Idee, riti, simboli del potere

Storia di Venezia (1995)

Idee, riti, simboli del potere

Edward Muir

L'idea della città

Oltre ad essere un raggruppamento di edifici, strade, piazze, monumenti e istituzioni, una città è un'idea. Trasformando gli spazi fisici in luoghi identificati da nomi, creando un ordine semantico sulla superficie urbana, i cittadini costruiscono la propria città con le parole come con i mattoni (1). Queste piccole aree rionali, ciascuna con il proprio nome, formano identità parrocchiali e, collettivamente, identità civiche, e coloro che nella città tentano di esercitare il potere politico devono trovare modi per legarli alla propria autorità, per incorporare quartieri e parrocchie autonome in una gerarchia di luoghi subordinati a un centro civico. Questo fu il compito che i dogi e il comune di Venezia affrontarono nel corso del tardo secolo XII e del XIII, epoca in cui riuscirono a trasformare un raggruppamento di enclavi rionali dominate da facoltosi maggiorenti in quella che fu, sotto tutti i punti di vista, la città-stato più centralizzata d'Italia e forse d'Europa. Sia per i Veneziani che per gli stranieri l'idea di Venezia prese vita mediante un impiego deliberato e straordinariamente efficace di simboli e rituali dell'autorità politica e religiosa.

Nell'inventare una rappresentazione simbolica di Venezia i governanti della città dovettero tenere presenti parecchi elementi strutturali, molto più importanti per la vita urbana degli epifenomeni costituiti dalle istituzioni politiche. Tali elementi comprendevano l'ecologia della laguna, la morfologia delle isole, le restrizioni climatiche alla navigazione marittima, le forme architettoniche, la distribuzione della popolazione e la disposizione dei luoghi e degli edifici sacri. Per esempio, durante la prima metà del secolo XII diversi fattori indipendenti minacciarono i lidi protettivi della laguna, alterarono i corsi d'acqua e i canali all'interno della laguna e inondarono isole abitate. Le invasioni d'acqua di mare dall'Adriatico portarono, verso il 1108, alla perdita della vecchia Metamauco; i mutamenti del corso del Piave lasciarono Cittanova senza accesso al mare e le deviazioni del Brenta effettuate dai Padovani costrinsero i Veneziani alla guerra in difesa dell'integrità della laguna nel 1110 e nel 1143. La conseguente instabilità ecologica alterò il rapporto tra acqua e terra e condusse alla richiesta di lavori per i quali occorrevano un'organizzazione su larga scala, coordinazione e massicci investimenti di capitale. Abili a trarre il massimo vantaggio dalla situazione, le grandi famiglie di mercanti sfruttarono più efficacemente la laguna e, per proteggere i propri investimenti, crearono istituzioni politiche tipiche dei comuni allora emergenti sulla terraferma (2). Uno dei compiti del comune veneziano fu di assumere il controllo dei campi e dei rii da cui era composta la città in sviluppo, risultato conseguito in larga parte mediante il graduale abbandono dei quartieri quali fulcri del potere politico e dell'influenza sociale e la loro sostituzione con il complesso politico-religioso centrale di palazzo Ducale e della basilica di San Marco. La formazione di una coscienza civile si determinò su parecchi fronti, ma nessuno fu più decisivo del declino delle parrocchie.

Pare che prima del secolo XII ogni parrocchia costituisse una comunità insulare distinta, separata dalle parrocchie vicine da canali, acquitrini o piscine, e che i Veneziani comunicassero quasi esclusivamente con le barche, dato che i ponti erano pochi o mancavano del tutto. Una potente famiglia rivestiva il ruolo di patrona della comunità insulare ed esercitava lo ius patronatus sulla chiesa parrocchiale. Nel secolo XII l'isolamento delle parrocchie venne ridotto con l'interramento di canali e la costruzione di ponti per agevolare il commercio. Mentre cambiava la morfologia della città cambiò anche la sua struttura sociale e simbolica. Le grandi famiglie di maggiorenti persero influenza nelle parrocchie e i loro membri iniziarono a disperdersi nella città, rendendo impossibile il mantenimento del vecchio sistema di relazioni patrono-cliente con i suoi legami di dipendenza politica ed economica. Nel secolo XIII il patrizio Ermolao Zusto risiedeva in cinque case differenti di quattro diverse parrocchie, i suoi figli aggiunsero altre cinque parrocchie alla lista e altri membri del ramo della famiglia vivevano in altre nove parrocchie. Persino nella scelta del luogo di sepoltura soltanto alcuni sceglievano di essere sepolti insieme ai propri consanguinei - e la chiesa parrocchiale non era indubbiamente l'ubicazione universalmente preferita per le tombe di famiglia. Quanto alla disposizione delle abitazioni, le famiglie del popolo minuto risultavano ugualmente disperse per la città. Al contrario dei patrizi genovesi, fiorentini e di altre città, quelli veneziani smisero nel secolo XIII di mobilitare nella parrocchia o nel quartiere le proprie consorterie di armati come strumento di influenza politica, confidando più sulla detenzione delle cariche, e sulla possibilità di procurarsi le "grazie" (remissioni e favori) patrocinate dal governo, che sulla disponibilità dei loro clienti. Con il declino del carattere semifeudale delle parrocchie si affermò un sistema amministrativo di contrade e sestieri che trasferì a burocrati senza importanza o a funzionari eletti, ma secondari, la composizione delle dispute locali sulla proprietà, la manutenzione dei ponti e delle strade, la raccolta dei prestiti governativi e la polizia locale. Le famiglie importanti si dedicarono al commercio internazionale e a una più ampia politica cittadina (3). Il nuovo ordine simbolico e rituale che si sviluppò dopo gli anni 1170-1180 fu una risposta a queste trasformazioni sociali. Molto meno dominate dalle fazioni rispetto alle città della terraferma e meno rigidamente divise in classi di quanto sarebbero diventate più tardi, le reti sociali veneziane interagirono l'una con l'altra e rimasero relativamente flessibili. Tale flessibilità, tuttavia, dette origine a un dilemma. Come poteva la città riconciliare la mobilità sociale e geografica prodotta dalla sua energica economia commerciale con il bisogno di unità? Il rituale e il simbolismo avrebbero fornito la risposta, ma, almeno nel corso del secolo XIII, avrebbero continuato ad esistere parecchi modelli di rappresentazione simbolica distinti e in concorrenza tra loro. Le tradizionali famiglie di maggiorenti espressero il proprio dominio sullo spazio favorendo l'incremento di abitazioni, negozi, magazzini e piccole industrie intorno ai loro cortili, quantificabili in numero non minore di trecentoquaranta. Verso la fine del secolo XIII le famiglie dogali cercarono di cooptare questo simbolo del privilegio dei maggiorenti offrendo alla dogaressa l'omaggio delle varie corporazioni di mestiere nel cortile della sua residenza (4). Si trattava di un simbolismo spaziale semplice, condiviso da molti comuni italiani che si affermarono aprendo una grande piazza pubblica al centro della città.

