Il Paleolitico. Le origini del comportamento umano e le piu antiche tecnologie

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

Il Paleolitico. Le origini del comportamento umano e le più antiche tecnologie

Marcello Piperno

L'origine dell'attività strumentale, con la progressiva scoperta delle sequenze di gesti necessari per la trasformazione di diversi tipi di rocce in manufatti utilizzabili per attività di taglio e di percussione, rappresenta la più significativa acquisizione raggiunta nel corso dell'evoluzione culturale degli Ominidi. Il fenomeno è in parte collegato alle modificazioni anatomiche che condussero alla definizione del genere Homo, ma tale correlazione appare sempre meno univoca, dal momento che una sia pure rudimentale e forse occasionale capacità tecnologica sembrerebbe essere stata alla portata di diversi generi di Ominidi nel corso degli ultimi tre milioni di anni. A questo riguardo è stato dimostrato (Rindos 1986) che la manipolazione di oggetti, che è forse alla base delle successive potenzialità tecnologiche degli Ominidi, rappresenta probabilmente un requisito diffuso nell'ambito dell'intero ordine dei Primati sin dagli inizi della loro storia evolutiva. Questa capacità di cultura (Alexander - Noonan 1979), che include tra l'altro aspetti comportamentali quali, oltre all'uso di strumenti, il linguaggio, la capacità di programmare il futuro e l'autocoscienza, sembra infatti riferibile, con diversi livelli di complessità, a numerosi appartenenti a questo ordine. È stata suggerita l'ipotesi (Guilmet 1977) che l'utilizzazione di strumenti si sia evoluta tra i Primati come risposta a possibili vantaggi selettivi nell'uso di oggetti come amplificatori tecnologici in conflitti inter- e intraspecifici. Le più antiche esperienze di taglio o di fratturazione intenzionale di oggetti litici, archeologicamente documentabili verso la fine del Pliocene, affondano pertanto le loro radici in atteggiamenti gestuali e comportamenti che ebbero origine in epoche di gran lunga anteriori, probabilmente molto spesso su materiali deperibili che non hanno lasciato alcuna testimonianza diretta.

