ICONOGRAFIA

Federiciana (2005)

Iconografia

FFrancesco Gandolfo

Davanti a ciò che è stato realizzato sotto la diretta committenza di Federico II, è parso possibile chiedersi se, per la prima volta nella storia, alcune delle immagini che rappresentano l'imperatore possano essere state non delle semplici effigi evocative del suo ruolo, ma dei veri e propri ritratti, dunque qualcosa al di là, se non contrario, all'idea stessa dell'esistenza di una sua iconografia canonicamente definita. Del resto è sembrato che fosse stato egli stesso a fare apparire come possibile la presenza di una sua immagine in termini ritrattistici, nel momento in cui, nel promuovere la coniazione degli augustali (v.), nel 1231, stabilì "ut ipsa nova moneta forma nostri memoriam nominis et nostrae majestatis imaginem eis iugiter representet" (Historia diplomatica, VI, 2, p. 669). In realtà una lettura disincantata della frase rivela che l'intenzione era stata quella di diffondere un'immagine che esaltasse e perpetuasse il ricordo del nome del sovrano e la rappresentazione della sua maestà, in termini squisitamente medievali, perché simbolici. Tuttavia l'associazione di quella frase con certi spunti del momento che si potrebbero definire, da un lato, di inclinazione culturale, dall'altro, di rinnovamento stilistico e formale in campo artistico, ha finito con il produrre una certezza tutt'affatto contraria. La celebre affermazione di Federico II, nell'introduzione del De arte venandi cum avibus, di una razionale volontà di studio della vita degli uccelli, in termini e modi osservati così come si danno in natura, e un percepibile cambiamento nelle scelte artistiche operate nei cantieri da lui promossi, nella direzione di una convinta acquisizione di artisti capaci di raggiungere una forte componente naturalistica, sfruttando gli impulsi stilistici del neonato classicismo gotico, hanno finito con il convincere che davvero da quella miscela di fatti e di intenzioni potesse essere scaturita l'esigenza di produrre ritratti imperiali che fossero delle vere e proprie riproduzioni delle reali sembianze dell'imperatore.

Su questo aspetto ha pesato la scelta non solo stilistica ma anche iconografica, molto marcata in chiave antichizzante, fatta proprio a proposito degli augustali, in cui, con un esplicito ricalco del tipo dell'imperatore Augusto, Federico II compare con una clamide, tenuta chiusa da una fibula sulla spalla destra, la quale a sua volta è coperta da una lorica, mentre il capo è cinto da un serto di lauro. A questo punto è bastato associare all'immagine un'interpretazione in termini realistici delle intenzioni espresse dallo stesso imperatore all'atto della prima coniazione della moneta, per arrivare alla conclusione di poter proporre come suo ritratto qualunque immagine che, muovendosi lungo i binari del classicismo, si improntasse a quel tipo di iconografia. Nasce in questo modo l'idea che il busto conservato nel Museo Civico di Barletta possa essere davvero un ritratto di Federico II, una rappresentazione della sua identità fisica, per quanto trasferita in una dimensione magnificante e ideale. In realtà, nella vicenda creativa del pezzo, tra l'altro ampiamente rilavorato in tempi diversi, particolarmente per quanto riguarda la porzione inferiore, e per di più con un'iscrizione che lo identifica come Giulio Cesare, o nei passaggi storici che lo coinvolgono e che sono noti, nulla permette di affermare che sia davvero una rappresentazione di Federico II. La prudenza dunque deve portare a dire che si tratta di una scultura che rappresenta un monarca, negli stessi termini iconografici del tipo che condiziona il ritratto di Federico II presente negli augustali.

