IDROTECNICA

Enciclopedia Italiana (1933)

IDROTECNICA (da ὕδωρ "acqua", e τέχνη "arte")

Federico PFISTER
Francesco MARZOLO
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Ramo dell'ingegneria comprendeute le applicazioni dell'idraulica nei varî campi tecnici e costruttivi: acquedotti, fognature, sistemazioni e costruzioni fluviali, lacuali e marittime, bonificazioni, irrigazioni, impianti idraulici per forza motrice, macchine idrauliche ecc.

Idrotecnica antica e medievale.

Se l'idraulica, come teoria scientifica o insieme dei principî atti a regolare il movimento, il deflusso e l'alzamento delle acque è stata probabilmente preceduta e preparata, come ogni altra teoria della meccanica, da tentativi d'ordine empirico e dall'esperienza tecnica, sarebbe ingiusto affermare che le prime costruzioni e le prime macchine idrauliche, delle quali ci è rimasta traccia o ricordo, non siano state accompagnate dalla conoscenza riflessa di principî scientifici e di norme direttive. Comunque è certo che solo assai tardi questi principî e queste norme dettate dall'esperienza furono organizzate ed elaborate in un corpo organico di dottrina. Rinviando alla voce idraulica per le notizie sui principî di meccanica dell'acqua noti ed elaborati dagli antichi, si farà cenno qui dell'idrotecnica antica e medievale.

La necessità di lavori idraulici per la captazione, la conduzione, l'elevazione e la conservazione delle acque d'approvvigionamento e per lo scarico di quelle di rifiuto, così come l'utilità di quelli diretti al drenaggio delle terre a scopo di bonifica e alla sistemazione dei bacini lacuali e fluviali, si sono fatte sentire sino dai più remoti tempi. Notizia di costruzioni e di macchine idrauliche si ha già per i popoli dell'Egitto e della bassa Caldea che dell'idraulica classica sono stati, più che i precursori, i maestri. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, e per la mancanza di quelle fonti scritte che certo i Greci devono aver conosciute e utilizzate, è difficile poter determinare la portata e i limiti della scienza idraulica degli Egizî e dei Babilonesi-Assiri. Ma certo è che gli antichissimi patesi sumeri e i re babilonesi tracciarono e costruirono quei canali d'irrigazione la cui esecuzione e il cui mantenimento, come sappiamo dai testi scritti, era una delle più importanti loro funzioni. Sono giunte fino a noi alcune tavolette con piante di canali dell'età presargonica, ad esempio di uno di Eannatum, cui era annesso un serbatoio della capacità di mille ettolitri. I re assiri fecero costruire opere per il deflusso e lo scolo delle acque: Sargon II, ad esempio, a Khorsabad, fece aprire nel pavimento di molte sale i condotti di scarico, larghi 28 cm., dapprima verticali e poi obliqui, che si ricongiungevano tutti in un ampio collettore. Né diversamente agivano gli architetti cananei quando costruivano i loro canali, e il grande bacino di Gezer e lo sbarramento di Lachis col vasto serbatoio. Per i risultati raggiunti, non possono considerarsi semplici opere d'ingegneria empirica gli argini costruiti dagli Egizî, i lavori eseguiti per una sapiente distribuzione delle acque a scopo agricolo e le macchine ideate per il sollevamento delle acque del Nilo.

Dione infatti racconta di un sifone d'invenzione egizia usato fin da tempi remotissimi per estrarre e rendere potabile l'acqua del Nilo: è il circinus aegyptiacus, specie di sifone per decantare liquidi, il cui principio teorico era dagli antichi variamente interpretato secondo che la spiegazione si richiamava alla teoria platonica della coesione e dell'attrazione molecolare, teoria accolta da Filone e da Vitruvio, ovvero a quella stratonica, accettata da Plinio, della pressione dell'aria e della propulsione dei corpi leggieri da parte di quelli pesanti.

I popoli che precedettero i Greci nell'Egeo, Cretesi, Minî e Micenei, non solo conoscevano e praticavano l'arte di condurre e scaricare le acque (come si è visto, ad es., a Cnosso, a Micene e a Tirinto), ma conoscevano anche i mezzi della sistemazione lacuale per via di emissarî. Ai Minî infatti si attribuisce quel grandioso sistema di gallerie scavate nella roccia con pozzi verticali, che costituiscono i tre canali o emissarî del Lago Copaide, uno dei quali era lungo 3 km. ed un altro ben 6 km. e ½.

