Impresa familiare, società e diritto alla retribuzione

Libro dell'anno del Diritto 2016

Impresa familiare, società e diritto alla retribuzione

Lorenzo Delli Priscoli

Cass., S.U., 6.11.2014, n. 23676, ha affermato che, se un soggetto collabora per una società di cui faccia parte un familiare, non è mai applicabile l’istituto dell’impresa familiare (art. 230 bis c.c., introdotto dalla l. 19.5.1975, n. 151 di riforma del diritto di famiglia): non solo per l’assenza nella norma citata di una previsione in tal senso, ma soprattutto per l’irriducibilità ad una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda. La sentenza evidenzia pertanto che il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio si porrebbe in aperto conflitto con le regole imperative del sistema societario. Tale preclusione, inoltre, sarebbe coerente con un’interpretazione teleologica della norma, che prefigura l’istituto dell’impresa familiare come avente carattere speciale (ma non eccezionale) e natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale (società, lavoro subordinato) eventualmente configurabile. Questa decisione lascia tuttavia alcune perplessità, che qui di seguito si cercherà di illustrare.

La ricognizione

L’art. 230 bis c.c. non fa menzione della parola società: tuttavia non solo tale norma non esclude espressamente che possa configurarsi un’impresa familiare esercitata in forma societaria ma prevede anche che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento…». Ebbene, l’espressione «impresa familiare» è ben suscettibile di un’interpretazione estensiva, potendosi riferire anche a situazioni in cui nell’ambito della famiglia si sia costituita una vera e propria società – sia pure solo di fatto – non con il lavoratore ma tra il familiare che usufruisce della sua attività lavorativa ed altri soci. Secondo la Cassazione infatti le società altro non sono che «forme di esercizio collettivo dell’impresa»1. Affermano poi le S.U. che «la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa, di carattere oggettivo, significativo dell’attività economica organizzata, piuttosto che far riferimento all’imprenditore come soggetto obbligato resta di per sé neutra». Si ritiene però che tale scelta possa far propendere per l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. alle società, perché se il legislatore le avesse volute escludere dal novero dei soggetti obbligati nei confronti del familiare-collaboratore, ben avrebbe potuto più chiaramente utilizzare il termine imprenditore.

Senza porsi il problema di una possibile interpretazione estensiva o in via analogica della norma, la sentenza in commento trae un argomento importante a favore della non configurabilità dell’impresa familiare in caso di società dalla natura residuale dell’art. 230 bis c.c., cadendo in errore circa il significato del termine residuale, che non significa, come pure sembrerebbe evincersi dalla sentenza, che l’istituto – pur non avendo natura eccezionale – debba avere la minore applicazione possibile; la sentenza tralascia inoltre di considerare la natura imperativa di tale norma, che pure non viene negata. “Natura residuale ma imperativa” significa infatti che l’istituto deve essere applicato in assenza di altre tutele2, come avrebbe dovuto farsi nella fattispecie oggetto della sentenza in esame3. Contro la configurabilità di un’impresa familiare in caso di collaborazione di un soggetto a favore di una società costituita da familiari vi sarebbe in effetti la presunta natura eccezionale della norma (invocata da due sentenze della Cassazione4), natura che però viene negata dalla suddetta sentenza, la quale, pur decidendo per l’impossibilità in tal caso di invocare l’art. 230 bis c.c., ritiene che tale norma sia soltanto speciale.

«Salvo che sia configurabile un diverso rapporto»: da questo inciso, con cui comincia il co. 1 dell’art. 230 bis c.c., si è dedotta – in altre sentenze della Cassazione – la natura eccezionale della disciplina in tema di impresa familiare, con la conseguenza che la norma, ai sensi dell’art. 14 disp. prel., non sarebbe applicabile in via analogica, e quindi, poiché l’art. 230 bis c.c. non fa menzione della possibilità di un’impresa familiare esercitata in forma societaria, e tale lettura non sarebbe possibile neppure attraverso un’interpretazione estensiva dell’art. 230 bis c.c., questa norma non sarebbe applicabile alle società. Deve tuttavia ritenersi che la natura eccezionale della norma sia invocata da queste sentenze in maniera impropria e atecnica, e solo per escludere dall’applicabilità di questa disciplina il convivente, in quanto la norma non ha in realtà carattere eccezionale ma, come detto, solo residuale, ossia si applica in assenza di altre norme che disciplinino e tutelino il rapporto di lavoro del familiare. Solo in questo senso, ossia di norma che cede in presenza di altre, l’art. 230 bis c.c. può definirsi eccezionale, perché viene anzi in evidenza la sua natura imperativa posta a tutela del soggetto debole, che quindi ne impone la sua applicabilità anche al di fuori dei confini dettati dalla lettera della legge.