Soprattutto quella frettolosa associazione di fatti e di idee ha portato all'indimostrato riconoscimento come ritratti di Federico II di sculture prossime, per composizione iconografica, all'immagine degli augustali, senza che esse fossero dotate almeno della buona qualità formale del pezzo conservato a Barletta. Esempio principe di tale situazione è stato, in passato, il busto conservato nel Museo della cattedrale di Acerenza, un tempo sistemato sulla sommità della facciata, la cui retorica antichizzante è parsa, senza ragione, congeniale al delicato classicismo duecentesco, più che per meriti intrinseci, per la concordanza con le monete che creava il tipo imperiale, con lorica e clamide. Tale e tanta è stata la pervicacia nel ritenere come inevitabile quell'iconografia, all'interno di un contesto duecentesco, che, di fronte alla constatazione che i ritratti degli augustali lo mostrano costantemente sbarbato, non potendo più sostenere l'identificazione con l'imperatore in prima persona, si è preferito ripiegare su un riconoscimento come re Manfredi, piuttosto che arrendersi di fronte all'evidenza che nessuna relazione, né stilistica né iconografica, legava la scultura alla realtà federiciana. Lo stesso, un oscillare indeciso dell'identificazione tra Federico II e Manfredi, è accaduto per un busto, quantomeno di fattura modesta, ma con ogni verosimiglianza non duecentesco, conservato negli Staatliche Museen di Berlino nel quale, ancora una volta, a fare aggio su tutto il resto ha contribuito la tipologia antichizzante della clamide, affibbiata sulla spalla destra, e del serto di lauro, cinto intorno al capo.

Sempre muovendo dal condizionamento iconografico imposto dagli augustali, quest'ultimo motivo, a sua volta, è parso sufficiente, nei casi di alcune sculture frammentarie, per permettere di riconoscerle come ritratti dell'imperatore. Rientra anzitutto nella categoria il cosiddetto 'frammento Molajoli' della Pinacoteca Provinciale di Bari, la cui provenienza da Castel del Monte, accompagnata da un forte realismo, di squisita impronta gotica, non può di per sé portare a identificarlo con un ritratto di Federico II solo in virtù della presenza di una corona di lauro intorno al capo. Gli stessi motivi valgono per la testa, dalle analoghe caratteristiche iconografiche, conservata nella collezione Nacci di Bitonto e trovata tra le rovine di un edificio trecentesco, nei pressi di S. Leucio Vecchio. In entrambi i casi si tratta di sculture di alta qualità; tuttavia l'ipotesi che siano frammenti di ritratti di Federico II, sistemati in edifici pubblici, si scontra con la constatazione che proprio l'insistito realismo, che mette in evidenza sul volto i segni dell'età matura, è in contrasto 'ideologico' con le soluzioni certe adottate nelle diverse emissioni degli augustali, nelle quali l'immagine dell'imperatore si presenta astrattamente giovanile, proprio perché destinata a interpretare il ruolo e non a rappresentare la persona. Per le stesse ragioni tipologiche, non può essere interpretata come un ritratto federiciano la testa laureata conservata al Museum of Fine Arts di Boston, tanto più che in essa i segni fisici del trascorrere del tempo si accompagnano a una secchezza dei tratti formali che la staccano decisamente dal gruppo in termini stilistici.

Né, su un altro versante, vi sono ragioni oggettive e concrete per riconoscere come ritratti di Federico II le statue equestri similari e contemporanee, in quanto risalenti entrambe al secondo quarto del XIII sec., note, dalle località in cui si trovano, come cavalieri di Bamberga e di Magdeburgo, conservate la prima nella cattedrale e la seconda un tempo sulla piazza dell'Alter Markt, dove è stata sostituita da una copia, e oggi nel Kulturhistorisches Museum della città. Tutto lascia pensare che la prima rappresenti o il re Stefano d'Ungheria, cognato dell'imperatore Enrico II, o lo stesso imperatore, fondatore della diocesi di Bamberga, entrambi canonizzati e dunque degni di essere annoverati tra i santi che decorano l'interno della cattedrale, e che la seconda, la quale fin dall'origine ha una destinazione civile, diversa da quella dell'altra, sia un ritratto ideale dell'imperatore Ottone I, fondatore a sua volta della diocesi di Magdeburgo. Ciò malgrado anche in questo caso, rifuggendo la concretezza delle prove, sono stati il mito del sovrano svevo e la coincidenza cronologica tra il suo regno e la creazione di quelle statue ad avere provveduto, in maniera del tutto acritica, a fornire argomenti all'identificazione, fino al punto da riconoscere improbabili legami di comunanza tra il volto del cavaliere di Bamberga e quello di Federico II, tramandato, in maniera del tutto indiretta, dalle testimonianze superstiti relative alla Porta di Capua.