L'archeologia delle origini in africa

Sin dal 1924, in seguito alla scoperta e alla prima definizione del genere Australopithecus che l'anatomista R.A. Dart aveva proposto sulla base dello studio del cranio di bambino rinvenuto a Taung in Sudafrica (Dart 1925), fu evidente che le principali tappe dell'evoluzione biologica e culturale che aveva portato alla prima comparsa del genere Homo si erano svolte in uno scenario africano durante il periodo compreso tra la fine del Pliocene e il Pleistocene inferiore. Le successive ricerche, iniziate in particolare da R. Broom nella seconda metà degli anni Trenta, proseguite, a partire dagli anni Cinquanta, da C.K. Brain, J.T. Robinson e altri ricercatori, tra i quali Ph.V. Tobias e R.J. Clarke negli anni Novanta, nei depositi sudafricani di Sterkfontein, Swartkrans e Kromdraai, condussero alla prima scoperta di industrie litiche, in particolare nel Member 5 di Sterkfontein (scavi condotti tra il 1966 e il 1977 da R.J. Mason, J. Robinson e A.R. Hughes) e nella porzione inferiore del Member 1 di Swartkrans. Fu tuttavia con l'impulso dato dai coniugi L.S.B. e M.D. Leakey alle ricerche nella Gola di Olduvai in Tanzania, tra il 1953 e il 1975, successivamente alle prime spedizioni effettuate da H. Reck nel 1913 e dallo stesso Leakey tra il 1931 e il 1941, che la percezione dell'esistenza di industrie litiche riferibili alla soglia cronologica del Plio-Pleistocene trovò una conferma evidente, grazie anche al preciso inquadramento cronostratigrafico della sequenza messa in evidenza in quel sito. Le industrie del Bed I e della base del Bed II di Olduvai, riferibili a un'epoca compresa tra 1,9 e 1,5 milioni di anni (m.a.), rappresentano ancora, per lo studio di dettaglio che ne fu fatto da M.D. Leakey (1971), il principale riferimento per i tecnocomplessi su ciottolo attribuiti all'Olduvaiano. Tra il 1967 e il 1976 una missione franco-statunitense diretta da C. Arambourg, Y. Coppens e F.C. Howell esplorò sistematicamente i depositi fossiliferi plio-pleistocenici della bassa valle dell'Omo, al confine tra Etiopia e Kenya, scoperti fin dal 1901 da P. du Bourg de Bozas. Gli scavi effettuati da J. Chavaillon e H.V. Merrick portarono alla scoperta, nel Member E della Formazione Shungura, datato tra 2,68 e 2,36 m.a., di due siti archeologici (Omo 71 e Omo 84) e, nel Member F della stessa formazione, di cinque siti (FtJj1, FtJj2, FtJj5, Omo 57 e Omo 123) datati tra 2,35 e 2,34 m.a. Per la prima volta una documentazione consistente di attività strumentale attestava esperienze di taglio e di frammentazione intenzionale di rocce come quarzo, lava e diaspro in epoca anteriore all'Olduvaiano (Chavaillon 1976; Merrick - Merrick 1976; Howell - Haesaerts - De Heinzelin 1988). Nel corso degli anni Settanta venne intrapreso da R.E.F. Leakey e G.Ll. Isaac un vasto progetto di ricerca nei depositi plio-pleistocenici della Formazione di Koobi Fora, a est del Lago Turkana nel Kenya settentrionale, stratigraficamente compresa tra due tufi vulcanici rispettivamente datati a 3,2 e 1,8 m.a. (Isaac 1976; 1984). Tra i siti rinvenuti da Isaac nella porzione inferiore di questa formazione, stratigraficamente riferibili al Tufo KBS al quale è attribuita un'età di 1,9 m.a. (grosso modo contemporanea alla base del Bed I di Olduvai), il più significativo è FxJj1, scavato per una superficie di circa 100 m², che ha restituito qualche centinaio di manufatti associati a resti di ippopotamo, gazzella e porcospino. Pressappoco alla metà degli anni Settanta le ricerche effettuate da H. Roche e J.