La focalizzazione.

Secondo una Cassazione del 2003, la qualifica di imprenditore cade in capo alla società e non ai soci (e quindi varrebbe il cd. “schermo” della personalità/soggettività giuridica): pertanto, non può parlarsi, come richiede la legge, di lavoro prestato da un familiare a favore di altro familiare che sia imprenditore, ma di lavoro prestato da un familiare a favore di una società «e non può certo ipotizzarsi un rapporto di parentela o di affinità del lavoratore con la società»5.

Tale argomento, piuttosto formale (e che oltretutto omette di considerare che, come già osservato, l’art. 230 bis c.c. si esprime in termini di impresa e non di imprenditore), non è peraltro neppure utilizzato dalle S.U.: in effetti, non si vede perché lo schermo della persona giuridica (o della soggettività giuridica nel caso delle società di persone) debba spingersi fino al punto di considerare la società come un qualcosa di completamente diverso rispetto ai singoli familiari che la compongono. In effetti, la personalità giuridica o la soggettività giuridica sono stati concepiti per ben altre esigenze e infatti vengono in rilievo quando si tratta di limitare la responsabilità dei soci nel primo caso o di attribuire loro il beneficium excussionis nel secondo caso, ma non hanno ragion d’essere, e costituirebbero anzi solo un inutile e dannoso formalismo, nel caso di una norma che – come questa – si pone l’obiettivo di tutelare il lavoro6, e una cui interpretazione costituzionalmente orientata (cfr. artt. 29 e 30 – diritti della famiglia – e 1, 4, 35, 36, 41, co. 2, Cost. – diritti del lavoratore) sembra imporre di evitare vuoti di tutela del lavoratore familiare per il solo fatto – del tutto aleatorio, nella prospettiva del lavoratore – che l’impresa sia esercitata in forma societaria. Ma tale interpretazione costituzionalmente orientata sembra imporsi anche alla luce dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza – entrambi riconducibili all’art. 3 Cost., in quanto non si vede quale possa essere la differenza, ai fini della meritevolezza o meno delle esigenze di tutela del lavoratore, tra il lavoro prestato da un soggetto a favore di un familiare che esercita la sua attività in forma di impresa individuale e quello a favore di un familiare che esercita la sua attività in forma di società.

2.1 La compatibilità con la disciplina delle società

Secondo le S.U., la disciplina dell’impresa familiare non sarebbe compatibile con la disciplina delle società per la non configurabilità di una partecipazione del familiare agli incrementi dell’azienda, dato che essi non appartengono neppure al socio ma esclusivamente alla società; «ancor più configgente con regole imperative del sottosistema societario appare, poi, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio».