Il contrasto tra diversificazione urbana e unità centrale aveva anche una dimensione religiosa. La pubblica venerazione dei santi non si svolgeva solo nelle chiese parrocchiali, ma anche fuori, all'aperto, nelle corti, nelle calli e nei campi di Venezia, dove erano stati eretti numerosissimi capitelli. Non sappiamo quando i capitelli comparvero a Venezia, ma la loro presenza è probabilmente molto antica, derivata dalla pratica precristiana di erigere altari all'aperto, come accadeva, per esempio, nelle strade delle città romane (5). Incoraggiando le devozioni nel quartiere e la lealtà ad esso, i capitelli originavano una forza centrifuga che resisteva alla centralizzazione simbolica della città. Non ci è del tutto chiaro in che modo la disintegrazione simbolica della città sia stata evitata: da un lato infatti l'incremento delle abitudini religiose, incoraggiato dai capitelli, promosse un generale rispetto nei confronti dell'autorità, ma dall'altro la molteplicità di immagini devozionali avrebbe potuto dividere la lealtà dei cittadini. Quello che pare sia accaduto, anche se molte altre ricerche sarebbero necessarie a conferma di tale ipotesi, è che dal momento in cui i maschi del patriziato presero ad occuparsi sempre più del commercio internazionale e della politica cittadina, la famiglia e i luoghi sacri del quartiere assunsero un ruolo di tutela delle fasce socialmente marginali e in particolare delle donne. Per proteggerle dalle violenze sessuali e verbali, le donne di pari ceto vennero confinate nell'ambito parrocchiale, situazione che intensificò la loro identificazione con la vita spirituale della parrocchia e le unì in una rete di conoscenze e amicizie rionali (6). Può darsi che quando le parrocchie persero importanza per gli uomini, abbiano assunto maggiore significato per le donne, diventando ciò che maggiormente le proteggeva. Così la centralizzazione simbolica di Venezia intorno al culto di san Marco e alla vita cerimoniale del doge non dipese dalla distruzione degli altri centri di lealtà e identità, ma dalla loro marginalizzazione sociale. Venezia evitò così l'evoluzione policentrica di Firenze e Genova e, di conseguenza, un Cosimo de' Medici veneziano o un Andrea Doria veneziano.

Nel secolo IX la scelta del luogo per l'edificazione di un santuario dedicato a san Marco aveva creato un punto fisso attorno al quale vennero situati altri edifici e altre funzioni cerimoniali; nel secolo XII vi si sarebbe insediato il comune veneziano, nuova entità legale che incorporò il culto di san Marco e la carica di doge, già esistenti. A differenza della maggior parte dei comuni della terraferma, il comune veneziano fu inclusivo anziché esclusivo, nel senso che le istituzioni vennero trasformate invece di essere abolite. Il trionfo del comune fu il segnale degli inizi della centralizzazione politica e simbolica della città.

L'evoluzione rituale del secolo XII

Come accadeva ovunque nella cristianità, la vita rituale di Venezia era strutturata intorno al calendario liturgico della Chiesa. Venezia, tuttavia, aveva la sua peculiare versione della liturgia, il patriarchino, che si distingue in primo luogo dal rito gregoriano per il ruolo speciale conferito al doge, che aveva anche la responsabilità di designare i preti officianti. Il patriarchino diventò un rito di Stato officiato nella cappella privata dei dogi: la basilica di San Marco (7).

Nella scelta dei santi ai quali accordare speciale venerazione, il calendario liturgico rifletteva i bisogni più vitali della comunità. L'espansione commerciale di Venezia e il coinvolgimento nelle Crociate portarono alla città le reliquie di tre santi - Teodoro, Giorgio e Nicola - che ne proteggevano gli interessi commerciali e le ambizioni coloniali. Il culto di san Teodoro era stato in origine incoraggiato come segno dell'assoggettamento della città a Bisanzio e, quando nel secolo IX fu soppiantato da san Marco, il suo declino corse parallelo a quello della dominazione bizantina. La prima Crociata, tuttavia, fruttò i resti di san Teodoro di Amasea, il cui culto venne in seguito fuso nell'agiografia veneziana con quello di san Teodoro di Eraclea, e il fatto di possedere reliquie di valore incoraggiò un risveglio di devozione per un ibrido Teodoro che condivideva gli attributi di entrambi i santi. L'identità iconografica guerriera di Teodoro ne fece un aiutante allettante per Marco, che era stato uomo di libro anziché di spada. Il culto di san Giorgio, anch'esso di origine bizantina, era stato usato dai dogi della stirpe dei Partecipazio come simbolo della loro fedeltà filobizantina, ma il suo fulgore simbolico si espresse solo nei secoli XI e XII nel ruolo di compagno d'armi di Teodoro. I mosaici di San Marco lo ritraggono tre volte al fianco di Teodoro e una volta come soldato solitario; dopo la quarta Crociata un suo rilievo venne affisso sulla facciata di San Marco e la reliquia del suo braccio depositata nel tesoro (8).

Il favore a cui assurse san Nicola fu una conseguenza della concorrenza commerciale tra Bari e Venezia per il controllo del trasporto e della commercializzazione del grano apulo. Nel 1116 i Veneziani fecero una sortita contro Myra e affermarono di avervi trovato le vere reliquie di san Nicola, di cui, dissero, i marinai di Bari non si erano avveduti nella spedizione del 1087. Nicola diventò uno dei patroni preferiti di Venezia: la sua immagine comparve sette volte nei mosaici di San Marco e il santo fu glorificato nelle cerimonie dogali. Come patrono dei marinai Nicola giustificava i tentativi veneziani di monopolizzare le rotte marittime dell'Adriatico e, sebbene le reliquie a Bari attirassero un numero maggiore di pellegrini, i Veneziani dimostrarono la devozione a quelle in loro possesso collocandole in San Nicolò al Lido, dove i marinai si fermavano a pregare prima di lasciare la laguna per i viaggi sulle navi. Accesso al mare di Venezia, San Nicolò al Lido era stata, a partire dal secolo XI, la località dove si svolgeva la quintessenza del rituale veneziano: l'annuale benedictio primaverile di propiziazione del mare all'apertura della stagione della navigazione (9). Quando tale rito si trasformò nella spettacolare festa dello sposalizio del mare, celebrata il giorno dell'Ascensione, nella cerimonia fu mantenuto il pellegrinaggio a San Nicolò. Fino al 1172 San Nicolò fu anche il luogo in cui venivano pubblicamente acclamati i nuovi dogi e persino in seguito, quando questa funzione venne trasferita al germogliante centro politico di San Marco, esso rimase un'importante sede rituale per gli affari marittimi veneziani. Malgrado la destituzione del monastero di San Nicolò al Lido da centro principale del rituale politico veneziano, san Nicola conservò la posizione di grande protettore e il doge Pietro Ziani gli dedicò una cappella in palazzo Ducale inaugurandovi una cerimonia annuale (10).

La celebrazione delle feste collegate all'evangelista Marco, tuttavia, fece del suo culto il fulcro della vita rituale veneziana e diede a Venezia un magnifico patrono che custodiva l'indipendenza politica della città dagli eredi medievali dell'Impero romano, sia nella versione bizantina che in quella tedesca, e la sua autonomia ecclesiastica dai papi riformisti dei secoli XI e XII. Verso la fine del secolo XI il culto di san Marco si era saldamente affermato come espressione del privilegio veneziano (11). Benché in origine fosse il segno dell'autonomia veneziana dai poteri imperiali, la venerazione di san Marco fu imposta dagli stessi Veneziani alle genti che dominavano. Pietro Ziani costrinse gli abitanti di Creta a cantare laudi al doge veneziano ogni anno per Natale, Pasqua, la festa del patrono e apostolo di Creta san Tito e per la festa di san Marco. L'inserimento, nel 1211, della festa di san Marco nel calendario liturgico cretese fa pensare a un certo imperialismo spirituale, visto che presso quelle popolazioni non era mai stato venerato in precedenza (12).

Santi e dogi produssero una formidabile combinazione, e agli alleati e alle popolazioni soggette Venezia richiese di "facere fidelitatem sancto Marco et duci Venetiarum" (13). Quando il comune prese il sopravvento, il culto di san Marco arrivò a sostituire, in quel processo graduale e non rivoluzionario iniziato non più tardi del 1032 e teso a circoscrivere i poteri del doge, la devozione personale al doge in quanto principe. A differenza dei comuni della terraferma, che deposero vescovi o signori feudali, Venezia mantenne la carica del doge, mentre vennero progressivamente ridotti i poteri dei suoi titolari. Verso la metà del secolo XII i membri della corte dogale non prestavano più servizio come seguito del doge bensì in qualità di funzionari del comune. Per i dogi fu più difficile agire da signori o ammettere apertamente le ambizioni dinastiche; non furono più dipinti come sovrani elevati al trono ma come i primi fra i tanti Veneziani devoti a san Marco.

