Incarnazione

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Nel cristianesimo, l’unione sostanziale della natura umana e della natura divina realizzata in Cristo: il dogma è intimamente connesso con quello della Trinità, con il quale è proposto come uno dei «due misteri principali della fede».

Il fondamento scritturale

La teologia cattolica insegna che in un dato momento della storia, all’annuncio dell’angelo a Maria, il Figlio di Dio, preesistente presso il Padre, si è unito a una particolare natura umana, formatasi per l’intervento divino senza il concorso dell’uomo, nel seno della Vergine. Tale teologia trova i suoi fondamenti scritturali sia nelle profezie messianiche del Vecchio Testamento (Ps. 2, 7; Isaia 9, 5-6; Daniele 7, 13-14 ecc.), sia soprattutto nel Nuovo Testamento, dove Gesù non è solo presentato come uomo, ma come persona in un particolare rapporto, unico nel suo genere, con Dio. All’inizio però non vi è nessuna riflessione esplicita sui rapporti di natura tra Gesù e il Padre. Continuano, nella prima generazione cristiana, le preoccupazioni di un messianismo terrestre e nazionale. Superando le difficoltà provenienti dalla mentalità giudaica, accostando e componendo le opposte esperienze di un Gesù umile e sofferente, di cui erano stati testimoni, con gli episodi in cui era apparso o si era proclamato «Figlio di Dio», i discepoli con sempre maggiore chiarezza comprendono la figura dell’Uomo-Dio.

La prima teologia dell’i. si delinea in s. Paolo. Nato «dal seme di David secondo la carne» (Rom. 1, 3; 9, 5), Cristo è «l’immagine di Dio» (Col. 1, 15); «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col. 2, 9). «Figlio» nel senso proprio (Rom. 8, 32), egli è Colui che «essendo in forma di Dio, è apparso in forma di servo» (Fil. 2, 6-7). In s. Giovanni si trovano le ultime affermazioni scritturali sulle quali si fonderà la posteriore elaborazione teologica: il Messia, l’uomo Gesù, è identificato con il Logos, la Parola di Dio, la Luce, la Vita, attraverso la quale tutte le cose sono state create (Giov. 1, 1-13), è il Cristo che esiste prima di Abramo (Giov. 8, 58) e prima che il mondo fosse (ibid. 17, 5).

La questione cristologica

La storia della teologia dell’i., via via che il cristianesimo si propagava nel mondo mediterraneo, è stata complessa e contrastata. Negli ambienti giudaici la tradizionale figura del Messia si poteva accordare con la dottrina cristiana della filiazione divina di Gesù Cristo considerando primario e prevalente l’elemento umano: facendo insomma di Gesù l’uomo moralmente perfetto, designato da Dio come Messia e instauratore del Regno di Dio, adottato come Figlio e proclamato tale, nel momento in cui lo Spirito divino si era posato su di lui (adozianismo).

L’idea di filiazione o di adozione divina non era estranea alla religiosità classica, che conosceva gli eroi e l’apoteosi dei sovrani, e i misteri pagani promettevano l’immortalità beata all’iniziato che s’immedesimasse con il dio redentore, ucciso e risorto, e per lo più figlio della divinità suprema. Il mondo ellenistico, però, tendeva a considerare la realtà fisica e la carne come il dominio dell’irrazionale e il principio del male. Da ciò i sistemi gnostici, o influenzati dallo gnosticismo, escludevano che il redentore avesse realmente rivestito un corpo umano e subito la morte e affermavano che l’umanità di Gesù era stata solo apparente (docetismo). Per salvare l’unità divina, senza mettere in pericolo la realtà della redenzione mediante il sacrificio della croce, nonché la creazione del mondo da Dio, il monarchianismo affermava che in Gesù si era incarnato solo il Padre: passione, morte e resurrezione erano state subite e compiute dal Padre (patripassionismo), negando così la trascendenza divina.

A menti più colte e filosoficamente educate si offriva nella stessa Scrittura il concetto del Logos, del Verbo incarnato. Anche la teologia del Logos però ebbe dapprima qualche incertezza e in alcuni pensatori generò il subordinazionismo (che riduceva il Verbo a semplice creatura) o il modalismo (che gli negava una vera e propria personalità). Accanto a queste due correnti prevalse quella della teologia detta della ‘economia’ divina, che dava particolare importanza alle alle speranze escatologiche e, insieme, alla realtà della redenzione. Ne furono principali rappresentanti Ireneo, che pur senza investigare a fondo il problema della Trinità, pone in luce la duplice natura, umana e divina, di Cristo; Ippolito; Tertulliano, che chiama chiaramente Gesù hominem et deum, filium dei e scorge in lui duplicità di natura e unità di persona.