In definitiva la ricerca di una tipologia di ritratto imperiale monumentale, dotato di termini iconografici ufficiali, ma improntato a un realismo intenso e vitale, suggerita come possibile dalle intenzioni riposte nella creazione degli augustali, alla prova dei fatti si è rivelata fallimentare. Al di là delle indicazioni fornite direttamente dalla monetazione, l'unico testo certo in tal senso è proprio la statua inserita all'interno della Porta di Capua (v. Capua, Porta di), per la quale vale la quasi contemporanea testimonianza di Andrea d'Ungheria (1882, p. 571): "ibique suam ymaginem in eternam et immortalem memoriam sculpi fecit". Dell'opera rimane oggi, al Museo Campano di Capua, solo il corpo, acefalo e privo di entrambe le braccia, per di più dopo essere stato segato verticalmente in due tronconi, operazione che ha fortemente inciso sulla qualità del panneggio. Della testa dell'imperatore si conserva nello stesso museo una riproduzione, nota come 'Gesso Solari' perché ricavata da un'operazione di calco eseguita prima che, nel 1799, durante l'occupazione francese del Regno di Napoli, la statua fosse decapitata. Nella qualità stilistica, la riproduzione ha sicuramente modernizzato l'opera medievale, dandole un'impronta vagamente napoleonica, tuttavia un disegno conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, nell'album di Séroux d'Agincourt, e realizzato prima della decapitazione della statua, prova, senza mezzi termini, la fedeltà iconografica del calco nei confronti dell'originale.

L'imperatore si presenta seduto in trono, vestito con un'alba, al di sopra della quale è disposta una dalmatica, dalle ampie maniche, lunga fino ai piedi e cinta in vita. Il tutto è coperto da una clamide allacciata sulla spalla destra, mentre sul capo è posta una corona, formata da un cerchio gemmato sul quale si innesta, in verticale, una sequenza di dentelli o raggi. Già nel disegno di Séroux d'Agincourt le braccia risultano troncate, per cui non si può dire nulla di certo su quali insegne reggessero. Che tale fosse la loro funzione è reso ovvio dal fatto che i due moncherini sono entrambi sollevati e sporti in avanti. In tal caso, senza entrare nel dettaglio, si può almeno affermare che l'iconografia scelta per la rappresentazione dell'imperatore era decisamente tradizionale, nel senso che si rifaceva a quella usualmente impiegata nei sigilli. Del resto, che ci si muovesse all'interno di un'intenzione fortemente simbolica lo prova, prima dell'incerto programma decorativo della Porta, la scelta di rappresentare l'imperatore di aspetto giovanile, a dispetto della sua età che era, in quel momento, tra i quaranta e i quarantacinque anni. Mentre nel caso della riproduzione in gesso si potrebbe anche pensare che questo aspetto dipendesse dalla modernizzazione stilistica, il disegno di Séroux d'Agincourt è venuto a confermare che si tratta invece di un vero e proprio dato iconogra-fico che stacca l'immagine dell'imperatore dalla realtà del presente, per trasferirla in una dimensione senza tempo, congeniale al presumibile carattere astratto e universalistico del programma decorativo.