Spiegano le S.U. che altrimenti dovrebbe ammettersi che il familiare, a seguito del lavoro prestato, dovrebbe acquisire un diritto agli incrementi dell’azienda nei confronti della società e un diritto di voto pur non essendo socio. Tale obiezioni potrebbero però superarsi qualora si riconoscesse che il familiare, a seguito del lavoro prestato e in proporzione ad esso, acquisti una quota della società, compresi i relativi diritti corporativi. Ma tale soluzione, che effettivamente anche se coerente con la ratio di tutela della norma risulta apparire un po’ forte, non è neppure necessaria per rispondere all’obiezione dell’incompatibilità dell’impresa familiare con le regole della società se solo si tiene presente la pacifica e consolidata precedente giurisprudenza relativa all’interpretazione dell’art. 230 bis c.c. quanto al diritto del familiare sugli incrementi dell’azienda. Secondo la Cassazione, infatti, «l’impresa familiare appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno diritto solo a una quota degli utili» (soluzione questa facilmente compatibile con il modello societario)7 e «non sono contitolari di essa»8; inoltre «nell’impresa familiare i diritti dei collaboratori non toccano la titolarità dell’azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio, senza comportare alcuna modifica nella struttura dell’impresa facente capo al titolare della stessa, che solo ha la qualifica di imprenditore ed al quale spettano i poteri di gestione e di organizzazione del lavoro»9. Pertanto, mutatis mutandis, qualora fosse applicabile l’istituto dell’impresa familiare alla società, il familiare non diverrebbe mai socio della società e la qualifica di imprenditore spetterebbe esclusivamente alla società, alla quale sola farebbero capo i poteri di gestione.

I profili problematici

Secondo le S.U. in esame non vi sarebbe un assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio, restando applicabile il rimedio dell’arricchimento senza causa, a meno che tale lavoro non sia connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa. Le S.U. sembrano però trascurare che l’arricchimento senza causa non sussiste se lo squilibrio economico, a favore di una parte ed in pregiudizio dell’altra, sia – come nel caso oggetto della sentenza delle S.U. – voluto dagli interessati (e il lavoro affectionis vel benevolentiae causa è prestato volontariamente), cioè «quando il trasferimento dell’utilità economica trovi giustificazione nel consenso della parte che assuma di essere danneggiata, perché la volontarietà della prestazione esclude l’ingiusto arricchimento»10.

Sembra inoltre tralasciarsi che l’introduzione negli anni settanta dell’art. 230 bis c.c., di riforma del diritto di famiglia, si proponeva proprio lo scopo di evitare complesse e penose indagini su quale fosse la causa del lavoro (se onerosa, gratuita o affectionis vel benevolentiae causa), data quasi sempre la fisiologica presenza, nell’ambito familiare, di rapporti di carattere quasi medievale, comunque non facilmente riconducibili a chiari rapporti di lavoro subordinato. Fine della norma è infatti di tutelare il lavoratore in quelle situazioni in cui egli abbia accettato volontariamente di prestare la propria attività lavorativa nell’ambito di un’impresa e a favore di un familiare, ma non abbia chiarito, proprio per ragioni di vicinanza familiare, se e quale dovesse essere la sua retribuzione.

3.1 Il lavoro affectionis vel benevolentiae causa

A seguito dell’intervento delle S.U., quando un soggetto presti il proprio lavoro a favore di un familiare socio di una società, egli corre molto seriamente il rischio di non ricevere alcuna tutela economica, così tradendosi la ratio dell’istituto dell’impresa familiare, che invece, avendo natura residuale ma imperativa, si propone di realizzare una tutela per tutti quei rapporti di lavoro non riconducibili ad una subordinazione11 e che, per il fatto di sorgere nell’ambito di un rapporto familiare, vengono normalmente compiuti proprio affectionis vel benevolentiae causa e che quindi sarebbero altrimenti privi di tutela. L’impostazione delle S.U. sembrava superata: la Cassazione sempre nel 2014 aveva infatti affermato che qualora un’attività lavorativa sia svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo comunque la gratuità della prestazione per solidarietà familiare12. La Cassazione cioè aveva distinto in maniera molto forte, nell’ambito del lavoro prestato affectionis vel benevolentiae causa, tra attività svolta o meno all’interno dell’impresa, affermando che il primo doveva essere sempre tutelato e remunerato, valendo al contrario per il secondo (si pensi ad esempio al lavoro casalingo di un coniuge a favore dell’altro) una presunzione, sia pur suscettibile di prova contraria, di gratuità13. Tale impostazione permetterebbe altresì di risolvere il problema del lavoro prestato affectionis vel benevolentiae causa all’interno di un’impresa da un soggetto (ad esempio il convivente more uxorio) non rientrante nel numero chiuso dei familiari di cui al co. 3 dell’art. 230 bis c.c. (ossia coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo), sembrandosi delineare il principio secondo cui è l’esistenza dell’impresa (e quindi della produzione di beni o servizi a scopo di lucro), a qualificare indelebilmente la causa del lavoro prestato nel senso dell’onerosità, a prescindere dall’accertamento dei requisiti della subordinazione o dell’affectionis vel benevolentiae causa. Infatti, poiché i diritti costituzionali alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e al lavoro (artt. 1, 4, 35, 36 Cost.) sono indissolubilmente legati all’impresa, è proprio il fatto che la prestazione lavorativa risponda alle necessità di quest’ultima ad attribuire particolare meritevolezza al lavoro e a giustificarne la sua protezione da parte dell’ordinamento giuridico in ragione di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 230 bis c.c.