Nel 4° sec. le dispute provocate dall’arianesimo permisero finalmente di definire il dogma trinitario, ma lasciarono ancora aperto il problema dell’unione del Verbo divino con l’uomo. Apollinare di Laodicea credette di poter risolvere tale problema ammettendo la tripartizione dell’uomo in spirito (o mente), anima e corpo e sostenendo che in Cristo il Logos divino aveva preso il posto del primo; Gregorio di Nissa ritenne la mente umana quasi disciolta, assorbita, nel divino. La discussione cristologica si complicava ancora per la preoccupazione di affermare l’impeccabilità di Gesù. Le posizioni contrarie furono tenute dalle due scuole rivali di Alessandria e di Antiochia. In quest’ultima Teodoro di Mopsuestia sosteneva che in Gesù il divino si era associato interamente all’umano, ma concepiva l’unione delle due nature piuttosto come ‘congiunzione’, senza affermare chiaramente l’unità della persona di Cristo.

Nestorio, divenuto patriarca di Costantinopoli, si oppose all’uso del termine «genitrice di Dio» applicato alla Vergine, offendendo così il sentimento del popolo, a cui sembrava che egli volesse negare la divinità di Gesù. Il Concilio di Efeso (431) lo condannò, a opera di s. Cirillo d’Alessandria. La cristologia cirilliana affermava che l’unione non distrugge la differenza delle due nature, ma entrambe concorrono, in modo misterioso e inesprimibile, a formare l’unico Signore e Figlio Gesù Cristo. Un ulteriore chiarimento si ebbe nella formula dell’accordo concluso, nel 433, tra lo stesso Cirillo e il patriarca Giovanni di Antiochia; questa «formula di unione» affermò che Gesù è «consustanziale al Padre per quanto riguarda la divinità e consustanziale a noi per quanto riguarda l’umanità».

Il monaco Eutiche interpretò la cristologia di Cirillo nel senso che, dopo l’unione, non vi fosse in Cristo se non una sola natura (monifisismo): il concilio convocato a Efeso dall’imperatore Teodosio II (449) segnò per un momento la vittoria di tale teologia, seguita però a breve distanza dalla definizione del Concilio di Calcedonia (451), che affermò che Gesù Cristo è veramente Dio e veramente uomo, dotato di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre nella divinità, coessenziale a noi nell’umanità, uguale a noi per ogni riguardo, eccetto che per il peccato; le due nature non si confondono, non si mutano, ma nello stesso tempo non sono separate, né divise; l’unione non elimina la differenza delle nature, le quali, mantenendo integre le proprie caratteristiche, confluiscono in un’unica persona.

Sviluppi medievali e moderni

Da Leonzio di Bisanzio a s. Giovanni Damasceno, a s. Tommaso, Duns Scoto e gli scolastici si discute sulla convenienza dell’i., la sua necessità, il fine, la causa efficiente, sulla nozione di natura, di persona ecc. per lo più nella linea dell’intellettualismo aristotelico. Una questione assai controversa riguarda il ‘motivo’ dell’i.: Cristo si è incarnato principalmente per la redenzione del mondo, oppure l’i. si sarebbe attuata anche se Adamo non avesse peccato? La posizione tomistica (fondata soprattutto su argomenti scritturali) afferma che il figlio di Dio si è fatto uomo, come dice il simbolo niceno-costantinopolitano, «per noi uomini e per la nostra salvezza»; diversamente la redenzione e la passione di Cristo diverrebbero un semplice episodio dell’economia cristiana. La posizione scotista e della scuola francescana afferma invece che fine principale dell’i., anche indipendentemente dal peccato originale, è di comunicare all’umanità di Cristo la gloria dell’unione con il Verbo di Dio. Nella teologia moderna sono frequenti i tentativi di conciliazione tra le due opinioni.

Nel pensiero moderno non cattolico, considerando come «mito» il dogma dell’i., se ne è cercata un’interpretazione filosofica: Kant afferma che, «svestendo il cristianesimo della sua mitologia», Cristo non è che «l’ideale dell’umanità accetta a Dio», e Hegel tenta un’interpretazione dialettica dell’i. ricercando nel mistero di Dio che si fa uomo l’espressione simbolica del divenire dello spirito: il Dio fatto uomo, uno in due nature, non è che l’interpretazione dialettica dell’antinomia tra l’uomo e Dio, tra soggetto e oggetto, tra finito e infinito.

Di fronte a queste negazioni radicali del dogma dell’i. deve essere ricordata la particolare posizione del modernismo e di alcune tendenze in seno al protestantesimo in cui, richiamando in certo modo l’antico arianesimo, si parla di una trascendenza relativa del Cristo, nel quale si sarebbe realizzata soltanto la presenza del divino sulla terra.

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