ANGELICO, il Beato

Enciclopedia Italiana (1929)

ANGELICO, il Beato

Roberto Papini

Fra Giovanni da Fiesole, detto il beato Angelico, pittore, nacque nel 1387 a Vicchio di Mugello (Firenze) e morì a Roma il 14 luglio 1455. Si chiamava, al secolo, Guido o Guidolino di Pietro. A vent'anni, entrò nel convento di S. Domenico di Fiesole e prese, col fratello Benedetto, calligrafo di codici miniati, l'abito domenicano, pronunciando i voti dopo un anno di noviziato, nel 1408. Nell'estate del 1409, fattesi aspre nel campo ecclesiastico le contese per il riconoscimento dell'elezione del papa Alessandro V, fuggì con tutta la comunità domenicana di Fiesole a Foligno. Scoppiata ivi, nel 1414, la pestilenza, l'intera comunità profuga migrò a Cortona, e soltanto nel 1418 il vescovo di Fiesole concesse il perdono ai frati riottosi e il permesso di tornare nel convento fiesolano. L'A. vi sostò lungamente, perfezionandosi nell'arte della pittura ed operando. Avendo nel 1436 Cosimo il Vecchio de' Medici concesso ai domenicani la chiesa e il convento di S. Marco in Firenze, fu incaricato Michelozzo di riattarne i locali caduti in abbandono; nel 1439 erano riedificati il chiostro ionico e la cappella del capitolo e nel 1443 tutto l'edificio era completamente restaurato; ivi l'A. operò di continuo nel decorare chiostro e celle, dando i primi luminosissimi saggi dell'arte sua di frescante. Chiamato a Roma da Eugenio IV (1445), dipinse nel palazzo del Vaticano la cappella del Sacramento, distrutta poi da Paolo III circa il 1540. Nel maggio del 1447, incaricato dall'Opera del duomo d'Orvieto di dipingere la cappella di S. Brizio, ne frescò due spicchi della volta e lasciò interrotto il lavoro, compiuto più tardi da Luca Signorelli. Tornato a Roma dipinse nel Vaticano la cappella dei Ss. Stefano e Lorenzo, che dal nome del committente papa Niccolò V fu detta Niccolina. Dopo essere stato nel gennaio 1452 priore del convento fiesolano in cui era entrato novizio, dopo avere rifiutato la decorazione pittorica del coro nel duomo di Prato, affidata poi a Filippo Lippi, tornò l'A. a Roma, vi morì a 68 anni e v'ebbe sepoltura in S. Maria sopra Minerva.

L'A. non fu precoce; le prime opere sicuramente databili risalgono circa al 1420. S'era istruito nell'arte prima d'allora sotto gl'influssi di d. Lorenzo Monaco e della scuola di miniatori fiorente nel convento di S. Maria degli Angioli in Firenze. Nessun elemento si ha per ritenere fondata l'ipotesi che egli fosse discepolo di Gherardo Starnina, la cui personalità artistica è rimasta molto misteriosa; e nessun fondamento ha l'altra ipotesi che durante il soggiorno in Umbria egli sentisse gl'influssi della pittura di Ottaviano Nelli e della scuola pittorica locale. L'educazione eclettica ch'egli ebbe gli permise di raccogliere in sé l'essenza delle due correnti pittoriche trecentesche sgorgate da Giotto e da Simone Martini, di fonderle ed esaltarle nell'espressione della sua strapotente personalità. L'A. certo fu a contatto con i tre gruppi di vita artistica che nei primì anni del Quattrocento fiorivano in Firenze: le scuole dei miniatori, le botteghe degli ultimi gíotteschi scolari dei Gaddi, il gruppo dei giovani scultori e architetti destinati a gran fama, Iacopo della Quercia e il Ghiberti, Filippo Brunelleschi e Donatello. Elementi tratti da ciascuno di questi centri si trovano nell'arte dell'A. come indizî di una formazione laboriosa e d'una coscienza attentissima; ma la sua arte non s'intende se non se ne vede lo stretto rapporto coi maggiori pittori fiorentini della prima metà del Quattrocento dei cui intenti - nella ricerca della prospettiva, del rilievo, dell'espressione - egli fu partecipe, pur trasfigurandoli nel proprio spirito. Di carattere schivo e devoto, d'indole laboriosa e pia, di temperamento curioso e obbediente, sì che non soltanto per l'eccellenza dell'arte ma per la santa esemplarità della vita meritò il soprannome di beato Angelico datogli dai posteri, il frate pittore fu singolamiente fecondo di opere su tavola e su muro, quasi tutte raccolte e conservate in Firenze. Nelle prime pitture l'arcaismo goticizzante è visibile, ché non ancora l'artista s'è liberato dal timore e dall'impaccio; ma nei piccoli tabernacoli del Museo fiorentino di S. Marco e particolarmente nella Madonna della Stella l'arte sua sboccia e già è in pieno fiore con quella pia dolcezza d'ispirazione, e con quella cristallina purezza di concezione nella forma e nel colore che rimarranno sempre più tipiche in ogni altra pittura. Seguono nella cronologia delle opere principali: il Giudizio Universale del Museo di S. Marco, prima grande opera su tavola del periodo della maturità, e l'Incoronazione della Vergine nello stesso museo; entrambi su fondo d'oro alla maniera trecentesca ma con maturità di forme quattrocentesche sui canoni già affermati dagli scultori fiorentini e da Masaccio. Nella Madonna dei Linaioli (1433), contornata sulla cornice da quegli angioli musicanti che sono celeberrimi e specialmente nelle grandi figure di santi effigiati sugli sportelli con solennità di statue, l'A. assume, accanto alla grazia, monumentalità di forme, e nella grande Deposizione dalla Croce, pure nel Museo fiorentino di S. Marco, raggiunge la piena padronanza dei suoi mezzi, la compiuta espressione del suo stile. S'afferma in questo quadro trionfalmente lo spirito naturalistico del Quattrocento non solo nel senso nuovo di vita infuso alle figure col gesto e con la varietà d'espressione, ma nella novissima interpretazione del paesaggio riassunto dalla natura, sostituito all'oro nel fondo, capace d'avviluppare i corpi di luce.