-J. Tiercelin nella porzione superiore della Formazione di Kada Hadar, lungo la riva sinistra del Kada Gona, un affluente dell'Awash, hanno portato alla scoperta di un sito (Kada Gona 2.3.4.) da cui proviene una quindicina di manufatti su ciottoli di trachite e di basalto associati a qualche scheggia, non più in giacitura primaria, ma cronologicamente attribuibili su basi stratigrafiche a un'età compresa tra 2,58 e 2,63 m.a. (Roche 1996). Nel 1976 e negli anni successivi, lungo la riva destra dello stesso affluente dell'Awash, vennero scoperte alcune località con industrie in situ, caratterizzate da nuclei e schegge, in un contesto databile a 2,4 m.a. Nonostante qualche incertezza relativa alla loro giacitura, tali ritrovamenti hanno rappresentato, fino ad anni recenti, le più antiche testimonianze di manufatti intenzionalmente scheggiati. Tra il 1965 e il 1982 J. Chavaillon esplorò sistematicamente il giacimento di Melka Kunturé, scoperto da G. Dekker nel 1963 nel corso superiore dell'Awash, una sessantina di chilometri a sud di Addis Abeba (Piperno - Bulgarelli-Piperno 1975; Chavaillon et al. 1979; Piperno 1980). La ricostruzione della serie archeologica, messa in luce grazie ai numerosi giacimenti presenti nei sedimenti fluviali e vulcanici conservati per oltre una decina di chilometri lungo le due sponde dell'Awash, può consentire la ricostruzione di una complessa e lunga sequenza culturale compresa tra 1,6 e 0,2 m.a., con giacimenti riferibili all'Olduvaiano (Karré, Gomboré IB: 1,6/1,7 m.a.), all'Olduvaiano evoluto (Garba IVC e D: 1,5/1,3 m.a.), alle fasi iniziali (Simbiro III), medie (Gomboré II: 800.000 anni) e superiori (Garba I: 400.000/500.000 anni) dell'Acheuleano, per terminare con siti dell'Acheuleano finale che preannunciano la Middle Stone Age, come Garba III, datato a circa 200.000 anni, e con qualche più sporadica presenza di siti riferibili alla Late Stone Age, come Kella I. Alcune tra le più importanti scoperte avvenute più recentemente riguardano la Formazione di Nachukui, nell'area occidentale del Lago Turkana, con una sequenza sedimentaria compresa tra 4 e 0,7 m.a. Al suo interno è stata segnalata una ventina di siti compresi tra 2,35 e 0,7 m.a., tra cui quello di Lokalelei, datato a 2,35 m.a., che ha restituito circa 500 manufatti su scheggia e nuclei ricavati da materiale vulcanico, insieme a qualche resto di fauna. La presenza in Africa orientale di industrie di età pliocenica è stata ulteriormente confermata da importanti recenti ritrovamenti ad Hadar. Particolarmente significativa a questo riguardo è la scoperta effettuata nel 1994 nella località A.L. 666, in corrispondenza del Makaamitalu, un ramo della riva sinistra del Kada Hadar, affluente dell'Awash. Dalla parte superiore del Kada Hadar Member, datata a 2,33±0,07 m.a., proviene un frammento di mascellare attribuito a Homo sp. in associazione con 34 manufatti (14 dei quali rinvenuti in situ) e 83 resti di fauna (Kimbel et al. 1996). Alcuni manufatti, costituiti da schegge corticate o parzialmente corticate ricavate da ciottoli di materie prime vulcaniche o sedimentarie, suggeriscono una sequenza di riduzione dei nuclei relativamente complessa, anche se, nel suo insieme, questo piccolo campione di industria litica rientra nel generale panorama delle industrie olduvaiane. Numericamente più consistente, e di poco più antico, con un'età compresa tra 2,6 e 2,5 m.a., è il complesso rinvenuto tra il 1992 e il 1994 nella regione di Hadar nelle due località EG10 e EG12 dell'area di Gona (Etiopia). Circa 2970 manufatti, per lo più ricavati da ciottoli di trachite o di altre rocce vulcaniche reperibili nelle vicinanze del sito, 1114 dei quali rinvenuti in situ, rappresentano la più antica e consistente documentazione di attività strumentale da parte di ominidi della fine del Pliocene finora nota. L'industria di Gona è costituita da nuclei unifacciali e bifacciali, sui quali sono talvolta evidenti diverse generazioni di distacchi, schegge e scarti; nel complesso la qualità tecnologica delle industrie di Gona appare già sensibilmente ben controllata, suggerendo che un periodo, presumibilmente lungo, di sperimentazione delle tecniche di taglio possa avere preceduto questi complessi tardopliocenici (Semaw et al. 1997).

