il titolo dell'opera, riferisce di essersi discostato in questo da Crisolora, il quale aveva preferito conservare il titolo tradizionale (il proemio è riprodotto in Hankins). La porzione di testo già tradotta da Crisolora doveva essere tuttavia di modesta estensione, se L. Bruni, nel chiederne copia a Niccolò Niccoli verso il 1405-06, a essa si riferiva col termine particula (L. Bruni Aretino, Humanistisch-philosophische Schriften, a cura di H. Baron, Lepzig-Berlin 1928, p. 105). Pur mancando informazioni precise al riguardo, si può presumere che l'abbozzo di traduzione venne eseguito da Crisolora negli anni del suo magistero fiorentino. Notevole rilievo acquista perciò la segnalazione di Gentile, il quale ha rinvenuto citazioni dai libri III e V della Geographia in due scritti di Salutati: nel De laboribus Herculis (rimasto interrotto nel 1406) e in una lettera a Domenico Bandini, datata 21 luglio 1403 (S. Gentile, Emanuele Crisolora, p. 306). Ciò induce a supporre che Coluccio disponesse della versione latina di alcuni luoghi dell'opera tolemaica, forse proprio della particula tradotta da Crisolora; è evidente, comunque, che essa non può prescindere dal problema dell'ingresso della Geographia nell'Occidente latino. Riferisce Vespasiano da Bisticci (P. Viti, Le vite degli Strozzi di Vespasiano da Bisticci. Introduzione e testo critico, in Atti e memorie dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XLIX [1984], p. 138) che durante la permanenza di Crisolora a Firenze, Palla Strozzi fece venire da Costantinopoli alcuni libri, tra i quali una copia della Geographia, corredata di tavole. Basandosi essenzialmente su questa testimonianza Fischer ipotizzò che tale copia fosse da identificarsi con il ms. Urb. gr. 82 della Biblioteca apostolica Vaticana, risalente all'ultimo quarto del XIII secolo (J. Fischer, Geographiae Codex Urbinas Graecus 82, I, p. 179). Ulteriori elementi contribuivano a dare forza all'ipotesi di Fischer: la lettera contenuta nel ms. Fonds lat. 17542 della Bibliothèque nationale di Parigi, nella quale Iacopo di Antonio Marcello, dedicando a Roberto d'Angiò un atlante di tavole, lo diceva esemplato a Padova da Nofri di Palla Strozzi sulla base di un apografo greco da lui posseduto; la nota apposta da Francesco da Lucca a c. 111v del ms. urbinate, rinvenibile nella maggior parte dei manoscritti appartenuti a Strozzi e poi finiti nella Biblioteca di Federico da Montefeltro (G. Mercati, Ist Urb. Gr. 82 das Exemplar Palla Strozzis?, in Fischer, Geographiae Codex, cit., pp. 194-201). Una conferma definitiva all'ipotesi di Fischer veniva quindi dal ritrovamento del testamento di Palla Strozzi che menzionava due codici della Geographia: un primo codice che Crisolora recò con sé da Costantinopoli e che egli lasciò poi allo Strozzi (l'attuale Urb. gr. 82) e un secondo codice esemplato da Crisolora in Italia, anch'esso confluito nella biblioteca di Palla (cfr. S. Gentile, Firenze e la scoperta dell'America, pp. 88-90). Come hanno mostrato Fischer e Gentile, è dal testo dell'Urb. gr. 82 (redazione "A") che discende la tradizione latina della Geographia. Non sembra invece aver dato origine a discendenza latina il testo della redazione "B". E tuttavia la traduzione di I. mostra vistosi punti di contatto con questa diversa redazione del testo. Il più antico testimone della redazione "B" è il ms. XXVIII, 49 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, del secolo XIV. Rapporti con questo codice hanno due codici gemelli, XXVIII, 9 e i Laurenziani XXVIII, 38, scritti da mani italiane di scuola crisoloriana e derivati, quanto al testo, da tre altri manoscritti della Geographia. In uno di questi tre codici, il Vat. gr. 191 della Biblioteca apostolica Vaticana, si leggono correzioni e note autografe di Crisolora, relative in particolare ai libri I e VII. La natura delle annotazioni, alcune delle quali confluirono nella versione di I., lascia ipotizzare che Crisolora abbia studiato il codice a Firenze, dopo averlo recato con sé in Italia da Costantinopoli.