La stupenda serie di affreschi che l'A. dipinge tra il 1436 e il 1443 nelle celle del convento di S. Marco, illustrandovi i fatti della vita di Cristo, è il primo dei grandi cicli pittorici usciti dal pennello del domenicano. L'arte di lui, esercitatasi prima d'allora in tavole accarezzate come miniature, subisce, di fronte alle necessità tecniche della pittura a fresco, una generale semplificazione d'ogni forma, un'ulteriore maturazione. Dovunque, in quelle pitture delle cellette monacali, è un biancore diffuso, un'incredibile sapienza coloristica nei toni chiari, una riduzione al minimo degli elementi espressivi indispensabili alla trattazione del tema. Nella Trasfigurazione l'apparizione di Cristo grandeggia come una solenne statua alabastrina nel chiarore diffuso; nell'Annunciazione della cella n. 3, entro un loggiato di chiostro i rosei delle vesti si confondono quasi con l'incarnato dei volti; nella scena degl'Insulti a Gesù l'amore della semplificazione ha fatto accettare l'indicazione tradizionale dei cinque sgherri a una testa e quattro mani che insultano e colpiscono il Redentore; nell'Incoronazione della Vergine non vi son più broccati, ori, raggiere, marmi, ali variopinte, folla di beati come nelle opere del periodo precedente, ma tutto si riduce alla bianchezza della Madre e del Figlio sull'albore delle nubi leggiere circondate da un alone iridato; nella Discesa al Limbo, nel Discorso della montagna, nell'Orazione entro l'oliveto, là dove meglio è raggiunta la sintesi della visione, la forma assume quella semplicità e chiarezza che è caratteristica di tale periodo, il colore si riduce quasi totalmente ad una alternanza di bianchi, di bruni, di grigi ferrigni. La serie degli affreschi di S. Marco culmina nella grande Crocifissione della sala del Capitolo rappresentante i santi, i martiri, i dottori della Chiesa come testimoni estatici dell'epilogo della Passione; intensità d'espressione, nitore di forme, limpidezza di colore, equilibrio perfetto di composizione segnano in questo affresco uno dei più alti punti a cui sia giunta mai la pittura cristiana.

Alla purità monacale che traspira dagli affreschi del convento di S. Marco succede, nell'evoluzione dello stile, la solenne grandiosità delle storie di S. Stefano e di S. Lorenzo nella cappella Niccolina: la maestà di Roma ha commosso il frate pittore che organizza negli sfondi l'ampiezza delle architetture, arricchisce le scene con l'apparato delle vesti e degli ornamenti. Di tale rinnovata passione del frate per gli ornamenti splendidi s'era vista già traccia nella tavola d'altare dipinta da lui per la chiesa di S. Marco in Firenze con gran lusso di tendaggi, festoni, palmizî, stoffe e tappeti, riflesso probabile dei cortei sontuosissimi d'Oriente che nel 1439 avevano stupito Firenze durante il concilio per l'unione delle Chiese orientali con Roma. Nelle pitture della cappella Niccolina l'A. profitta di tutta la sua matura esperienza: atteggia e muove il corpo umano con padronanza, lo costruisce con grandiosità sotto le larghe pieghe dei panni, raggiunge talvolta una profondità d'espressione che uguaglia, e supera anche, quella dei suoi dipinti del periodo fiorentino. Ma egli è tentato di strafare un poco, di abbandonarsi al gusto dell'episodio accessorio, di complicare le scene con particolari paesistici, di sacrificare al fastoso e al ricco l'efficacia parsimoniosa. In compenso acquista una profondità e vastità di scenarî che prima gli era ignota, e i suoi personaggi terreni che si muovono negli episodî della vita dei santi si nutrono d'una sensibile e commossa umanità che le creature dell'A., prima tutte prese nell'estasi dei cieli non avevano ancora raggiunta.

