INDACO

Enciclopedia Italiana (1933)

INDACO

Luigi BORDINI - Domenico Lanza
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. Sostanza colorante azzurra, che si prepara sia per via naturale sia per via sintetica.

Indaco naturale. - È ricavato dalle foglie di varie specie d'Indigofera, piante della famiglia Leguminose Papilionate, tribù Galegee. Era noto agli antichi Egiziani e coltivato dagli Ebrei presso Gerico 1300 anni a. C. Fu, fin quasi alla fine del secolo scorso, accanto alla robbia, la materia colorante di maggiore importanza, fornendo sul cotone, sul lino, sulla lana e la seta, tinte bellissime e resistenti. Comparso nel 1897 l'indaco sintetico, la sua importanza andò decrescendo: l'India, che ne era la maggiore produttrice, vedeva diminuire la superficie coltivata da ha. 640 mila nel 1896-97 (da i ha. si possono ricavare 2,5-3 tonnellate di piante fresche) a ha. 30 mila circa nel 1929-30. Così le Indie Olandesi (Giava) e il Guatemala, che seguivano a grande distanza l'India nella produzione.

Le specie, erbe, arbusti, o suffrutici appartenenti al genere Indigofera sono circa 350, e tutte crescono nei paesi caldi. Sono oggetto tuttavia di cultura soltanto le specie più ricche di sostanza colorante, e precisamente l'I. tinctoria L., l'I. anil L. e l'I. argentea L. La prima, di origine incerta e probabilmente indiana, è un arbusto alto circa 2 m., pubescente, con foglie imparipennate a 4-6 paia di foglioline stipellate ovali acute, fiori in grappoli ascellari eretti, corolla rosa sporco con venature verdegiallastro, legume stretto e lungo, cilindrico, leggermente arcuato, apiculato fra i semi, i quali sono in numero di 6-12, poliedrici lisci bruni. La I. anil L., ritenuta originaria dell'America tropicale, se ne distingue principalmente per i grappoli dei fiori corti e contratti e per i legumi falcati. La I. argentea L., spontanea nell'Africa settentrionale e nell'Asia occidentale, e tutta coperta d'una fitta peluria bianco-argentata ha foglie con 2 sole coppie di foglioline obovate ottuse larghe, legumi alquanto compressi moniliformi, a 2-4 semi globosi.

Possono fornire indaco, ma in quantità molto più piccola, altre piante, quali l'Isatis tinctoria L. (v. guado), la Marsdenia tinctoria R. Br., della famiglia Asclepiadacee, indigena dell'Africa tropicale, il Polygonum tinctorium Ait. della famiglia Poligonacee, indigeno della Cina.

La preparazione dell'indaco naturale si fa portando le piante recise di fresco (il taglio si fa 2 o 3 volte l'anno), e più raramente le foglie fresche o secche, in vasche o tini di macerazione pieni d'acqua, con l'aggiunta talvolta di un poco di latte di calce o ammoniaca. In questi recipienti subentra un processo di decomposizione e di fermentazione, per cui la sostanza colorante, contenuta sotto forma di un glucoside detto indicano, va in soluzione dando un liquido giallo, che contiene l'indaco ridotto allo stato di cosiddetto indaco bianco o leucoindaco. All'aria questo si ossida, trasformandosi in azzurro d'indaco insolubile, che si deposita sotto forma di fanghiglia scura. Per accelerarne la formazione si rimescola e si sbatte il liquido del tino con bacchette, con pale, ecc., per fargli prendere più aria possibile; si lascia depositare, si filtra e si spreme la pasta umida finché assuma una consistenza terrosa, dopodiché la si suddivide in pezzi che si fanno asciugare lentamente all'ombra in appositi locali. Da 100 kg. di piante secche si ricavano 1 ½-2 kg. d'indaco.

Le qualità migliori d'indaco sono quelle del Bengala e di Giava; le meno pregiate quelle del Guatemala. Dato l'alto suo valore, l'indaco viene spesso sofisticato con argilla, fecola, gomma, cenere, ecc. Oltre le qualità tipiche delle suaccennate provenienze, vi sono almeno duecento marche diverse, classificate, di solo indaco Bengala e delle Indie e il cui valore varia secondo il contenuto in indigotina, cioè in materia colorante pura che va dal 20 al 90% secondo la tinta, l'aspetto, la finezza di grana: caratteri che vengono giudicati da esperti con lunghi anni di pratica. si ricorre altresì all'analisi, sia facendo prove di tintura comparativa in confronto a una qualità tipo o a indaco puro sia mediante l'analisi secondo metodi rigorosamente stabiliti. Un buon indaco Bengala contiene oltre a circa 65% d'indigotina e a 12-18% d'impurità minerali, 1,5% di colla d'indaco, circa 4% di bruno d'indaco e 6-7% di rosso d'indaco o indirubina; questa determina le tinte di blu più violaceo ottenuto in tintura con certe qualità d'indaco.