3.2 La sussistenza di reali poteri gestori in capo al familiare-socio

Secondo un’impostazione dottrinale, senza dover giungere ad una presa di posizione drastica, nel senso di ritenere sempre non configurabile un’impresa familiare in presenza di un rapporto di lavoro di un soggetto a favore di familiare-socio, avrebbe dovuto semmai distinguersi tra società e società, valutando nel caso concreto, al di là delle dimensioni della società e del tipo societario scelto, quale fosse l’effettiva partecipazione del familiare-socio alla gestione della società14. Se infatti il familiare-socio ha un reale potere di gestire la società, rivesta o meno egli formalmente il ruolo di amministratore della stessa, è evidente che la ratio di tutela coinciderebbe con quella che sta alla base della tutela offerta al soggetto che presta la sua attività a favore di un familiare-imprenditore individuale. Nel caso invece di socio privo di reali poteri di gestione, l’art. 230 bis c.c. non sarebbe applicabile perché non vi si attaglierebbe quella che sembrerebbe la sua idea di fondo, ossia una collaborazione del soggetto all’impresa gestita dal proprio familiare, da cui infatti discende il riconoscimento per il familiare-lavoratore non solo di una parte degli utili ma anche dei poteri gestori appartenenti al familiare-socio.

1 Cass., 26.9.2014, n. 20394.

2 Secondo Di Rosa, G., Tratti distintivi e aspetti problematici dell’impresa familiare, in Contr. e impr., 2007, 506, la condivisibilità dell’assunto che l’impresa familiare si caratterizzi in termini di residualità e inderogabilità può ben coniugarsi con l’esigenza di tutela del familiare-collaboratore cui è ispirata la disciplina dell’art. 230 bis c.c.

3 Cfr. Cass., 18.10.2005, n. 20157, secondo cui il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risulta dall’incipit dell’art. 230 bis c.c., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto – parente entro il terzo grado o affine entro il secondo – che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione.

4 Cfr. Cass., 29.11.1994, n. 22405 e Cass., 2.5.1994, n. 4204.

5 Cfr. Cass., 6.8.2003, n. 11881.

6 Cfr. Cass., 19.11.2008, n. 27475, secondo cui «la finalità dell’istituto è quella di predisporre una più intensa tutela del lavoro familiare».

7 Cass., 3.12.2013, n. 27044 e Cass., 15.4.2004, n. 7223.

8 Cass., 2.12.2008, n. 28558.

9 Cass., 6.3.1999, n. 1917.

10 Cass., 5.7.2002, n. 9812.

11 Cfr. C. cost., 25.11.1993, n. 419.

12 Così Cass., 22.9.2014, n. 19925 e Cass., 18.10.2005, n. 20157.

13 Cfr. Cass., 16.6.2015, n. 12433, Cass., 28.11.2003, n. 18284 e Cass., 17.8.2000, n. 10923. Cfr. anche Cass., 3.7.2012

n. 11089, secondo cui ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso e può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione, solo ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa.

14 Cfr. Panuccio, V., L’impresa familiare, Milano, 1981, 78, il quale sostiene che la disciplina dell’impresa familiare possa applicarsi tutte le volte in cui possa riscontrarsi in capo al socio-familiare un effettivo potere di gestione della società, che non può escludersi anche nel caso di socio non amministratore, nell’ipotesi in cui il socio abbia di fatto un reale potere di influenzare e incidere sulle decisioni dell’amministratore.

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