ILLUMINAZIONE

Enciclopedia del Cinema (2003)

Illuminazione

Carlo Montanaro

Il primo studio cinematografico concepito per sperimentare la possibilità di riprodurre immagini in movimento, il Black Maria ‒ così chiamato dal soprannome attribuito ai furgoni cellulari, cui assomigliava ‒ fu costruito a cavallo tra il 1892 e il 1893 e si basava sull'unica fonte d'i. allora praticabile: la luce del sole. Ispirandosi ai gabinetti fotografici già da tempo operanti con coperture trasparenti e vetrate, William Kennedy Laurie Dickson, delegato all'impresa da Thomas Alva Edison, lo concepì addirittura montato su una piattaforma girevole, che permetteva di allinearlo al quotidiano percorso della stella. Il Black Maria quindi si presentava come una baracca tamponata di cartone pressato, oltre che per ragioni di leggerezza anche per seguire le regole dell'insonorizzazione acustica, dato che l'idea iniziale era quella di impressionare l'azione su pellicola contemporaneamente alla sua registrazione sonora su fonografo. All'interno, davanti alla postazione fissa costituita dall'attrezzatura tecnologica, una sorta di proscenio cieco con uno sfondo necessariamente dipinto di nero si offriva all'ampia apertura sul soffitto, che veniva costantemente direzionata verso il sole. Le macchine erano azionate dall'elettricità, che non poteva comunque ancora produrre una sicura e sufficiente energia luminosa, anche perché l'emulsione cinematografica (derivata da quella fotografica) era ortocromatica, e quindi non riconosceva le radiazioni rossastre tipiche dell'incandescenza. Rimaneva quindi solo la luce naturale, e ne serviva molta, sia per la bassissima latitudine di posa delle emulsioni di allora (nel 1890 una pellicola sensibile 4 ASA era considerata 'extra rapida'), sia per la scarsa luminosità delle ottiche disponibili, sia per la notevole velocità di ripresa adottata (48 fotogrammi al secondo). Proprio a causa di questa difficoltà di i. l'interno doveva essere nero, per rendere più leggibili, nel contrasto chiaroscurale, corpi e oggetti. Di tutt'altra concezione risultò invece quello che, pur successivo nella costruzione, può a pieno diritto rivendicare la primogenitura nel concetto di studio cinematografico: l'edificio fabbricato a Montreuil nel 1897 da Georges Méliès. Nel frattempo, con l'introduzione del Cinématographe Lumière, più leggero e portatile, la marcia delle cinecamere era diventata manuale, la frequenza di ripresa era scesa a 16 fotogrammi al secondo (per Méliès, ma non solo per lui, addirittura a 14) e qualche progresso era stato raggiunto con la concezione di obiettivi specifici. Ma l'autentica novità fu rappresentata dall'idea di trasferire nel cinema, potenziandola con espedienti tecnologici, la magia degli spettacoli teatrali. Si deve proprio a Méliès questa intuizione che aprì, parallelamente alla documentazione del reale cara ai Lumière, la strada della finzione. Con estrema coerenza, Méliès progettò una struttura a tre volumetrie progressivamente più ampie. La prima, la più piccola, era destinata a ospitare una macchina da presa da manipolare costantemente per ottenere le 'truccherie' (ovvero gli effetti speciali), e quindi completamente oscurata; mentre la seconda e la terza, ricoperte da vetrate sostenute da un'armatura metallica, identificavano lo spazio necessario alla realizzazione degli elementi scenografici e un efficiente palcoscenico con passerelle, ballatoi, tiri e botole. In breve tempo il complesso si arricchì di sartoria, depositi e camerini. Per ammorbidire le ombre si impiegava un sistema di tende di cotone bianco, poiché era ancora il sole a fornire la luce. Entrare in quello studio comunque, per ammissione dello stesso Méliès, era come entrare in una chiesa per la ricorrenza dei defunti: per evitare anomalie nelle codificazioni cromatiche, infatti, egli faceva dipingere le scene e confezionare i costumi nella sola scala dei grigi, definendo uno standard qualitativo-fotografico atto, tra l'altro, a esaltare l'eventuale successiva colorazione manuale dei film. Basandosi su simili logiche furono costruiti in quasi tutto il mondo i teatri di posa dei primi due decenni di cinematografia: periodo che vide il cosiddetto profilmico evolversi in senso più realistico. Gli interni, dalla pura rappresentazione prospettica elaborata con pittura trompe-l'œil, divennero sempre più verosimili; mentre per gli esterni, ripresi dal vero dopo una prima fase dipinta, anche questa di derivazione scenografico-teatrale, si cominciarono a utilizzare i primi elementari espedienti per controllare e guidare la luce naturale. Tali espedienti erano costituiti dai panni ‒ teli di cotone bianco sospesi e dispiegati sempre per evitare, soprattutto nei piani ravvicinati, un eccesso di contrasto ‒ e dai riflessi, ossia pannelli ricoperti di materiale specchiante ma ruvido, atto cioè a rimandare non la pura propagazione dei raggi del sole ma, ancora una volta, una luminescenza diffusa e allargata. E se i panni, non solo bianchi ma anche neri, oscuranti, continuano a far parte del corredo degli elettricisti in ogni troupe, per compensare la luce (non solo solare, ma in seguito anche artificiale) si impiega da decenni il fragile ma leggerissimo polistirolo espanso. Già dalla metà dell'Ottocento tuttavia la ricerca di fonti di i. alternative si era rivolta sempre di più all'elettricità: l'incandescenza (ovvero la lampadina) diventò realmente affidabile solo dopo il 1913, ma già in precedenza era stato affinato l'utilizzo di lampade ad arco (candele elettriche), capaci di sviluppare notevole potenza e quindi impiegate soprattutto per l'i. pubblica. Le lampade ad arco erano state le prime a entrare negli studi fotografici come complementari alla luce del sole, di cui riproducevano l'intero spettro; a partire circa dal 1905 esse furono introdotte anche nei luoghi deputati alla ripresa cinematografica, inizialmente solo per schiarire frontalmente il campo di ripresa, poi anche per rinforzare la luminosità naturale proveniente dall'alto. Cominciarono così a nascere diverse tipologie di strumentazione: lampade non ancora diversificate, ma montate a terra su stativi oppure sospese per aria. Più o meno contemporaneamente si affinava, in esterno, la cura fotografica. Prima l'attenzione era stata rivolta o alla qualità degli effetti (tutti sempre rigorosamente elaborati direttamente in macchina) o alla chiarezza dell'immagine, e cioè soprattutto a una precisa e costante messa a fuoco, facile da conservare data la scarsa luminosità delle ottiche (diaframma piuttosto chiuso e quindi discreta profondità di campo); più che agire direttamente sull'obiettivo si preferiva, eventualmente, variare manualmente prima di ogni ripresa l'apertura dell'otturatore, mantenendo fissi il fuoco e il diaframma. Pare sia stato il cinema italiano a introdurre riprese in controluce che arrivavano a impressionare la sola silhouette degli attori. Un concetto, quello del controluce, che negli Stati Uniti fu poi allargato per cogliere, perfino con interni ricostruiti all'aperto, quella luminescenza che ritaglia la figura degli attori esaltandone la tridimensionalità e che diventò una delle luci chiave dell'i. classica. Le riprese implicavano quindi un piano di lavorazione che prevedeva, nel corso della giornata lavorativa, l'attesa del posizionamento del sole più adatto a ottenere precise condizioni luministiche. La successiva colorazione variamente monocroma (imbibizione, viraggio, anche combinati), scena per scena, della pellicola permetteva di simulare circostanze atmosferiche e temporali fino a far identificare con il blu il day for night (in Italia definito non a caso 'notte americana') realizzato in piena luce naturale. Ma David W. Griffith, e non solo lui, aveva già sperimentato, verso la metà degli anni Dieci, altri tipi di archi voltaici, molto più potenti, per filmare nella notte reale: si trattava di archi liberi (senza protezioni particolari e quindi anche pericolosi da gestire) che, in versioni di media potenza, cominciarono a essere integrati a lampade basate sullo stesso principio; ciò creava spesso curiosi sbalzi di luminosità, dovuti al fatto che i due carboni che producevano la luce si consumavano e che quindi bisognava costantemente riposizionarli (l'effetto fu che in molti interni degli anni Venti pareva che, fuori, ci fosse sempre un temporale). L'apparecchiatura illuminante più potente (10.000 W) mai utilizzata nel cinematografo, e ancora in uso agli inizi del 21° sec., è il Brutus, un proiettore ad arco protetto prodotto negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra dalla Mole-Richardson, ditta fondata da due italiani, P. Mulè e E. Ricciardi. Verso la fine degli anni Dieci gli studi cominciarono a oscurarsi, a chiudersi; oltre alle lampade ad arco, infatti, per la sola luce diffusa, ovvero prima per rafforzare e poi per simulare totalmente una normale, morbida i., furono introdotte batterie di tubi al vapore di mercurio che emanavano una luminescenza giallognola. Queste batterie di pannelli illuminanti potevano essere sistemate a terra o appese al soffitto. E se la genialità dei primi autori esperti di fotografia, soprattutto in Italia, nei Paesi nordici, negli Stati Uniti e in Germania (si pensi, per es., alle ombre dell'Espressionismo, v.) aveva consentito comunque di raggiungere una gestione degli effetti della luce capace di sottolineare lo psicologismo sempre più presente nelle narrazioni cinematografiche, con l'introduzione sul mercato dell'emulsione pancromatica, scrivere, o meglio scolpire con la luce, ne divenne un ulteriore elemento qualificante. Sensibile, ormai, anche alle radiazioni dell'incandescenza, quel materiale permise infatti l'affinarsi dei corpi illuminanti, e il loro diversificarsi rispetto alle esigenze in evoluzione della strumentazione teatrale. Lampade di varia potenza collocate su slitte in grado di avanzare o arretrare consentivano di concentrare nelle quantità volute il flusso luminoso, riflesso da uno specchio parabolico e direzionato verso lenti di Fresnel che permettevano il preciso controllo finale dell'emissione. Identificato a seconda della potenza della lampada (250, 500, 1000, 2000, 5000 W), ogni faro era collocabile ‒ tramite stativi che lo facevano anche scorrere sulla verticale, in alto o in basso ‒ ai bordi dell'angolo di ripresa dell'ottica impiegata; oppure era situato molto più in alto (il controluce), sulle passerelle praticabili dei teatri di posa ormai ciechi, o su strutture smontabili (trabanelli) di varia foggia che, con il passare del tempo, dai primitivi elementi componibili di legno diventarono disponibili in metalli sempre più leggeri. Passata la fase pionieristica non ci sono stati più studi con elementi illuminanti fissi.