I dogi Michiel furono gli ultimi principi tradizionali di carattere quasi dinastico. Fino al 1172, anno dell'assassinio di Vitale II, la stirpe dei Michiel aveva occupato il trono dogale per sessantadue anni su settantasei. Vitale considerava il dogato come una monarchia personale e trovava motivo di discussione con i propri consiglieri sulle faccende che riguardavano la promozione delle carriere dei suoi figli e nipoti. La maniera tributaria, quasi feudale, con cui manifestò la vittoria sul patriarca di Aquileia è forse molto rivelatrice. Quando l'imperatore Federico Barbarossa tentò di ristabilire il controllo imperiale sull'Italia settentrionale faceva parecchio affidamento sul cognato, il patriarca di Aquileia Ulrico II. Barbarossa e Ulrico si incontrarono a Bologna nel 1162 e, subito dopo, Ulrico sferrò un attacco navale alla fortezza insulare del patriarca di Grado, rivale perpetua di Aquileia e protettorato veneziano. Sotto la guida del doge Vitale i Veneziani contrattaccarono e riuscirono a catturare Ulrico insieme a dodici canonici della sua corte e centinaia di soldati, compresa la maggior parte dei grandi castellani del Friuli. Rinchiusi a Venezia, gli eminenti prigionieri ottennero il rilascio convenendo di accettare l'egemonia marittima di Venezia e di fornire, "in ricordo di quanto era accaduto", un tributo annuale che consisteva in dodici maiali grassi e dodici pani grandi. I dogi successivi disposero che i maiali e un toro venissero macellati davanti al popolo nell'anniversario della disfatta per commemorare l'umiliazione dei canonici e del patriarca (14). I pagamenti tributari erano in effetti un segno della relazione feudale tra signore e vassallo, segno forse appropriato per un doge principesco, ma il loro carattere gerarchico costituiva un pericolo per il comune repubblicano.

La caduta di Vitale II Michiel condusse a mutamenti definitivi nel rapporto tra doge e comune. Nel 1172 Vitale ritornò da una disastrosa spedizione a Bisanzio che non era riuscita a contenere l'assalto sferrato dall'imperatore Manuele Comneno agli interessi veneziani. Privo persino dell'appoggio dei suoi consiglieri, Vitale tentò di giustificare la disfatta davanti a un'assemblea generale, ma si trovò di fronte un'implacabile ostilità. Costretto a cercare salvezza nella chiesa di San Zaccaria, Vitale fu assassinato dalla folla nel vano della porta del monastero. Il suo successore fu un doge di genere nuovo. Il "padrone tra i padroni" Sebastiano Ziani aveva una formazione di giurista, fu eletto da giuristi e molti dei suoi successori furono giuristi. Costoro diedero inizio ad una trasformazione di vasta portata dell'ufficio dogale, in cui il doge rappresentava il comune veneziano ma non ne era il signore. Gli Ziani erano una delle famiglie affermate che avevano raggiunto la ricchezza con l'espansione dell'economia commerciale, ma che avevano una mentalità del tutto diversa dalle antiche famiglie di giudici dalle quali si erano generate le dinastie dogali. Non godendo del loro medesimo prestigio aristocratico, le nuove famiglie avevano bisogno di una diversa fonte di autorità: la trovarono nel contemporaneo rifiorire del diritto romano. A emulazione dei papi giuristi, che per rafforzare la monarchia papale si erano serviti del diritto romano, Sebastiano Ziani e i suoi successori usarono, per rappresentare il potere dogale, un corpo di idee e simboli molto più ricchi e sofisticati di quelli adottati dai dogi precedenti. La loro opera coinvolse anche Venezia nell'epica lotta tra l'imperatore e il papa per l'eredità di Roma (15).

L'elezione di Ziani fu il segnale del consolidamento del potere nelle mani di nuove famiglie facoltose che agivano non solo contro le dinastie, come quella dei Michiel, ma anche contro qualsiasi effettivo esercizio del potere da parte del popolo. Adesso il popolo semplicemente ratificava la decisione degli elettori dogali e Sebastiano simbolizzava il mutato stato di cose distribuendo denaro alla folla dopo la sua elezione. Egli si adoperò instancabilmente per migliorare l'immagine della Repubblica: costruì il primo ponte sul Canal Grande a Rialto, fissò l'ubicazione del futuro Arsenale, fece dono del terreno che raddoppiò la grandezza di piazza San Marco, costruì il palazzo di giustizia e quello del comune nello stesso luogo dell'attuale palazzo Ducale e innalzò le due colonne sul Molo che delimitavano l'ingresso cerimoniale nel centro politico-religioso di San Marco. La sua reputazione fu persino superiore alle sue imprese effettive, e a lui venne più tardi attribuita l'acquisizione dei più potenti simboli dell'autorità e dell'indipendenza di Venezia: i famosi doni di papa Alessandro III.

Papa Alessandro III (1159-1181), un tempo professore di diritto a Bologna e autore del primo commentario sul Decretum di Graziano, fu uno dei principali artefici della teoria della monarchia papale. Il suo pontificato, tuttavia, fu segnato dalla lotta pressoché continua con l'imperatore Federico I Barbarossa, che insediò il proprio candidato sul trono papale e costrinse Alessandro a vagare per anni in Francia e a sud di Roma. Barbarossa venne infine fermato dalla Lega Lombarda nella battaglia di Legnano del 1176 e, dopo lunghi e delicati negoziati, l'anno seguente Barbarossa e Alessandro si incontrarono a Venezia per firmare il trattato di pace. Sebbene nel 1162 Venezia avesse combattuto contro Barbarossa, nel corso del conflitto che condusse a Legnano era rimasta neutrale e così venne scelta come sede per la pace. Il doge Ziani fece da mediatore durante i colloqui di pace, ospitò il papa profugo e gli fornì le galee per il ritorno a Roma dopo la firma del trattato, ma dal punto di vista militare si adoperò poco per difenderlo. Ciò nonostante Alessandro offrì a Ziani una rosa d'oro "come pegno del favore della sede apostolica nei suoi confronti" (16).

Ziani ottenne anche dal papa il trasferimento al patriarca di Grado della giurisdizione ecclesiastica sulla Dalmazia e da Barbarossa l'esenzione totale dalle imposte imperiali.

Benché la loro interpretazione pseudostorica come doni del papa Alessandro III non sia stata pienamente esplicitata fino al secolo XIV, la maggior parte dei "trionfi" dogali era già stata impiegata dai dogi di Venezia prima degli anni 1170-1180, e il resto venne posto in uso durante il secolo XIII. Dei trionfi facevano parte il diritto a usare sigilli di piombo sui documenti ufficiali e i simboli esibiti nelle cerimonie: il cero bianco, la spada, l'ombrello, otto vessilli, le trombe d'argento e l'anello d'oro utilizzato per lo sposalizio del mare. I trionfi vennero intesi in maniera legalistica, vale a dire in conformità al legalismo curiale del pontificato di Alessandro e alla contemporanea tendenza veneziana all'imposizione di trattati che legittimassero il dominio sull'Adriatico. Negli anni successivi, tuttavia, i Veneziani trasformarono il modesto ruolo diplomatico di Ziani in un epico mito del valore navale veneziano impiegato a difesa del papa, e ricompensato con molti doni di valore che dimostravano il riconoscimento di Alessandro del pio servizio reso al papato da Venezia e l'indipendenza dall'autorità imperiale.

L'uso di sigilli di piombo sui documenti ufficiali distingueva Venezia dagli altri comuni italiani. Il piombo, segno di sovranità, era un materiale consentito solo a papi, imperatori di Bisanzio, duchi e re normanni. I comuni, che erano solo delle corporazioni, riconoscevano, almeno in teoria, qualche superiore autorità feudale, papale o imperiale, e potevano impiegare soltanto i meno prestigiosi sigilli di cera-lacca. A Venezia i primi sigilli di piombo risalgono al tempo del doge Pietro Polani (1130-1148) e sono quindi precedenti a Sebastiano Ziani; il prestigio che conferirono a Venezia fu invidiato dalle altre Repubbliche. Durante il secolo XV Firenze chiese all'antipapa Alessandro V che le venisse accordato analogo diritto a impiegare sigilli di piombo (17).

