Il liberalismo

Dizionario di Storia (2010)

Il liberalismo

Giuseppe Bedeschi

Nonostante l’uso estremamente ampio che ne è stato fatto e ne viene fatto nell’ambito politologico, il concetto di liberalismo è assai controverso. Non si deve dimenticare infatti che gli stessi teorici del liberalismo hanno mostrato di avere divergenze su aspetti dottrinali fondamentali (la ben nota discussione sul rapporto fra liberalismo e liberismo è solo un aspetto di queste divergenze). Ma anche da un punto di vista storico il concetto di liberalismo è problematico. Il termine nasce abbastanza tardi: infatti l’aggettivo «liberale» entra nel linguaggio politico solo con le Cortes di Cadice del 1812, per connotare il partito, appunto, liberal, che difendeva le libertà pubbliche contro il partito servil; esso fu poi ripreso da Madame de Staël e da S. de Sismondi per indicare un nuovo orientamento etico-politico. Di qui il paradosso che alcuni di quelli che noi consideriamo tra i maggiori pensatori liberali (J. Locke, C.-L. Montesquieu, I. Kant) non hanno mai usato né il sostantivo («liberalismo») né l’aggettivo («liberale») nell’accezione in cui noi li usiamo oggi. A ciò si deve aggiungere che nel pensiero liberale si ritrovano ispirazioni e strumenti teorici non solo diversi ma addirittura opposti fra loro: i pensatori liberali del Seicento e del Settecento hanno fondato le loro concezioni su presupposti giusnaturalistici, mentre parte di quelli dell’Ottocento e del Novecento si è fondata su concezioni o utilitaristiche o storicistiche, e comunque non giusnaturalistiche o addirittura antigiusnaturalistiche. Alla luce di tutto ciò alcuni studiosi hanno negato la legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto categoria storico-politica e hanno preferito parlare di molti e diversi «liberalismi». Questa appare però una posizione estrema e inaccettabile. In primo luogo perché, anche se si parla di molti «liberalismi», l’uso stesso del sostantivo, sia pure al plurale, denota pur sempre qualcosa di comune che ne giustifica l’uso, e che deve essere comunque esplicitato. Del resto, se non fosse così, tanto varrebbe rinunciare alla stessa parola «liberalismo», espungerla dal lessico politico. Ma nessuna persona seria (o storico, o filosofo, o sociologo della politica) ha mai pensato di proporre questo.

E tuttavia, detto ciò, non si può certo negare che il concetto di liberalismo sia il risultato di una estrapolazione dai molti e diversi «liberalismi» che si sono manifestati storicamente. Ovvero: in quanto il liberalismo non è stato un unico soggetto storico (ideologico-politico-giuridico), esso è in larga misura un’astrazione, cioè una ricostruzione formalizzata, un isolamento delle caratteristiche tipiche (o di quelle che noi riteniamo essere le caratteristiche tipiche) dei vari pensatori, dei vari istituti e dei vari movimenti «liberali». Non perdere di vista questo fatto è importante, perché esso ci ricorda che, dopo aver individuato alcuni temi e alcune esigenze fondamentali comuni ai vari pensatori e alle varie correnti liberali, non dobbiamo mai trascurare la loro concretezza storica, e quindi la specificità delle loro articolazioni e delle loro sfumature, connesse ai loro diversi contesti sociali, politici e ideali.

Per quanto riguarda i principali motivi ispiratori del liberalismo, essi sono stati ben colti nella definizione che del liberalismo stesso ha dato un eminente studioso italiano, N. Bobbio. Tenendo presenti le sue origini seicentesche e i suoi sviluppi settecenteschi Bobbio ha indicato nel liberalismo una dottrina che afferma la limitazione dei poteri dello Stato in nome dei diritti naturali individuali, inerenti a ogni uomo in quanto tale (i cosiddetti diritti innati). La dottrina liberale è dunque l’espressione del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si fonda sull’affermazione che esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato, e che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e imprescrittibili agli individui singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello Stato. Di conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli individui, non può violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa dispotico), e in ciò trova i suoi limiti. Bobbio ha opportunamente aggiunto che, per quanto riguarda i principi filosofici, il liberalismo è espressione dell’individualismo razionalistico, proprio della filosofia illuministica, per il quale l’uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione con i suoi simili. Come persona il singolo è superiore a qualsiasi società di cui entra a far parte e lo Stato, a sua volta, è soltanto un prodotto dell’uomo (in quanto sorge da un accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e non è mai una persona reale, bensì solo una somma di individui aventi ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti fondamentali che lo Stato deve garantire, pur variando da autore ad autore e da costituzione a costituzione, si possono raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la libertà dallo Stato nella sfera individuale (libertà di pensiero, di religione ecc.); diritti relativi alla libertà dallo Stato nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa economica, di commercio ecc.).