Indaco sintetico. - La storia dell'indaco presenta una sorpreudente analogia con quella della robbia, anch'essa di origine antichissima; mentre però la produzione industriale dell'alizarina seguì immediatamente la sua sintesi, la produzione industriale dell'indaco, per la sua composizione più complessa, seguì circa 14 anni dopo e con ben maggiori difficoltà. Primo a determinarne la composizione centesimale fu J.-B.-J. Dumas. O. Unverborden, O. L. Erdmann, A. Laurent e C.I. Fritzsche, fra il 1826 e il 1848, avevano ottenuto, nell'ordine, sottoponendo l'indaco alla distillazione secca, all'ossidazione e alla fusione alcalina: anilina, isatina, e acido antranilico.

A. Baeyer, basandosi sui risultati di Erdmann e Laurent, tentò nel 1868 - assieme a W. Knop - di riprodurre l'indaco stesso dall'isatina mediante la riduzione, e ottenne invece tre nuovi composti, il diossindolo, l'ossindolo e l'indolo che, assieme all'isatina e all'indossile, scoperto e determinato nella sua costituzione da E. Baumann e Tiemann nel 1879, costituiscono la base di tutto il gruppo dell'indaco. La formula di costituzione dell'indolo venne stabilita dallo stesso Baeyer nel 1870, dopo la sua sintesi (1869, in collaborazione con A. Emmerling), dall'acido ortonitrocinnamico. Nello stegso anno il Baeyer otteneva indaco dall'isatina e V. Kekulé ne determinava la formula che veniva confermata più tardi da Baeyer stesso e Suida e da Claisen e Shadwel. Nel 1875 M. v. Nencki otteneva indaco dall'indolo per ossidazione con ozono, ma con rendimenti bassissimi.

Nel 1880, finalmente, il Baeyer tentò e realizzò la prima sintesi partendo dall'acido ortonitrocinnamico, dal quale già aveva ottenuto l'indolo e attraverso all'acido dibromo-o-nitrofenilpropiolico all'ortonitrofenilacetilene, all'ortodinitrodifenilacetilene e al diisatogeno. Questa prima sintesi dell'indaco, per quanto realizzata con rendimenti molto bassi, venne protetta da due brevetti: D.P. 11857 e D.P. 15616. Gli ultimi elementi per la determinazione della costituzione dell'indaco vennero forniti dallo studio dell'isatina e dell'indossile da parte dello stesso Baeyer e di altri.

Nel 1890 L. Heumann otteneva indaco dal trattamento della fenilglicina con potassa caustica a 260°, e successiva soluzione in acqua ed esposizione all'aria. I rendimenti, dapprima troppo bassi, furono dal Heumann migliorati qualche anno dopo con l'impiego dell'acido fenilglicin-o-carbonico. Il nuovo processo venduto alla Badische, fu da questa perfezionato e reso industriale a partire dal 1897. Successivamente la Deutsche Gold und Silber Scheide Anstalt di Francoforte brevettò e cedette alla Meister Lucius & Brüning di Höchst l'impiego dell'amiduro di sodio nella fusione della fenilglicina; questo contribuì a rendere più vantaggioso il processo. Altre sintesi furono studiate in seguito, fra cui importante quella di R. Sandmeyer del 1902, che, acquistata dalla Geigy di Basilea, serve, però, più che per preparare l'indaco, per preparare l'isatina e la sua anilide, ed è importante per la fabbricazione dei coloranti al tino. Attraverso questi progressi tecnici, la fabbricazione si è andata sviluppando, a scapito dell'indaco naturale.

Attualmente (1932) le più importanti sintesi industriali oltre quella del Sandmeyer, sono tre, e hanno per termini principali la fenilglicina, l'acido fenilglicin-o-carbonico, l'ossietilanilina, da cui, per fusione alcalina, si ottengono indossili, e per successiva ossidazione, indaco.

La fenilglicina è ottenuta condensando con l'acido monocloracetico l'anilina:

L'acido fenilglicin-o-carbonico è ottenuto condensando con l'acido monocloracetico l'acido antranilico:

L'ossietilanilina invece deriva dalla condensazione dell'anilina con la cloridrina del glicole etilenico:

Il processo della fenilglicina viene praticato in Germania dalla Meister Lucius di Höchst, in Francia dalla Compagnie Nationale des matières colorantes e in Italia dall'Azienda Colori Nazionali Affini (A.C.N.A.): è questo il processo che sarà di seguito particolarmente descritto. Il processo all'acido fenilglicin-o-carbonico fu già usato dalla Badische Anilinund Soda-Fabrik di Ludwigshafen, ma poi abbandonato per il processo all'ossietilanilina.

