ILLUMINAZIONE

Enciclopedia Italiana (1933)

ILLUMINAZIONE (dal lat. lumen "luce"; fr. éclairage; sp. iluminación; ted. Beleuchtung; ingl. lighting)

George MONTANDON
Ugo BORDONI
Gaetano JERNA
Guido JELLINEK

Fino a non molto tempo fa la luce destinata a sostituire quella del sole veniva ottenuta quasi esclusivamente con il fuoco. Il materiale che veniva in origine acceso allo scopo particolare d'illuminare, dovendo essere tenuto in mano, presentava una forma speciale: era questa la torcia. Essa poteva essere fatta di materia infiammabile, vegetale o animale o minerale, oppure di un insieme di sostanze diverse. La torcia costituisce il mezzo d'illuminazione più antico datando dall'origine della civiltà ed essendo tuttora in uso anche presso le popolazioni di cultura superiore (feste, fiaccolate, ecc.). Nelle regioni tropicali, dove i bisogni sono più limitati, dove per il clima l'uomo sta molto all'aperto, dove i giorni e le notti sono di eguale durata, non si imponeva la necessità di trovare un sistema d'illuminazione migliore della torcia: questa suppliva alle due principali necessità che si potevano presentare: esecuzione di danze notturne e comunicazioni di segnali. Nelle regioni temperate e fredde, invece, dove la durata delle notti varia secondo le stagioni e dove il clima obbliga l'uomo a vivere a lungo nell'interno della sua abitazione, era naturale che venisse ricercato un sistema d'illuminazione migliore. Così fu trovato forse in più luoghi della terra in modo indipendente, un secondo mezzo d'illuminazione, la candela, consistente in uno stoppino poroso, intrecciato o no, circondato da una sostanza combustibile che fondendosi alimenta la fiammella. Il progresso del sistema di illuminazione ha certamente favorito lo sviluppo delle industrie domestiche, e ha portato un miglioramento nella costruzione della dimora. Ben poche però delle popolazioni primitive attuali, anche fra quelle che possiedono le materie combustibili adatte (grassi animali, cera, resine), usano la candela: unica eccezione forse i Tapuya del Brasile, che usano stoppini di giunco circondati di cera: e anche per questi non è escluso che si tratti di un imprestito recente.

Il terzo sistema di illuminazione è la lampada. Anch'essa consta di uno stoppino che pesca in un combustibile liquido contenuto in un serbatoio. Non è di molto posteriore alla candela: è lecito anzi supporre che una lampada come quella degli Eschimesi sia contemporanea o addirittura anteriore. La lampada degli Eschimesi è formata da una ciotola di steatite: a una delle sue estremità vengono collocati alcuni pezzetti di lardo e all'altra si pone del muschio che fa da stoppino e che, una volta acceso, assorbe e mantiene disciolta una parte del lardo. Simili erano senza dubbio le lampade di pietra del Paleolitico superiore europeo (dall'Aurignaciano al Magdaleniano), alcune delle quali presentano anche un manico orizzontale (il tutto di un sol pezzo) e talvolta anche una scannellatura dalla parte opposta per lo stoppino. La lampada ha avuto in seguito uno sviluppo molto maggiore della candela, ma quest'ultima va considerata come una tappa auteriore nei sistemi d'illuminazione.

A ogni modo, durante tutta la protostoria e la storia, fino a giungere nel pieno del secolo XIX l'uomo si è servito della candela e della lampada.

Si ricordi che presso alcuni popoli (Melanesia, Giava e anche in Cina e in America) è usata a scopo d'illuminazione anche la luce fredda prodotta da alcuni animaletti talvolta chiusi in gabbie o scatolette usate come lanterna.

Tuttavia, una scienza, una tecnica e un'arte dell'illuminazione sono nate soltanto quando il perfezionarsi, empirico in principio, di nuovi e più efficaci mezzi d'illuminazione, ha fatto intravvedere la possibilità di poter giungere a disporre, e a un prezzo accettabile, di sorgenti di luce di caratteristiche adattabili alle più importanti esigenze, il che è avvenuto poco dopo il 1800, con l'introduzione delle lampade a gas di carbon fossile e, poi, delle lampade a petrolio.

Ma è stato soprattutto con l'avvento delle lampade elettriche (intorno al 1880) che, per varie ragioni, hanno avuto speciale impulso tutti gli studî riguardanti l'illuminazione.

Rinviando agli articoli torcia; candela; lampada per quanto riguarda le sorgenti di luce e i cenni storici relativi ai varî mezzi d'illuminazione, sarà qui riassunto in una prima parte (Fotometria) tutto ciò che concerne i concetti fondamentali, la definizione e la misura delle grandezze fisiche che più interessano l'illuminazione, e in una seconda parte (Tecnica dell'illuminazione) quanto riguarda l'impiego delle sorgenti di luce naturali e di quelle artificiali moderne, a seconda dei fini particolari da raggiungere. In una terza parte si parlerà dell'Arte dell'illuminazione.

Fotometria.

Generalità. - Si dà il nome di fotometria alla trattazione dell'insieme delle questioni che riguardano la definizione e la misura delle grandezze fotometriche, e quello di fotometri (fotometri propriamente detti; lumenometri; illuminometri) agli apparecchi di misura.

La sensazione che l'occhio prova, allorché è in presenza d'una sorgente di luce, dipende non direttamente dalla quantità di energia raggiante che lo investe, bensì dal rapporto fra questa e il tempo, cioè dalla potenza raggiante ricevuta. Nella generalità delle reazioni fotochimiche, invece, è soprattutto la quantità di energia raggiante che influisce, in quanto una più lunga esposizione compensa la minore potenza raggiante; il caso più noto è quello delle lastre fotografiche. Ma la conoscenza della potenza raggiante che investe l'occhio non è sufficiente per permettere la previsione dell'effetto prodotto, in quanto le differenti radiazioni hanno attitudine assai diversa a destare la sensazione della luce: anzi, questa attitudine è sensibile solo per le radiazioni (spettro visibile) di lunghezza d'onda (λ) compresa all'incirca fra 4000 e 7000 unità Angström (un'unità Ångström è eguale a un centomilionesimo di cm.). Occorrerebbe, dunque, anche l'indicazione del modo in cui la potenza raggiante totale è ripartita fra le varie lunghezze d'onda. A evitare questa complicazione, serve l'introduzione delle grandezze fotometriche; le quali differiscono dalle corrispondenti grandezze energetiche per l'applicazione di un fattore (visibilità delle radiazioni) di natura fisico-fisiologica, il quale tiene precisamente conto dell'attitudine sopra accennata.

Supposto, per un momento, di avere a che fare con sorgenti di luce monocromatica, il prodotto della quantità di energia raggiante (grandezza energetica) emessa, per la visibilità delle radiazioni di quel colore, costituisce la quantità di luce (grandezza fotometrica). Moltiplicando per lo stesso fattore la potenza irradiata (detta anche flusso d'energia), si otterrà il flusso luminoso (nome dell'unità: lumen), cioè la quantità di luce emessa per unità di tempo (l'unità di quantità di luce non ha un nome speciale; s'impiega, a seconda dei casi, il lumen-secondo, oppure il lumen-ora, ecc.). Il flusso luminoso emesso da una sorgente di luce è quindi una grandezza analoga alla portata d'una sorgente d'acqua (quantità d'acqua emessa per ogni unità di tempo). Allorché un flusso luminoso investe una superficie, si chiama illuminazione della superficie (unità: lux) il rapporto tra il flusso ricevuto e l'area della superficie (in mq.); se si tratta d'una superficie che emetta luce, il quoziente analogo tra il flusso luminoso emesso e l'area emittente (in cmq.) si chiama lumiaiosità della superficie (unità: lambert). Quando poi una sorgente di luce sia sensibilmente puntiforme, si dà il nome d'intensità luminosa della sorgente (unità: candela), in una direzione (qualunque), al quoziente del flusso luminoso emesso dalla sorgente entro un piccolo angolo solido avente quella direzione per asse, e la misura dell'angolo stesso; sicché l'intensità luminosa è una specie di densità di ripartizione del flusso nelle varie possibili direzioni che si possono immaginare tutt'intorno alla lampada. Si chiama poi splendore della sorgente (unità: candela per cmq.; è detta anche stilb) il quoziente fra l'intensità luminosa e l'area della superficie apparente della sorgente stessa (area della proiezione della sorgente su un piano normale alla direzione in cui l'intensità è considerata). Se, a partire dalla sorgente, supposta ancora puntiforme, si conducono in tutte le possibili direzioni segmenti di lunghezza proporzionata alle corrispondenti intensità, gli estremi liberi di questi segmenti definiranno una superficie (superficie fotometrica) atta a individuare bene la varia abbondanza con la quale la luce viene emessa nelle singole direzioni. Siccome la maggior parte delle lampade ha un asse di simmetria, così le superficie fotometriche sono per lo più superficie di rivoluzione, e si rappresentano in modo facile e completo mediante una loro sezione meridiana.

Nel caso in cui la luce non sia monocromatica, le definizioni precedenti valgono egualmente purché come visibilità della luce si assuma la media ponderale fra i valori che essa avrebbe per le radiazioni monocromatiche costituenti.

In molte considerazioni fotometriche entrano non i valori assoluti della visibilità, bensì i rapporti fra questi valori; ed è uso comune, allora, fare riferimento al massimo dei valori che la visibilità assume nell'ambito dello spettro visibile (per λ = 5550 U. A. circa). Questi rapporti, v, ai quali si dà il nome di coefficienti di visibilità, sono dei numeri puri, compresi fra 0 e 1. Si ha, ad es.:

Fotometria eterocromatica e fotometria omocromatica. - Il caso veramente generale in fotometria è quello del confronto di luci di colore più o meno diverso. Ora, nessuno penserebbe, avendo dinnanzi a sé, ad es., due fili di metalli differenti, l'uno di rame, e l'altro di alluminio, a chiedersi se questi fili sono eguali. Se però i due fili dovessero servire a un determinato scopo, per es. a condurre corrente elettrica, allora avrebbe significato il chiedere se i due fili si prestino egualmente bene allo scopo; cioè, se essi siano equivalenti dal punto di vista del particolare intento da raggiungere. Ma le condizioni che debbono essere soddisfatte, affinché questa equivalenza abbia luogo, variano col variare del punto di vista da cui l'equivalenza viene giudicata: quando le dimensioni siano tali, ad es., che siano eguali le resistenze ohmiche, non saranno eguali nè i carichi di rottura dei due fili, né i loro pesi, e via dicendo. Se pertanto vi fossero apparecchi atti a giudicare quest'equivalenza dei due fili, ciascuno da un determinato punto di vista, i varî apparecchi, applicati alla stessa coppia di fili, darebbero necessariamente risultati diversi l'uno dall'altro. E dovrebbe evidentemente, in ogni singolo caso, adoperarsi quello, fra gli apparecchi, che effettuasse il confronto dallo stesso punto di vista che interessa nel caso particolare considerato.

Il problema del confronto di due luci di colore diverso non manca di analogia con quello del confronto dianzi accennato e con altri simili: le due luci e le corrispondenti sensazioni hanno bensì molto di comune, ma hanno anche delle insopprimibili differenze intrinseche, le quali rendono impossibile la ricerca d'una eguaglianza nel senso ordinario che ha questa parola. Ma poiché le luci sono adoperate per determinati scopi (per dare a un ambiente una certa luminosità media, oppure per permettere la visione di determinati oggetti, minuti o no, e così via), non è assurdo chiedere quando è che due luci, sia pure di colore diverso, permettano di raggiungere egualmente bene un dato scopo; chiedere, cioè, quando esse siano equivalenti dal punto di vista di questo scopo. Ed è naturale attendersi che cambiando lo scopo, cambiando cioè il metodo e l'apparecchio con il quale si esegue il confronto, debbano aversi risultati differenti. In ogni determinato caso, occorrerà quindi impiegare apparecchi che permettano di giudicare dell'equivalenza delle luci proprio dal punto di vista che interessa, in relazione allo scopo della misura. Due sono, nella pratica, i punti di vista che maggíormente interessano: a) quello della sensazione generica di luminosità destata nell'occhio da superficie colpite dalle luci in questione; b) quello dell'acuità visuale, cioè della attitudine dell'occhio a percepire determinati oggetti o determinati contrasti di luminosità o di colore.