Interazioni fra i diversi ominidi del plio-pleistocene

Le più antiche testimonianze di attività strumentale sono dunque archeologicamente documentate in epoca tardopliocenica, intorno a 2,5 m.a. La consistenza numerica dei manufatti rinvenuti in alcuni dei siti ricordati, unitamente alla loro relativa "complessità" tecnologica, sembrerebbe indicare la probabile esistenza di una tradizione ancora più antica. Per altri complessi, come ad esempio quelli della valle dell'Omo, è stata al contrario messa in risalto l'estrema semplicità delle sequenze operative leggibili sui manufatti stessi. In alcuni casi l'associazione tra manufatti e resti faunistici indica una predisposizione alimentare verso una dieta almeno parzialmente carnivora, ma non permette di controllare se tale predisposizione abbia significato fin dall'inizio modelli di comportamento basati su attività di caccia, o se essa sia dipesa inizialmente da una più o meno sistematica attività di predazione di carcasse; in altri, come nei siti della valle dell'Omo o a Kada Gona, non vi è alcuna evidenza di una relazione diretta tra manufatti e faune fossili. Con poche eccezioni, come il sito citato di A.L. 666, la documentazione relativa alle più antiche manifestazioni di attività strumentale nel periodo precedente la soglia di 2 m.a. è del tutto carente e non univoca per quanto riguarda i possibili responsabili di tale attività. L'associazione spazio-temporale riscontrata a Hadar tra resti riferiti a Homo sp. e industria litica non può essere in effetti generalizzata all'insieme dei siti archeologici pliocenici. La contemporanea presenza di una forma robusta di Australopithecus (A. o Paranthropus boisei), ad esempio nella Formazione di Nachukui sulla sponda occidentale del Lago Turkana o nella Formazione Shungura della valle dell'Omo, sia pure in non diretta associazione con i siti archeologici, deve essere presa in seria considerazione relativamente alla possibilità che più di una forma di ominide sia potenzialmente responsabile dei primi procedimenti di fratturazione e di taglio di manufatti litici, come è stato più volte suggerito da diversi autori (Chavaillon 1976). È significativo a questo proposito ricordare che la stessa associazione si è ripetuta, in epoca successiva a 2 m.a., ma questa volta in diretta relazione con industrie litiche, nel Bed I di Olduvai, dove nel 1959 venne rinvenuto nel sito FLK il primo cranio di Australopithecus robusto e dove è documentata la contemporanea presenza di questo Ominide con H. habilis. È infine altrettanto significativo osservare che nello stesso periodo, in giacimenti tipo Melka Kunturé, il responsabile delle industrie olduvaiane e dell'Olduvaiano evoluto è una forma di H. erectus/ergaster, come dimostrano il femore rinvenuto a Gomboré 1B e la mandibola proveniente da Garba IVE (Piperno 1987). L'evidenza archeologica compresa tra 2,5 e 1,5 m.a. indica dunque un complesso mosaico di situazioni talvolta contraddittorie, con diversi generi e specie di Ominidi probabilmente impegnati in attività di manipolazione, fratturazione e taglio di oggetti litici; la semplicità e l'essenzialità dei gesti tecnici richiesti da queste prime manifestazioni di attività strumentale non ne permettono l'attribuzione sicura all'una o all'altra specie. La lunga convivenza cronologica tra le prime forme di Homo sp. e Australopithecus (o Paranthropus boisei) ripropone la necessità di una riconsiderazione delle conseguenze, anche a livello tecnologico e comportamentale, di probabili forme di interazione che devono essersi prodotte nell'ambito di questa "folla di ominidi" plio-pleistocenici, secondo la significativa espressione di P. Teilhard de Chardin (1955). La diversificazione tra A. boisei, qualche forma di A. africanus precedentemente inserita nell'accezione larga di H. habilis, H. habilis sensu stricto, H. rudolfensis, H. ergaster e il suo più vicino successore o "alter ego" H. erectus mostra una proliferazione di generi e specie alla quale dovette corrispondere una altrettanto ben diversificata molteplicità di comportamenti, teoricamente differenziabili sulla base dell'evidenza archeologica, o riconoscibili attraverso un approccio paleoecologico ed etologico approfondito. Tenendo conto della varietà della documentazione paleoantropologica, è possibile ipotizzare un'analoga frammentazione dell'evidenza archeologica, procedendo a una sorta di "disintegrazione" del blocco della tecnologia olduvaiana in diversi aspetti o episodi, fra loro in seriazione cronologica, nei quali i parametri qualitativi e quantitativi, unitamente all'eventuale associazione dei manufatti con resti paleontologici, possano suggerire una diversificazione dei modelli di comportamento che sembrano delinearsi nell'evidenza plio-pleistocenica del periodo compreso tra 2,5 e 1,5 m.a. Alcuni autori sono pertanto contrari ad attribuire unicamente all'Olduvaiano tutti i tecnocomplessi riferibili all'epoca indicata; da diversi anni è stata proposta la possibilità che sia riconoscibile uno stadio tecnologico definito Preolduvaiano, al quale più propriamente dovrebbero essere attribuite le industrie di alcuni dei siti citati anteriori a 2 m.a.