I veri trionfi avevano una storia e un significato completamente indipendente dalla loro fama di doni di Alessandro III. Tra gli anni 1170-1180 e il primo Trecento si sviluppò un'interpretazione collettiva del loro significato che proclamava la pietà religiosa del doge, la devozione alla vera fede e l'immunità dalla giurisdizione imperiale. Nelle processioni religiose da molto tempo veniva portato un cero davanti a papi e vescovi come simbolo di rispetto, e un ceroferario precedeva anche gli imperatori bizantini in occasione di un trionfo o dell'ingresso formale in una città (18). Nei rituali dogali veneziani, tuttavia, il cero fu originariamente imposto come segno di penitenza dopo che il doge Ziani, per allargare piazza San Marco, aveva fatto smantellare senza il permesso papale la cappella di San Geminiano, e solo in seguito venne trasmutato in un'insegna di privilegio piuttosto diversa che rappresentava il doge come protettore speciale della vera fede (19). La spada, dato che era stata impiegata dal dux almeno sino dalla fine del secolo IX, era il più antico dei trionfi specificamente dogali e divenne simbolo di giustizia (20). Probabilmente l'ombrello comparve a Venezia durante il tardo secolo XII, poiché in quel periodo era diventato di moda nella corte inglese e in quella spagnola, ma la prima menzione specifica si trova nella cronaca del 1275 di Martin da Canal, che lo definisce dono di papa Alessandro III e ne attribuisce l'acquisizione da parte del doge di Venezia all'umiliazione di Barbarossa e alla limitazione della signoria imperiale (21). Mutuate dalle insegne regie esibite all'avvento al trono dei re franchi e degli imperatori tedeschi, le trombe d'argento erano semplicemente uno degli elementi che qualsiasi principe ostentava per indicare il proprio rango. I vessilli avevano un significato più complesso e specificamente veneziano: impiegati per la prima volta all'inizio dell'espansione imperialista di Venezia, quando il doge Pietro II Orseolo intraprese la campagna in Dalmazia intorno all'anno 1000, mantennero una connotazione da guerra santa. Nello specifico manifestavano l'attaccamento a un santo protettore - san Marco per i Veneziani - e continuarono ad essere usati nelle campagne militari così come nelle processioni dogali (22).

L'anello, elemento simbolico centrale nella cerimonia dello sposalizio del mare, si affermò in un contesto rituale complementare agli altri trionfi ma da questi largamente indipendente. L'associazione tra le ambizioni navali e imperiali dei dogi veneziani e l'annuale benedizione del mare rimanda alla prima spedizione in Dalmazia del doge Orseolo, commemorata il giorno dell'Ascensione con un rito di benedictio. In un momento che non può essere stabilito con precisione, ma probabilmente successivo alla conquista veneziana di Costantinopoli nel 1204, vennero fuse insieme la desponsatio, o patto matrimoniale, tra il doge e il mare e il tradizionale rito della benedictio nel giorno dell'Ascensione, creando così il composito sposalizio del mare o festa della Sensa. Lo sposalizio del mare come rito supremamente imperiale si sviluppò probabilmente in risposta al bisogno di un'appropriata giustificazione per il ruolo assunto da Venezia come signore della "quarta parte e mezza" dell'Impero bizantino. Lo sposalizio comportava un immenso corteggio cerimoniale di barche verso l'imboccatura della laguna, dove, dopo le benedizioni del patriarca, il doge lasciava cadere in mare un anello d'oro (la vera) e intonava "Desponsamus te mare, in signum veri perpetuisque dominii". Poiché il rito aveva avuto origine nel secolo XIII i Veneziani si sentirono obbligati a spiegarlo - come a dire che senza un commento il rituale era incompleto. Vennero sottolineati tre aspetti della cerimonia: l'anello come dono di papa Alessandro III, il matrimonio come simbolo del dominio veneziano nell'Adriatico e nel Mediterraneo e la benedizione come propiziazione dei mari turbolenti. Le leggende sui doni di papa Alessandro III dipinsero in particolare l'anello come pegno con cui il papa aveva autorizzato - da notare, in anticipo - le conquiste marittime veneziane, e alcuni commentatori successivi sostennero addirittura che Alessandro aveva investito il doge Ziani dell'Adriatico come feudo.

Quali che fossero le opinioni degli scrittori veneziani di epoca più tarda, nel secolo XIII quasi di sicuro il rituale si fondava sulla concezione dell'epoca del matrimonio per dare un'idea di dominio territoriale. La cerimonia creava una relazione diseguale tra il marito veneziano e la sposa coloniale, relazione in cui Venezia avrebbe protetto le genti sottomesse, esercitato su di loro l'autorità giurisdizionale e tenuto in usufructus il loro fisco proprio come il marito aveva facoltà di accedere alla dote della moglie. All'epoca la metafora matrimoniale era di uso comune per descrivere il vincolo tra un vescovo e la sua diocesi, o tra un principe e i suoi sudditi. Luca de Penna, nel suo commentario al Codice di Giustiniano, parla in termini contrattuali delle obbligazioni tra un principe e la sua gente, obbligazioni illustrate nel modo migliore da un matrimonio politico e morale fondato sul consenso ma che fosse anche definitivo. Il matrimonio veneziano, tuttavia, esprimeva una relazione coloniale piuttosto che la distribuzione dell'autorità all'interno della res publica, e aveva un grande potenziale propagandistico poiché suggeriva che i sudditi conquistati avessero in parte acconsentito alla conquista, ma che a loro era sbarrata per sempre la possibilità di cambiare parere. In questo rituale il doge diventava il dispotico marito delle colonie di Venezia, ma non venne mai rappresentato come se fosse sposato alla popolazione veneziana, dato che una tale relazione sarebbe stata in contraddizione con la sfera attentamente delimitata dei suoi diritti e delle sue responsabilità interne. È significativo che l'effettiva cerimonia nuziale si svolgesse fuori della laguna, in senso letterale all'estero. Dentro la laguna il doge era lo sposo solo di poche istituzioni sulle quali mantenne lo jus patronatus, come l'abbazia di Santa Maria Nuova in Gerusalemme (o delle Vergini), la cui badessa divenne la sposa simbolica del doge (23). Il matrimonio del mare era comunque un ricco, complesso commentario alla vita economica, politica e imperiale di Venezia, una festa primaverile della fertilità e un tracciato cerimoniale del vincolo tra il centro di Venezia in San Marco e la sua periferia in San Nicolò al Lido e oltre verso Levante. Un rito così complesso non può mai essere ridotto a una singola spiegazione, poiché esso deve essere sempre stato compreso a un livello fisico ed emotivo non traducibile in una semplice formula verbale. Questa qualità emotiva e la sua intraducibilità furono certamente tra le ragioni del suo grande potere di rappresentare ciò che per la città espansionistica e commerciale era maggiormente vitale.

Dal comune all'oligarchia signorile

La conquista di Costantinopoli diede ai mercanti veneziani un enorme vantaggio concorrenziale sui loro rivali e apportò grande ricchezza alla nuova Costantinopoli dell'Adriatico. La centralizzazione dell'autorità intorno al ducato e la dominazione veneziana sui sudditi provinciali diventarono il senso recondito di tutti i rituali, mentre la lotta del secolo XII tra il comune e il doge fu sostituita da un crescente consenso sociale che accettava la regolamentazione legislativa della maggior parte degli aspetti della vita interna. Nel 1242 la codificazione del diritto veneziano eliminò la posizione privilegiata di un gruppo elitario e creò le basi per un regime unitario, rendendo possibile l'ascesa a posizioni predominanti di nuovi gruppi sociali veneziani, ma escludendo anche dal potere tutti coloro che vivevano fuori Venezia. Persino gli abitanti degli insediamenti lagunari - Chioggia, Murano, Torcello e Grado - persero il diritto a essere consultati sui propri affari e dovettero accettare il governo di un podestà mandato da Rialto (24).