È erronea l'opinione che la soluzione del problema della fotometria eterocromatica possa trovarsi nell'impiego di quei fotometri che vengono impropriamente detti fotometri fisici, nei quali non è l'occhio che interviene direttamente nel giudizio, bensì un qualche dispositivo sensibile alle radiazioni (a base di selenio, cellule fotoelettriche o altro). Ove, difatti, si tratti di confrontare due luci eterocromatiche per uno scopo che interessi l'occhio, non è concepibile l'impiego di quei dispositivi altro che nel caso in cui si sia riusciti a modificare la loro sensibilità sino a renderla simile a quella dell'occhio. Sicché il loro uso potrà bensì presentare vantaggi pratici, ma non può cambiare i termini del problema concettuale della fotometria eterocromatica.

Dal punto di vista pratico, il confronto di luci di colore più o meno diverso si esegue, perciò, con gli stessi apparecchi (in generale) che valgono per le luci di eguale colore (fotometria omocromatica).

Campioni delle unità fotometriche. - Le grandezze fotometriche che più spesso occorre considerare sono il flusso luminoso, l'intensità luminosa, l'illuminazione e la luminosità; e poiché le loro dimensioni non sono riducibili alle sole grandezze meccaniche fondamentali, la loro misura non potrà effettuarsi se prima non si fissi arbitrariamente anche l'unità di una delle grandezze fotometriche. Il problema sperimentale si riduce alla costruzione d'una sorgente di luce campione, che dovrà avere, come qualunque altra unità campione, almeno i requisiti fondamentali della costanza nel tempo, della riproducibilità e dell'impiego sufficientemente pratico. Il primo passo verso una soluzione accettabile fu fatto intorno al 1880 con le lampade a pentano (Vernon-Harcourt) e ad acetato di amile (Hefner-Alteneck), e l'unità Violle. Le prime due sono lampade a fiamma libera, brucianti, in determinate condizioni, idrocarburi di composizione ben definita; l'unità Violle è fondata invece sulla costanza della luminosità che il platino puro torna ad acquistare ogni volta che viene riportato alla temperatura di fusione. Un'importante serie di ricerche sperimentali finì tuttavia con il dimostrare, poco dopo il 1900, che nessuna delle tre unità possedeva a sufficienza quel minimo di requisiti che si deve esigere in un campione primario. Nel 1909 venne perciò proposta l'adozione di una unità d'intensità luminosa, da chiamare candela internazionale, definita provvisoriamente dall'insieme di speciali lampade elettriche a incandescenza conservate in alcuni laboratorî nazionali; a questa convenzione internazionale aderì nel 1921 anche l'Italia (per mezzo del suo Comitato nazionale dell'illuminazione); ed è stato successivamente sancito per legge, in Italia, l'uso di questa unità candela internazionale e di quelle derivate (lumen internazionale, lux internazionale, ecc.). In alcuni paesi di lingua tedesca, invece, è tuttora in uso l'unità Hefner e le sue derivate.

Il campione fotometrico primario è dunque provvisoriamente e idealmente costituito da un gruppo di speciali lampade elettriche a incandescenza; e per confronto (diretto o indiretto) con questo campione vanno tarate tutte le lampade che nei laboratorî si usano come campioni secondarî.

Probabilmente, il germe della soluzione definitiva della questione del campione primario sta nella proposta avanzata nel 1908 da Waidner e Eurgess, di utilizzare, alla temperatura di fusione del platino, la luminosità del così detto corpo nero.

Generalità sopra gli apparecchi fotometrici. - Fotometri. - Si dà il nome di fotometri agli apparecchi atti a misurare direttamente le intensità luminose, d'illuminometri a quelli che permettono la misura dell'illuminazione d'una superficie e di fotometri integratori (o lumenometri) a quelli che misurano il flusso luminoso. Non si tratta, per altro, di tre categorie molto diverse di apparecchi, bensi d'una diversa realizzazione o d'un diverso adattamento di principî comuni. Cominciando dai fotometri, i numerosissimi tipi immaginati possono dividersi in tre grandi gruppi: A) fotometri nei quali il giudizio sull'eguaglianza delle luci è affidato direttamente all'occhio umano; B) fotometri nei quali l'occhio è sostituito da un dispositivo sensibile all'energia raggiante (fotometri indiretti); C) spettrofotometri.

A) Nei fotometri del 1° gruppo, vengono presentate all'occhio, in generale, non le due sorgenti luminose che si debbono confrontare, bensi due superficie attigue d'eguale natura, illuminate rispettivamente dalle due lampade, e gli si chiede di giudicare quand'è che, in seguito a eventuali convenienti variazioni nelle condizioni del confronto, le due illuminazioni possano ritenersi equivalenti; conoscendo le relazioni di posizione fra superficie e lampade è facile risalire al rapporto fra le intensità luminose confrontate. Non occorre ricordare, difatti, che se una superficie S riceve luce da una lampada L praticamente puntiforme, l'illuminazione E in un suo qualsiasi punto O è espressa (in lux int.) da:

essendo I0 l'intensità luminosa (candele int.) della lampada nella direzione LO, essendo L???O la distanza fra la lampada e il punto (espressa in metri) e ϕ l'angolo che la direzione LO fa con la normale, nel punto O, alla superficie S. E poiché l'equivalenza fra due illuminazioni può essere giudicata da varî punti di vista, si presenta opportuna un'ulteriore suddivisione dei metodi fotometrici del 1° gruppo in alcuni sottogruppi.

a) Caratteristica del primo è che l'occhio confronta senz'altro la luminosità delle due superficie, ch'esso vede simultaneamente, l'una accanto all'altra. Rappresentanti tipici: l'antico fotometro Ritchie, l'apparecchio più recente del Trotter e il classico fotometro Bunsen.

L'artificio indicato da Bunsen consiste nel collocare (fig. 4, I), sul carrello fotometrico C, un foglietto di carta bianca S avente il piano normale alla linea L1L2, e portante (fig. 4, II) una macchia di grasso (ottenuta, a es., con paraffina); la quale, per l'aumentata trasparenza, appare più scura del resto del foglio se guardata dalla parte più illuminata del foglio stesso, e più luminosa se guardata dalla parte meno illuminata. La macchia dovrà perciò riuscire invisibile se s'illuminano egualmente le due facce del foglio, e la misura consisterà nello spostare il carrello fra le lampade (la scala graduata AB serve a individuare le posizioni e misurare le distanze) sino a ottenere la scomparsa della macchia; dalla posizione del carrello si risalirà al rapporto fra le intensità luminose (che sarà l'inverso del rapporto fra i quadrati delle due distanze D1, D2 lampada-carrello). In realtà, si riesce solo a trovare una posizione di minima visibilità della macchia. Molte varianti ingegnose sono state proposte per perfezionare questo tipo di fotometro; ma hanno perduto oggi ogni importanza di fronte all'artificio indicato da Lummer e Brodhun, intorno al 1899, consistente nell'impiego d'un doppio prisma (fig. 5) di vetro, formato da due prismi ABC e DEF, dei quali il primo è a riflessione totale, lavorati separatamente e poi incollati lungo un'area circolare MN, in guisa che dal punto di vista ottico tutto avvenga come se la separazione MN non esistesse. Se dalla parte L1 perviene al doppio prisma della luce parallela, solo un fascio centrale potrà uscire verso O; invece, della luce proveniente da L2 sarà deviata (per riflessione totale) verso O solo la parte anulare. Guardando nel senso OL1 con un adatto cannocchiale, si vedrà dunque un'area circolare illuminata dalla luce proveniente da Li, circondata da una zona anulare illuminata da L2; e sarà facile giudicare del momento in cui le due luminosità, convenientemente regolate, diventeranno equivalenti. Lummer e Brodhun hanno altresì indicato il modo di trasformare l'accennato doppio prisma (a eguaglianza) in qualche cosa di analogo, ma nel quale la posizione di equilibrio fotometrico corrisponda a un'eguaglianza di leggieri contrasti fra zone adiacenti del campo visivo (doppio prisma a contrasto).

Le due forme del doppio prisma di L.-B. costituiscono oggi la parte essenziale dei tipi moderni di fotometri. Nei tipi fissi, il doppio prisma è generalmente montato (fig. 6) su un carrello spostabile lungo un banco fotometrico AB con l'aggiunta di uno schermo opaco S, avente eguali (bianche) le due facce, e di due specchi s, s, che servono a dare la direzione voluta alla luce che cade sulle due facce adiacenti del doppio prisma.

Nei tipi trasportabili, la varietà è maggiore, per i diversi modi nei quali si può provvedere sia a unire all'apparecchio la sorgente luminosa ausiliaria di confronto, sia a ottenere l'equilibrio fotometrico.

b) I fotometri del secondo sottogruppo (che possono chiamarsi razionalmente a esame alternato) non sono che varianti di un unico principio (Rood, 1893): quello di mostrare all'occhio, l'una dopo l'altra, alternativamente e a brevissimi intervalli di tempo, le due superficie (ciascuna illuminata da una delle due lampade da confrontare) che nei metodi del sottogruppo precedente venivano invece mostrate contemporaneamente, l'una accanto all'altra. Se le due illuminazioni sono eguali, l'occhio non si accorge, o quasi, della sostituzione; ma se le condizioni di equilibrio fotometrico non sono ancora raggiunte, l'alternarsi di due luminosità dìverse desta nell'occhio una particolare sensazione (sfarfallamento). Questi apparecchi si montano sopra un usuale carrello fotometrico, al posto, per es., del dispositivo di Lummer-Brodhun di cui nella fig. 6; la misura consiste nello spostare l'apparecchio sino a trovare la posizione in cui lo sfarfallamento cessa, o passa per un minimo; e da questa posizione si deduce nel consueto modo il rapporto fra le intensità luminose delle due lampade.

c) Altri fotometri si potrebbero chiamare ad acuità visuale. Per quanto con "acuità visuale" si debba intendere la facoltà generica che ha l'occhio di distinguere gli oggetti dal fondo sul quale si proiettano, si restringe d'ordinario questo significato alla percezione di adatti sistemi di linee nere, più o meno larghe, tracciate su fondo bianco. Per un medesimo occhio l'acuità visuale varia con l'illuminazione dell'oggetto guardato; quindi si può pensare di confrontare due illuminazioni assumendole come equivalenti ove permettano all'occhio di raggiungere la stessa acuità. Numerose difficoltà, peraltro, si oppongono alla realizzazione di fotometri fondati su questo principio, che ha dato luogo ad apparecchi interessanti bensl, ma non di largo uso corrente.

d) I tipi di fotometri accennati nei paragrafi preceddenti (come pure molti degli apparecchi ai quali si accennerà in seguito) hanno dato origine a numerose varianti di dettaglio riguardanti per lo più il modo di raggiungere l'equilibrio fotometrico (in luogo di far variare le distanze fra lampade e carrello, come nei fotometri a banco e simili). Si può, ad es., interporre fra almeno una delle lampade e il fotometro un mezzo assorbente regolabile (Fabry e Buisson, L. Weber, ecc.); oppure interporre sulla traiettoria di almeno una delle due luci un apparecchio polarizzatore e uno analizzatore (il flusso luminoso che riesce a traversare il sistema dipende dalla posizione relativa dei due apparecchi, generalmente due nicol), come nei recenti fotometri Martens e Brodhun e nello spettrofotometro König, oltre che in apparecchi più antichi (Zöllner, Babinet, Wild, ecc.); infine, si può intercettare periodicamente la luce assumendo (Talbot) che l'illuminazione venga ridotta nel rapporto che intercede fra la durata dell'intero periodo e la durata dei passaggi di luce (Abney, König, Marbe, ecc.) quando il periodo sia brevissimo.