Le prime tecnologie: il preolduvaiano

Successivamente alla sua iniziale definizione sulla base dei dati di Olduvai, il termine Olduvaiano è stato esteso a complessi coevi del Sudafrica e dell'Africa orientale, fino ad abbracciare più estensivamente tutti i complessi litici plio-pleistocenici. Questa dilatazione cronologica ne ha diminuito la caratterizzazione tipologica iniziale, provocando una modificazione e un'attenuazione del suo significato originario. I tecnocomplessi ai quali si è accennato in precedenza, rinvenuti ad esempio nella valle dell'Omo o in varie località di Hadar, sono stati indiscriminatamente inseriti in questa sorta di "contenitore" olduvaiano, tanto più dilatato quanto più privato della sua chiara etimologia iniziale definita da M.D. Leakey (1971). Una differenza sostanziale tra le industrie della valle dell'Omo e l'Olduvaiano (sensu stricto), attribuita a importanti divergenze nel comportamento dei diversi Ominidi, era già stata messa in evidenza nel 1987 (Howell - Haesaerts - De Heinzelin 1988) e segnalata diversi anni prima (Chavaillon 1976). Sulla base delle considerazioni precedenti e in seguito alla sempre più evidente esistenza di una sorta di "area di attività strumentale" compresa tra 3 e 2 m.a., verso la fine degli anni Ottanta si è fatta strada l'ipotesi che uno stadio tecnologico preolduvaiano potesse avere caratterizzato il periodo in questione (Piperno 1987). Negli anni successivi questa proposta ha trovato diversi e indipendenti consensi; la possibilità dell'esistenza di significativi mutamenti comportamentali intorno a 2 m.a. è stata sostenuta da vari autori (Bunn - Ezzo 1993; Roche 1996). Alcuni ricercatori (Kibunjia 1994), basandosi sull'evidenza archeologica del sito pliocenico di Lokalalei (GaJh 5: 2,35 m.a.), sulla sponda occidentale del Lago Turkana, unitamente alla più recente documentazione olduvaiana osservata nella stessa area a Kokiselei (FxJh 5: 1,8 m.a.), Naiyena Engol (FxJh 6: 1,8 m.a.) e nel più recente (tra 1,3 e 0,74 m.a.) Nadung'a (FxJh 7), confermano l'ipotesi di una trasformazione del comportamento e delle capacità tecnologiche intorno alla soglia di 2 m.a. L'esistenza del Preolduvaiano, quale facies tecnologica precedente e distinta dall'Olduvaiano, è stata nuovamente riaffermata (Roche 1996), mentre altri ricercatori sostengono che anche queste più antiche manifestazioni tecnologiche possono essere genericamente attribuite all'Olduvaiano (Semaw et al. 1997). Nella sua più larga e originaria accezione, tuttavia, il concetto di Preolduvaiano può difficilmente essere messo in discussione, dal momento che vi è un generale consenso nel fatto che questa "area di attività tecnologica" della fine del Pliocene può essere stata "frequentata" da diversi generi e specie di Ominidi. Il Preolduvaiano, in altri termini, non è soltanto un concetto tecnico-tipologico al quale riferire alcune industrie litiche, né ad esso può essere attribuito un significato puramente cronologico da utilizzare per l'identificazione di tutti i tecnocomplessi tardopliocenici. Il termine deve essere piuttosto considerato come una necessaria conseguenza della proliferazione di ominidi potenzialmente capaci di attività strumentale nel periodo compreso tra 3 e 2 m.a. La coesistenza tra questi diversi ominidi per un arco cronologico relativamente lungo, che si esaurisce soltanto verso 1,5 m.a. con l'estinzione delle ultime forme di H. habilis e di A. robustus, comporta inoltre la possibilità teorica, ma finora difficilmente dimostrabile, che tecnocomplessi diversi dall'Olduvaiano, come senza dubbio sono quelli della valle dell'Omo, siano perdurati in qualche area dell'Africa orientale, anche successivamente a 2 m.a. A differenza di quanto ipotizzato da M. Kibunjia (1994), tuttavia, queste prime esperienze di taglio anteriori a 2 m.a. non rappresentano necessariamente un "punto" nel continuum tecnologico che porterà all'Olduvaiano, dal momento che diversi ominidi sono stati probabilmente responsabili, nella stessa epoca, della documentazione archeologica disponibile, mentre l'origine della tecnologia olduvaiana, legata all'emergere e all'evoluzione di uno solo di questi ominidi, non è ancora chiaramente enucleabile all'interno di quest'area tecnologica del tardo Pliocene.