I Greci, giovandosi, con tutta probabilità, dei risultati raggiunti dalle osservazioni e dalle indagini dei popoli orientali, costruirono anche numerosi apparecchi idraulici. Vitruvio ricorda apparecchi di livellazione quali il corobate (lungo regolo a doppio piano fornito di due fili a piombo e di un canaletto pieno d'acqua), la diottra e la livella ad acqua o libra aquaria, la cui invenzione si attribuisce a Teodoro di Samo e che non è in fondo che una diottra di Erone, la quale aveva, applicato all'alidada, un regolo: in questo s'incastrava un tubo di rame, alle cui estremità ricurve si univano alla loro volta due tubi di vetro pieni d'acqua. Ma tra gli apparecchi descritti da Erone, inventati in parte da esso medesimo (sec. I a. C.) e in parte da Ctesibio (sec. II a. C.) e da Filone di Bisanzio, troviamo oltre la fontana, detta appunto eroniana, anche, nella sua forma più semplice, il sifone. Anzi la teoria del sifone, come quella delle fontane intermittenti e delle ruote idrauliche, si trova già esposta sommariamente da Filone nel trattato di cui ci resta solo la versione araba (Carra de Vaux, Le livre des app. pneum. et des mach. hydraul. de Ph. de Byz., in Not. et Extraits, XXXVIII, Parigi 1902).

Presso i Greci, così dell'Ellade come dell'Asia Minore e della Sicilia, troviamo non solo canali d'irrigazione, serbatoi di deposito e condotti di scarico (basti ricordare i cunicoli di drenaegio del sottosuolo costruiti da Feace ad Agrigento poco dopo il 480 a. C.), ma anche veri e ben ideati acquedotti e anche varî e complessi tipi di macchine idrofore.

Racconta Diodoro (I, 34) che ai suoi tempi l'irrigazione delle terre nella regione egiziana del Delta avveniva per mezzo di una macchina inventata da Archimede (il primo disciplinatore di tutta la materia relativa alla scienza idraulica) che dalla sua forma si chiamava chiocciola. È la cosiddetta cochlea o vis Archimedis, cilindro cavo ad asse centrale con avvolgimenti lignei a elica, minutamente descritta da Vitruvio (X, 6), e di cui la recente scoperta di una pittura pompeiana nella via dell'Abbondanza ha permesso di riconoscere esattamente il funzionamento (Lojacono, Della Cochlea di Archimede, in Not. degli scavi, 1927, pp. 84-89). Di un'altra macchina idrofora dei Greci conosciamo la descrizione attraverso i testi di Erone e di Vitruvio, e cioè di quella dell'alessandrino Ctesibio, il maestro di Erone, specie di pompa premente che è stata bene paragonata alle nostre pompe d'incendio, e che sollevava l'acqua molto più in alto della coclea; si sono trovati del resto alcuni avanzi di antiche pompe, ad esempio quella di Bolsena, che molto si accostano alla macchina di Ctesibio (cfr. A. Calderini, Macchine idrofore secondo i papiri greci, in Rendiconti del R. Istit. Lombardo, 20, LIII, 1920, pp. 620-631). Vitruvio infine descrive fra le altre macchine idrofore anche il timpano, del quale viene a lui stesso attribuita l'invenzione, e, per maggiori altezze, la ruota a cassette e la noria; occorre qui ricordare che una noria e una pompa a stantuffo, che servivano per l'estrazione dell'acqua infiltratasi in sentina, furono recentemente ritrovate nei lavori di ricupero delle navi di Nemi.

L'uso dei primitivi e già ricordati strumenti di livellazione (noti dall'applicazione di concetti e metodi euclidei), come rese possibili le costruzioni idrauliche dei Greci, promosse anche il perfezionamento e la maggiore diffusione di esse presso gli Etruschi: come lo provano non solo ciò che Plinio dice (Nat. hist., III, 20, 120) a proposito dei canali di scolo scavati dagli Etruschi nel Po, ma soprattutto i monumenti superstiti, come il Ponte Sodo sul Cremera, e gl'impianti di bonifica presso Cosa, particolarmente la celebre Tagliata o emissario del lago di Burano, con il cosiddetto "Spacco della Regina".