B) Possono ragionevolmente dirsi indiretti tutti quei metodi fotometrici nei quali non direttamente all'occhio è affidato il giudizio sulla equivalenza o la misura delle luci, bensì a un qualche dispositivo sensibile alle radiazioni. Le possibilità che si presentano a prima vista sono in gran numero; ma all'atto pratico esse si riducono a poche. Ribadito, anzitutto, il concetto fondamentale già aceennato che sia ammissibile la sostituzione dell'occhio, in un giudizio fotometrico, solo a patto che il dispositivo impiegato abbia per le radiazioni lo stesso andamento di sensibilità dell'occhio, il problema della costruzione d'uno di questi dispositivi si scinde: 1. nella determinazione quantitativa delle proprietà dell'occhio; 2. in quella delle proprietà naturali, rispetto all'energia raggiante, del corpo o del fenomeno che si progetta di adoperare; 3. nel ridurre le proprietà del dispositivo simili quanto più è possibile a quelle dell'occhio. Due sono i metodi fotometrici indiretti che oggi hanno importanza nella tecnica dell'illuminazione: essi impiegano, rispettivamente, le cellule fotoelettriche e i giunti termoelettrici (o bolometri). Il più diffuso è il primo. È noto che se, in genere, i corpi (Hallwachs) elettrizzati negativamente perdono rapidamente la loro carica allorché sono investiti da radiazioni ultraviolette, ve ne sono di quelli (p. es. il sodio, il potassio, il cesio, allo stato metallico) che presentano, in misura ben apprezzabile, un comportamento analogo anche sotto l'influenza delle radiazioni dello spettro visibile. Questa emissione di elettroni negativi, la cui intensità è legata a quella dell'illuminazione alla quale il corpo è sottoposto, può essere messa in evidenza facilmente con mezzi che qui non è il caso di descrivere in particolare. Le cellule sono generalmente costituite da una ampolla di vetro chiusa, nella quale penetrano due elettrodi; l'anodo, sotto forma d'un filo o d'una strisciolina di platino situata verso il centro dell'ampolla, e il catodo, formato da un filo in contatto con lo strato sensibile (a es., di potassio metallico), che è aderente a una porzione della superficie interna del vetro. Nell'interno s'introducono talvolta tracce di gas rari (elio, argon). Se fra gli elettrodi si mantiene una certa differenza di potenziale (qualche decina di volt), la corrente non passa (sensibilmente) finché la cellula è mantenuta nell'oscurità; comincia, invece, a passare se la luce investe lo strato sensibile e, entro certi limiti, cresce proporzionalmente all'illuminazione dello strato.

C) S'intendono per spettrofotometri quegli apparecchi i quali consentono di confrontare dei gruppi di radiazioni aventi lunghezza d'onda compresa entro limiti ristretti. Ogni spettrofotometro è essenzialmente costituito da un fotometro accoppiato a uno spettroscopio, il quale, ricevendo le luci emesse dalle sorgenti in questione, le decomponga e faccia quindi entrare nel dispositivo fotometrico (o nell'occhio) solo determinati gruppi di radiazioni: è generalmente in facoltà dell'osservatore di variare i limiti di ciascun gruppo, in guisa da esaminare successivamente tutte le parti dello spettro visibile e di limitare ogni confronto a porzioni più o meno estese dallo spettro. La spettrofotometria ha oggi acquistato una grande importanza scientifica e tecnica, e costituisce anche un ausilio e una guida preziosa per molte industrie.

Fotometri intecratori (lumenometri). - La determinazione del flusso luminoso che una sorgente emette, ha acquistato oggi un'importanza maggiore che in passato, atteso il riconoscimento sempre più largo che questo flusso individua bene, certo assai meglio dell'intensità luminosa in una direzione, l'attitudine d'una lampada a illuminare l'ambiente circostante. La relazione

che sussiste fra il flusso Φ e l'andamento dell'intensità luminosa I nelle varie direzioni, mostra la possibilità di calcolare il flusso in base a una serie sufficientemente numerosa di determinazioni d'intensità luminosa nelle varie direzioni. Ma più pratici sono i metodi per la misura diretta. Il loro principio comune è quello di illuminare una certa superficie mediante frazioni della luce che la lampada invia in tutte le direzioni, in guisa da far acquistare a questa superficie una luminosità proporzionale al flusso cercato. Un fotometro integratore (o lumenometro) si comporrà perciò d'un fotometro vero e proprio, per la misura di questa luminosità, e d'un dispositivo ausiliario avente lo scopo di ottenere la superficie illuminata di cui sopra. Il più usato di questi dispositivi è quello a sfera di Ulbricht (1900). Se nell'interno d'un involucro sferico si colloca una sorgente di luce, ciascun elemento di superficie sarà illuminato direttamente e, a sua volta, rinvierà luce verso tuttí gli altri elementi. In definitiva, perciò, l'illuminazione totale d'un generico elemento della superficie interna si comporrà di due parti: di quella dovuta alla luce ricevuta direttamente dalla lampada, che sarà generalmente diversa da punto a punto, e dalla somma di tutte le luci ricevute dagli altri elementi della superficie dell'involucro, attraverso una serie indefinita di diffusioni: e questa seconda parte, se l'interno della sfera si comporta come una superficie diffondente, obbedendo, cioè, alla legge di Lambert (sono abbastanza diffondenti la superficie del bianco di zinco, dell'ossido di magnesio, ecc.), sarà proporzionale (Sumpner) al flusso luminoso della lampada.

Il metodo di misura di Ulbricht consiste (fig. 7) nel sostituire una piccola porzione S della superficie della sfera con un vetro opalino (o smerigliato), e nel disporre nell'interno della sfera uno schermo opaco P il quale impedisca alla lampada L2 d'illuminare direttamente S; la luminosità di S, se guardata dal di fuori, sarà proporzionale al flusso totale emesso dalla lampada. In pratica, il globo di Ulbricht viene sistemato ín modo che la piccola superficie S venga a trovarsi a uno degli estremi di un banco fotometrico, come se fosse una lampada di cui si dovesse determinare l'intensità luminosa, confrontandola con una lampada campione L1; F è il carrello fotometrico. È bene che il diametro della sfera sia almeno 15 ÷ 20 volte maggiore della massima dimensione del corpo luminoso; diametri dell'ordine di un metro o di un metro e mezzo sono quindi sufficienti per i casi più comuni. Risultati discretamente approssimati si ottengono anche sostituendo la forma sferica dell'involucro con forme poliedriche di facile realizzazione (come l'icositetraedro, l'icosaedro o, addirittura, il cubo).

Illuminometri. - La misura dell'intensità dell'illuminazione delle superficie ha acquistato anch'essa, oggi, un'importanza molto maggiore che in passato, grazie ai progressi della tecnica dell'illuminazione. Gli illuminometri più precisi sono quelli nei quali il confronto è fatto per mezzo del doppio prisma di Lummer-Brodhun. Non mancano però tipi d'illuminometri di maneggio molto semplice e di approssimazione ancora sufficiente in un gran numero di casi; fra essi citiamo l'illuminometro Sharp-Sackwitz-Harrison. La parte essenziale dell'apparecchio (fig. 8, alto) è costituita da una cassettina prismatica ABCDEFH, di forma allungata, in lamiera, la cui parte superiore ABCD porta una serie di piccoli fori f ed è ricoperta da una striscia di carta bianca semitrasparente. Nell'interno, si trova in L una lampadina elettrica, la quale illumina, attraverso i fori f, la parte interna della striscia di carta. Sottoponendo la faccia ABCD a una certa illuminazione esterna, i fori vicini a L appariranno luminosi, ma quelli più lontani sembreranno invece più oscuri del resto della carta, in quanto la luminosità, per trasparenza, della carta corrispondente ai fori, sarà minore di quella, per diffusione, della carta circostante. Fra la serie dei fori che sembrano più luminosi del fondo formato dal resto della striscia e quella dei fori che sembrano più oscuri, vi sarà un foro che sembrerà, o quasi, confondersi con il fondo; la sua posizione (per una determinata incandescenza di L) si sposterà verso CD per illuminazioni esterne crescenti e verso AB per illuminazioni sempre più deboli; accanto a ogni foro potrà scriversi il valore dell'illuminazione esterna che lo rende quasi invisibile. La misura si ridurrà perciò a disporre l'apparecchio in modo che la faccia ABCD occupi la posizione della superficie di cui si vuole misurare l'illuminazione: la determinazione di questa si farà semplicemente leggendo la cifra scritta accanto a quello dei fori la cui visibilità è minima. La cassetta dell'apparecchio (fig. 8, basso) contiene anche una batteria P di pile a secco, un reostato R e un piccolo voltometro di controllo G. Meritano ancora di essere ricordati, per la loro diffusione e l'ingegnosità e la semplicità dei particolari costruttivi, l'illuminometro costruito dalla Osram e l'illuminometro Bechstein, che Norden ha completato con un dispositivo il quale permette la misura separata dell'illuminazione dovuta alla luce diretta delle lampade e di quella della luce diffusa dalle pareti dell'ambiente.

Apparecchi fotometrici varî - Oltre gli apparecchi e i metodi fotometrici sopra indicati, ne esistono numerosi altri (a quelli più o meno collegati), che servono alla soluzione dei problemi particolari di fotometria che si presentano nella stessa tecnica dell'illuminazione (fotometria d. sorgenti di luce unidirezionali, misura di grandezze assai piccole, ecc.), o in altri rami della tecnica e della scienza (p. es., astronomia).

Tecnica dell'illuminazione.

Alcune proprietà dell'occhio e loro conseguenze. - L'occhio ha bensì un'estrema capacità di adattamento alle condizioni più diverse d'ambiente, ma la visione richiede uno sforzo speciale, e dà luogo a un affaticamento maggiore, quando gli oggetti circostanti siano troppo o troppo poco luminosi. Attraverso numerose ricerche si è determinato come varia, con il variare dell'illuminazione alla quale sono sottoposti gli oggetti guardati e di altre circostanze, la facilità dell'occhio di apprezzare quelle differenze di luminosità che tanta parte hanno nella percezione della forma degli oggetti e della loro posizione nello spazio; come varia la rapidità con la quale l'occhio riesce a percepire i particolari degli oggetti guardati a seconda della loro illuminazione; si è determinato quale influenza sulla percezione di un oggetto abbia la vicinanza di altri oggetti molto luminosi, e così via.

Si può oggi confermare, intanto, che la visione si compie nelle migliori condizioni quando l'illuminazione degli oggetti guardati sia poco diversa, tanto per l'intensità quanto per il colore, da quella che si ha mediamente di giorno, all'aria aperta, al riparo dalla luce solare diretta. Ma quale che sia l'illuminazione media degli oggetti, la visione riesce sempre difettosa quando siano eccessive le differenze di luminosità fra gli oggetti stessi. E, finalmente, la visione comoda della forma e posizione degli oggetti richiede non solo un'illuminazione adeguata, ma altresì un giuoco sufficiente di ombre più o meno intense; cosa che può ottenersi soltanto con un giusto rapporto fra la luce che gli oggetti ricevono direttamente dalle sorgenti di luce, e quella diffusa che ricevono dalle pareti degli ambienti, dagli oggetti stessi, ecc.

Constatando che le migliori condizioni di visione si hanno quando l'illuminazione degli oggetti è paragonabile a quella che si ha di giorno, non si è voluto però dedurre, implicitamente, che di sera occorra realizzare, per mezzo di lampade, delle illuminazioni proprio così intense; le quali, d'altra parte, darebbero effettivamente luogo a una spesa ingente. Gli studî di cui sopra s'è fatto cenno, permettendo di misurare di quanto peggiorino le condizioni della visione allorché l'illuminazione degli oggetti diventa via via inferiore a quella diurna media, hanno messo in chiaro, in particolare, che v'è un intervallo molto ampio nel quale il peggioramento è relativamente piccolo; in cui, cioè, è ancora praticamente trascurabile sia la diminuzione che subisce la cosiddetta acuità visuale (cioè, l'attitudine dell'occhio a percepire i minuti particolari degli oggetti), sia la cosiddetta velocità di percezione (cioè, la prontezza con la quale l'occhio percepisce la presenza degli oggetti). È dunque possibile caso per caso, tenendo conto della natura degli ambienti e dando il giusto peso alla necessità di contenere in limiti ristretti la spesa per l'illuminazione, di fissare in modo abbastanza concreto quali siano i valori desiderabili che deve avere l'illuminazione artificiale; quali siano, cioè, i valori minimi al disotto dei quali la permanenza e il lavoro negli ambienti comincerebbe a riuscire penoso, affaticante, o addirittura nocivo all'occhio umano. È con criterî dì questo genere che sono state fissate le cifre più oltre riportate.