L'olduvaiano

Come si è visto, le nostre conoscenze relative a siti olduvaiani riferibili agli inizi del Pleistocene inferiore sono essenzialmente limitate ad alcuni grandi giacimenti già citati dell'Africa orientale, come Olduvai (Beds I e II) in Tanzania, Melka Kunturé in Etiopia, Koobi Fora in Kenya. Ad essi si aggiungono il sito di Fejej (Asfaw et al. 1991) nella porzione nord-orientale del bacino del Lago Turkana etiopico, Nyabusosi in Uganda e Senga 5 nella Repubblica Democratica del Congo (Boaz et al. 1992). Secondo alcuni autori (Kuman 1994), le industrie riferite all'Olduviano nel Member 5 di Sterkfontein in Sudafrica avrebbero un'età compresa tra 1,7 e 2 m.a. Recenti datazioni della serie inferiore di Olduvai sembrerebbero suggerire che i depositi della porzione media e superiore del Bed I siano compresi in un arco di tempo molto ristretto, tra 1,8 e 1,75 m.a., mentre la porzione inferiore del Bed I si sarebbe formata intorno a 2 m.a. Nei livelli di alcune di queste località databili ad un periodo compreso tra 1,5 e 1,3 m.a., come ad esempio nel Bed II di Olduvai (Leakey 1971), nei siti di Garba IVC e D e Gomboré IG a Melka Kunturé (Chavaillon et al. 1979), nella porzione superiore della Formazione di Koobi Fora, con le industrie riferite al Complesso Karari, a Gadeb sull'Altopiano Etiopico del Bale e nei sedimenti dell'inizio del Pleistocene inferiore della Formazione Wehaietu (attualmente Messalu-Gewane) nel medio corso dell'Awash (Clark 1988) e nei Members 1 e 2 di Swartkrans in Sudafrica (Kuman 1994), sono documentate industrie attribuite all'Olduvaiano evoluto. Il carattere transizionale dell'Olduvaiano evoluto e i suoi rapporti con l'Acheuleano saranno discussi nel successivo paragrafo. Le più complete definizioni tipologiche dei complessi olduvaiani sono quelle pubblicate da M.D. Leakey (1971), in seguito modificate in base all'evidenza di Melka Kunturé da J. Chavaillon. Le industrie olduvaiane sono essenzialmente caratterizzate da una forte percentuale di manufatti ricavati da ciottoli, scheggiati ad una o ad entrambe le estremità, con distacchi periferici su una o su entrambe le facce, allo scopo di ottenere un margine tagliente (choppers uni- e bidirezionali), o un margine adatto a grossolane operazioni di raschiamento (grattatoi spessi, rabots) o di percussione (percussori, ciottoli a coppelle, sferoidi), o schegge distaccate da nuclei di vario tipo, che secondo recenti ricerche mostrano tracce di utilizzazione, talvolta solo microscopicamente rilevabili. Alcune schegge, in percentuali variabili da sito a sito, sono state, successivamente al loro distacco dal nucleo, ritoccate su uno o entrambi i margini laterali, con ritocchi di varia importanza che danno origine, soprattutto nel corso delle fasi più recenti dell'Olduvaiano, a raschiatoi, perforatori, grattatoi, denticolati e intaccature. Tali tipi di strumenti ritoccati caratterizzeranno, con variazioni dovute sostanzialmente alle percentuali di presenza dei vari tipi e a più o meno significative varianti a livello tipologico, tutti i complessi del Paleolitico inferiore e medio. Nella maggior parte dei siti olduvaiani è presente una notevole quantità di ciottoli non modificati ma introdotti intenzionalmente, insieme ad un'alta percentuale di ciottoli spaccati o con tracce di percussioni localizzate sui margini o sulle facce. È stato osservato che le modalità di taglio indicano come la tecnologia olduvaiana abbia acquisito per la prima volta la capacità di concepire, articolare e portare a termine un insieme di vere e proprie sequenze di gesti tecnici che permettono una migliore comprensione ed un più costante controllo di tutti i meccanismi delle operazioni di distacco di schegge. La frequenza dei manufatti descritti nelle paleosuperfici olduvaiane è spesso imponente, raggiungendo in certi casi, come ad esempio a Gomboré IB (Melka Kunturé), diverse centinaia di strumenti per metro quadrato. In molti siti queste forti concentrazioni di manufatti litici appaiono associate con resti di faune, la cui introduzione, manipolazione e frammentazione intenzionale da parte degli ominidi sono state più volte messe in dubbio, ma in anni recenti confermate, nella maggior parte dei casi, in seguito a studi tafonomici di dettaglio. Accanto a questi siti, generalmente di grande estensione, che documentano frequentazioni più o meno lunghe da parte di gruppi di ominidi, o talvolta possibili "palinsesti" in cui si sono accumulati i resti litici e faunistici risultati da soste ripetute anche a lunghi intervalli di tempo, la documentazione archeologica dell'Olduvaiano si caratterizza anche per la presenza di altri due modelli di sfruttamento del territorio e delle risorse. Relativamente al primo, ricerche effettuate a Koobi Fora hanno permesso di ricostruire i limiti dell'areale utilizzato nel corso degli spostamenti di gruppi di ominidi olduvaiani, basandosi sulla distribuzione spaziale delle evidenze archeologiche di bassa densità, talora associate a resti di fauna, rinvenute nel territorio stesso. È stato così possibile mettere in evidenza che gli ominidi andavano progressivamente occupando aree caratterizzate da scarsa vegetazione e da una minima copertura arborea, differenziando sempre più il loro habitat rispetto a quello, più protettivo nei confronti dei predatori carnivori in quanto coperto da vegetazione più fitta, preferito dai primati non umani, come gli scimpanzé. Quanto al secondo modello, esso è suggerito dall'associazione puntuale tra limitati manufatti litici e resti di uno o, più raramente, due grossi pachidermi (generalmente elefante o ippopotamo), che caratterizza i cosiddetti siti di macellazione, ove la carcassa di questi animali è stata macellata e smembrata in un intervento di breve durata, un precise moment, che può avere richiesto da poche ore a pochi giorni. Episodi del genere sono noti per l'Olduvaiano, e in epoche successive per l'Acheuleano, in diversi siti africani, come Olduvai in Tanzania (Leakey 1971), Barogali a Gibuti (Chavaillon et al. 1987), Hargufia e Gomboré II in Etiopia (Chavaillon et al. 1979), Mwanganda in Malawi, ma anche europei, come Aridos in Spagna o Notarchirico in Italia.