A seconda della resa fotografica che si vuole conseguire, infatti, ogni direttore della fotografia sceglie e noleggia (in qualità e in quantità) il materiale che intende impiegare, valutandolo anche in base al numero degli elettricisti necessari a maneggiarlo; il materiale è utile sia in interno (ogni teatro ha una sua centralina per la produzione dell'energia) sia in esterno (con l'elettricità fornita da un gruppo elettrogeno semovente). Gradualmente ogni apparecchiatura illuminante è stata dotata di accessori atti a schermare, sagomare, puntualizzare o ammorbidire le emissioni: le bandiere di stoffa, legno o metallo, montate su snodi per il loro corretto posizionamento occludente; quelle che sorreggono il tulle, tessuto bianco a trama larga atto a mitigare la potenza luminosa; i gobbi, di derivazione teatrale, ossia pannelli di medie dimensioni appoggiati a terra per ottenere effetti molto netti (come la simulazione del taglio che penetra da una porta spalancata), dipinti di nero e che, dall'avvento del sonoro, servono anche per ospitare la trascrizione di battute offerte alla lettura di un attore (da essi derivano i sistemi in uso soprattutto in televisione). A partire dagli anni Venti il regista e l'autore della fotografia si dotarono di un piccolo filtro di contrasto di colore blu (diventato ambra con l'avvento del colore), che permetteva loro di capire il risultato finale dell'insieme luministico. Tanto più che l'i. artificiale, soprattutto in interni, era frutto dei rapporti tra chiari e scuri costruiti in funzione del diaframma impostato sull'ottica: assistere a un ciak in un ambiente molto rischiarato poteva voler dire ritrovare sullo schermo un'atmosfera oscura e opprimente, ma perfettamente leggibile e modulata anche nelle tonalità intermedie. Questo significava che esistevano due possibilità di ripresa, determinate dalla scelta produttiva e dal budget a disposizione: lavorare in funzione di una precisa e predefinita resa fotografica, il che comportava, normalmente, grande impiego di luce artificiale e, di conseguenza, molto tempo e molta manodopera per la preparazione; oppure illuminare in modo sufficiente, limitandosi a correggere al meglio gli eventuali scompensi. Verso la fine degli anni Venti, con l'adozione generalizzata della pellicola pancromatica, si cominciò a disporre anche di emulsioni diversificate nella sensibilità. Successivamente in Germania, nel 1931, si mise a punto il primo codice DIN (Deutsche Industrie Norm) per riconoscerne la rapidità; nel 1943 negli Stati Uniti nacque l'ASA (American Standard Association), mentre negli anni Settanta si introdusse l'ISO (International Standard Organization), che unificò, mediandoli, i due standard. Negli Stati Uniti, nel 1932, vennero commercializzati i primi esposimetri fotoelettrici, che permettevano finalmente e con attendibilità di misurare la luce offrendo conferme all'esperienza comunque acquisita dall'autore della fotografia. Rapidamente le misurazioni sono divenute possibili sia per la luce incidente, con l'apparecchio puntato direttamente sulla singola sorgente di luce, sia per quella riflessa, rilevabile come media complessiva dal punto in cui è installata la macchina da presa. La generazione più perfezionata di esposimetri è in grado di mutare l'angolo di lettura indipendentemente dalla collocazione dell'operatore, anche se i professionisti non utilizzano mai macchine da presa dotate di regolazioni automatiche del diaframma o di autofocus. Gli anni Trenta segnarono quindi l'acquisita maturità e affidabilità delle strumentazioni, anche perché coincisero con la diffusione del sonoro, la cui necessità di presa diretta comportò l'ultimo, definitivo adeguamento dei teatri di posa, ristrutturati o edificati nella logica dell'insonorizzazione. Inoltre, se in questa fase si impose la purezza del bianco e nero (v.) con l'eliminazione dei