Così, d'esperienza in esperienza e di conquista in conquisia, l'arte dell'A. giunge al suo culmine: nelle scene che rappresenta in cielo, un cielo tutto vibrame d'oro raggiato, esprime la commozione dell'umanità; in quelle che immagina sulla terra tutta splendente d'erbe fiorite, pone nelle creature umane l'irrealità dell'essenza divina. Nella composizione sempre equilibrato e ritmico, entro schemi di rigore geometrico; nella rappresentazione della vita sempre incuriosito interprete delle immagini della natura vivente; nell'accettazione dei principî artistici del Rinascimento sempre aderente alla classicità rinata per opera del Brunelleschi e dei primi scultori quattrocenteschi; nella concezione del colore, dalle preziosità del miniatore alle aeree chiarità degli affreschi di S. Marco e alle densità più fonde delle pitture romane, fino alle fanfare di toni squillanti negli sportelli del tabernacolo dell'Annunziata dipinti nell'ultima fase di attività, sempre limpido, terso, trasparente, l'A., riassunte in sé le esperienze della pittura toscana del Trecento, affermò le nuove conquiste artistiche del Quattrocento, preceduto nella pittura soltanto da Masaccio, e v'aggiunse l'insuperata sua limpidezza cromatica, l'ineffabile espressione della sua angelica religiosità.

Rimase l'A. un fenomeno isolato per le qualità d'eccezione che possedeva, santità d'uomo accanto a inimitabile maestria d'artista, sì che parve e pare un prodigio. Fiorirono intorno alla vita dell'A. le leggende, raccolte con compiacenza dal Vasari, il quale volle diffondere fra i posteri non solo l'ammirazione per l'artista, ma la venerazione per il santissimo uomo che avrebbe rinunciato all'arcivescovato di Firenze per umiltà, non avrebbe mai "messo mano ai pennelli se prima non avesse fatto orazione", non avrebbe mai dipinto un Crocefisso senza piangere, non si sarebbe mai dipartito dalla più candida semplicità e santità dei costumi. In ciò la leggenda, certamente fondata su caratteristiche reali, interpretò il sentimento di tutti coloro a cui sembra impossibile che tanta angelica purità di pittura non corrispondesse a un temperamento altrettanto angelico del pittore. Di recente tutte le opere di cavalletto dell'Angelico esistenti in Firenze, e cioè la massima parte della grande produzione, sono state raccolte in una sala di quel convento di San Marco ch'egli aveva copiosamente illustrato con i meravigliosi affreschi. Tutta l'evoluzione e l'essenza dell'arte sua v'è chiaramente visibile come in nessun altro luogo. Ed essa rimase inimitata: anche i suoi discepoli diretti, Benozzo Gozzoli e Filippo Lippi, trasformarono gli insegnamenti di lui in formule, presero necessariamente altra via. L'arte di colui che sapeva pregare e dipingere in un medesimo tempo poteva essere dai seguaci riprodotta in qualche aspetto esteriore, non ulteriormente sviluppata in ciò che racchiude di più misterioso ed essenziale: l'originalità scaturita da un temperamento eccezionalmente privilegiato. (V. tavv. LVII-LXIV).

Bibl.: I. B. Supino, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, I, Lipsia 1907 (con la bibl. precedente); id., Fra Angelico, Firenze 1909; F. Schottmüller, Fra A. da Fiesole, Stoccarda 1911; A. Pichon, Fra Angelico, Parigi 1912; J. M. Strunk, Beato Angelico, Monaco 1913; C. Ciraolo e M. Arbib, Il Beato Angelico, Bergamo 1925; R. Papini, Fra Giovanni Angelico, Bologna 1925; W. Hausenstein, Fra Angelico, Monaco 1923; M. Wingenroth, Angelico da Fiesole, 2ª ed. a cura di Fr. Schottmüller, Lipsia 1926; R. van Marle, The development of the Italian Schools of Painting, X, l'Aia, 1928; R. Longhi, Un dipinto dell'Angelico a Livorno, in Pinacotheca, 1928, pp. 153-159; P. Muratoff, Frate Angelico, Roma 1929.

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