L’istanza antidispotica e la concezione «strumentale» dello Stato (che deve garantire i diritti innati degli individui e assicurare pienamente le loro libertà in campo intellettuale ed economico) sono al centro delle dottrine di quelli che possono essere considerati come i primi grandi teorici del liberalismo. Nei Two treatises of government (1690) di Locke confluiscono i fili della lunga battaglia ideale e politica condotta nel Seicento dalle forze parlamentari contro il dispotismo degli Stuart. Secondo il modello tracciato dal pensatore inglese, gli uomini abbandonano lo stato di natura divenuto insicuro e danno vita a una società civile o politica. In tale società essi conservano tutti i loro diritti innati (vita, libertà e averi), mentre rinunciano al diritto di farsi giustizia da soli. Il potere politico a cui essi danno vita è caratterizzato dalla divisione fra potere legislativo (eletto dai cittadini), che è il potere supremo, e potere esecutivo (attribuito al monarca), nettamente subordinato al legislativo. Se il legislativo o l’esecutivo attentano ai diritti innati dei cittadini, questi hanno il diritto di ribellarsi. La libertà dei cittadini deve essere tutelata pienamente anche in ambito religioso: le varie Chiese sono associazioni private, e ciascuno è libero di entrarvi e di uscirne; esse hanno sì il diritto di darsi degli statuti, una organizzazione, di fissare regole per il culto ecc., e quindi possono espellere chi, al loro interno, viola queste regole: ma la «scomunica» non può assolutamente avere effetti civili, e non deve nemmeno contenere violenze verbali. I Two treatises of government di Locke sono stati considerati come il manifesto ideologico della «Gloriosa rivoluzione». «La rivoluzione del 1688 – ha scritto H. Laski – non fece che completare gli obiettivi cui mirava la rivolta della classe media che Cromwell capeggiò contro il dispotismo tentato dagli Stuart». L’Habeas corpus, i parlamenti triennali dominati da partiti politici, uno dei quali sarebbe stato l’alleato costante degli interessi commerciali, la libertà religiosa entro vasti limiti, la soppressione del controllo governativo sulla stampa, un potere giudiziario indipendente dal potere esecutivo, la finanza e l’esercito controllati da un parlamento elettivo: tutte queste erano conquiste di enorme importanza, che non avevano alcun corrispettivo nel resto d’Europa. La concezione politica di Locke e la «Gloriosa rivoluzione» tracciavano la strada dell’avvenire.

Il sistema politico inglese divenne il centro della riflessione dei pensatori liberali. Montesquieu si riferì a esso, nel De l’esprit des lois (1748), nella esposizione della sua dottrina della distinzione e del bilanciamento dei poteri. Distinzione perché, come dice il pensatore francese, «tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati». Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere dunque poteri distinti, cioè non possono essere uniti nella stessa persona o nello stesso corpo politico, poiché, ove questo avvenisse, verrebbe meno quel frazionamento del potere, che è la condicio sine qua non per evitare il dispotismo. Bilanciamento, perché il corpo legislativo è diviso in due parti (Camera alta e Camera bassa), che si tengono a freno fra loro grazie alla reciproca facoltà di impedirsi. Le leggi, d’altro canto, non entrano in vigore se non vengono approvate dal re. Il che significa che l’intero sistema politico non può funzionare senza l’assenso e il concorso dei vari elementi che lo compongono (monarca, Camera alta, Camera bassa), e che basta il dissenso di uno di questi per incepparlo. Ma proprio qui è la migliore garanzia di un governo moderato, in cui nessun interesse particolare e nessuna frazione della società è in grado di imporre la propria volontà contro quella degli altri. Governo moderato è dunque per Montesquieu quel governo che tiene conto della molteplicità e della diversità degli interessi, che riesce a trovare un punto di equilibrio e di compromesso fra loro. Su questa base sorge un sistema di civile convivenza, in cui vengono rispettati i diritti e gli interessi di tutti, e sono banditi ogni atto di forza e ogni abuso politico.

Questa preoccupazione di tutelare i diritti e le libertà dell’individuo contro gli abusi e le prevaricazioni del potere trova probabilmente la sua espressione più sottile ed efficace nella dottrina di B. Constant, maturata in Francia nel fuoco delle tremende esperienze della dittatura giacobina e del dispotismo napoleonico. Constant è un convinto difensore della sovranità popolare, la quale non può non significare supremazia della volontà generale su ogni volontà particolare. Ma sarebbe un errore imperdonabile, egli dice, scambiare tale supremazia per una sovranità illimitata (come fa Rousseau). Il potere sovrano deve sempre avere due limiti invalicabili: il rigoroso rispetto dei diritti delle minoranze e la non intromissione nella vita privata dei singoli, qualora questi non violino le leggi. C’è sempre una parte dell’esistenza umana che deve restare individuale e autonoma, e che è di diritto fuori da ogni competenza sociale. Se la società viola i diritti delle minoranze, o se si intromette nella sfera della vita individuale, che non le compete, essa si rende colpevole non meno del despota che ha come titolo soltanto la spada sterminatrice. Il che significa che la sovranità può esistere solo in maniera limitata e relativa, che la società non può eccedere dalla sua sfera di competenza senza essere usurpatrice, la maggioranza senza essere faziosa. Ecco dunque, secondo Constant, quel che bisogna proclamare, il principio eterno che bisogna stabilire: «I cittadini posseggono diritti individuali indipendenti da ogni autorità sociale o politica, e ogni autorità che viola questi diritti diviene illegittima. I diritti dei cittadini sono la libertà individuale, la libertà di religione, la libertà di opinione, che comprende la libertà di manifestarla, il godimento della proprietà, la garanzia contro ogni arbitrio. Nessuna autorità può attentare a questi diritti senza lacerare il suo titolo».