Quanto alla cronologia della traduzione non si dispone di dati certi e omogenei. Appare probabile, tuttavia, che essa venne ultimata nel 1409-10, poiché nella maggioranza dei codici relatori - compresi i due codici più antichi della tradizione (il Vat. lat. 2974 del 1409 e l'Ottob. lat. 11771 del 1411) -, l'opera risulta dedicata ad Alessandro V, pontefice in quell'anno. L'indicazione in alcuni codici di Gregorio XII quale dedicatario, che riporterebbe il compimento della traduzione al 1405-06, non sembra essere fondata su dati sicuri, nonostante il diverso parere di Fischer (Geographiae Codex, cit., pp. 185 s.). Benché infatti nel ms. Arch. Cap. di S. Pietro H 31 della Biblioteca apostolica Vaticana, contenente l'introduzione del cardinale Guillaume Fillastre a Pomponio Mela, si legga che la Geographia fu volta in latino nell'anno 1406, in un altro codice di mano di Fillastre (Reims, Bibliothèque municipale, ms. 1320), ove è trascritta la Geographia destinata ai canonici di Reims, l'anno della traduzione è fissato invece al 1409, durante il pontificato di Alessandro V. Il carattere contraddittorio delle notizie rende dunque non pienamente attendibile la testimonianza del cardinale.

Il titolo dell'opera, come si è detto, fu mutato da I. in Cosmographia, muovendo dalla convinzione che questo titolo meglio potesse esprimere il respiro cosmologico della trattazione. Nella considerazione del nesso tra cielo e terra, trascurato, a parer suo, dai geografi latini, I. credeva infatti di rinvenire il carattere più originale dell'opera tolemaica.

Notevole fu la fortuna incontrata dalla versione latina di I., come documenta il numero assai ampio dei testimoni manoscritti e a stampa (editio princeps Liechtenstein, Vicenza 1475: Indice generale degli incunaboli, 8180). Per le sue caratteristiche si segnala un codice, oggi alla Harvard University Library di Cambridge, MA (ms. Typ. 5): esso fu donato da Cosimo il Vecchio alla biblioteca conventuale di S. Marco e presenta annotazioni autografe di Poggio Bracciolini. A una vera e propria opera di revisione, nonché al ripristino dei significati autentici della trattazione tolemaica, la cui chiarezza egli giudicava compromessa dalla traduzione di I., si dedicò invece Giovanni Regiomontano nelle sue Annotationes alla versione di I. (stampate a Strasburgo nel 1525 insieme con la nuova versione latina di W. Pirkheimer). La lettura e l'interpretazione del testo ne ricevettero indubbio vantaggio. È attraverso il Regiomontano, per esempio, che il De pictura di L.B. Alberti mostra di recepire il terzo modo di proiezione tolemaica.

All'anno di pontificato di Alessandro V va altresì riferita la traduzione della Vita Marii, dedicata a Giobbe Resta, segretario del pontefice (Oxford, Bodleian Library, Canon. class. lat., 294, c. 199r; la dedica si può leggere in Giustiniani). Non è certo invece che a I., come riferisce B. Facio, vada assegnata la traduzione della Vita Pompeii.

Tra le opere dubbie si segnala la traduzione della lettera dello Pseudo Aristea, eseguita per conto di Tedaldo della Casa da un discepolo, rimasto anonimo, di Salutati. La versione, conservata nel ms. 25, sin. 9 della Biblioteca Laurenziana (cc. 3r-25r), venne attribuita a I. da A. Vaccari. Ragioni stilistiche indussero tuttavia R. Weiss a ritenere, con miglior fondamento, che autore ne fosse Bruni. Senza dubbio spurio è invece da considerarsi il carmen che risulta a lui attribuito nella raccolta Carmina illustrium poetarum Italorum (Florentiae 1719, I, pp. 479-482).