monocromi caratteristici dell'epoca del muto, fu anche perché si procedette nella sperimentazione del colore (v.) che nel procedimento più complesso, il tripack del Technicolor, fu concesso inizialmente negli Stati Uniti, tra il 1932 e il 1934, in esclusiva alla Disney e poi liberalizzato, ma che trovò in Germania, quattro anni più tardi, con l'Agfacolor monopack, gli elementi fondativi dei sistemi adottati successivamente. Filmare a colori significò, almeno fino agli anni Settanta, poter di-sporre di grandi quantità di i. di rinforzo, data la poca sensibilità dei materiali disponibili, soprattutto se comparati ai progressi ottenuti per le emulsioni bianco/nero; e pose anche nuovi problemi, dal momento che luce naturale e luce artificiale, indipendentemente da come vengono percepite dall'occhio umano, rispondono a regole precise e misurabili, partendo, per es., da una temperatura di colore di 3400 K per il filamento rosso dell'incandescenza sino ad arrivare ai 10.000 K di un cielo perfettamente azzurro. Come la fotografia dunque, la cinematografia a colori dovette dotarsi di emulsioni con tarature diverse, da filtrare eventualmente per non incorrere in sgradevoli dominanti. Filtrature che però rendono meno sensibili i materiali. Così, mentre l'illuminotecnica teatrale utilizza normalmente gelatine colorate per creare quell'allusività tipica del linguaggio di palcoscenico e può attenuare o esaltare la potenza dei singoli corpi illuminanti controllando le emissioni dei filamenti delle lampade, in fotografia e nel cinema l'unica regola è quella fisica: l'intensità della luce varia in proporzione al quadrato della distanza. La modulazione chiaroscurale deve, di norma, mantenere costante la temperatura del colore delle luci in uso; ciò può essere ottenuto solo posizionando queste ultime più o meno vicine al soggetto illuminato o attenuandone l'irraggiamento con materiali opacizzanti. Per ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio di risorse poi, tra gli anni Sessanta e Settanta l'industria ha introdotto sul mercato nuovi corpi illuminanti che hanno soppiantato gradualmente quelli basati sull'incandescenza. Le ampolle al quarzo-iodio, in seguito usate anche nell'i. domestica, hanno costituito allora una vera e propria rivoluzione, risultando, a parità di potenza, molto più leggere e maneggevoli. Tuttavia, poiché la luminosità prodotta è risultata più cruda e meno plasmabile, è stato necessario ricercare nuovi espedienti come i telaietti componibili di carta 'da ingegneri' (o 'da lucido', carta semiopaca normalmente usata per copie eliografiche) o gli schermi di lattiginosa lana minerale resistente al fortissimo calore emanato. Talvolta le lampade sono state imprigionate all'interno di scatole metalliche dipinte di bianco per ricavarne non l'irraggiamento diretto ma la più morbida riflessione. Il Brutus si è trasformato in 'minibruto', pannello riflettente composto da nove lampade da 800 o da 1000 W cadauna. Un'ultima invenzione ha consentito di ridurre ulteriormente la squadra elettricisti: la lampada 'a scarica', ovvero a vapori di metallo o HMI (Hydrargirium Mid-arc Iodide), più compatta relativamente alla quantità di luce che può produrre.

Bibliografia

A. Golovnia, Svet v iskusstve operatora, Moskva 1945 (trad. it. La luce nell'arte dell'operatore, Roma 1951).

S. Masi, La luce nel cinema: introduzione alla storia della fotografia nel film, L'Aquila 1982.

E. Alekan, Des lumières et des ombres, Paris 1991².

B. Salt, Film style and technology: history and analysis, London 1992².

C. Montanaro, Il cammino della tecnica, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 5° vol., Teorie, strumenti, memorie, Torino 2001, pp. 81-163.

V. Storaro, Scrivere con la luce 1 ‒ La luce, Milano 2001.

V. Storaro, Scrivere con la luce 2 ‒ I colori, Milano 2002.

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