Eredi degli Etruschi, i Romani dettero alle opere idrauliche un'importanza di primo piano: tutti i mezzi tecnici atti a raccogliere le acque di fonte e piovane e quelle sotterranee per gli usi dell'alimentazione e dei bagni furono da essi adottati e perfezionati: pozzi a tiraggio manuale (si è ritrovato da poco nel Foro Romano un pozzo arcaico che rimonta al sec. VIII a. C.); fonti di acqua sorgiva, acquedotti con captazione delle acque da fonti o da cisterne o da corsi d'acqua con sbarramenti di derivazione, o dal terreno per mezzo di cunicoli e condotti di drenaggio; cisterne alimentate da acque sorgive o sotterranee, da corsi d'acqua e da pozzi per mezzo di macchine idrofore (procedimento che pare sia stato seguito anche a Leptis in età adrianea), da acque piovane o infine da acquedotti. Tali cisterne si differenziavano così da quei vasti pantani, scavati nel terreno per la raccolta delle acque (dei quali sono tipici quelli emeritensi di S. Maria, di Proserpina, che aveva 5 km. di periferia, e di Cornalvo, lungo m. 222, diviso in due da una diga e con una magnifica torre granitica di registrazione), come dalle piscine limarie a multipli bacini per la chiarificazione e purificazione delle acque (concetto tipicamente romano che Vitruvio raccomanda e che i monumenti superstiti, come quelli di Leptis Magna, di Mahdia e di Cartagine, manifestamente confermano) e dai lacus e dai ninfei, scoperti, e alimentati da acque vive.

Questi diversi sistemi erano, naturalmente, variamente combinati: P. Romanelli, ad es., ha riconosciuto a Leptis Magna che i due cisternoni severiani dell'Uadi Lebda dapprima erano isolati e costruiti per attingervi l'acqua in sito, poi furono congiunti tra loro e con un acquedotto che portava l'acqua in città. Particolarmente notevoli le cisterne ad acqua piovana, costruite in guisa da poter raccogliere, con idonei piani inclinati, le acque di una vasta area collettrice rappresentata da larghe superficie rocciose sovrastanti, come è stato riconosciuto dal Secchi a Segni (area di circa 2000 mq.) e a Palestrina, dal Ghislanzoni a Safsaf presso Cirene e, pare, dal Romanelli a Leptis (cisternone superiore). Sulla costruzione di questi serbatoi dànno norme precise Vitruvio, Palladio e Faventino (v. cisterna).

I Romani conoscevano nei suoi principî fondamentali la teoria dei sifoni rovesci, e praticavano l'arte di costruire acquedotti a condotta forzata anche su grande scala: per quanto gli esempî più frequentemente ricordati siano quelli di Aspendos e di Patara, il primo veramente grandioso costruito in Italia è stato quello che A. Secchi riconobbe ad Alatri, chiamato di L. Betilieno Varo (134 a. C.), il quale alzava una massa d'acqua di 188 litri al secondo per oltre 100 metri sul fondo valle, sotto la pressione di 10 atmosfere, attraverso tubi che nei punti di maggiore pressione erano di bronzo, ma che per la maggior parte erano in cotto, enormi, spessi 345 mm., di pasta fine, compatta, rinforzati da una fodera di calcestruzzo.

Ma più spesso le condotte forzate usavano tubi di piombo e canali in muratura (vedi fistola). Del resto le norme che detta Vitruvio per la costruzione degli acquedotti a sifone rovescio dànno prova ch'egli aveva una precisa conoscenza del principio dei vasi comunicanti, con tutte le prescrizioni necessarie per fronteggiare gli effetti delle pressioni dell'acqua e dei colpi d'ariete: lungo tratto orizzontale in basso (ventre), non bruschi gomiti ma curve a grande raggio, impianto di sfiatatoi a colonna verticale (che gli interpreti di Vitruvio hanno variamente chiamati columnaria, colluviaria, colliviaria, colliquiaria, colleniaria), dei quali molto si è discusso ma di cui non mancano gli esempî ad Aspendos, Lione ecc. (K. Stehlin, Über d. Colluviaria o. colliquaria d. römischen Wasserleitungen, in Anz. fur schweiz. Altertumskunde, XX, p. 167). Vitruvio aveva dettato queste prescrizioni soprattutto pel fatto che non ignorava affatto i mezzi imperfetti di cui al suo tempo si poteva disporre per la saldatura dei tubi che dovevano resistere alla pressione dell'acqua. Tuttavia, anche nella costruzione degli acquedotti, i Romani, come giustamente fa osservare G. Giovannoni (La tecnica della costruzione presso i Romani, Roma s. a., p. 114) si sono mostrati più grandi costruttori che grandi idraulici.