Richiami relativi ai fondamenti della tecnica dell'illuminazione. - La capacità generica di una sorgente di luce a illuminare gli oggetti circostanti è misurata dalla "quantità di luce ch'essa emette in ogni unità di tempo", cioè da quello che si chiama il flusso luminoso (v. sopra: Fotometria) che essa emette (unità: il lumen).

Allorché un flusso luminoso investe una superficie, la luminosità di questa superficie appare all'occhio, a parità di altre condizioni, tanto maggiore quanto più numerose sono le unità di flusso che giungono sopra ogni unità dell'area illuminata. Si dà il nome d'intensità di illuminazione (o, più semplicemente, illuminazione) di una superficie, al quoziente tra il flusso (in lumen) ch'essa riceve e la sua area (in mq.) (unita: la lux).

Per avere un'idea del valore di questa unità d'illuminazione, basterà dire che (nei nostri climi e nelle stanze munite di ampie finestre) sul piano d'un tavolo prossimo alla finestra si possono avere, con tempo sereno e verso la metà della giornata, illuminazioni prossime a un migliaio di lux; che per leggere senza fatica caratteri tipografici non troppo minuti occorre un'illuminazione di almeno quindici o vemi lux; che, infine, l'illuminazione che è capace di produrre di notte la luna piena (allorché è mediamente alta sull'orizzonte) sulla superficie del suolo, è dell'ordine di un decimo di lux, mentre quella che la luce diretta del sole produce in estate oscilla di solito fra 50.000 e 100.000 lux.

L'aspetto d'un corpo non dipende solo dall'illuminazione a cui è soggetto, bensì anche dalla natura della sua superficie. Se sotto una lampada, o presso una finestra, si collocano, l'uno accanto all'altro, un foglio di carta bianca e un foglio di carta grigia o nera, le illuminazioni alle quali sono sottoposte sono le stesse; ma il foglio di carta bianca rimanda indietro quasi tutta la luce ricevuta, sicché appare più luminoso della carta grigia, che ne rimanda indietro assai meno, assorbendo il resto.

Si chiama coefficiente di diffusione d'una superficie la frazione di luce ch'essa rinvia (così, dire che il coefficiente di diffusione d'un muro bianco è 0,8, equivale a dire che la superficie del muro rimanda indietro gli otto decimi della luce che riceve, assorbendo il rimanente).

Si chiama poi luminosità d'una superficie il numero di unità di flusso luminoso che essa emette (sia per luce propria, come avviene nelle lampade, sia rinviando luce ricevuta da altri corpi, come è il caso più generale) per ogni suo centimetro quadrato di area (unità: il lambert).

Si supponga che una lampada emetta luce con eguale abbondanza in tutte le direzioni: per conoscere la "concentrazione" del flusso nelle varie direzioni, cioè quanto flusso venga emesso in ciascuna unità di "angolo solido" di emissione, basterà dividere l'intero flusso emesso per il numero totale di unità di angolo solido entro cui la lampada emette; numero che, per una lampada isolata emettente liberamente in tutte le direzioni, è 4 π ≅ 12,6. Questo quoziente viene chiamato intensità luminosa media sferica della lampada (unità: la candela). Ma le lampade ordinarie non emettono luce con eguale abbondanza in tutte le direzioni; e in questi casi l'intensità media sferica sopra definita rappresenta solo una specie di valore medio fra le concentrazioni vere del flusso nelle varie direzioni OA (cioè, le intensità luminose vere in queste direzioni) d'una lampada O: per definire queste intensità bisognerebbe, in analogia con la definizione precedente, immaginare un piccolo angolo solido avente O per vertice e per asse la direzione OA, e dividere il minuscolo flusso emesso entro quel piccolo angolo solido per la misura dell'angolo stesso.

La conoscenza dell'intensità luminosa d'una lampada in una certa direzione permette di calcolare facilmente l'illuminazione che la lampada produce sopra gli oggetti che si trovano in quella direzione, come è stato ricordato sopra, a proposito dell'impiego dei fotometri (le distanze vanno misurate in metri). Ne segue che l'unità d'illuminazione (la lux) è anche l'illuminazione che una lampada da una candela sarebbe capace di produrre su una superficie distante un metro, disposta perpendicolarmente ai raggi luminosi. (Le usuali candele di cera o di paraffina, tuttora usate, hanno intensità luminosa molto variabile con le dimensioni, con la qualità e con lo stato del lucignolo; sicché la loro intensità luminosa è generalmente diversa da quell'intensità convenzionale e fissa che si chiama la candela internazionale, definita come sopra è stato accennato).

Se, data una lampada, si concentra gran parte della luce in una certa direzione, per mezzo di specchi, di lenti o altro, la lampada illuminerà bensì di più gli oggetti che si trovano in quella direzione, ma illuminerà di meno (o niente) gli altri: è quello che avviene, in modo tipico, nei proiettori per automobili, nei proiettori militari, ecc., e, in minori proporzioni, adattando alle lampade usuali degli apparecchi d'illuminazione di forma adatta.

Volendo indicare in modo semplice l'attitudine d'una lampada a illuminare, la miglior cosa è dare il flusso luminoso che essa emette; oppure, anche, quale è la sua intensità media sferica (la quale è ovviamente misurata da un numero sempre 12,6 volte minore di quello che misura il flusso).

Fino a poco tempo addietro, invece, è stato uso dei costruttori di lampade elettriche d'indicare soltanto l'intensità luminosa in una determinata direzione, generalmente scelta in corrispondenza alla massima concentrazione del flusso. Ma le intensità luminose, in genere, se indicano bene in che modo la lampada illumina nella direzione scelta, dicono assai poco circa l'illuminazione che la lampada è capace di produrre nelle altre direzioni.

Oggi i principali costruttori di lampade elettriche cominciano a introdurre, oltre l'indicazione della tensione di alimentazione, anche quella del flusso emesso (in conformità del voto fatto dall'Associazione elettrotecnica italiana nel suo congresso del settembre 1924), oppure la potenza assorbita (in watt); ma, in questo secondo caso, debbono poter esibire tabelle dalle quali risulti quale è il flusso che la lampada emette in corrispondenza a quella potenza.

Frattanto, si presenta di frequente la necessità, avendo una lampada di cui è indicata solo l'intensità luminosa, che sarà d'ordinario quella massima, di conoscere qual è il flusso luminoso. Se la lampada emettesse luce egualmente in tutte le direzioni, a ogni candela d'intensità luminosa corrisponderebbe un flusso di 12,6 lumen; ma poiché quell'ipotesi non si verifica d'ordinario, il flusso sarà minore. La determinazione esatta del flusso richiede, nei varî casi, dei calcoli che non è qui il caso d'indicare; e il risultato dipende dalla forma e dalla costruzione della lampada. Nei casi più comuni, relativi a lampade elettriche a incandescenza, risultati discretamente approssimati si potranno avere con questa regola: il flusso luminoso emesso da una lampada elettrica a incandescenza, in cui il palloncino sia di vetro diafano e incolore, si ottiene moltiplicando l'intensità luminosa indicata sulla lampada per il coefficiente 10. Se il palloncino è di vetro smerigliato, o opalino, il coefficiente è un poco più elevato, e può giungere facilmente a 11 (sicché, ad es., una lampada a palloncino diafano e incolore da 50 candele emetterà circa 500 lumen).

Nell'indicare i consumi delle lampade, s'intende d'ordinario di fare riferimento all'unità di tempo; così, si dirà che una lampada a gas consuma 120 litri di gas all'ora. Nel caso delle lampade elettriche, ciò che viene consumato (o, meglio, trasformato) è dell'energia elettrica; e poiché l'unità pratica di energia si chiama joule, si dovrà esprimere il consumo delle lampade (o, più esattamente, la potenza consumata) in joule per ogni unità di tempo, cioè, in watt (un watt equivale a 1 joule per secondo).

Quando una lampada elettrica rimanga accesa per un certo tempo, l'energia consumata sarà ovviamente il prodotto della potenza consumata (in watt) per il tempo, che si usa esprimere in ore (così, se una lampada che consumasse 60 watt rimanesse accesa per tre ore l'energia consumata sarebbe di 60 × 3 - 180 watt-ora).

Essendo il watt un'unità relativamente piccola per questi consumi, sono comunemente in uso due suoi multipli: l'ettowatt, e il chilowatt; e quindi anche l'ettowatt-ora, ecc.

Una lampada è tanto migliore quanto meno, a parità di altre condizioni, essa consuma per emettere un dato flusso luminoso. Si chiama consumo specifico ciò che la lampada consuma per ogni lumen prodotto (oppure per ogni candela d'intensità media sferica). È assai utile anche la nozione di efficienza di una lampada, intendendosi con tale locuzione il numero dei lumen che essa emette per ogni watt assorbito (cioè, l'inverso del consumo specifico).

Le prime lampade elettriche a incandescenza a filamento di carbone entro palloncini di vetro vuoti d'aria (oggi quasi fuori uso, meno casi speciali), avevano un'efficienza di circa 3 lumen per watt (cioè, un consumo di circa 4 watt per ogni candela media sferica); le lampade a filamento metallico entro palloncini di vetro vuoti, che sono venute dopo, hanno un'efficienza da 8 a 10 lumen per watt (circa 1,2 ÷ 1,5 watt per ogni candela media sferica); finalmente, le lampade oggi più comuni, che sono a filamento metallico entro un palloncino di vetro in cui sono stati introdotti dei gas chimicamente inerti adatti (azoto, argon) hanno un'efficienza quasi doppia delle precedenti, da 12 a 18 lumen per watt (da 0,7 ad 1 watt per candela media sferica), e anche più nelle lampade speciali o di grande potenza (queste lampade al gas vengono anche chiamate con i nomi commerciali di lampade "Mezzowatt", oppure "Ala", "Nitra", "Arga", "Mazda-C", ecc.).

Le cifre sopra date sono da considerarsi come cifre d'orientamento, ché, specialmente per il tipo a gas inerte, le lampade di minore potenza consumano sempre relativamente di più; tanto, anzi, che per le piccole lampade (alcune centinaia di lumen; cioè, alcune decine di candele) sarebbe ancora conveniente adoperare il tipo a filamento metallico nel vuoto.

Quanto alla durata, mentre le primitive lampade a filamento di carbone annerivano fortemente già dopo 300 ÷ 400 ore di accensione, le lampade moderne possono essere adoperate, iu media, per 800 ÷ 1000 ore.

Apparecchi d'illuminazione (riflettori, rifrattori, diffusori). - Si verifica spesso che il modo in cui le lampade emettono la luce nelle varie direzioni non sia quello che sarebbe desiderabile; per rimediare a questo inconveniente si ricorre agli apparecchi accessorî per illuminazione, cioè ai riflettori, ai rifrattori e ai diffusori.