La transizione: l'olduvaiano evoluto e le origini dell'acheuleano

Il termine di Olduvaiano evoluto fu proposto per la prima volta da M.D. Leakey (1971), sulla base dell'evidenza archeologica proveniente dai Beds I e II di Olduvai. I complessi riferiti a questo orizzonte vennero ulteriormente suddivisi in Olduvaiano evoluto A, al quale M.D. Leakey attribuì un sito della porzione inferiore del Bed II (HWKE-2) e due siti della porzione media (FLKN Cong. e HWKE-3/5), e Olduvaiano evoluto B, l'ultimo dei quali caratterizzato soprattutto dalla presenza di bifacciali, nel quale la stessa studiosa inserì sei siti provenienti dalla porzione superiore del Bed II (MNK 2-5; FC WEST, SHK, TK Inferiore; TK Superiore e BK), due dei quali (TK Inferiore e MNK) vennero in seguito riconsiderati come acheuleani sulla base di considerazioni relative alla tecnologia dei bifacciali. Successivamente, lo stesso termine, con l'aggiunta di un'ulteriore suddivisione (Olduvaiano evoluto C) per le industrie del Bed IV, venne riferito da M.D. Leakey anche a complessi provenienti dalle unità stratigrafiche superiori della serie di Olduvai. Oltre all'assenza di bifacciali, secondo M.D. Leakey le industrie dell'Olduvaiano evoluto A sono caratterizzate da una debole frequenza di perforatori e di schegge con ritocchi laterali, da una maggiore frequenza di sferoidi e da un minore numero di choppers, grattatoi spessi e poliedri. Nell'interpretazione dei dati di Olduvai, M.D. Leakey ha sostenuto una netta dicotomia tra le industrie dell'Olduvaiano evoluto e quelle attribuite all'Acheuleano, proponendo l'ipotesi che diverse specie di ominidi possano essere considerate responsabili di questi due tecnocomplessi. In conseguenza di questa interpretazione, nella porzione superiore della sequenza di Olduvai, si assisterebbe ad una sorta di difficile coesistenza, nello stesso sito, di due diverse tradizioni culturali, tecnologicamente distinte (Leakey 1971) dalla incapacità, nell'Olduvaiano evoluto, di produrre schegge di dimensioni da medie a grandi, o comunque con lunghezza maggiore di 10 cm, che costituiranno piuttosto la norma nella tecnologia litica acheuleana. Alcuni autori (Stiles 1979) hanno invece dimostrato che alcune delle differenze tipologiche e tipometriche riscontrate tra i bifacciali dell'Olduvaiano evoluto e quelli dell'Acheuleano dipendono piuttosto dall'utilizzazione di differenti materie prime e hanno pertanto suggerito una sorta di fusione tra questi due aspetti tecnologici. Analoghe conclusioni sono state proposte da J.R.F. Bower negli anni Settanta, contrario all'ipotesi di M.D. Leakey che l'Acheuleano debba essere considerato una tradizione intrusiva nella tecnologia olduvaiana, mentre altri (Chavaillon et al. 1979), sulla base dell'evidenza archeologica di Melka Kunturé, ritengono che le trasformazioni che interessano l'equipaggiamento tecnologico, l'insediamento e, in linea più generale, tutti i parametri attinenti al modo di vita degli ominidi del Pleistocene inferiore, suggeriscano piuttosto un modello di mutamenti "a mosaico", nell'ambito di una sostanziale continuità, o un continuum multidimensionale, come è stato definito da D.W. Phillipson (1980). L'esempio delle paleosuperfici dei livelli C e D di Garba IV a Melka Kunturé (Piperno - Bulgarelli-Piperno 1975; Chavaillon et al. 1979), uno tra i maggiori siti, per consistenza di ritrovamenti e per estensione di scavo, riferiti all'Olduvaiano evoluto, appare significativo per indicare l'effettiva difficoltà dell'attribuzione culturale dei siti di transizione del Pleistocene inferiore africano. I due livelli, databili intorno a 1,4 m.a., esplorati estensivamente su una superficie di circa 100 m², presentano concentrazioni di manufatti e fauna quantitativamente diverse (poco più di 650 manufatti e 230 resti di fauna nel livello C e oltre 9000 manufatti e 2700 resti di fauna nel livello D), ma la loro posizione stratigrafica, la loro omogeneità tipologica e tecnologica, la medesima percentuale di utilizzazione delle diverse materie prime, quali ossidiana, basalto, lava, trachite e altre pietre vulcaniche, unitamente all'assoluta identità delle specie faunistiche, indicano che la formazione dei due livelli è avvenuta in un arco di tempo relativamente molto breve. L'attribuzione di entrambi all'Olduvaiano evoluto si basa su considerazioni tipologiche ricavate dall'insieme della sequenza culturale di Melka Kunturé e su confronti con le industrie di altri siti coevi dell'Africa orientale; nel livello inferiore D, sono stati rinvenuti anche cinque