Come nel caso dei suggerimenti ricavati dal tipo presente negli augustali, anche il 'Gesso Solari' ha contribuito a fare individuare pretesi ritratti di Federico II. Il caso più significativo è quello del busto coronato conservato a Milano, nella collezione Cariplo. Si tratta certamente di una scultura di buona levatura, dotata tuttavia, nel descrivere i tratti del volto, di una insistenza realistica che appare poco compatibile con le intenzioni stilistiche del Duecento meridionale. Ciò che ha indotto a collocarla in quell'ambito è stata l'analogia iconografica con il gesso capuano, dettata dalla corona dentellata, messa in rapporto a un volto glabro e giovanile, anche se il tipo della veste indossata, un corsetto attillato, esclude rapporti con le abitudini dell'età federiciana e fa pensare piuttosto al Quattrocento. Lo stesso vale per un busto in collezione privata genovese che, malgrado l'evidente impronta neoclassica, è stato paragonato da un lato agli augustali, per via della testa laureata, dall'altro al 'Gesso Solari', per via dell'aspetto giovanile, trovando così, in elementi del tutto esteriori, le ragioni per un'identificazione del personaggio rappresentato con Federico II.

Proprio il programma decorativo della Porta di Capua, malgrado la sua lacunosità, doveva rendere prudenti di fronte alla possibilità di dimostrare l'esistenza di un'iconografia federiciana che si avvicinasse al realismo ritrattistico. Le sculture significanti di cui si può riconoscere la presenza nel contesto, partendo dal disegno di Francesco di Giorgio Martini, sono i busti solitamente ritenuti di due giudici e quello della Giustizia, disposti nei tondi al di sopra dell'arco della Porta. Ammesso che l'identificazione del loro ruolo sia giusta, ma anche questo si potrebbe discutere, perché non vi sono prove sostanziali in tal senso, i due giudici si presentano con le teste cinte da corone di alloro e con le spalle coperte da una clamide, annodata al centro del petto. Essi sono prossimi al tipo imperiale degli augustali e questo porta a ritenere che, nel caso dell'iconografia di Federico II utilizzata per le monete, la scelta sia stata del tutto occasionale, legata, in maniera indissolubile, alla specifica ed evocativa ripresa antichizzante messa in opera all'atto della coniazione. Nel caso di un monumento solennemente didattico come la Porta di Capua, l'iconografia dell'imperatore ritornava a essere quella tradizionale, medievale, almeno per quanto riguarda gli attributi e gli aspetti simbolici di caratterizzazione del suo potere.

Doveva esistere una consuetudine abbastanza codificata nella scelta tipologica e organizzativa dei programmi decorativi e di conseguenza del modo di presentare la figura dell'imperatore al loro interno. Un sistema parallelo a quello attuato nella Porta di Capua si ripeteva nel portale di Castel del Monte (v.). È noto che esistono nel frontone del portale dei fori che permettono di ipotizzare che vi fossero fissati dei busti, secondo un andamento triangolare, tre in basso e un quarto in alto: in un certo senso la logica dispositiva e organizzativa è la stessa della Porta di Capua. Di questi busti uno, frammentario e acefalo, è stato trovato ed è conservato alla Pinacoteca Provinciale di Bari. Mostra il tipo della figura con tunica e clamide annodata sulla spalla destra, come i giudici o supposti tali di Capua. Ed è proprio dalle suggestioni desunte dalla presenza di questo particolare che si è ritenuto che anche le figure di contorno di Castel del Monte fossero giudici, senza tuttavia che vi siano elementi certi per affermarlo.