I riflettori sono essenzialmente formati da involucri riflettenti (di lamiera smaltata bianca, di lamiera cromata, di vetro argentato, ecc.), di forma conveniente, collocati in giusta posizione rispetto alla lampada. A seconda della loro forma, essi aiutano il concentramento della luce in una data direzione, oppure la disperdono entro angoli maggiori; ma è indispensabile che la loro posizione rispetto alla lampada sia giusta; in altre parole, con ogni riflettore, per avere i migliori risultati, bisogna adoperare lampade di determinata grandezza e forma. Il n. 1 della fig. 9 rappresenta un riflettore da officina e da ufficio in lamiera smaltata, studiato anche per evitare che l'occhio possa vedere direttamente la lampada (cioè, per evitare gli effetti di abbagliamento di cui si dirà oltre). Il n. 2 rappresenta un tipo analogo, munito inferiormente d'involucro opalino; il n. 3 un piccolo riflettore (in vetro argentato) munito inferiormente di vetro diffusore rigato o smerigliato, adatto per l'illuminazione localizzata di singoli posti di lavoro (da ufficio, officina, ecc.); il n. 4 un riflettore, situato sotto la lampada, che rinvia verso l'alto la luce, e che si presenta adatto per i sistemi d'illuminazione indiretta (costituendo il riflettore con una coppa semitrasparente, in vetro latteo o alabastro, può servire per illuminazione semidiretta); il n. 5 un tipo di riflettore campaniforme, in vetro argentato, di forma piuttosto profonda; il n. 6 un tipo di grandi dimensioni, a specchio (di vetro) parabolico, munito inferiormente d'involucro opalino o smerigliato, adatto per illuminazione stradale e di grandi aree. La fig. 15, a p. 848, rappresenta un vero e proprio proiettore, a specchio parabolico di vetro argentato o di metallo cromato, usato per illuminazione a distanza. Talvolta si adoperano a guisa di riflettori dei semplici dischi di lamiera smaltata, piani o leggermenti curvi; ma se questi dischi costano poco, la loro utilità è assai modesta..

I rifrattori sono invece involucri di vetro fatti a guisa di coppa, di anello, oppure di forma più o meno chiusa, nel cui spessore sono lavorate delle scanalature di forma e posizione adatta. Questi solchi trasformano il vetro in un insieme di piccoli prismi che inviano la luce nelle direzioni volute e raggiungono anche lo scopo di mascherare la vista diretta della lampada (evitando o attenuando i fenomeni di abbagliamento). I rifrattori veri e proprî non vanno confusi con le comuni coppe di vetro nelle quali siano state fatte delle rigature principalmente per ragioni decorative, e che non hanno alcun effetto apprezzabile sulla ripartizione della luce. Il n. 7 della fig. 9 rappresenta un tipo di rifrattore a coppa, adatto per lampade non troppo grandi; i nn. 8 e 9 due altri tipi chiusi (il primo va chiuso superiormente con uno specchio riflettore; il secondo è in due pezzi); il n. 11 un tipo di apparecchio ad anello rifrattore (messo in modo da rinviare in basso la luce che la lampada manderebbe verso l'alto, dove non servirebbe) con involucro esterno opalino, adatto per illuminazione di ambienti aperti.

I diffusori sono delle coppe di vetro o, meglio, involucri chiusi, in un sol pezzo (nn. 10,12), oppure in due pezzi (n. 13), di vetro più o meno trasparente (smerigliato, opalino, latteo, ecc.) il cui scopo essenziale è quello d'impedire la vista diretta della lampada e quindi di attenuare i fenomeni di abbagliamento.

Qualche volta si accoppiano diffusori e riflettori (come nel n. 2), o riflettori e rifrattori (n. 8), oppure diffusori e rifrattori (come nel n. 11), per l'ottenimento di scopi speciali.

Infine, occorrono talvolta per illuminazioni speciali (mostre di negozî, esposizioni, scenarî, ecc.) apparecchi che, pur rimanendo verticale o quasi verticale la lampada, inviino dissimmetricamente la maggior parte della luce; si usano riflettori a coppa profonda dissimmetrica, di vario tipo, di cui i nn. 14 e 15 dànno due esempî; occorrendo, questi apparecchi si riuniscono in file, come nella bilancia della fig. 10, adatta per illuminazione di palcoscenici, ecc.

Sistemi d'illuminazione per mezzo di sorgenti artificiali di luce. - I sistemi d'illuminazione degli ambienti si suddividono, sommariamente, in:

1. Sistemi nei quali l'illuminazione ha carattere generale; nei quali, cioè, viene illuminato l'intero ambiente con sufficiente uniformità.

2. Sistemi nei quali l'illuminazione ha carattere individuale; nei quali, cioè, pur esistendo una debole illuminazione generale, vengono illuminati con l'intensità fissata soltanto i posti di lavoro, per mezzo di lampade disposte nella loro immediata prossimità.

A sua volta, l'illuminazione generale si chiama diretta quando le lampade illuminano direttamente gli oggetti; e si chiama semidiretta (fig. 11), o indiretta (fig. 12), quando fra le lampade e gli oggetti siano frapposti schermi, rispettivamente semitrasparenti o opachi, in guisa che l'illuminazione resti affidata, prevalentemente o totalmente, alla luce diffusa dalle pareti e dai soffitti (l'illuminazione di tipo individuale è quasi sempre diretta).

L'illuminazione di tipo individuale permette qualche economia nella quantità di luce occorrente; meno, peraltro, di quanto possa immaginarsi, ché (salvo casi particolari) non è possibile, ovviamente, né ridurre troppo l'illuminazione generale né circoscrivere troppo le aree illuminate intensamente. Essa, d'altra parte, consente meno facilmente spostamenti dei posti di lavoro o trasformazioni dell'ambiente; né, per lo più, conferisce ai locali un aspetto molto soddisfacente. Per conseguenza, i sistemi d'illuminazione oggi più comuni sono quelli di carattere generale. I sistemi individuali veri e proprî sono tuttavia preferibili in taluni casi di uffici individuali e di speciali lavorazioni industriali (lavori assai delicati e minuti di meccanica, orologeria e oreficeria, composizioni tipografiche, ecc.).

Nei casi più importanti d'illuminazione, i punti fondamentali da esaminare, sono: a) l'abbondanza della luce, cioè l'intensità della illuminazione media; b) l'uniformità dell'illuminazione; c) l'importanza e la facilità del prodursi di effetti di abbagliamento; d) il colore della luce.

a) Intensità dell'illuminazione. - Un'illuminazione può essere ritenuta soddisfaceme solo se la sua intensità media raggiunga un valore adeguato agli scopi dell'ambiente. I valori contenuti nella tabella che segue s'intendono a titolo di orientamento e si riferiscono più specialmente al "piano di utilizzazione della luce"; cioè, al piano dei tavoli, dei banchi, delle macchine, ecc., che sono presenti nei locali. In mancanza d'indicazioni speciali, lo si assume alto m. 0,80 rispetto il pavimento se si tratta di locali chiusi, e metri 1,20 se si tratta di locali aperti.

b) Uniformità dell'illuminazione. - Affimché le cifre della tabella precedente siano sufficienti, è necessario che l'illuminazione sia abbastanza uniforme. Negli ambienti aperti, o di passaggio, possono ancora tollerarsi differenze notevoli: il minimo d'illuminazione (del piano d'utilizzazione) può anche scendere a un ottavo o a un decimo del valore massimo. Negli ambienti chiusi, invece, è spesso un difetto che il minimo d'illuminazione scenda sino alla metà del valore massimo.

Occorre altresì fare in modo che siano in giusta proporzione la luce che giunge sopra gli oggetti direttamente dalle lampade e quella, diffusa, che vi giunge dopo essere stata rinviata dalle pareti e dal soffitto dell'ambiente. In genere, l'uniformità dell'illuminazione e l'importanza della luce diffusa sono tanto maggiori quanto più le lampade situate nell'ambiente sono alte rispetto al piano di utilizzazione e sono vicine fra loro. Per ottenere un'uniformità che rientri, per gli ambienti chiusi, nei limiti indicati sopra, occorre che la distanza fra due lampade consecutive situate nell'ambiente non superi il doppio dell'altezza delle lampade sul piano di utilizzazione. Nei locali aperti la distanza viene usualmente portata a quattro o cinque volte l'altezza sul piano di utilizzazione.

c) L'abbagliamento. - Se nel campo visivo si trova qualche oggetto molto più luminoso degli altri, la visione di questi ultimi riesce imperfetta; di sera, è principalmente la vista diretta delle lampade che turba la visione dei corpi circostanti. Si chiama abbagliamento questo disturbo che l'occhio prova, tanto più forte quanto maggiore è la differenza di luminosità di cui sopra, e che diminuisce le sue facoltà visive, sino ad annullarle praticamente in casi estremi (cecità temporanea per abbagliamento). I casi di abbagliamento sono molto più importanti e frequenti di quanto si creda; e le misure dimostrano che è più soddisfacente la visione negli ambienti illuminati con intensità ragionevoli, nei quali sia stata ridotta al minimo la frequenza dei casi di abbagliamento, che non la visione in ambienti illuminati molto più riccamente, ma nei quali queste cure non siano state usate.

Per ridurre la frequenza degli abbagliamenti, il provvedimento più efficace è quello d'impedire all'occhio non solo la vista diretta del filamento incandescente, ma anche quella della lampada; ciò che si può, ad es., ottenere disponendo intorno alla lampada degli involucri di forma tale che, pur lasciando che la luce cada sull'oggetto guardato, le impediscano di colpire direttamente l'occhio. È assolutamente necessario procedere così quando (negli uffici, nelle scuole, o nelle officine) l'illuminazione degli oggetti sia essenzialmente affidata a lampade individuali collocate ciascuna presso il posto di lavoro; ma bisogna ben badare che l'involucro (paraluce, ecc.) sia opaco, o poco trasparente.

Quando l'illuminazione sia invece di carattere generale, si può ottenere lo scopo nel miglior modo con sistemi d'illuminazione semidiretta (fig. 11) e indiretta (fig. 12), ai quali s'è già accennato. Con entrambi questi sistemi, e specialmente con il secondo, si ha però, a parità di lampade, un'illuminazione relativamente meno intensa che con il sistema d'illuminazione diretta. Quando non si voglia o non sia possibile fare uso dei sistemi semidiretti o indiretti, è certamente buona la pratica di circondare le lampade con involucri diffusori o rifrattori, purché, rispettivamente, non troppo trasparenti, né troppo piccoli.

Assai utili per ridurre l'abbagliameuto sono ancora due altri provvedimenti, da attuare, a seconda dei casi, insieme o in sostituzione dei precedenti: 1. situare le lampade in posizione tale (sopra tutto per altezza) da essere generalmente fuori dell'angolo visivo utile (si può ritenere soddisfatta questa condizione quando, immaginando tracciate le rette che uniscono l'occhio dell'osservatore, nella sua posizione media, con le lampade vicine, nessuna di queste rette faccia con un piano orizzontale un angolo minore di circa 40°); 2. quando non si possano o non si vogliano usare gl'involucri diffusori o rifrattori di cui sopra, adoperare almeno lampade a palloncino latteo.

E poiché effetti di abbagliamento si possono avere anche per la vista indiretta della lampada, riflessa da superficie specchianti (come specchi, pareti di marmo lucido, vetrate, piano lucido di tavoli, ecc.), si deve ancora raccomandare di eliminare o limitare queste superficie, se possibile.

d) Colore della luce. - Il colore della luce più adatto per l'occhio è, tenuto conto di tutto, quello medio della luce diurna. Ma poiché la luce diurna varia grandemente non solo d'intensità, ma anche di colore, con il variare delle ore, con le stagioni, con lo stato del cielo, con l'esposizione degli ambienti, e così via, non sarà praticamente necessario riprodurre esattamente una determinata tonalità di luce; ma potranno accettarsi senza timore anche luci di colore un po' diverso da quello medio diurno. Ora, i tipi di lampade più usati nella tecnica dell'illuminazione emettono una luce relativamente più ricca di radiazioni rosse; ma la differenza di colore, in generale, è tollerabile.

Siccome però il colore che i corpi dimostrano dipende anche dal colore della luce alla quale essi vengono esaminati, così alla luce delle lampade i corpi acquistano un colore un po' differente che alla luce del giorno; e la cosa ha speciale importanza in quei casi (negozî di merci colorate, ambienti di tipo artistico, esposizioni, ecc.) nei quali interessi la giusta percezione dei colori e dei loro rapporti di tono. Oggi, il solo modo pratico per ottenere una luce artificiale di colore simile alla luce diurna è quello di ricorrere a vetri di correzione colorati. Nel caso particolare delle lampade elettriche a incandescenza, dovendosi togliere l'eccesso di radiazioni rosse e gialle che la luce prodotta possiede, si dovrà fare uso di vetri di colore indaco (generalmente all'ossido di cobalto). Si trovano attualmente in commercio non solo apparecchi per illuminazione provvisti di questi vetri colorati, ma anche lampade elettriche uelle quali il palloncino è costruito addirittura con vetro di colore indaco. Risultati più perfetti si potranno avere solo ricorrendo al controllo, con adatti strumenti, delle varie lampade e del colore della luce ottenuta.