Dai trattati di Vitruvio e di Plinio possiamo poi argomentare quali fossero le conoscenze degli antichi in fatto d'idrologia. Vitruvio s'indugia a indicare i mezzi per riconoscere le acque sotterranee (VIII, 1); e che gli antichi sapessero identificare i filoni di queste acque sotterranee, ne abbiamo una riprova a Delo, dove si trova tutta una serie di pozzi allineati secondo una striscia, che corrisponde appunto a un filone naturale. Ma Vitruvio e Plinio (Nat. Hist., XXXI, 21, 23, 28) insegnano ancora a distinguere le varie qualità d'acqua, preferendo quelle di sorgente e soprattutto quelle di montagna, provenienti da rocce dure e silicee, e poi quelle sgorganti dal tufo, dai terreni carboniferi e dalla ghiaia: meno buone di tutte erano considerate quelle provenienti dai terreni cretacei e sabbiosi. Vitruvio insegna anche a raccogliere per via di cunicoli le acque d'infiltrazione nei tufi vulcanici, porosi e permeabili, e, dove questi mancavano, a scavare le gallerie al confine tra le sabbie e le marne argillose, armandole di volte murate e profittando così delle filtrazioni attraverso le sabbie che venivano arrestate dagli strati argillosi: cunicoli scavati in questo modo si sono effettivamente ritrovati a Magliano Sabino e in vari altri luoghi.

Tra le opere che meglio rivelano la tecnica idraulica dei Romani sono da annoverare le dighe di sbarramento, i cunicoli di drenaggio, le gallerie degli emissarî e i canali artificiali di navigazione, di bonifica e d'irrigazione.

Gli sbarramenti (a struttura ora di pietre a secco, ora di calcestruzzo, ora di grandi blocchi, secondo la loro importanza e dimensione) servivano il più spesso a deviare corsi d'acqua (come quello di Subiaco, alto circa metri 40 e spesso m. 14, che crollò nel 1305; o quello di Leptis, ad ali ricurve, che a 2 km. dal mare deviava il fiume verso un nuovo alveo; o quelli di Kasrin e delle oasi del sud tunisino); ma altre volte servivano a ripartire più razionalmente le acque pluviali e a dirigerle verso grandi serbatoi, come si vede a Haouch Taácha. Per riconoscere poi a qual grado d'esperienza tecnica fossero giunti i Romani per quanto riguarda i canali di scolo e i cunicoli di drenaggio basta percorrere la Campagna romana e la regione delle Paludi pontine. A prescindere anche dalla Cloaca maxima (v. cloaca) basterà considerare lo scavo del Rio Martino, quale emissario delle Paludi Pontine. I primi lavori per la bonifica di queste cominciarono sulla fine del sec. IV a. C., sotto il consolato di Cornelio Cetego. Augusto li riprese e fece scavare lungo l'Appia un grande canale che serviva anche alla navigazione (Orazio, Sat. V); Nerva e Traiano li ripresero alzando ancora il livello dell'Appia, e scavando sotto di essa dei ponti (sino a metri 8,50 di corda) per il libero scolo delle acque; gli ultimi lavori di bonifica furono intrapresi sotto Teodorico dal patrizio Decio. Non meno notevoli furono i lavori di bonifica e di canalizzazione condotti nelle paludi del Po da Emilio Scauro nell'anno 110 a. C., e lo scavo della Fossa Tiberiana per portare nel Nera le acque della piana reatina. Per le opere minori di drenaggio, Palladio (VI-3) consiglia le fosse piene di pietre sciolte, dette forme cieche: a uno scopo del genere dovevano servire anche i grossi tubi (lunghi m. 1,13 e con diametro di m. 0,43), porosi e a pareti sottilissime, che furono ritrovati nel sottosuolo di Alatri, avvicinati e affacciati ma non connessi. Notevoli anche, dal punto di vista della tecnica idraulica romana, le opere compiute per la regolarizzazione del letto dei fiumi: tipica, nella Spagna, la galleria che attraversa il colle Montefurado (Lugo), lunga m. 400, per sviare il fiume Sil.