Lo stesso vale per la testa frammentaria trovata sempre a Castel del Monte e nota come 'frammento Molajoli' che, per dimensioni e materiale, non può essere unita al busto superstite. Questo però non esclude che possano provenire dallo stesso insieme decorativo, dunque dal portale. Già si è visto come non sia possibile dimostrare che il 'frammento Molajoli' provenga da un ritratto dell'imperatore. In ogni caso si tratta di una testa cinta di lauro che riprende in questo un dato iconografico presente nelle figure di contorno del programma decorativo della Porta di Capua. Lo stesso vale per il busto di Barletta che, se non può essere identificato con Federico II, in ogni caso proviene dal prospetto d'ingresso a una masseria, dove era accompagnato da altri due busti, di uno dei quali, di recente, è stato anche proposto il riconoscimento in una scultura in collezione privata. Al di là delle questioni specifiche, legate all'uso tematico degli imperatori antichi, quella collocazione moderna evoca analoghe soluzioni antiche, a conferma del possibile affermarsi, in età federiciana, di un programma decorativo specificamente destinato ai portali degli edifici imperiali, in cui la figura di Federico II era accompagnata da dignitari paludati, componendo, nell'insieme, una sorta di corte simbolica in cui all'imperatore era riservato il calibro della figura intera, seduta in trono e dotata di tutti gli attributi tradizionali, funzionali, per la mentalità medievale, a farne riconoscere il ruolo e a definirne il potere.

È a decorazioni complesse di questo tipo che si lega la raffigurazione contenuta all'esterno della spalletta della scala di accesso al pulpito della cattedrale di Bitonto, realizzato nel 1229. Malgrado i tanti tentativi fatti per riconoscere i personaggi rappresentati, fino al punto di ipotizzare che la figura seduta in trono possa essere una donna, vista un tempo come la Madonna nella scena dell'Adorazione dei Magi, più di recente come la personificazione della città, occorre convenire che la soluzione iconografica che la coinvolge punta a farla riconoscere come un sovrano. Le vesti che indossa sono maschili e la corona che le cinge il capo è dello stesso tipo dentellato di quella del 'Gesso Solari', mentre è sicuramente azzardato avventurarsi in un'interpretazione realistica delle sue forme e dedurre da questo che si tratti di una corona femminile, nel momento in cui ci si trova davanti all'opera di uno scultore assolutamente indifferente a qualunque tentativo di attribuire valore di oggettività a ciò che rappresenta. Semmai è determinante, nel processo d'identificazione, lo scettro gigliato che la figura regge nella mano sinistra e che ritorna nei sigilli come insegna del potere imperiale. Da questo punto di vista, l'interpretazione più ovvia è che si tratti di Federico II, rappresentato secondo una ragione iconografica non dissimile da quella in base alla quale doveva comparire, alcuni anni dopo, nella Porta di Capua. Né è detto che egli stia dando lo scettro al personaggio in piedi davanti a lui, per via della mano aperta che questi tende in avanti. È infatti più logico pensare che si tratti di un gesto di acclamazione nei confronti del sovrano seduto. Un po' avventurosamente si è preteso che il rilievo si adattasse ai temi contenuti in una predica pronunciata nel giugno del 1229, in occasione dell'ingresso a Bitonto di Federico II, e che rappresenti una sorta di Albero di Jesse secolare, in cui il sovrano seduto è il Barbarossa che passa lo scettro al figlio Enrico VI, seguito a sua volta da Federico II che è il personaggio coronato, in piedi, al centro, alle cui spalle si disporrebbe Corrado IV.

In realtà l'identificazione dei personaggi via via in piedi davanti al sovrano seduto paga lo scotto di una scarsa credibilità, nel momento in cui non è in grado di stare al passo con gli attributi di cui essi fanno mostra ed è costretta a ipotizzare che un imperatore come Enrico VI potesse essere rappresentato senza corona e in veste da cavaliere, con tunica, abito da viaggio e mantello. Molto più ragionevole dunque è pensare che la raffigurazione sia generica e che fornisca una testimonianza indiretta, l'unica concretamente superstite, di un programma decorativo usualmente destinato ai portali ma non solo, in cui l'imperatore in trono era circondato da membri della sua corte, simbolici sul piano delle istituzioni. Il fatto stesso che due di essi poggino su delle mensole sembra confermare che la composizione è stata realizzata partendo da un modello architettonico. Questo però non esclude la possibilità che un programma decorativo, dimostrativo delle origini dinastiche del potere del sovrano, parallelo e alternativo a questo, potesse organizzarsi come una sorta di albero genealogico figurato, fatto con i ritratti suo e dei suoi antenati normanni, a partire da Ruggero II e ivi compresa la madre Costanza, come egli aveva fatto realizzare nella cattedrale di Cefalù, verosimilmente in pittura, senza tuttavia che si possa giudicare se si trattasse di una sequenza di pannelli separati o di una scena unica.