Cenni sopra i calcoli d'illuminazione. - Un primo elemento da determinare è la potenza luminosa complessiva delle lampade (o della lampada, nei casi più modesti) che vanno installate. Ora, le cifre contenute nella tabella precedente precisano l'illuminazione consigliabile sul piano di utilizzazione dei varî ambienti; piano il quale ha generalmente la stessa superficie del pavimento. Moltiplicando l'area del piano (in metri quadrati), per l'illuminazione, si otterrà il flusso luminoso utile (in lumen) occorrente. Ma non tutto il flusso luminoso che le lampade emettono colpisce il piano di utilizzazione; sicché è necessario che le lampade emettano un flusso maggiore di quello sopra calcolato. Tenuto conto di tutto, si trova che nei sistemi d'illuminazione diretta di ambienti chiusi il flusso luminoso utile, a seconda delle modalità dell'impianto, delle proporzioni dell'ambiente e del colore delle pareti, varia generalmente fra 1/4 e 2/3 del totale flusso emesso dalle lampade; sicché, in mancanza di dati più precisi e in casi medî, si potrà ammettere, come cifra di orientamento e per calcoli di massima, che il flusso luminoso utile non sia troppo diverso da quattro decimi del totale flusso prodotto. A queste frazioni (1/4; 2/3; 0,4) si dà il nome di coefficiente di utilizzazione del flusso. Ammesso di adottare, ad es., il valore 0,4, ne segue che le lampade dovranno essere di tale potenza da emettere un flusso che, moltiplicato per 0,4, diventi eguale al flusso utile sopra calcolato; cioè, in questo caso, un flusso 2,5 volte maggiore del flusso utile (ricordando che nelle lampade elettriche di tipo usuale, a ogni candela d'intensità luminosa corrispondono circa 10 ÷ 11 lumen, se ne deduce che per avere poi, ove occorresse, l'intensità luminosa complessiva delle lampade, basterebbe dividere il flusso da emettere per un numero compreso fra 10 e 11).

Quando l'illuminazione sia fatta con il sistema semidiretto, o con il sistema indiretto, il coefficiente di utilizzazione risulta minore; occorrerà dunque produrre flussi luminosi ancora maggiori; l'aumento deve superare spesso il 50% nei casi d'illuminazione semidiretta e il 100% nei casi d'illuminazione indiretta.

Nel caso degli ambienti aperti, essendo molto piccolo il flusso rinviato utilmente dalle pareti che limitano l'ambiente (facciate di edifici), il flusso utile difficilmente supera il terzo del flusso prodotto. Ammesso, ad es., un coefficiente di utilizzazione di 0,3, ne segue che il flusso da produrre dovrà essere, come cifra d'orientamento, circa 3,3 volte maggiore di quello utile.

Determinato il flusso luminoso da produrre, sarà poi facile calcolare il consumo (di energia elettrica, di gas, ecc.) che gli corrisponde. Così, ammesso (nel caso dell'illuminazione elettrica) per le lampade a filamento metallico in gas inerte una efficienza media di 14 lumen per watt, basterà dividere il flusso da produrre per 14 (per questo tipo di lampade), per avere la potenza elettrica (in watt) necessaria. Naturalmente, tutti questi calcoli, così semplificati, non possono servire che per una prima grossolana approssimazione.

Individuato il complesso delle lampade che deve essere installato, si tratterà di provvedere alla loro suddivisione, se l'ambiente è grande, in più centri luminosi e alla determinazione della loro posizione. In linea di massima, più i centri luminosi sono numerosi e alti rispetto al piano di utilizzazione, e maggiore è l'uniformità dell'illuminazione e minore la gravità degli effetti d'abbagliamento. Se i posti di lavoro dell'ambiente (i tavoli di vendita d'un negozio, ad es.) sono in posizione fissa, converrà certamente mettere le lampade al disopra di questi tavoli; si potranno allora anche ridurre sensibilmente le intensità luminose dianzi calcolate.

Critery speciali relativi ai casi più importanti d'illuminazione. - Ai criterî generali, già esposti, si aggiunge quanto segue nei riguardi di alcune delle più comuni categorie d'impianti d'illuminazione.

Anzitutto, la riduzione al minimo possibile delle probabilità di fenomeni di abbagliamento assume importanza specialissima per quegli ambienti nei quali si debba soggiornare a lungo in posizione fissa (stanze da lavoro, da pranzo, uffici, ecc.). Quando fosse inattuabile qualunque altro provvedimento più efficace, ricorrere almeno (il che è sempre possibile) all'uso di lampade smerigliatg (completamente, o soltanto dalla parte dalla quale vengono viste); o; meglio, di vetro latteo.

Inoltre, nei riguardi degli apparecchi d'illuminazione, se è inevitabile che essi presentino difetti quando si tratti di forme caratteristiche di epoche passate, e nelle quali una tecnica dell'illuminazione non esisteva ancora, questo non dovrebbe in nessun modo essere tollerato nei tipi nuovi. Un artista che voglia oggi disegnare forme nuove di apparecchi, non dovrebbe in alcun modo dimenticare due necessità fondamentali: quella che gli apparecchi soddisfino alle esigenze della tecnica dell'illuminazione, e l'altra che riescano di uso pratico e di manutenzione (e pulizia) facile. Invece, molti degli apparecchi di forme nuove sono difettosi altrettanto, se non più, degli antichi.

Infine, i varî sistemi d'illuminazione già accennati possono ovviamente attuarsi in vario modo; e questo vale non solo per i sistemi di illuminazione diretta (nei quali può naturalmente essere necessario adottare forme di apparecchi intonate all'ambiente o adatte alle sue speciali esigenze), ma anche negli altri. Così, l'illuminazione semidiretta può ottenersi non solo come nella fig. 11 (variando i particolari, s'intende), ma anche lasciando visibili solo parte delle lampade installate e sistemando le altre in modo che. illuminino essenzialmente il soffitto e la parte alta delle pareti (e magari, mascherandole, lungo la parte superiore della sala, con adatte cornici, o altro); variando le proporzioni fra le due parti, si può passare gradatamente dal sistema completamente diretto al sistema completamente indiretto. L'artificio di nascondere con opportuni ripieghi architettonici le sorgenti di luce, ottenendo un'illuminazione indiretta con il rendere luminoso il soffitto o altre pareti, è oggi usato spesso; e questo, sia perché elimina il problema dell'adattamento all'ambiente degli apparecchi d'illuminazione, sia per la varietà degli effetti che si possono ottenere, sia, anche, per desiderio di novità. Ma l'illuminazione del tutto ridotta va adoperata con cautela e parsimonia in quanto gli effetti ottenuti, se sorprendono in principio, possono talvolta apparire, alla lunga, poco gradevoli.

Venendo ora ai casi più comuni d'illuminazione di ambienti chiusi, e cominciando dalle case e dagli alberghi, qui dovranno tenersi d'occhio i criterî già espressi specie per quanto riguarda le stanze da studio (la soluzione spesso preferibile è quella di una lampada per l'illuminazione speciale sul posto di lavoro, più un'illuminazione generale, più o meno intensa, dell'ambiente), da pranzo, da letto (per le stanze da pranzo e da letto è spesso raccomandabile l'illuminazione semidiretta) e da bagno (ovunque una persona debba specchiarsi, l'installazione di due lampade ai lati dello specchio, un po' in alto, è preferibile a quella di un'unica sorgente di luce sopra lo specchio o in mezzo alla stanza); maggiore libertà potrà lasciarsi alla fantasia per le stanze che siano più di passaggio che di soggiorno (ingressi, corridoi, sale e saloni, ecc.). Quando si voglia ottenere molta uniformità nell'illuminazione e non si vogliano moltiplicare i centri luminosi, riesce utile l'installazione delle lampade immediatamente sotto il soffitto (con riflettori, rifrattori o diffusori a forma adatta), sebbene si riduca così sensibilmente il coefficiente di utilizzazione. Dove importi conservare il colore diurno degli oggetti, sono preferibili le lampade cosiddette a luce diurna; quanto alle sale di conversazione, l'uso di un'illuminazione generale poco intensa (eventualmente indiretta) sussidiata da altre lampade collocate presso i tavoli, i divani, ecc., accentua il carattere intimo dell'ambiente (rispetto al caso in cui si eliminino le lampade speciali e si aumenti l'illuminazione generale). L'impiego, negli ambienti più grandi, di apparecchi d'illuminazione a parecchie lampade, da accendere a gruppi, consente di graduare l'illuminazione degli ambienti e costituisce una risorsa decorativa. L'illuminazione dei locali di servizio specie della cucina (e ambienti eventualmente annessi), va curata assai più di quanto d'ordinario non si faccia. Nelle scale, la posizione delle lampade deve permettere di veder bene i singoli gradini (per mezzo del giuoco di ombre prodotte), sia a chi sale, sia a chi scende.

Nei locali commerciali (negozî, in genere) l'illuminazione abbondante e fatta razionalmente è anche un mezzo efficace di pubblicità. Attesa l'importanza che la luce diffusa dalle pareti ha sull'illuminazione generale, saranno da preferire per le pareti, quando altre circostanze o esigenze non lo impediscano, le tinte chiare. Salvo il caso di negozî di grande lusso, o di ambienti aventi scopi particolari, si presta generalmente bene il sistema d'illuminazione diretto, attuato con apparecchi d'illuminazione muniti di diffusori o di rifrattori, del genere (a parte la forma e la decorazione) dei nn. 7, 8, 9 e 10, 12, 13 della fig. 9, che evitino l'abbagliamento. Spesso, l'importanza del colore degli oggetti in vendita consiglia l'impiego di lampade a luce vicina a quella diurna. Si prestano anche bene i sistemi semidiretti d'illuminazione. A causa della maggiore efficienza delle lampade elettriche grandi rispetto a quelle piccole, sono preferibili gli apparecchi d'illuminazione con una sola lampada, di sufficiente potenza, a quelli portanti parecchie lampade piccole. La sistemazione dei varî apparecchi nei negozî va fatta in base anche agli eventuali scomparti del soffitto, alla presenza di colonne o travature, ecc. Altri criterî particolari saranno suggeriti dalla natura dei negozî; così, un negozio di mobili richiederà un'illuminazione meno vivace che un negozio di vetrerie o di gioielli (in quest'ultimo caso, ad es., per rendere più luminosi e vividi i riflessi delle pietre è utile l'impiego di apparecchi d'illuminazione a molte lampade piccole e a vetro diafano); a parità d'importanza, un negozio di generi alimentari, di tessuti, una farmacia o una libreria richiederanno un'illuminazione meno "di fantasia" d'un negozio di mode o d'un caffè; e così via. Nei negozî di lusso, e nei locali di lusso in genere, trovano adatto impiego i sistemi più vari d'illuminazione semidiretta e indiretta, da attuarsi in relazione alle particolarità di decorazione dell'ambiente e alla sua destinazione.

Assai curate debbono essere le vetrine, sia esterne sia interne, allo scopo di ottenere un'illuminazione molto intensa (e, se occorre, con giuste ombre) degli oggetti, senza che la vista delle sorgenti di luce dia fastidio. Si ricorre generalmente al sistema di mascherare completamente le lampade per l'osservatore, situandole dietro schermi posti lungo gli orli laterali della vetrina (si prestano bene le lampade di forma tubolare, specie se argentate a metà); oppure a riflettori (p. es., in vetro argentato, tipo nn. 14, 15 della fig. 9) situati (fig. 13) nella parte superiore della vetrina (o di fianco); la posizione dei riflettori va studiata attentamente affinché illuminino bene specialmente la parte degli oggetti che l'osservatore vede. Sistemando schermi colorati alla bocca dei riflettori (esistono telai per l'uso di sottili fogli di gelatina colorata), si possono ottenere illuminazioni di fantasia; ma non è facile valersi con gusto di qussto artificio. È importante che attraverso la vetrina si vedano il meno possibile le sorgenti di luce esistenti nel negozio.