Occorrerà ricordare per ultimo i grandi lavori per lo scavo di emissarî, destinati al prosciugamento o alla regolarizzazione del regime dei laghi, e che sono la più alta espressione della tecnica idraulica romana.

Gli esempî più noti sono quelli dei laghi Albani e del Fucino: la galleria che serve da emissario al lago di Albano, e che rimonta al tempo della presa di Veio, ancora funziona, col suo mirabile paramento di pietra; l'emissario del lago di Nemi offre la singolarità che in un primo tratto è un vero e proprio emissario lacuale, mentre in seguito l'emissario si combina col sistema dei cunicoli di drenaggio delle acque sotterranee degli strati tufacei. Ma la più ardita impresa dell'ingegneria romana è l'emissario Claudiano destinato a prosciugare in gran parte il bacino del Fucino (non totalmente, perché la soglia d'imbocco dell'emissario era di m. 1,20 più alta del fondo del lago) e a gettarne le acque nel Liri. L'esecuzione della mirabile galleria, lunga m. 5642, con la sezione di mq. 5, a rettangolo sormontato da un arco e con la pendenza costante dell'1,50%, fu certo preceduta da studî e rilievi di carattere planimetrico e geologico, e fu condotta con ogni cura: numerosi pozzi dividevano il percorso dello scavo in tronchi brevi; il parziale rivestimento in muratura della galleria era stato costruito con la preventiva esecuzione di robuste armature. Ma la sezione, che risultò insufficiente, l'incapacità di dare ai piedritti la resistenza necessaria per far fronte alla spinta comprimente dei terreni argillosi, la fretta del lavoro, affidato direttamente da Claudio al suo liberto Narciso, e forse anche un'errata manovra di apertura, fecero subito franare quell'opera gigantesca, che sta però sempre a testimoniare l'ardimento dela tecnica idraulica dei Romani.

S'interrompe in Europa, con la caduta dell'Impero di Occidente, o, se vogliamo, dopo Belisario, il periodo delle grandi costruzioni d'utilità pubblica, e l'architettura monumentale prosegue per 10 secoli il suo cammino soltanto attraverso chiese e abbazie, fortezze e palazzi. Ma non pochi degli antichi acquedotti dell'età romana vengono qua e là mantenuti, e, all'occorrenza, risarciti e restaurati; qualcuno anche viene, a imitazione degli antichi, costruito, benché durante il Medioevo si ricorresse più spesso a pozzi e a cisterne. Basti qui ricordare, per Roma, i risarcimenti di Adriano I, Gregorio IV e Niccolò I all'acquedotto di Traiano e quelli di Adriano I agli archi dell'Acqua Vergine. Ma in questi risarcimenti non si tratta, per solito, che di una ripresa parziale delle antiche murature, senza che alcun nuovo mezzo tecnico venga esperimentato e messo in opera. Anche qualche acquedotto sorge, come si è detto, ex novo nei secoli del Medioevo: e, a prescindere dai due giustinianei di Costantinopoli, nei quali resta intatta la tradizione di Roma, e da quello monumentale di Elvas (Portogallo), a quattro piani, che si riteneva moresco ma che è in realtà del sec. XVI, ricordiamo, fra i più antichi, quello di Mans (metà del sec. IX) e quello ad arcate di pietra, a tutto sesto, di Casamari (fine sec. XII); quest'ultimo e la grande cloaca, a volta pure semicircolare, trovata sotto l'Abbazia di Fossanova e compiuta nel 1208, provano che anche in questo campo dell'arte costruttiva molto è dovuto all'opera infaticabile dei monaci cisterciensi. Ricordiamo ancora l'acquedotto di Spoleto, che rimonta in origine alla bassa romanità e che ebbe diversi rifacimenti nel Medioevo, prima di quello rdicale e generale di Gattapone (1257); in questo e in quello di Salerno (sec. XIV) si trovano già, nell'ogiva delle arcate, i riflessi dell'arte gotica. In questi acquedotti, che seguono in generale nelle loro strutture le grandi linee delle tipiche costruzioni romane, le quali offrivano esempî copiosi, sia pur spesso già diruti, ai maestri medievali, s'affaccia però qua e là qualche timida innovazione, frutto di nuove e meditate esperienze. Tali le gronde poste ai contrafforti dei piloni nell'acquedotto di Coutances (1277) per riversare il soverchio in caso di piena; tale ancora l'ingegnoso sistema che si è ritrovato nell'acquedotto dell'abbazia di Saint-Bertin (principio del secolo XII), che era alimentato per mezzo di una macchina elevatoria azionata dalle ruote motrici dei molini abbaziali. Gli acquedotti medievali, come i romani, erano talvolta su arcate, talaltra a conduttura sotterranea con gallerie che, in qualche caso (come a Limoges, principio del sec. XIV), erano di tale ampiezza da permettere l'accesso di una persona per la ripulitura. Talvolta infine gli acquedotti si riducevano a semplici condotti di cotto imprigionati entro un rivestimento di calcestruzzo a sezione quadrata, come nell'acquedotto del Pré-Saint-Gervais a Parigi. Inutile aggiungere che i tubi delle condutture erano per lo più, come nell'età romana, di piombo o di terracotta, ma non sono rari i casi in cui per ragioni d'economia erano anche usate condutture di legno.