Intorno alla metà del secolo Venezia aveva consolidato la propria egemonia economica e aveva ottenuto il monopolio su vari traffici - per esempio sul commercio del grano e di altri beni di prima necessità - per tutta l'Italia settentrionale. Le teoriche rivendicazioni di signoria sull'Adriatico rappresentate dal matrimonio del mare corrispondevano ormai alla realtà della vita economica. Non solo Venezia concluse vantaggiosi accordi commerciali con ogni porto dell'Adriatico e con quelli della Sicilia normanna, ma dominava anche tutte le rotte navigabili dell'Italia settentrionale, manteneva un esteso commercio con la Germania e istituzionalizzava la protezione dei mercanti stranieri (25). Sembra inoltre che tale prosperità si sia riversata anche sugli artigiani veneziani che, diversamente da quelli delle altre parti d'Italia e delle Fiandre, non si preoccuparono di protestare contro la loro sorte economica. Benché con la fine del comune fossero stati esclusi dalla partecipazione politica, la legge garantiva loro l'accesso alle corti, dove i giudici non necessariamente difendevano sempre gli interessi dei mercanti internazionali, come facevano quelli di Firenze (26).

Fino alla definitiva chiusura del maggior consiglio, nel 1297, il numero di coloro che appartenevano alla classe governante aumentò, specialmente se lo si calcola in base all'ampiezza del maggior consiglio e all'istituzione della quarantia per trattare gli affari giudiziari. Ma, via via che queste istituzioni divennero ingestibili, il potere effettivo passò progressivamente nelle mani di una ristretta oligarchia rappresentata dal minor consiglio e dalla signoria, vale a dire il doge e i suoi sei consiglieri. Vi furono ancora conflitti interni di qualche rilievo, in particolare tra la fazione guidata dalla famiglia Tiepolo e quella della famiglia Dandolo - fazioni la cui composizione mostrava qualche segno di un dissimulato antagonismo di classe -, ma i conflitti non minacciarono il sistema elettorale e non produssero un signore secondo il modello di tante città della terraferma. Il confronto decisivo avvenne nell'elezione dogale del 1229. I1 comitato elettorale si era arenato sulla situazione di parità di venti a venti fra Jacopo Tiepolo, l'eroe della conquista di Creta, e Marino Dandolo, il nipote del vecchio, cieco doge Enrico che aveva guidato i Veneziani sulle mura di Costantinopoli nel 1204. Un sorteggio fece di Tiepolo il vincitore e Dandolo accettò il responso. Tiepolo accelerò la trasformazione di Venezia da raggruppamento instabile di istituzioni corporative in concorrenza fra loro a città dotata di un certo equilibrio politico (27). I principali strumenti con cui la conflittualità venne subordinata all'unità del regime furono la celebrazione della carica di doge e l'attuazione degli statuti.

Questa situazione non è certo priva d'ironia. Nel secolo XII il successo del comune era disceso dalla riduzione delle funzioni del doge e dalla sua subordinazione agli interessi collettivi delle famiglie che avevano formato il comune; un secolo più tardi invece il successo della fazione dei "popolari" guidata dai Tiepolo dipese dall'accrescimento degli aspetti imperialisti della carica, mentre nel frattempo, con considerazioni politiche e legali, le azioni del doge furono ulteriormente delimitate. Di conseguenza la rappresentazione dell'ufficio dogale divenne la "finzione maestra" con cui il regime veneziano si sostenne (28). Per quanto nel secolo XIII non fosse compiuta quella precisa distinzione cui si sarebbe pervenuti in seguito, tra i due corpi del doge - la persona mortale, imperfetta dell'uomo politico che all'acme della carriera veniva eletto doge e l'ufficio eterno, perfetto del dogato che incarnava le pretese veneziane di legittima autorità - vi era una crescente tendenza a mitizzare la storia dell'ufficio e a rappresentare questa mitologia in cerimonie pubbliche sempre più grandiose. Come ha notato Giovanni Tabacco rispetto ai tiranni dell'Italia settentrionale e centrale, "il Medioevo, l'età che a molti appare tuttora come il trionfo del mito e del simbolo più pregnante e immaginoso, aveva demitizzato il potere" (29). Ma a Venezia la demitizzazione del potere non seguì il modello della terraferma; di fatto Venezia rimitizzò il potere per far sì che un nuovo sistema politico apparisse conforme ai precedenti antichi, tramandati dai padri fondatori della città. La mitizzazione fu spesso al servizio di interessi complessi, persino contraddittori, poiché talvolta sorresse le ambizioni temporali di certi detentori della carica - specialmente i dogi della famiglia Tiepolo - ma il processo trascese anche questi interessi consentendo che l'ufficio dogale venisse innalzato a uno status extrapolitico. Singoli dogi difesero e distrussero, affermarono e negarono, corruppero e santificarono i miti di Venezia perché si trovavano al centro del sistema politico, che era ben lungi dall'essere perfetto, ma nel contempo la figura del doge rimaneva al di sopra del sistema e fuori delle sue possibilità, perché essa sostanziava in una persona una carica di origine divina.

La Historia ducum Veneticorum, scritta nel 1229, mitizzò la storia veneziana trasfigurando i dogi - specialmente il governo del doge Pietro Ziani - in figure più grandi del reale, che quasi da sole avevano apportato grandezza alla città (30). Ma persino più esagerate nella celebrazione dei dogi, fino al punto di importare nozioni cavalleresche del linguaggio retorico principesco estranee all'etica aristocratica della Repubblica, furono Les estoires de Venise, scritte tra il 1267 e il 1275 da Martin da Canal. Questi scriveva nell'epoca di considerevole tensione economica e politica che seguì l'avvento al trono di Michele Paleologo e l'ascesa dei Genovesi a Levante, eventi che compromisero per sempre le conquiste della quarta Crociata. Les estoires comodamente ignorarono gli eventi violenti e turbativi del secolo - l'impiccagione di uno dei figli del doge Jacopo Tiepolo, il ferimento del doge Lorenzo Tiepolo dopo la sua elezione, le rivolte popolari del 1266 - a favore di un tema apertamente dichiarato proprio all'inizio: la storia avrebbe raccontato le vittorie veneziane ottenute al servizio della Santa Sede e per la glorificazione della città. Pare che Canal abbia scritto la sua opera sotto il diretto patrocinio della cerchia di funzionari vicini al doge, che incoraggiarono un resoconto epidittico, ispiratamente eroico. Coerentemente, la sua prospettiva fu quella dei supremi magistrati, specialmente dei dogi, figure singolari attorno alle quali ruotava tutta la storia veneziana. In ogni modo Venezia era la città migliore del mondo, la più ricca, la più bella, la più armoniosa e pacifica, quella meglio governata (31).

All'inizio, raccontava Canal, vi furono i Troiani. Dopo la distruzione di Troia, questi grandi nobili si stabilirono tra il fiume Adda e l'Ungheria edificando tutte le città dell'Italia settentrionale a est di Milano. Poi venne al mondo un pagano che portò un'età di guerre. Il pagano Attila invase l'Italia per conquistare i Cristiani e distrusse la nobile città di Aquileia e tutte le altre città fondate dai Troiani. I profughi cristiani si ritirarono in cima a colline difensive per costruire belle e nuove città e la più bella di tutte, Venezia, che era governata dal doge. Il doge esibiva la nobiltà ereditata da Troia nel vestito e nelle insegne che lo accompagnavano nelle processioni: indossava abiti da cerimonia di stoffa intessuta d'oro e una corona d'oro tempestata di gemme preziose; un gentiluomo lo precedeva portando una spada, un giovane lo seguiva con un ombrello tenuto sopra la testa del doge e altri giovani portavano un seggio e un cuscino; egli inoltre era contraddistinto da "li homagi que li font les viles d'environ". Gli omaggi consistevano nel tributo annuale di porci e pani versato dal patriarca di Aquileia, in contingenti di uomini da far lavorare nelle galee inviati dalle città dell'Istria, in olio e vino da parte dell'Istria, nei tributi in denaro della Dalmazia, della Croazia e della Schiavonia, in stoffe di lino per la dogaressa da parte di Padova, in frutta mandata da Treviso e nelle imposte sull'importazione versate dai Friulani (32).