Nei locali industriali, unico scopo da perseguire è l'illuminazione razionale e economica dei locali; quindi, pareti bianche finché è possibile, e apparecchi d'illuminazione semplici e razionali, atti a ridurre le probabilità di abbagliamento, come, ad es., i nn. 1, 2, 3, 5 della fig. 9 (e tipi analoghi esistenti in commercio) a seconda degli scopi particolari da raggiungere.

Per l'illuminazione generale (che è da preferire) si prestano meglio i nn.1,2; per illuminazioni locali intense, i nn. 3,5; e così via. Le disposizioni più consigliabili per le lampade sono, in generale, quelle più semplici (come nella fig. 14), da fare in base ai criterî già esposti.

Negli uffici in genere (uffici individuali, sale per contabilità, statistica, disegno, ecc.), debbono applicarsi criterî utilitarî come per i locali industriali, salvo il maggior decoro ovviamente richiesto dalle circostanze; le sale del personale direttivo saranno evidentemente da trattare in modo diverso da quelle per lavori collettivi. Piuttosto che i riflettori del tipo n. 1, saranno consigliabili dei diffusori come i nn. 10,12, o dei rifrattori come i nn. 7, 8, 9 (e tipi simili in commercio); se ne costruiscono di stile, forma e decorazione adatta agli scopi più varî. I sistemi d'illuminazione generale, salvo casi speciali, sono anche qui preferibili a quelli d'illuminazione individuale dei posti di lavoro. Quella parte degli uffici che fosse in immediato e largo contatto con il pubblico, sarà da trattare con criterî analoghi a quelli consigliati per i locali commerciali.

Negli ambienti aperti (vie, piazze, giardini, piazzali di deposito e manovra, piste, teatri all'aperto, ecc.), il solo metodo praticamente attuabile d'ordinario è quello dell'illuminazione diretta; ma esso può (e spesso deve) essere attuato in una grande varietà di modi a seconda della natura e importanza dell'ambiente e a seconda che interessi, oppure no, illuminare anche le facciate di edifici o monumenti adiacenti. Nel primo caso, sono consigliabili apparecchi che pur inviando in basso la maggior parte della luce prodotta, ne inviino una frazione anche in senso orizzontale, appunto allo scopo di non lasciare del tutto in ombra le facciate prospicienti. S'impiegano lampade, situate a una certa altezza dal suolo, generalmente compresa fra circa 4 metri (per le strade piuttosto strette, lampade di modesta potenza e relativamente vicine) e circa 10 m., le quali, allo scopo di ridurre l'abbagliamento, si fanno semismerigliate nella parte inferiore (o in vetro latteo) quando siano piccole, basse e sprovviste di veri e proprî apparecchi d'illuminazione; se si tratta di lampade potenti (e situate quindi ad altezza superiore al minimo) si useranno a vetro diafano, ma collocate entro globi muniti superiormente di riflettori, oppure entro rifrattori di forma conveniente (studiati in modo da essere poco sensibili al deposito di polvere). Si sono anche studiati apparecchi speciali atti a inviare la luce con maggiore abbondanza nelle parti piu lontane dal piede della verticale passante per la lampada: così, nel tipo n. 11 della fig. 9, lo scopo è ottenuto con il rifrattore, a calotta, visibile intorno alla metà superiore della lampada. In linea generale, l'uniformità dell'illuminazione ottenuta è tanto maggiore quanto maggiore è il rapporto (generalmente variabile fra 0,2 e 0,3) fra altezza di sospensione e distanza fra le lampade; ma diminuisce in corrispondenza il coefficiente di utilizzazione.

Quando non interessino le facciate di edifici vicini all'ambiente, si può anche ricorrere all'uso di proiettori situati a considerevole altezza, e concentranti in basso gran parte della luce prodotta (come il n. 6 della fig. 9); si tratta di proiettori emettenti un fascio di luce molto ampio (apertura dell'angolo al vertice del fascio: 20° ÷ 25°, e anche più). Nei casi di spazî assai estesi (piazze, piste, piazzali, ecc.), allo scopo di ridurre l'ingombro, la spesa e il disturbo estetico dovuto alla presenza dei tralicci e dei pali portanti, si può ricorrere al raggruppamento di proiettori (fig. 15 e n. 6 della fig. 9) in batterie, collocate sopra torrette a traliccio molto alte (anche parecchie decine di metri), oppure sopra edifici situati in posizione adatta; dando inclinazioni convenienti ai fasci di luce, si può egualmente ottenere un'illuminazione discretamente uniforme. Applicazioni importanti e recenti di questo sistema d'illuminazione a proiettori sono state fatte per l'illuminazione di piazzali da giuoco, di stadî, di piste, di teatri all'aperto, di piazzali ferroviarî, di cantieri da lavoro, di banchine di porti, di autostrade, ecc.

Recente è pure il problema dell'illuminazione notturna dei monumenti, edifici, ecc. Poiché questi edifici sono stati concepiti per essere visti di giorno, la parte essenziale del problema consiste quasi sempre nell'ottenere un'illuminazione generale che rassomigli a quella che dà la luce diffusa del giorno. La soluzione più seguita, oggi, è quella di ricorrere all'impiego di fasci di luce, di conveniente ampiezza, potenza e direzione, ottenuti mediante batterie di proiettori (figura 15) collocate in posizioni adatte (generalmente, sopra le sommità deglí edifici vicini). Le modalità di questa soluzione e le caratteristiche dei proiettori da adoperare (che spesso possono ridursi assai economici, non essendo sempre necessario l'impiego di vere e proprie superficie riflettenti otticamente lavorate) vanno attentamente studiate, caso per caso, anche con criterî d'arte, in relazione al carattere della costruzione da illuminare e agli effetti da ottenere. A soluzioni analoghe si ricorre quando l'illuminazione da ottenere abbia scopi prevalentemente pubblicitarî (come è assai comune in molti paesi), nel qual caso sono ovviamente minori le esigenze di natura estetica.

Illuminazione diurna. - Mentre quando si tratta di luce artificiale il valore assoluto dell'illuminazione media è già un indizio assai importante del modo come l'ambiente è illuminato, questo valore assoluto non ha che modesto significato nel caso della luce diurna, legato come esso è alle vicissitudini meteorologiche e alle ore della giornata. Scarso fondamento e importanza hanno anche talune regole empiriche che permetterebbero un giudizio a priori; quale, ad es., quella fondata sul rapporto fra l'area complessiva delle finestre del locale e l'area del pavimento, essendo evidente che ben diversa illuminazione dànno le finestre a seconda che l'ambiente si trovi ai primi o agli ultimi piani dell'edificio, a seconda che davanti alla finestra sorgauo (oppure no) altre costruzioni più o meno alte, a seconda dell'orientazione delle finestre, ecc. Un criterio razionale che può servire di base all'elaborazione di norme semplici, è invece quello di considerare il rapporto fra l'illuminazione media che si ha nell'ambiente (per es., sul piano di lavoro) e l'illuminamone che, nello stesso momento, assumerebbe una superficie orizzontale esposta all'aperto alla luce del cielo (esclusa la luce solare diretta), in condizioni tali che eventuali costruzioni vicine non facciano da schermo (immaginando la superficie, per es., sulla terrazza superiore dell'edificio, o di edifici vicini). Il rapporto sopra definito prende il nome di coefficiente d'illuminazione diurna. Numerose verifiche hanno mostrato che per ambienti del tipo delle case d'abitazione, alberghi, uffici, scuole, ecc., l'illuminazione diurna deve ritenersi insufficiente in quegli ambienti dove il coefficiente medio d'illuminazione diurna sia inferiore a 0,003; discreta quando sia compreso fra o,005 e 0,01; buona quando sia maggiore di 0,01. Queste cifre si fondano anche sull'assunto che l'illuminazione diurna debba poter consentire l'uso normale dell'ambiente anche quando la luminosità del cielo sia scesa a 0,5 lambert.

Naturalmente, le illuminazioni effettive potranno essere anche maggiori di quelle corrispondenti ai coefficienti d'illuminazione diurna, per l'effetto dei raggi solari diretti; sia ch'essi entrino nell'ambiente, sia che colpiscano le costruzioni vicine a quella considerata.

Il modo più semplice di calcolare l'illuminazione media che le finestre i lucernarî, le vetrate producono negli ambienti chiusi, è quello di determinare il flusso luminoso che entra attraverso queste aperture, e trattarlo come se fosse un flusso prodotto da un insieme di lampade esistenti nell'ambiente.

Per determinare il flusso entrante, si terrà presente che una superficie emittente luce, vista attraverso un'apertura, è equivalente a una superficie di pari luminosità, situata nel piano dell'apertura e avente l'area della proiezione (sul piano dell'apertura) della sua parte visibile. Se, ad es., attraverso un lucernario si vede liberamente il cielo, l'effetto sarà come se tutta l'area del lucernario fosse occupata da una superficie avente la stessa luminosità del cielo; se attraverso una finestra si vede in parte il cielo e in parte superficie di costruzioni vicine, l'effetto sarà come se la finestra fosse formata in parte da una superficie avente la luminosità del cielo, e in parte da un'altra superficie avente la luminosità delle costruzioni vicine (le due superficie avendo rispettivamente le aree corrispondenti alle proiezioni del cielo e degli edifici sul piano della finestra). Il valore assunto nei calcoli per la luminosità del cielo, e i valori proporzionali che si assumeranno per le luminosità delle superficie esterne di altre costruzioni, hanno bensì influenza sul valore assoluto dell'illuminazione media degli ambienti, ma non ne hanno alcuna sulla verifica del valore del coefficiente d'illuminazione diurna, essendo questo un rapporto.

Per facilitare qualche calcolo di massima, si ricorda che, detta e la luminosità che si suppone abbia il cielo, tutto avviene come se ogni suo metro quadrato di area (proiettata sul piano della finestra o del lucernario) emettesse 10.000 e lumen; e che una superficie orizzontale liberamente esposta alla sola luce del cielo (ai fini della verifica del coefficiente d'illuminazione diurna) è sottoposta all'illuminazione di 10.000 e lux. Quanto alle superficie di altre costruzioni, di alberi, ecc., che fossero visibili dalle finestre, la loro luminosità è estremamente diversa da un caso all'altro, né è possibile dare in poche parole indicazioni sufficienti al riguardo; si accenna solo che, tranne il caso di superficie assai bianche direttamente colpite dalla luce del sole, la loro luminosità è naturalmente minore di quella del cielo, ed è tanto minore, anzi, quanto più la loro tinta è scura e quanto meno in pieno le colpisce la luce solare.

Bibl.: Commissione internazionale dell'illuminazione (Atti dei Congressi 1921-1924-1927-1928-1932); Handbuch der Physik, XIX, Berlino 1928; Jolley-Waldram-Wilson, Illuminating engineering equipment, Londra 1930; G. Peri, Prontuario per il tecnico di illuminazione, Brescia 1929; F. Uppenborn, Photometrie, Monaco 1919; J. Walsh, Photometry, Londra 1926; C. Sylvester e T. E. Ritchie, Modern electrical illumination, Londra 1927; Illuminating Engineering Practice, New York 1917; U. Bordoni, La fotometria moderna, Milano 1925; id., Fisica Tecnica, I, i, Bologna 1932; O. Lummer, Leuchttechnik, Monaco 1918; v. anche bibl. al § seguente.

Arte dell'illuminazione.

L'estetica dell'illuminazione è legata in ogni epoca, sia allo stile architettonico dominante, sia alla particolare natura del corpo illuminante. La candela stearica, il petrolio, il gas, che fornivano una luce più o meno oscillante, dovevano essere facilmente accessibili per l'accensione e lo spegnimento e inoltre dovevano venire installate a una certa distanza, tanto dal soffitto, quanto dalle pareti, per evitare ogni pericolo d'incendio. Così il lampadario, esaminato dal punto di vista utilitario, altro non è che un supporto atto a sostenere nella posizione voluta, delle candele steariche, dei becchi a gas, ecc.