La costante della presenza delle insegne del potere, attributi atti ad assicurare una immediata riconoscibilità alla figura dell'imperatore, sembra essere stata il tratto principale e distintivo della sua iconografia pubblica, indipendentemente dalle ragioni ritrattistiche di verosimiglianza. È proprio la frontalità cerimoniale della scena, unita al ruolo centrale svolto dalla corona, a rendere ragionevole il riconoscere in Federico II il sovrano, giovane di aspetto e incoronato da vittorie alate, raffigurato in due cammei della Staatliche Münzsammlung di Monaco e del Museo del Louvre di Parigi. Tuttavia l'episodio appare eccezionale e legato allo spirito antichizzante che ha animato la creazione degli augustali, perché, nello stesso genere dei cammei prodotti per la corte imperiale, doveva esistere una tradizione più conforme alle regole usuali. Testimone di tale stato di cose è la sardonica a due strati utilizzata, insieme ad altri otto cammei di diversa epoca, come gemma per la decorazione del recto della croce-reliquiario donata dall'imperatore Carlo IV alla cattedrale di Praga nel 1354, dove è posta alla base del braccio verticale. Riconosciuta come raffigurazione dell'imperatore Federico II e datata intorno al 1220, l'immagine lo propone secondo l'iconografia consueta nei sigilli, che è poi quella che è possibile riconoscere anche nella Porta di Capua e nella statuetta che lo rappresenta inserita nella contemporanea cassa, detta di Carlomagno, conservata nella cattedrale di Aquisgrana, dove è accompagnata dalla didascalia "Fredericus Rex Rom(anorum) [et] Sicil(iae)". Seduto su un trono a cassa dotato di dossale, l'imperatore indossa un'alba e una dalmatica, stretta in vita da una cintura, e ha sulle spalle un manto allacciato con una fibula sul davanti, al centro del petto, e con un lembo voltato all'indietro sulla spalla destra, mentre l'altro scende a coprire il braccio sinistro. A livello tipologico, l'abbigliamento riproduce in maniera puntuale le vesti del corredo imperiale normanno-svevo conservate nella Schatzkammer di Vienna, dunque è, in termini simbolici, una rappresentazione oggettiva, più che realistica, dell'imperatore nella pompa delle sue insegne ed è lo stesso tipo di corredo con cui Federico II sarebbe stato sepolto nella cattedrale palermitana. Lo conferma la presenza nella mano sinistra del globo sormontato dalla croce e nella destra dello scettro, dalla forma di croce astile, mentre sul capo è posta una corona fogliata.

La soluzione iconografica è già utilizzata nei sigilli anteriori all'elezione imperiale, quando Federico II compare ancora, sulla base della leggenda, come re di Sicilia, duca di Puglia e principe di Capua, continuatore dunque della dinastia normanna, e questo spiega la presenza di quel tipo di vesti che poi sarebbero confluite, attraverso l'eredità sveva, nel novero delle insegne del Sacro Romano Impero. L'unica sostanziale variante, rispetto a ciò che verrà rappresentato dopo l'incoronazione imperiale, è fornita dallo scettro che ha la forma di un'asta sulla cui terminazione, al di sopra di un nodo, si innesta una piccola tabella rettangolare. È verosimile ritenere che tale insegna facesse realmente parte del corredo dei re normanni di Sicilia, in considerazione del fatto che essa non compare più nei sigilli successivi all'elezione a re di Germania, quando lo scettro si trasforma nella verga fiorita, sormontata dalla croce che, a sua volta, doveva fare parte dei simboli del potere del Sacro Romano Impero, visto che è tra le insegne consegnate da papa Celestino III a Enrico VI, all'atto della consacrazione imperiale illustrata nel Liber ad honorem Augusti.