Ma l'arte idraulica dei popoli medievali in Occidente non ha mai saputo rivaleggiare con quella così progredita dei Musulmani, particolarmente delle regioni orientali, dove restarono vive a lungo le tradizioni della scienza idraulica dei Sasanidi: dall'Egitto (dove potremmo ricordare non solo l'acquedotto di Ibn-Ṭūlūn al Cairo, del sec. IX, ma soprattutto il famoso e ingegnoso nilometro di Sulaimān, 716 d. C., nell'isola di Rōḍah, con le sue misure arabe e le due iscrizioni cufiche), attraverso la Persia (dove oggi ancora numerosi pozzetti di luce sormontati da torricelle rendono visibili lunghe serie di acquedotti sotterranei e dove esistevano anche grandiosi sbarramenti idraulici, come quelli di Sāweh e di Bend Encir, e numerose cisterne a vòlta con scale che scendevano al fondo) sino all'India, dove ci restano del Medioevo i caratteristici laghi artificiali, tipico fra tutti quello di Odepur.

Ma più spesso che agli acquedotti nel Medioevo si ricorse per l'approvvigionamento dell'acqua, ai pozzi e alle cisterne, sia per la loro più facile costruzione sia per il grande vantaggio che essi presentavano rispetto agli acquedotti in caso d'assedio.

Per le cloache, salvo rare eccezioni e dove non esistevano più quelle romane, i costruttori del Medioevo ricorreranno di solito, sino al sec. XII, a canali scoperti e a ruscelli incassati nel terreno e ricoperti da lastre di pietra: soltanto negli ultimi secoli del Medioevo tornano a riapparire qua e là delle gallerie sotterranee. Non mancano infine tentativi più o meno riusciti di canali d'irrigazione e di navigazione. Ma le costruzioni più tipiche di quel tempo, nel campo dell'arte e della tecnica idraulica, sono le fontane, dei tipi più diversi, sia a cielo scoperto sia entro costruzioni a vòlta, a unico serbatoio e a bacini multipli. Ed è in Italia che si trovano gli esempî più antichi e ben conservati di queste fontane, come quelle famose dugentesche di Siena, di S. Gemignano, di Perugia e di Viterbo, e quella a tre bacini di Aquila.

È d'uopo comunque confessare che l'idrotecnica medievale resta molto al disotto di quella dei Romani, e che le costruzioni idrauliche di questi mai furono eguagliate nel Medioevo, anche se questo poteva disporre di strumenti più appropriati e perfezionati: basti ricordare, ad esempio, due strumenti che i Romani non conoscevano: l'uno è l'areometro o gravimetro (pesa liquidi) inventato ai tempi del vescovo Sinesio (sec. V d. C.) e da lui descritto in una lettera a Ipazia; l'altro è il barometro o scandaglio, scoperto dall'ebreo Savasorda (sec. XI) e descritto nel suo Liber embadorum, dal quale probabilmente lo trassero il Cusano, che lo descrive nell'Idiota, e l'Alberti che lo espone nei Ludi mathematici e che gli dette il nome di Bolide Albertiana.

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Idrotecnica moderna.