Processo alla fenilglicina. - Preparati l'acido monocloracetico e l'anilina (in Italia il primo è ottenuto dal carburo di calcio secondo la sintesi di A. Guyot, L.-J. Simon e G. Chavanne e la seconda dal benzolo secondo la sintesi di N. N. Zinin) la lavorazione prosegue attraverso tre fasi: preparazione della fenilglicina; preparazione dell'indossile; preparazione dell'indaco. Altre fasi riguardano il ritorno in ciclo delle materie prime accessorie, quali l'ammoniaca impiegata per la preparazione dell'amiduro e gli alcali necessarî alla fusione.

Nel diagramma di fabbricazione che riproduciamo, la lavorazione viene suddivisa in tre sezioni, le quali comprendono: la fenilglicina (sez. I), la lavorazione delle materie prime accessorie (sez. II) e la fabbricazione dell'indossile e dell'indaco (sez. III).

I fase: la fenilglicina, come sappiamo, viene ottenuta per condensazione dell'acido monocloracetico con l'anilina secondo l'equazione:

che però non rappresenta l'andamento reale in quanto si ottengono contemporaneamente altri composti, come il cloridrato della fenilglicina, la sua anilide, il suo sale d'anilina e altri. Il cloridrato di fenilglicina, a mano a mano che si forma, reagisce con l'anilina in eccesso che ne sposta l'acido cloridrico formando cloridrato di anilina e fenilglicina, secondo l'equazione:

Tutti i prodotti della condensazione reagendo col carbonato di sodio che proviene dai liquidi alcalini della fusione e con la soda caustica necessaria alla decomposizione dell'anilide, dànno luogo per doppia decomposizione a fenilglicinato sodico, anilina e anidride carbonica. Questa viene utilizzata nella sezione II; l'anilina ricuperata per distillazione rientra in ciclo per una lavorazione successiva; il fenilglicinato sodico purificato per trattamento con acido e sciolto in nuovo alcali, viene concentrato a secco sotto vuoto, per passare con la fusione a indossile.

II fase: si svolge in autoclave, sotto pressione d'ammoniaca, con una miscela anidra di soda e di potassa caustica in presenza d'amiduro di sodio ottenuto per azione dell'ammoniaca sul sodio metallico fuso. In queste condizioni la fenilglicina subisce una condensazione interna perdendo acqua e trasformandosi in pseudoindossile

L'acqua che si elimina reagisce con l'amiduro che si decompone formando soda caustica e svolgendo ammoniaca

la quale è ricuperata in apposito impianto per ritornare in ciclo - sotto forma di gas compresso - a produrre altro amiduro.

III fase: la massa della fusione convenientemente diluita e sottoposta a ossidazione per insuffiazione d'aria fornisce indaco per condensazione di due molecole di pseudoindossile:

L'indaco, essendo insolubile, precipita e viene separato per filtrazione sotto forma di pasta. Questa, convenientemente purificata per trattamento con un acido minerale, viene posta in commercio al 20%. Durante l'ossidazione si forma anche dell'isatina allo stato d'isatato alcalino, che in parte si decompone per dare antranilato e in parte si condensa con l'indossile per formare flavindina e indirubina.

Il liquido filtrato, che ha una densità di circa 12-13° Bé e che contiene tutto l'alcali della fusione e in più la soda ottenuta a spese dell'amiduro, subisce una parziale carbonatazione mediante l'anidride carbonica che proviene dalla fenilglicina, secondo quanto è già stato indicato precedentemente; la carbonatazione viene condotta in modo da trasformare tutta, e solamente, la soda formatasi dall'amiduro; si concentra il liquido a 50° Bé e il carbonato di sodio, che in queste condizioni risulta insolubile, viene separato e passa alla fenilglicina, per rigenerare altra anidride carbonica, separare altro carbonato, ecc., e la parte filtrata, che contiene ora nello stesso rapporto iniziale la soda e la potassa caustica, concentrata ulteriormente fino a disidratazione completa, fornisce nuova miscela anidra che ritorna in ciclo per la fusione successiva. In questo modo, salvo piccoli quantitativi d'alcali necessarî a reintegrare inevitabili perdite materiali di lavorazione, soltanto il sodio metallico viene regolarmente introdotto, operazione per operazione.