L'assortita miscela di Canal tra mitologia, interpretazione simbolica ed elenco dei pagamenti tributari cercava di riunificare intorno alla persona del doge tutte le varie fonti della auctoritas veneziana. Da una parte il "corno" del doge e il taglio dei suoi paramenti riflettevano le tendenze che fecero seguito alla conquista di Costantinopoli nel 1204: il rifiorire degli stili bizantini e la rappresentazione della auctoritas veneziana come prolungamento dell'imperium bizantino. Al tempo del doge Jacopo Tiepolo (1229-1249), quando apparve per la prima volta la forma a berretto frigio del corno, esso era diventato un segno dell'indipendenza veneziana da Bisanzio e dell'averne ereditati i diritti (33). Il corno fungeva da attributo personale del doge, ma il suo significato, come quello degli stendardi di san Marco più comunemente usati, proveniva dal rapporto che intratteneva con i precedenti bizantini, l'imperium bizantino, le mode bizantine. I pagamenti di tributi, d'altro canto, provenivano dalle convenzioni contrattuali del diritto feudale occidentale, in cui il doge era trattato come un signore che esigeva i pagamenti dai suoi vassalli. Si possono intendere in questo modo i tributi che gli artigiani veneziani versavano al doge, come le botti di vino, le derrate alimentari, le calzature, il trasporto in gondola e il taglio dei capelli. Come signore dei boschi e delle paludi della laguna e delle sue isole il doge riceveva ogni anno a Natale un tributo di circa tremila fra germani reali e capponi che egli ridistribuiva tra il suo seguito (34). A cominciare dal doge Jacopo Contarini (1275-1280), le prerogative feudali dei dogi furono gradualmente erose finché la loro signoria non fu che un vago vestigio di un sistema di rappresentazione remoto ma ormai abbandonato. Per l'oligarchia signorile che era giunta a governare Venezia le immagini che derivavano da Bisanzio, e in ultima istanza dal diritto romano, erano molto più adeguate di quanto lo fossero i tributi feudali, dato che l'imperium non era un attributo esclusivamente principesco (35).

Il corno bizantino guadagnò una posizione elevata nel linguaggio figurativo dogale del secolo XIII. Come definitiva insegna del doge venne impiegato per la prima volta sulla doppia tomba (1249 circa) di Jacopo e Lorenzo Tiepolo, situata sulla facciata della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Ancora più rilevante è, tuttavia, il ruolo che il corno svolge nell'identificare il doge nei mosaici di San Marco dedicati all'agiografia del santo. In questi mosaici della metà del secolo XIII - Il ricevimento del corpo di san Marco, Apparizione delle spoglie di san Marco, Celebrazione dello scoprimento delle spoglie di san Marco e Accoglimento a Venezia del corpo di san Marco - il doge incoronato, che è sempre una figura idealizzata e mai il ritratto di un particolare individuo, funge da testimone principale dei miracoli del santo (36). I mosaici tentavano di riunificare la cultura politica veneziana intorno al legame forgiato tra san Marco e il doge, documentando quelli che erano intesi come eventi storici effettivi, ma creando anche un rapporto che permaneva al di fuori del tempo. Per Canal i mosaici di San Marco erano le prove stesse della verità delle leggende su san Marco:

E se qualcuno di voi vuole verificare che le cose andarono come ve le ho raccontate, venga a vedere la bella chiesa di messer san Marco a Venezia e guardi la bella chiesa proprio davanti, perché questa storia vi sta scritta tal quale ve l'ho raccontata: e avrà la grande indulgenza di sette anni che messere il papa ha stabilito per chi va in quella bella chiesa. E quando ebbero costruito una chiesa così bella, i Veneziani decisero e approvarono che essa fosse arricchita ogni anno e per sempre, e così fanno; e quella bella chiesa appartiene a messere il doge (37).

Il corno, i mosaici e la mitizzazione della storia veneziana illustrano il tema della "renovatio Imperii" che lo storico della basilica di San Marco Otto Demus ha identificato come caratteristico di questo periodo (38).

Comunque, coesistenti con il linguaggio figurativo imperiale, vi erano altri concetti di sovranità che derivavano o da fonti feudali importate o da tradizioni locali. Nella celebrazione per l'elezione del doge Ranier Zen si tennero giostre in piazza Sar Marco sotto il patrocinio di due figli dei dogi precedenti, uno dei quali partecipavi ai tornei. Martin da Canal riporta con orgoglio come Marco Ziani si sia distinto ir quell'occasione contro i Lombardi, i Trevisani e i Friulani. Nel 1272 sei giovan nobili friulani arrivarono a Venezia per giostrare tre giorni nel periodo di Carnevale ma la giostra era uno sport straniero per il quale i patrizi veneziani, quali che fossero le loro ambizioni di emulazione dei veri cavalieri, erano poco adatti (39).

I rituali veneziani indigeni continuarono a sottolineare gli omaggi resi al doge dalle componenti rionali e corporative della città. Possiamo vederli nel modo migliore attraverso le celebrazioni dopo l'elezione del doge Lorenzo Tiepolo, nel 1268, e le feste annuali, in particolare la festa delle Dodici Marie. Canal ha descritto molto dettagliatamente gli omaggi al doge Tiepolo durante la settimana successiva alla sua elezione. Dopo l'annuncio della sua elezione al popolo riunito nella basilica di San Marco, il nuovo doge giurò obbedienza alle leggi e ricevette il gonfalone blasonato con il leone di San Marco. Prima di prendere possesso della sede del governo si fermò nell'ingresso di palazzo Ducale per ascoltare le laudi dogali cantate per lui:

Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera: a nostro signore Lorenzo Tiepolo, per grazia di Dio inclito doge di Venezia, Dalmazia e Croazia, e dominatore della quarta parte e mezza dell'intero impero di Romania, salute, onore, vita e vittoria: san Marco, dagli tu aiuto!

I cappellani si recarono poi a palazzo Tiepolo in Sant'Agostino e ripeterono le laudi alla dogaressa. Durante la settimana seguente il doge e la dogaressa tennero due corti, una a palazzo Ducale e l'altra nel palazzo privato della famiglia. Ogni atto d'omaggio venne ripetuto due volte, prima a Lorenzo e poi alla moglie Marchesina. Innanzitutto il capitano delle galee, in procinto di imbarcarsi per una campagna, condusse le navi in rivista nel bacino di fronte a palazzo Ducale, poi ripeté la rivista in Sant'Agostino. I cittadini delle contrade insulari della laguna come Torcello e Murano sfilarono in processione fino ai palazzi. Ma di gran lunga più interessanti furono le presentazioni formali delle arti. Canal ne descrive diciassette, prevalentemente delle industrie dell'abbigliamento. Musici e gonfaloni precedevano ciascun contingente di uomini delle corporazioni, che erano vestiti con costumi di fantasia guarniti da ricche pellicce e gioielli. Le Arti si presentarono brevemente una per una al doge e alla dogaressa salutando Tiepolo come loro signore. I barbieri presentarono un piccola parata in cui due uomini a cavallo vestiti da cavalieri erranti portavano con sé quattro giovani fanciulle che dicevano di aver catturato durante le loro avventure. I cavalieri sfidarono i cortigiani a gareggiare per il possesso delle fanciulle, ma Tiepolo replicò che nessuno dei suoi desiderava opporsi a loro e cordialmente li accolse a corte (40).