Un'altra insegna che muta nel corso del tempo è la corona (v. Corone). A lungo essa rimane del tipo, di estrazione siciliana, alto e fiorito, con pendilia ai lati, lo stesso che indossano Guglielmo II nei pannelli musivi della cattedrale di Monreale ed Enrico VI in molte scene del Liber ad honorem Augusti. Il tipo della corona "aperta, i cui raggi di sottilissime laminette di argento dorato son ornati di picciole perle e di pietre" (Daniele, 1784, p. 106), con la quale Federico II fu sepolto nella tomba in porfido conservata nella cattedrale di Palermo, fa la sua comparsa solo negli anni Trenta. È verosimile pensare che il cambiamento fosse avvenuto in concomitanza con la creazione della Porta di Capua, dove una corona di quel tipo era già presente nella statua dell'imperatore. A determinare il cambiamento dovette essere una scelta precisa, di ordine simbolico, la cui natura può essere rintracciata proprio negli augustali, perché ne registrano in modo significativo la presenza. Mentre la quasi totalità delle emissioni si mantiene fedele al tipo con la testa laureata, in una tarda, tanto da avere fatto pensare che sia stata addirittura realizzata dopo la scomparsa di Federico II, si intromette una variante che propone il busto dell'imperatore, visto sempre di profilo, ma con in capo la nuova insegna. L'emissione reca un particolare significativo: la sequenza delle punte è intervallata da una croce che è sistemata di lato rispetto al capo, perché non sarebbe stato possibile darne il senso della presenza, se fosse stata posta in corrispondenza del centro della fronte, come si sarebbe dovuto fare. Il particolare è stato studiato con troppa evidenza per pensare che sia casuale, dunque dev'essere stato effettivamente insito in quel nuovo tipo di corona, con compiti di simbolica sacralizzazione del potere dell'imperatore.

Al di là di queste varianti marginali, i sigilli fissano quella che appare essere stata l'iconografia ufficiale di Federico II, basata su termini tradizionali nella definizione della figura dell'imperatore, ma proprio per questo necessaria, sul piano della comunicazione politica, al punto da essere ripresa anche in un monumento innovativo come la Porta di Capua. La canonicità del tipo arriva a condizionare anche la rappresentazione contenuta nel De arte venandi cum avibus, malgrado il carattere privato dell'opera. Nel senso che la posa rigidamente frontale e ieratica, il trono e gli abiti indossati sono quelli ufficiali, che compaiono anche nel sottostante ritratto di Manfredi, ormai incoronato re di Sicilia al momento della realizzazione del codice, soggetto dunque allo stesso processo di resa tipologica, strettamente impostata sulle soluzioni presenti nei sigilli. L'unica marginale variante rispetto a quel tipo è rappresentata dall'insegna retta nella mano destra dall'imperatore, una sorta di elemento vegetale fortemente stilizzato. Eppure anche in questo caso non si tratta di una presenza casuale, perché l'insegna ricorda la foglia di palma che compare, in diverse occasioni, nel Liber ad honorem Augusti, nelle mani di Ruggero II e di Enrico VI, in situazioni in cui sono rappresentate scene di incontro durante un viaggio, ma non solo, perché Enrico VI la impugna, seduto in trono, al momento della liberazione di Riccardo Cuor di Leone, dunque è verosimile che abbia un carattere beneaugurante, piuttosto che costituire un simbolo di potere.