Costituzione, proprietà e derivati. - Nel 1883, dopo 17 anni di ricerche, A. v. Baeyer attribuì all'indaco la formula

che risulta dall'unione di due residui bivalenti

e che è in accordo con tutte le sintesi (circa 30), finora conosciute. Egli a questo residuo diede il nome di indogeno e chiamò indogenidi tutti i composti in cui esso si sostituisce a un atomo di ossigeno.

Per convenzione generale, i derivati del gruppo dell'indaco vengono precisati secondo lo schema

in base al quale l'indaco stesso può essere considerato come l'indogenido della pseudoisatina che ha la formula

Secondo il metodo di preparazione, l'indaco può essere cristallino di colore blu con riflessi che ricordano quelli del rame, oppure amorfo o in polvere, di colore blu cupo. Se scaldato, l'indaco sublima verso 330°; sotto pressione, a 390°, si fonde in un liquido rosso-porpora e si decompone. È insolubile nell'acqua e pochissimo solubile nell'alcool e nell'etere. È solubile nell'acido acetico, nell'anilina, nella naftalina e in altri solventi organici. Come colore, l'indaco è particolarmente solido all'acqua, al sapone, agli alcali diluiti, agli acidi e all'aria; non lo è altrettanto al cloro; è distrutto dall'acido nitrico.

Con l'acido solforico l'indaco forma il mono- e il di-solfato. Questo ultimo, versato in acqua, si scinde nei suoi componenti e l'indaco precipita molto suddiviso, costituendo un prodotto molto adatto per tino che la Badische vende sotto il nome di indaco S. Con acido solforico fumante fornisce un acido indaco-5.5′ disolfonico, il cui sale di sodio è il comune carminio d'indaco che viene venduto in pasta e tinge la lana e la seta in bagno acido.

L'indaco reagisce con gli alcali concentrati all'ebollizione. Con la soda caustica in soluzione alcoolica dà origine a un composto verde C10H16N2O2 NaOH. L'acido nitrico e l'acido cromico lo ossidano a isatina. I riducenti alcalini, come l'idrosolfito di soda, lo trasfomano nel cosiddetto indaco bianco (leucoindaco):

trasformazione importante in quanto il prodotto da insolubile diviene solubile e può essere assorbito dalla fibra, salvo a ritornare insolubile e quindi rimanere fissato alla fibra stessa con l'ossidazione all'aria. La formazione del leucoindaco è da attribuire ai gruppi carbonili (CO) uniti al doppio legame intramolecolare e dell'indaco. È un composto incolore con proprietà debolmente acide, comparabili a quelle dei fenoli; è perciò solubile negli alcali e i suoi sali (a seconda che la sostituzione dell'idrogeno ossidrilico avvenga in uno solo o in tutti e due gli ossidrili) possono essere acidi o neutri.

Anche l'idrogeno molecolare, in presenza di metalli che funzionano da catalizzatori, come il ferro, il cobalto, il nichel, e così pure i metalli alcalini e l'amalgama di sodio lo trasformano in leucoindaco. Ma il. mezzo più comune per trasformarlo in leucoindaco è quello di trattarlo al tino di fermentazione in presenza di alcoli, come si fa per la sua preparazione dalle foglie (v. sopra) e nel cosiddetto processo di tintura al tino. La fermentazione, che è d'origine batterica, fa sviluppare idrogeno che, fissato dalla molecola dell'indaco, porta al prodotto leuco.

L'acido clorosolfonico agendo sulla leucoindigotina in ambiente di piridina fornisce l'indigosol, che è il sale di sodio del suo etere disolfonico

Esso ha applicazione in tintura e nella stampa e, per ossidazione, può rigenerare facilmente ìndaco.

L'indaco reagisce con gli alogeni. Il bromo e il cloro entrando nella sua molecola ne aumentano la solidità, l'affinità per la fibra e la vivacità del tono. Lo iodio non dà luogo invece a sensibili miglioramenti. Particolarmente importanti per le loro applicazioni sono il dibromo- e il tetrabromo-indaco:

Bibl.: J. C. Cain e J. F. Thorpe, The Synthetic Dyestuffs, 6ª ed., Londra 1923; E. Molinari, Trattato di chimica generale, Milano 1930; E. Martinet, Matières colorantes. L'indigo et ses dérivés, Parigi 1926; P. Castan, La Chimie des matières colorantes organiques, Parigi 1926; G. Panizzon, Trattato di chimica delle sostanze coloranti, Milano 1918; J. F. Thorpe e G. K. Ingold, Synthetic colouring matters: Vat colours, Londra 1923.

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