Nelle celebrazioni per l'elezione di Tiepolo la preoccupazione principale fu di affermare la lealtà degli elementi corporativi della Repubblica privi dei diritti civili. Le comunità insulari erano governate da un podestà mandato da Venezia e gli artigiani avevano perduto quei diritti politici che, per quanto nominali, avevano avuto sotto il comune. Invece di raccogliere l'assenso, come un arengo, attraverso gli organi consensuali, il doge faceva ora affidamento sui vincoli personali di vassallaggio applicati un po' artificialmente a gruppi corporativi che, come rivela la parata dei barbieri, erano rappresentati quali membri della corte dogale. Canal è abbastanza preciso, inoltre, nel sottolineare che c'erano di fatto due corti, quella ufficiale del doge e quella privata della dogaressa. Possiamo spiegarci nel modo migliore questa distinzione tra il maschile palazzo Ducale e la femminile abitazione domestica come strumento per separare i due aspetti del doge, la persona pubblica e la vita privata, aspetti che sarebbero stati rappresentati in seguito nei due corpi del doge. Il risultato di tale distinzione sarà di limitare severamente l'accesso dei membri della famiglia dogale, specialmente dei figli, al prestigio e ai privilegi del dogato, e alla fine l'omaggio degli uomini delle corporazioni si limiterà alla sola dogaressa, cambiamento questo che reciderà quasi completamente i loro vincoli ufficiali con il regime (41). Nel tardo secolo XIII la carica dogale era quindi un fascio di immagini incompatibili: alcune dichiaravano che il doge era l'erede dell'imperium augusteo, altre lo presentavano come un signore feudale che riceveva l'omaggio dei vassalli, altre rappresentavano Venezia come un accumulo di componenti corporative e altre infine riducevano la possibilità che le famiglie dogali potessero dare origine a una dinastia principesca. Proprio l'eterogeneità delle rappresentazioni veneziane della sovranità può aver contribuito, in un'epoca in cui il dispotismo era la norma, al relativo successo del regime. A Venezia, contando su un vasto repertorio di segni e simboli che simultaneamente liberavano l'ufficio dogale e mettevano le pastoie al suo titolare, i1 regime poteva legittimarsi e mistificarsi in tanti modi.

Le annuali processioni dogali mettevano insieme in regolari esibizioni pubbliche queste molteplici immagini, aggiungendovi anche le rappresentazioni dei quartieri e delle parrocchie. Le processioni si svolgevano in occasione delle feste importanti del calendario liturgico, in particolare la festa di tre giorni delle Dodici Marie che si teneva dal 31 gennaio (Traslazione di san Marco) al 2 febbraio (Madonna delle Candele), il Giovedì grasso, quelle del ciclo pasquale, le tre feste dedicate a san Marco e Natale. La festa delle Dodici Marie produceva l'espressione più importante dell'organizzazione di quartiere di tutta la vita rituale veneziana. È ancora Martin da Canal a fornire la descrizione più completa della festa mariana, così come veniva celebrata nel tardo secolo XIII. Ogni anno, seguendo un sistema di responsabilità a rotazione, i patrizi di due delle sessanta contrade patrocinavano la festa aprendo i loro palazzi alle visite c distribuendo l'elemosina. Alla vigilia della Traslazione di san Marco gli uomini giovani di una delle contrade formavano in piazza San Marco una processione cui partecipavano i preti della parrocchia e i musici. Dalla Piazza la processione si faceva strada fino alla chiesa di Santa Maria Formosa, dove i giovanotti distribuivano a una folla di ragazze povere dolciumi, bottiglie di vino e coppe d'oro e d'argento da utilizzarsi per il loro ricevimento di nozze. La seconda contrada designata faceva altrettanto.

Il mattino dopo le due contrade formavano nuovamente le processioni. I giovani e gli uomini adulti della prima contrada distribuivano bandierine ai ragazzi e portavano sulle spalle un trono su cui sedeva un prete che impersonava la Vergine Maria, mentre gli uomini della seconda contrada trasportavano un prete vestito da Arcangelo Gabriele. Dopo aver cantato le laudi al doge le due processioni si incontravano in Santa Maria Formosa e qui i due preti recitavano l'Annunciazione. Dopo lo spettacolo le processioni ritornavano alle proprie contrade dove venivano aperte le case delle famiglie dei patrocinatori per esporre dodici effigi lignee di Maria, ciascuna vestita con abiti d'oro e adorna di perle, pietre preziose e corona raggiante. Le visite per vedere le Marie si protraevano per due giorni e nel frattempo le famiglie patrocinatrici tenevano la casa aperta e ristoravano i vicini poveri con grandi quantità di vino. Per la festa vera e propria della Madonna delle Candele le cerimonie cominciavano con la messa e la benedizione delle candele nella chiesa di San Pietro di Castello, poi le due contrade armavano sei barche riccamente decorate, una per trasportare quaranta uomini armati, una seconda per i preti e il vescovo e le altre quattro per trasportare tre statue di Maria ciascuna, seguite da una schiera di donne e figlie non maritate di illustri famiglie della contrada. Accompagnato da centinaia di barche il seguito circumnavigava gran parte della città avviandosi prima in San Pietro, poi in San Marco ad ascoltare la messa e a distribuire le candele e infine in Santa Maria Formosa dove veniva cantata una seconda messa. Banchetti e festeggiamenti continuavano per giorni e si fondevano con la stagione del Carnevale.

Il tratto più caratteristico della festa è forse, quando la si confronti con altri rituali veneziani, il ruolo primario delle contrade. Non solo esse avevano la responsabilità di finanziare, pianificare e condurre le processioni e i ricevimenti, ma ricevevano anche lustro dal loro lavoro, entrando in competizione con gli altri quartieri; i giovani, inoltre, andavano in giro in barca a sfidare e canzonare gli altri, rivelando così una rivalità tra contrade di una certa rilevanza. Nei primi secoli di vita della città le contrade erano state senz'altro dei nuclei autosufficienti, isolati uno dall'altro, ognuno sulla propria isola. I contradaioli conservavano alcuni privilegi ed eleggevano il loro capitano e il parroco, soggetto all'approvazione del vescovo. Ma intorno al secolo XIII la mobilità residenziale, la maggiore coesione geografica della città - provocata dalla costruzione di ponti e dall'interramento di canali - e l'accentramento della politica avevano diluito il significato sociale delle contrade, cosicché i Veneziani persero quell'intenso senso dell'identità parrocchiale che invece rimase a Firenze e che a Siena addirittura si accrebbe. Verso la fine del secolo apparvero i primi segni di difficoltà: vi furono lamentele per l'onere finanziario che la festa imponeva ai patrocinatori, che a quanto pare non ritenevano più utile agire da padroni del quartiere, e il governo dovette ripetutamente intervenire per salvaguardarsi dalla violenza, dal comportamento indecente e persino dai dileggi rivolti alla gerarchia e al doge. Al tempo della guerra contro Genova, nel 1379, il governo abolì completamente la festa e la sostituì con una sobria processione dogale a Santa Maria Formosa (42). Il declino della festività basata sulle parrocchie illustra il fatto che gli stessi quartieri non erano più istituzioni vitali: le loro funzioni caritatevoli sarebbero state alla fine rimpiazzate dalle Scuole corporative, i poteri di polizia dai signori di notte e le responsabilità per la festa dalle Compagnie della Calza.

Alla vigilia del Trecento l'intero linguaggio simbolico figurativo dell'autorità imperiale veneziana era stato acquisito, le enclavi di maggiorenti e le parrocchie autonome erano scomparse e l'ufficio dogale era stato attentamente forgiato per esemplificare la res publica invece della signoria personale. Gli anni successivi produssero pochi simboli nuovi ma molte interpretazioni inedite, a volte fantasiose, del loro significato. I simboli dogali permearono la cultura politica veneziana e la loro analisi divenne spesso sostitutiva di un pensiero costituzionale più formale. Invece di abolire le pratiche e le immagini anacronistiche Venezia era riuscita a riorientarle con la riorganizzazione delle parti che componevano la Repubblica e la reinterpretazione delle idee di governo, in modo tale che solitamente i cambiamenti apparvero come continuità, come manifestazioni delle verità eterne impartite da san Marco ed esemplificate dai dogi. Le conventicole della corte dogale promossero queste trasformazioni attraverso l'emulazione deliberata del linguaggio figurativo bizantino e l'incorporazione almeno parziale nella pratica veneziana dei principi del diritto romano (43). Il risultato comunque fu sempre un impasto particolarmente veneziano fra l'indigeno e ciò che veniva mutuato dall'esterno. Venezia riuscì a trovare una soluzione insolita ai perenni problemi della sovranità medievale, una soluzione che legittimò il regime e l'aiutò a sopravvivere come repubblica relativamente stabile ancora a lungo nell'epoca dei principi e delle monarchie nazionali.