Nell'età moderna l'idrotecnica ha preso così ampio sviluppo da non rendere possibile una trattazione unitaria. Si dànno qui di seguito i rimandi alle voci particolarmente dedicate ad argomenti idrotecnici.

1. Acquedotti per forniture d'acqua potabile: v. acquedotto: Tecnica costruttiva; condotta: Condotte d'acqua potabile.

2. Fognature cittadine: v. fognatura.

3. Sistemazioni e costruzioni fluviali: v. fiume; idraulica fluviale.

4. Le rive del mare possono essere soggette a erosioni o a insabbiamenti, per effetti eventualmente combinati delle onde, delle maree, dei venti e di sbocchi fluviali. Le costruzioni marittime comprendono i singoli provvedimenti di protezione e inoltre le opere portuali (v. porto) destinate alla navigazione marittima.

5. Invece la navigazione interna (v.), che cioè si svolge su vie d'acqua interne ai continenti, comprende opere e lavori concernenti i porti e approdi nei laghi, il miglioramento delle condizioni di navigabilità di certi fiumi, o anche la costruzione di appositi canali per navigazione (v. canale). Per rendere possibile la navigazione fra due tronchi a livello alquanto diverso, il provvedimento più generalizzato è costituito delle conche (v. conca).

6. Bonificazioni (v. bonifica). - Dal significato di prosciugamento e sistemazione idraulica di terreni vallivi o paludosi, il concetto di bonifica è andato allargandosi ad altre categorie di opere dirette al miglioramento di terreni coltivabili; tra queste una parte importantissima è rappresentata dalle opere d'irrigazione (vedi irrigazione).

7. Derivazioni d'acqua da torrenti o fiumi (v. derivazione; diga). - Per ottenere una sufficiente sedimentazione dei materiali di trasporto, possono annettersi alla derivazione bacini di calma, o altri dispositivi di chiarificazione appropriati. Come opere adduttrici, negl'impianti idraulici per forza motrice intervengono condotte a pelo libero (canali, gallerie) o a pressione (gallerie a pressione, tubazioni); esse svolgendosi con cadenti assai minori di quelle del sotteso corso naturale e spesso altresì con minori lunghezze, valgono a rendere disponibile un certo dislivello o caduta, su cui viene utilizzato il peso dell'acqua addotta per ricavarne energia (v. canale; condotta: Condotte per forza motrice). In impianti a considerevole portata, può anche mancare un vero canale o condotta di adduzione, quando si tratti semplicemente di utilizzare un dislivello corrispondente alla ritenuta della diga. L'utilizzazione dell'energia idraulica avviene generalmente in centrali idroelettriche, la cui costituzione per la parte idraulica dipende specialmente dal tipo e dalle modalità d'installazione delle turbine (v. turbina).

8. Macchine idrauliche (v. pompa; ruota: Ruote idrauliche; turbina).

Bibl.: V. Baggi, Costruzioni idrauliche, Torino 1927; G. Belluzzo, Le turbine idrauliche, Milano 1922; E. Coen Cagli, Costruzioni marittime, Padova 1928; Debauve-E. Imbeaux, Distributions d'eau, Parigi 1905; G. De Marchi, Idraulica, Milano 1930; H. Engels, Handbuch des Wasserbaues, Lipsia 1923; G. Fantoli, Le acque di piena nella rete delle fognature di Milano, Milano 1904; U. Ferro, Navigazione interna, Padova 1927; T. Gloria, Tecnica idraulica per la bonifica integrale, Padova 1929; Handbuch der Ingenieur-Wissenschaften, III: Wasserbau; A. Ludin, Die Wasserkräfte, Berlino 1913; F. Marzolo, Utilizzazioni di forze idrauliche, impianti idroelettrici, Padova 1926; G. Mistrangelo, Provvista e distribuzione di acque potabili, Milano 1928; A. Pallucchini, Tecnica della navigazione interna, Milano 1915; C. Ruggiero, Utilizzazione delle acque per irrigazione, Padova 1932; A. Schoklitsch, Der Wasserbau, Vienna 1930; E. Scimeni, Dighe, Milano 1928; C. Valentini, Sistemazione dei torrenti e dei bacini montani, Milano 1930; E. Zeni, L'ingegnere idraulico nella teoria e nella pratica, Milano 1927.

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