I liberali hanno poi dovuto misurarsi con i movimenti democratici e con l’avvento della democrazia negli Stati Uniti e assai più tardi in alcuni Paesi europei. Essi si sono trovati a fronteggiare sfide ardue, tanto più ardue se si pensa che teorici come Kant o Constant dividono i cittadini in due categorie, attivi e passivi: i primi sono quelli che posseggono proprietà, e che dunque sono «illuminati», perché hanno cultura, e sono vitalmente interessati alla conservazione delle istituzioni; i secondi sono quelli che, non possedendo alcunché, non sono «illuminati» perché non hanno cultura, e non sono interessati alla conservazione delle istituzioni. Questa ispirazione oligarchica viene espressa in modo esemplare dai cosiddetti «dottrinari» in Francia (Royer-Collard, Guizot, Remusat ecc.). Essi accettano sì la principale conquista della Rivoluzione francese (l’eguaglianza giuridica di tutti gli uomini, con relativa soppressione di ogni privilegio ereditario), ma rifiutano la dottrina della sovranità popolare in quanto sovranità della maggioranza numerica, da loro vista come mera sovranità della forza. Alla sovranità del popolo i «dottrinari» contrappongono la sovranità della «ragione»; inoltre essi sono contrari alla democrazia, se questa significa negazione di ogni gerarchia sociale, negazione dei meriti dei migliori, dei più capaci. Rispetto a queste posizioni A. de Tocqueville (che pure ha un sodalizio intellettuale profondo con Royer-Collard) introduce una netta cesura. Dal suo viaggio negli Stati Uniti egli ricava la convinzione profonda che la democrazia sia ineluttabile, e che in America essa abbia dato frutti preziosi. Qui «i principi generali su cui poggiano le costituzioni moderne, questi principi che la maggior parte degli europei del 17° secolo comprendeva appena e che trionfavano allora in modo incompleto in Gran Bretagna, sono tutti riconosciuti e fissati […]: la partecipazione del popolo agli affari pubblici, il voto non vincolato all’imposta, la responsabilità dei governanti, la libertà individuale e il giudizio per giuria sono stabiliti senza discussione e in modo effettivo». Molte cose affascinano Tocqueville nella società americana: la grandissima mobilità sociale che la caratterizza, sicché le classi sono sempre più cerchie mobili, aperte ai capaci e agli intraprendenti; la profonda vitalità della società civile, sempre più incrementata dalla libera iniziativa individuale; l’autonomia amministrativa, che ha risvegliato tutto lo spirito d’iniziativa della società civile stessa, la quale individua da sola le proprie necessità e le soddisfa con straordinaria efficacia. Qui la libertà è il valore fondamentale in base al quale gli uomini agiscono. Ma Tocqueville vede nella società americana anche una grave insidia: il dominio assoluto e irresistibile della maggioranza, che fa sì che le minoranze e i dissenzienti abbiano spazi sempre più esigui per far valere le loro idee e le loro esigenze. «In America, la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero».

Anche i liberali del Novecento hanno visto nella democrazia seri rischi e pericoli. Così uno dei massimi pensatori liberali novecenteschi, F. von Hayek, ha osservato che anche dal punto di vista del liberale è necessario che solo quanto è accettato dalla maggioranza diventi legge, ma non è da credere che ciò basti a renderla una buona legge; dal punto di vista del democratico, invece, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa è sufficiente per considerare buono ciò che essa vuole. Per il liberale è indispensabile, in primo luogo, che la maggioranza osservi determinati principi e determinate regole; e, in secondo luogo, che il processo di formazione della maggioranza sia indipendente e spontaneo. Ciò presuppone però l’esistenza di vaste sfere libere dal controllo della maggioranza medesima, entro le quali si formano le opinioni individuali. Il democratico invece è portato, per mentalità e per cultura, a sottovalutare queste esigenze fondamentali per il liberale. E insomma, come ha osservato G. Sartori, «ci sono delle libertà che esorbitano dalla sensibilità della democrazia, così come ci sono delle eguaglianze che non sono apprezzate dal liberalismo».

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