Stando ai termini sicuri sulla questione, recuperabili attraverso le testimonianze antiche, l'iconografia ufficiale per la raffigurazione dell'imperatore Federico II era improntata, in modo molto tradizionale, a ragioni rappresentative del potere in chiave squisitamente medievale, tanto da fare ricorso a canoni astratti, come la frontalità, anche in presenza di novità stilistiche decisamente orientate verso un ritrovato realismo, sia pure di marca antichizzante. Ancora una volta questo deve rendere estremamente prudenti nel riconoscere come rappresentazioni dell'imperatore immagini che fanno ricorso solo in termini parziali ai dati iconografici e simbolici contenuti nei ritratti ufficiali certi. Il fatto di poter affermare che il tenere in mano un elemento vegetale rientra nella casistica iconografica dei re di Sicilia, non rende verosimile pensare, sulla base di una pretesa analogia con il ritratto del De arte venandi cum avibus, che sia Federico II il sovrano coronato che si rivolge a una regina, offrendole un fiore, in un affresco duecentesco, con la rappresentazione di una scena cortese, trovato di recente in Palazzo Finco a Bassano del Grappa. Il clima iconografico amabilmente descrittivo, del tutto generico anche nel tono rappresentativo, si sostanzia assai bene nel carattere naturalistico del fiore. Soprattutto ciò che fa l'inevitabile differenza è il corredo degli abiti che in nulla richiamano la rigida casistica dell'iconografia imperiale. Le stesse considerazioni valgono per la scena dipinta nel palazzo abbaziale di S. Zeno a Verona, nella quale si è voluta vedere una rappresentazione dell'omaggio dei popoli della terra a Federico II. L'atto del regnante, di volgersi leggermente di lato per salutare con il braccio alzato il lungo corteo che avanza da destra, contraddice alla regola della frontalità maiestatica che, nella Porta di Capua e nel De arte venandi cum avibus, appare come un fattore da rispettare rigorosamente. Piuttosto fa pensare a una generica rappresentazione moraleggiante, come ribadisce la presenza della Ruota della Fortuna, del tutto disdicevole in un ritratto imperiale nel momento in cui, come invece accade nel Liber ad honorem Augusti, non si provveda a identificare in chi sta precipitando giù da essa un nemico del sovrano.

Più complessa è invece la questione relativa al ritratto di regnante contenuto nella scena con la rappresentazione delle autorità temporali nell'Exultet conservato presso il Museo Diocesano di Salerno. In questo caso occorre avanzare la considerazione cautelativa che, dal punto di vista del corredo, con l'esclusione del loros, il sovrano rappresentato si adegua alle modalità dei ritratti dei re normanni di Sicilia, con alba e dalmatica dello stesso tipo di quelle indossate da Federico II nel De arte venandi cum avibus, con ampio gallone applicato sul davanti, mentre manca la clamide che, già nel Liber ad honorem Augusti, appare come un attributo essenziale per rappresentare l'imperatore Enrico VI. In tal caso, o si anticipa l'esecuzione del rotulo a un momento anteriore all'incoronazione imperiale di Federico II, nel 1220, e allora l'immagine può anche rappresentarlo, sia pure in contraddizione con quanto espresso dai sigilli, dove la clamide appare, già da tempo, un attributo essenziale, oppure, dopo quella data, la soluzione iconografica scelta appare del tutto inadeguata. Si dovrà allora concludere che, in quella occasione, ci si rifece genericamente al modello fornito da un'immagine del periodo dei re normanni, senza alcuna pretesa di rappresentare direttamente il sovrano regnante: se così non fosse stato, i suggerimenti che sarebbero venuti sarebbero stati completamente diversi. Perché se a una conclusione si può arrivare oggi, sulla questione dell'iconografia di Federico II, è che essa si radicava saldamente nella ragione storica del momento e manteneva un convinto legame con la tradizione simbolica delle rappresentazioni medievali del potere che l'imperatore non fu in grado o non volle abbandonare.

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