La Vita Marii e la Vita Pompeii sono le ultime traduzioni di I. a noi note. La sua vita, del resto, volgeva al termine. Un documento della Cancelleria pontificia informa che nell'agosto del 1410 egli ricevette la sospirata nomina a segretario apostolico (Mehus, p. LXXXVII). Papa era Giovanni XXIII. Non visse che per pochi mesi ancora: risulta già morto a Roma in un documento del 28 marzo 1411.

Fonti e Bibl.: Biblioteca apostolica Vaticana, Reg. lat., 147, c. 132; L. Bruni, Rerum suo tempore in Italia gestarum commentarius, a cura di C. Di Pierro, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XIX, 3, p. 432; P. Giovio, Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Venetiis 1546, c. 72v; Biondo Flavio, De Roma triumphante libri X…Romae instauratae libri III. De origine et gestis Venetorum liber. Italia illustrata, sive lustrata (nam uterque titulus doctis placet) in regiones seu provincias divisa XVIII. Historiarum ab inclinato Romano imperio Decades III, Basileae 1559, pp. 305B-C, 346; L. Bruni, Epistolarum libri VIII, a cura di L. Mehus, Florentiae 1741, I, I-III, 1-6; L. Mehus, Vita Iacobi Angeli, in L. Dati, […] Epistolae XXXIII, a cura di L. Mehus, Florentiae 1742, pp. LXXIII-LXXXXII; B. Facio De viris illustribus liber, a cura di L. Mehus, Florentiae 1745, p. 9; F. Cornelius, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis, VII, Venetiis 1749, pp. 89 s., 99, 106; Statuti della Università e Studio fiorentino…, a cura di A. Gherardi, Firenze 1881, p. 370; Epistolario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], Roma 1891-1905, ad ind.; W. von Hoffmann, Forschungen zur Geschichte der Kurialen Behörden vom Schisma bis zur Reformation, II, Roma 1914, pp. 108, 255; P.P. Vergerio, Epistolario, a cura di L. Smith, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], Roma 1934, pp. 241 s.; Correspondance de Manuel Calécas, a cura di R.-J. Loenertz, Città del Vaticano 1950, ad ind.; The letters of Manuel II Palaeologus, a cura di G.T. Dennis, Washington, DC, 1977, ep. 31, rr-1-6; F.G. Negri, Istoria degli scrittori fiorentini, Ferrara 1722, pp. 320 s.; G. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 764-767; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VI, 2, Roma 1784, p. 127; R. Sabbadini, Notizie di alcuni umanisti, in Giorn. stor. della letteratura italiana, XLIII (1906), pp. 156-162; Claudii Ptolomaei Geographiae codex Urbinas Graecus 82, I, J. Fischer, De Cl. Ptolomaei vita operibus Geographia praesertim eiusque fatis, 1, Commentatio, Città del Vaticano 1932, pp. 183-187, 205-208; G. Cammelli, I dotti bizantini e le origini dell'umanesimo, I, Emanuele Crisolora, Firenze 1941, pp. 64 s.; A. Vaccari, Scritti di erudizione e di filologia, I, Roma 1952, pp. 3-6; F. Mattesini, La biblioteca francescana di S. Croce e fra Tedaldo della Casa, in Studi francescani, LVII (1960), pp. 282 s.; V.R. Giustiniani, Sulle traduzioni latine delle "Vite" di Plutarco nel Quattrocento, in Rinascimento, n.s., I (1961), pp. 56 s.; G. Resta, Le epitomi di Plutarco nel Quattrocento, Padova 1962, ad ind.; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, ristampa a cura di E. Garin, Firenze 1967, I, pp. 74 s.; R. Weiss, I. Angeli da S. 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