bifacciali e due hachereaux ricavati su basalto e ossidiana, che confermano, unitamente alla presenza di qualche scheggia di grandi dimensioni, il carattere transizionale di queste industrie della fine dell'Olduvaiano e l'impossibilità di individuare una chiara linea di demarcazione tra i tecnocomplessi di questo periodo. In epoca contemporanea a queste manifestazioni tardo-olduvaiane, tra 1,6 e 1,4 m.a., si assiste dunque in Africa orientale e in Sudafrica alla diffusione delle prime industrie considerate tipicamente acheuleane. Nonostante la presenza di bifacciali e hachereaux a Garba IV D o in siti del Turkana occidentale, la tecnologia acheuleana appare ormai pienamente matura in siti come Konso Gardula (Asfaw et al. 1992) e Gadeb in Etiopia (Clark 1988), EF-HR nella porzione mediana del Bed II di Olduvai (Leakey 1971) e Peninj in Tanzania (Isaac 1967), Sterkfontein e Swartkrans in Sudafrica (Kuman 1994). I criteri tecnologici distintivi dell'Acheuleano inferiore sono essenzialmente due (Clark 1970; Kuman 1994). Il primo consiste nella presenza di schegge di grandi dimensioni, talvolta ottenute mediante un ampio distacco laterale, per convenzione di lunghezza uguale o superiore a 10 cm, che vengono utilizzate per la preparazione di bifacciali (spesso anche ricavati direttamente da ciottoli) e hachereaux, ma anche di picchi e "amigdale" monofacciali, che presentano cioè distacchi coprenti una sola delle facce, ben esemplificate dai numerosi esemplari nel sito acheuleano di Simbiro a Melka Kunturé. Il secondo è costituito dall'assenza, quasi generalizzata, di ritocchi secondari sui manufatti ora descritti. Particolarmente significativo a questo proposito è il contesto rinvenuto nel 1991 nei livelli soprastanti e sottostanti un tufo datato a 1,34- 1,38 m.a. nel sito di Konso Gardula, nel margine occidentale del Rift (Konso, Etiopia meridionale). L'industria, tagliata su basalto, quarzo, quarzite e altre rocce vulcaniche disponibili nelle vicinanze, è caratterizzata da grossolani bifacciali e da picchi a sezione triedrica, talvolta di grandi dimensioni, associati a schegge generalmente non ritoccate e poco diversificate a livello tipologico. Nelle diverse località (KGA 3, 5 e 7- 12) questi manufatti si trovano associati a resti di elefante, rinoceronte, ippopotamo, giraffa, Bovidi, Suidi, ecc., i quali sono caratterizzati in molti casi da evidenti interventi intenzionali che hanno lasciato tracce di percussione e tagli, strie e scheggiature. Un terzo molare e una emimandibola sinistra riferiti a H. erectus/ergaster, rinvenuti in superficie, sono stati rispettivamente attribuiti a un livello al di sotto di un tufo datato 1,44 m.a. e a un livello soprastante le più antiche evidenze acheuleane nella località KGA 10. Tutti i principali criteri tecnologici che definiscono l'Acheuleano antico (bifacciali asimmetrici e privi di ritocchi secondari, hachereaux, schegge superiori a 10 cm di lunghezza) vengono anche riflessi nelle industrie della breccia di riempimento in situ del Member 5 di Sterkfontein (Kuman 1994). La presenza contemporanea di industrie già tipicamente acheuleane sia in Africa orientale sia in Sudafrica intorno a 1,5 m.a. suggerisce due considerazioni relativamente alla loro filogenesi. L'ipotesi di una transizione continua delle industrie dell'Olduvaiano evoluto tipo Garba IVD, con presenza sporadica di bifacciali e di hachereaux e con frequenza ancora più occasionale di grandi schegge, verso industrie delle fasi iniziali dell'Acheuleano appare attualmente più rispondente all'evidenza archeologica disponibile, anche in considerazione del fatto che in diverse aree del continente africano sono noti, spesso negli stessi siti, entrambi i tecnocomplessi che attestano questa transizione. D'altro canto, se l'Acheuleano è effettivamente intrusivo in altri giacimenti, come ad esempio a Olduvai, questa situazione potrebbe corrispondere ad una interruzione nella continuità della documentazione archeologica di quel particolare sito, piuttosto che essere generalizzata e considerata significativa di una situazione di improbabile parallelismo tra gruppi di ominidi tecnologicamente dissimili. Tale considerazione non esclude tuttavia l'ipotesi che i tempi della transizione verso l'Acheuleano non siano stati ovunque sincroni, con la conseguenza che tradizioni che riflettono tappe intermedie e distinte di questo processo possono aver coesistito in Africa orientale e in Sudafrica per qualche centinaio di migliaia di anni.

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