Non bisogna confondere la veste elegantissima che i corpi illuminanti ricevettero talora da artefici sommi, con quella che potremo chiamare estetica dell'illuminazione e che talvolta riguarda, non tanto il corpo illuminante in sé quanto la distribuzione del flusso luminoso, sia come fattore illuminante, sia come fattore emotivo in relazione con l'ambiente. Una candela stearica, considerata a sé è un apparecchio atto a produrre luce; raggruppando un certo numero di candele per mezzo di adatti supporti, è possibile ottenere oltreché un corpo illuminante, anche un elemento decorativo; ma circondando le fiamme delle candele con cristalli, specchi, metalli, che riflettano e rifrangano la luce sopra le pareti, avremo fatto qualche cosa di più che illuminare, in quanto la luce prodotta dalle candele, trasformata dagli elementi circostanti, è riuscita a creare nell'ambiente l'atmosfera più adatta alla sua destinazione. Analogamente nell'interno dei templi o delle chiese la sobria, limitatissima illuminazione, talvolta concentrata in alcuni punti mentre il resto rimaneva quasi nell'oscurità, era carattere essenziale per dare all'ambiente un senso di raccoglimento e di misticismo. E anche all'esterno degli edifici s'estendeva già in passato il tentativo di dar loro vita durante le ore di oscurità, illuminandone ora le facciate, ora altre parti più visibili (cupole, campanili) mediante torce, fiaccole o simili. La difficoltà che spesso presenta la realizzazione di tali imprese, specie per la collocazione in luoghi male accessibili delle sorgenti luminose, che devono poi essere accese a mano, aggiungeva attrattiva a tale categoria di spettaccoli, che ancora oggi si ripetono in certe speciali ricorrenze. Desta ancora vivo interesse a esempio l'illumiriazione di questo tipo che si fa della cupola e della piazza di S. Pietro a Roma.

La luce, quindi, come tutto ciò che può essere percepito dai nostri sensi, è capace in determinate condizioni ambientali di causare in noi un'emozione. L'artista può dosare la luce in intensità, concentrarla o distribuirla, cambiarne la direzione o il colore, per asservirla all'effetto che vuol ottenere.

Mentre le sorgenti luminose a fiamma o a gas, per le ragioni sopra menzionate, non si prestano che a un limitato numero di combinazioni, l'illuminazione elettrica ha aperto inaspettati orizzonti ai tecnici e agli architetti. La lampada a incandescenza emana luce secondo una costante curva fotometrica; si può accendere e spegnere da qualsiasi distanza; permette di attenuare con facilità ogni pericolo d'incendio. Queste qualità della lampada elettrica a incandescenza, accompagnate dal suo elevato splendore unitario (220-1680 cand. per cmq. o stilb), e dalla facilità con la quale essa si presta a essere mascherata da vetri, cornicioni e in generale apparecchi che modifichino la distribuzione del flusso luminoso, spiegano la grande importanza che la lampada a incandescenza ha assunto anche come elemento decorativo di prim'ordine.

Il diffondersi rapidissimo del nuovo sistema d'illuminazione, lasciò perplessi, al suo apparire, tecnici e artisti. Questi ultimi in un primo tempo non trovarono nulla di meglio che montare delle lampadine in lampadarî dello stesso tipo di quelli già usati come supporto per la candela stearica o la reticella Auer, ma che non avevano più una vera ragione d'essere, al di fuori della decorazione del locale, che nei tempi passati non si poteva concepire senza un lampadario pendente dal soffitto. A poco a poco, per opera di alcuni innovatori, vennero comprese e studiate le diverse esigenze e possibilità delle nuove sorgenti luminose e nacque così la tecnica dell'illuminazione (v. sopra), le cui leggi ci hanno dato la possibilità di prevedere, in un certo senso, l'evoluzione del lampadario e dei corpi illuminanti sino alle forme più perfette; a meno che, in un prossimo domani, la luce artificiale non venga prodotta con mezzi ancora meno dispendiosi che non ricorrendo al fenomeno Joule (fenomeni di luminescenza, luce fredda).

I casi nei quali la lampada a incandescenza viene usata nuda e come elemento decorativo, diventano sempre più rari. Festoni di piccole lampade bianche o colorate installate nei giardini o poste a marcare le linee fondamentali di una architettura, richiamano l'illuminazione a palloncino dei giardini giappouesi o le illuminazioni decorative alla veneziana, ancora assai suggestive specialmente quando a moltiplicarne l'effetto concorrano la particolare atmosfera del luogo o degli specchi d'acqua che riflettano e diano un maggior risalto alla punteggiatura luminosa. In questi ultimi tempi, il grande successo ottenuto dai tubi luminescenti al neon, a vapori di mercurio, ad anidride carbonica, delle sorgenti a incandescenza di forma lineare nelle illuminazioni di carattere pubblicitario, hanno generalizzato l'uso di queste sorgenti di luce, anche nella decorazione interna ed esterna, che si presenta in siffatto modo ben più elegante del vecchio sistema per punti luminosi.

La metamorfosi che l'illuminazione elettrica a incandescenza ha lentamente fatto compiere ai corpi illuminanti, ci permette di individuare una prima tendenza nell'applicazione dei dettami della nuova arte. Le dimensioni del corpo illuminante hanno gradatamente variato, gli elementi luminosi si sono avvicinati sempre più alle pareti e al soffitto fino a che si sono talmente adattati alla struttura degli ambienti, che decorazione, apparecchi per illuminazione e luce prodotta costituiscono spesso un'unità intima e indivisibile.

Ma dove l'illuminazione elettrica si differenzia essenzialmente dagli altri sistemi è nell'illuminazione indiretta degli ambienti che caratterizza una seconda tendenza. Cornicioni, mensole, speciali apparecchi al muro o nel mezzo del locale nascondono le sorgenti luminose alla vista diretta. Tutto il flusso luminoso prodotto viene inviato verso il soffitto o verso particolari zone, che diventano così sorgenti secondarie di luce rinviandola in tutte le direzioni. L'illuminazione indiretta è di tale natura da riempire l'intero vano dell'ambiente sì da metterne in evidenza tutte le caratteristiche volumetriche e strutturali, come soffitti, vòlte, cupole, ecc.

Per molto tempo si credette con l'illuminazione completamente indiretta di ottenere il. risultato migliore in tutti i casi, e molti costruttori si preoccupavano soltanto di nascondere alla vista le sorgenti luminose. Ma la luce indiretta non dà ombre e produce quindi un'illuminazione piuttosto monotona; le decorazioni, le modanature, sono prive di risalto perché mancano i contrasti atti a metterle in evidenza e l'assoluta mancanza di macchie di luce nell'ambiente, toglie a questo la sua vivacità, così che oggi nelle sale di riunione, nei pubblici locali ecc., si preferisce di accompagnare la luce indiretta con sorgenti sussidiarie aventi uno splendore unitario piuttosto elevato (vetri opalini illuminati dall'interno, apparecchi al muro di vetro pressato, soffiato, martellato, ecc.), appunto per produrre le ombre necessarie ad animare l'ambiente.

Non pertanto l'illuminazione indiretta trova ancora la sua ragione d'essere quando si desideri luce perfettamente diffusa.

Importanza forse anche maggiore che nell'illuminazione interna ebbe in quella esterna degli edifici l'applicazione delle lampade a incandescenza. A essa si deve infatti lo sviluppo della vita serale e notturna, per la quale la luce artificiale costituisce, oltre che un indispensabile requisito, un notevolissimo mezzo pubblicitario per una numerosa categoria di ritrovi, come negozî, cinema, teatri, caffè, ecc. Per conseguenza l'architettura e la decorazione di questo genere di edifici si è pure orientata in questo senso. Travi, colonne luminose, grandi finestre di vetro che lasciano vedere l'interno dei magazzini intensamente illuminato, insegne luminose a luce fissa o variabile, bianca o colorata, intere facciate rese come incandescenti da lampade nascoste dietro vetri opalini, cornicioni, ecc. trasformano lentamente il carattere delle arterie principali delle grandi città. Dal punto di vista architettonico e decorativo, in questi casi, la luce deve quindi venire considerata come un vero e proprio materiale da costruzione, come il marmo, il cemento, il legno, il ferro. E quando non sia più possibile il pensare quella determinata opera senza il fattore luminoso, potremo parlare di una vera e propria architettura della luce.

Che cosa sia possibile di ottenere in questo senso, ci hanno mostrato l'esposizione delle Arti decorative del 1925, le esposizioni di Anversa, Stoccolma, Liegi, Barcellona, le feste della luce di Berlino e di Francoforte sul Meno, l'Esposizione coloniale di Parigi, e via discorrendo: in queste manifestazioni la luce artificiale abbinata al vetro, alla pietra, all'acqua, ai fumi, ai vapori, al verde dei boschi e alle architetture floreali, ha mostrato tutta la sua efficacia in manifestazioni che devono attrarre pubblici enormi, utilizzando specialmente le ore non lavorative e quindi buie. La lampadina elettrica a incandescenza; schermi colorati; tubi a luminescenza rossi, turchini, bianchi; sagome di legno, stucco, metallo; superficie bianche opache; superficie disegnate secondo linee di uniforme splendore o a sfumatura; metalli speculari, spazzolati, martellati; vernici al bronzo o all'alluminio; vetri opalini o smerigliati; vetri prismatici o rugosi; nuvole di fumo o di vapore; specchi d'acqua immoti o in armonioso movimento, costituiscono gl'innumerevoli elementi che la tecnica mette a disposizione dell'artista per riflettere, rifrangere, diffondere la luce in mille guise diverse sino a formare le nuove suggestive architetture della luce.

Anche per i monumenti e gli edifici del passato, un'accorta illuminazione può costituire un completamento non trascurabile, dando a essi aspetti nuovi e suggestivi, accentuandone e mettendone in valore gli effetti chiaroscurali. In questo caso, a differenza da quanto si faceva in passato, si cerca in genere d'illuminare l'edificio mediante fasci luminosi prodotti da sorgenti poste in luoghi adatti e preferibilmente nascoste dagli edifici vicini. Si viene così a creare un ambiente oscuro nel quale risalta il monumento vivamente illuminato.

Nel campo della scenografia, ombre più o meno intense possono venire proiettate sulle pareti, sul soffitto, sulle vòlte; creando motivi decorativi mediante cavità e sporgenze, superficie piane e superficie curve e impiegando opportuni riflettori, si possono ricavare infiniti effetti diversi, che variano per uno stesso motivo decorativo col variare dell'incidenza dei raggi luminosi. Con le luci colorate e opportuni plastici, si possono pure ottenere arnioniosi effetti di ombre colorate (colorama) e si può infine con la luce dipingere sul muro bianco vetrate, nicchie, motivi architettonici, si può dare l'illusione del cielo stellato, dell'alba, e così via.

V. tavv. CLXIII e CLXIV.

Bibl.: Bollettini dell'A. N. S. I., Milano; M. Luckiesh, The Lighting Art, New York 1917; Terrel Croft, Practical Electric Illumination, New York 1917; G. Peri, scienza e tecnica dell'illuminazione, Torino 1920; M. Luckiesh, Artificial Light its infuence upon civilization, New York 1920; id., Color and its. Applications, New York 1921; id., Light and Work, New York, 1924; G. Peri, Illuminazione elettrica, Milano 1925; M. Luckiesh, Light and color in advertising and merchandising, New York 1927; C. H. Ridge, Stage Lighting, Cambridge 1928; Charles J. Stahl, Electric Street Lighting, New York 1929; Lux, Album de l'éclairage, Parigi 1929; M. Luckiesh, Artificial Sunlight, New York 1930; S. A. L., Nociones generales de lumicultura, Buenos Aires 1931. - Periodici: A. N. S. I., L'illuminazione razionale, Milano 1930 segg.; Das Licht, Berlino 1931 segg.; Transactions of Illuminating Engineering Society, S. U. A., 1929 segg.; The Illuminating Engineer, Londra 1930; Licht und Lampe, Berlino 1929 segg.; Die Lichtechnik, Vienna 1930; L'éclairage, Bruxelles 1928; Lux, Parigi 1930 segg.; Lux, Buenos Aires 1930; Lighting, New York 1930 segg.

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