Traduzione di Cesare Borghi

1. Cf. Michel de Certeau, L'invention du quotidien, I, Arts de faire, Paris 1980, pt. III.

2. Eugenio Miozzi, Venezia nei secoli: la laguna, III, Venezia 1968, pp. 81-87; Giorgio Bellavitis Giandomenico Romanelli, Venezia, Bari 1985, p. 31; Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983: II, pp. 507-511.

3. Si vedano, in particolare, l'importante studio di Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, passim, e Id., "Quod sibi fiat gratia": Adjustment of Penalties and the Exercise of Influente in Early Renaissance Venice, "Journal of Medieval and Renaissance Studies", 13, 1983, pp. 251-268. Si v. pure W. Dorigo, Venezia Origini, II, pp. 492-530. Sugli Zusto, Luigi Lanfranchi, Famiglia Zusto, Venezia 1955, pp. XIII-XIX.

4. G. Bellavitis - G. Romanelli, Venezia, p. 48.

5. Antonio Niero, Per la storia della pietà popolare veneziana: capitelli e immagini di santi a Venezia, "Ateneo Veneto", n. ser., 8, 1970, pp. 262-267; Id., Il culto dei santi nell'arte popolare, in Id.-Giovanni Musolino - Silvio Tramontin, Santità a Venezia, Venezia 1972, pp. 229-289; Mario Nani Mocenigo, I capitelli veneziani, "Le Tre Venezie", 17, 1942, pp. 224-227; Paolo Toschi, Mostra di arte religiosa popolare, "Lares", 13, 1942, pp. 195-197.

6. Cf. D. Romano, Patricians and Popolani, pp. 131-140.

7. Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I-II, Firenze 1973: I/1, pp. 275-276 e 292-293 (pp. 261-295); Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 88-90.

8. Debra Pincus, Christian Relics and the Body Politic: A Thirteenth Century Relief Plaque in the Church of San Marco, in Interpretazioni veneziane. Studi di storia dell'arte in onore di Michelangelo Muraro, a cura di David Rosand, Venezia 1984, p. 46 (pp. 39-57).

9. Sulle stagioni di navigazione a Venezia si v. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, I-II, Torino 1976.

10. E. Muir, Il rituale civico, pp. 103-112.

11 . Ibid., pp. 98-99.

12. Ernst H. Kantorowicz, Laudes Regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Medieval Ruler Worship, Berkeley 1946, p. 154.

13. La citazione si trova in Reinhard Lebe, Quando San Marco approdò a Venezia: il culto dell'Evangelista e il miracolo politico della Repubblica di Venezia, Roma 1981, p. 113.

14 Giovan Candido, Commentarii dei fatti di Aquileia, Venezia 1544, cc. 51v-52; Gio. Francesco Palladio degli Olivi, Historie della provincia del Friuli, I, Udine 1860, pp. 178-179. Alberto Tenenti fa risalire l'inizio del macello dei maiali al tempo del doge Jacopo Contarini (1275-1280), ma pare che i pagamenti tributari datino all'epoca di Vitale II Michiel. Alberto Tenenti, La rappresentazione del potere, in I Dogi, a cura di Gino Benzoni, Milano 1983, p. 93 (pp. 73-106).

15. Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 1-28; Id., Un "altro mondo". Venezia nel medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 66-67; Bernhard Schmeidler, Der Dux und das Comune Venetiarum von 1141-1229. Beiträge zur Verfassungsgeschichte Venedigs vornehmlich im 12. Jahrhundert, Berlin 1902 e Vaduz 1965; Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985.

16. Si v. la vita di Alessandro III di Bosone in Le "Liber Pontificalis", I-II, a cura di Louis Duchesne, Paris 1886-1892: II, poi ristampata nel 1955. Per un'analisi critica della vita si v. pure l'introduzione di Peter Munz alla traduzione inglese, pubblicata con il titolo di Boso's Life of Alexander III, Oxford 1973. Si v. inoltre Marcel Pacaut, Alexandre III. Etudes sur sa conception du pouvoir pontifical dans sa pensée et dans son oeuvre, Paris 1956, e Marshall W. Baldwin, Alexander III and the Twelfth Century, London 1968.

17. Giacomo Bascapè, Sigilli della Repubblica di Venezia.Le bolle dei dogi. I sigilli di uffici e di magistrature, in AA.VV., Studi in onore di Amintore Fanfani, I, Antichità e alto medioevo, Milano 1962, pp. 91-95 (pp. 91-103); Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 19-37 (pp. 3-123).

18. G. Fasoli, Liturgia e cerimonia ducale, p. 273.

19. E. Muir, Il rituale civico, pp. 128-129.

20. Hans Conrad Peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterliche Italien, Zürich 1955, p. 63.

21. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 87-88, e Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, p. 40.

22. E. Muir, Il rituale civico, pp. 131-134.

23. Ibid., pp. 135-147.

24. G. Cracco, Società e stato, pp. 158-173.

25. G. Rösch, Venezia e l'Impero.

26. Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The

World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250-c. 1650, Totowa, N.J. 1987, pp. 1-4.

27. G. Cracco, Società e stato, pp. 89-173.

28. "Finzione maestra" è il termine impiegato da

Clifford Geertz, Centers, Kings, and Charisma: Reflections on the Symbolics of Power, in Culture and Its Creators: Essays in Honor of Edward Shils, a cura di Joseph Ben David - Terry Nichols Clark, Chicago 1977, p. 171 (pp. 150-171).

29. Giovanni Tabacco, La storia politica e sociale, in AA.VV., Storia d'Italia, II, 1, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, p. 274 (pp. 3-274).

30. G. Cracco, Società e stato, pp. 90-100.

31. Alberto Limentani, Martin da Canal e "Les estoires de Venise", in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 590-601; Id., Introduzione a M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. XLIX-LXIV.

32. M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. 6-8. Cf. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, p. 37, e Hannelore Zug Tucci, La chasse dans la législation statutaire italienne, in AA.VV., La chasse au Moyen Âge. Actes du Colloque de Nice, Nice 1980, p. 109.

33. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 83-86; G. Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, p. 272; Percy E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatssymbolik: Beiträge zu ihrer Geschichte vom dritten bis zum sechzehnten Jahrhundert, in M.G.H., Schriften der Monumenta Germaniae Historica, XIII, 1954-1956, 1-3, p. 865.

34. G. Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, p. 288; M. da Canal, Les estoires de Venise, p. 252.

35. E. Muir, Il rituale civico, p. 293.

36. Debra Pincus, The Tomb of Doge Nicolò Tron and Venetian Renaissance Ruler Imagery, in Art the Ape of Nature Essays in Honor of H. W. Janson, a cura di Lucy F. Sandler - Moshe Barasch, New York 1981, p. 129 (pp. 127-150); A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 38-48; Otto Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, II, The Thirteenth Century, Chicago-London 1984, pp. 5, 27-43.

37. M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. 20-23. Cf. Patricia Fortini Brown, Painting and History in Renaissance Venice, "Art History", 7, 1984, pp. 263-294.

38. Otto Demus, Oriente e Occidente nell'arte veneta del Duecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del secolo di Marco Polo, Firenze 1955, pp. 109-126. Cf. A. Limentani, Martin da Canal, p. 594.

39. M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. 126-130, 328-332.

40. Ibid., pp. 278-304. Per una breve descrizione dell'acclamazione del doge Jacopo Contarini, cf. p. 364. Sulle procedure per l'elezione ducale, si v. A. Pertusi, Quedam regalia insignia, pp. 74-76. Sulla funzione della festa delle arti come forma di propaganda economica, cf. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 141-149.

41. E. Muir, Il rituale civico, pp. 317-323.

42. Ibid., pp. 159-174.

43. Cf. Giorgio Cracco, La cultura giuridico-politica nella Venezia della "Serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238-240 (pp. 238-271).