Indennità di mobilità [dir. lav.]

Diritto on line (2015)

Paola Bozzao

Abstract

La voce esamina la struttura e la funzione dell’indennità di mobilità, misura a tutela della disoccupazione introdotta dalla l. n. 223/1991 e destinata ad essere sostituita, al termine di un periodo transitorio, dalla Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi).

Premessa

Questa voce sull’indennità di mobilità fotografa, oggi, una porzione di storia (neanche troppo lunga) del sistema degli ammortizzatori sociali italiani. L’istituto, dopo un quarto di secolo dalla sua introduzione, si avvia infatti al tramonto, essendo prossimi la sua soppressione e il suo “inglobamento” nella nuova misura di sostegno al reddito introdotta dapprima con l. 28.6.2012, n. 92 (Aspi) e, in tempi ancor più recenti, riformata con il d.lgs. 4.3.2015, n. 22 (istitutivo della Naspi, entrata in vigore il 1° maggio 2015). Giova qui appena ricordare che la riforma del 2012 ha innovato soprattutto sotto il profilo equitativo, essendosi provveduto a scardinare il previgente assetto binario delle tutele contro la disoccupazione involontaria, fondato sul trattamento di disoccupazione ordinaria e sull’indennità di mobilità. Due trattamenti, questi, divergenti sotto il profilo del quantum e, soprattutto, della durata di erogazione, nettamente più favorevole per i percettori del secondo, non a caso inquadrato, fin da subito, quale trattamento “privilegiato” di disoccupazione (Cinelli, M., Un nuovo trattamento privilegiato di disoccupazione: l’indennità di mobilità, in Giust. civ.,1991, II, 479).

La voce illustra – nelle sue linee essenziali – la disciplina dell’indennità di mobilità ad oggi in vigore, sostanzialmente contenuta negli artt. 7, 8, 9 e 16, co. 1-3, della l. 27.7.1991, n. 223, che disciplinano la lista di mobilità, l’indennità di mobilità, il collocamento dei lavoratori in mobilità e la cancellazione del lavoratore dalle liste di mobilità; trascorso un periodo transitorio, tali norme saranno abrogate (art. 2, co. 71, lett. b) e d), l. n. 92/2012) e tutti i disoccupati, a far data dal 1.1.2017, accederanno alla Naspi. Si precisa che a quest’ultima prestazione continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di Aspi, «in quanto compatibili» (art. 14 d.lgs. n. 22/2015). Tali devono ritenersi, nel silenzio del legislatore del 2015, le disposizioni – contenute nell’art. 2, l. n. 92/2012 – che disciplinano il graduale superamento dell’indennità di mobilità.

Finalità ed evento protetto

La finalità dell’istituto in esame può essere compresa solo muovendo dalla sua contestualizzazione all’interno del complesso disegno regolativo delineato dalla legge istitutiva, intervenuta – come è noto – a ridefinire le politiche di gestione del mercato del lavoro, con particolare riguardo alla gestione delle eccedenze di personale. Una volta ricondotto il trattamento di integrazione salariale straordinaria alla sua funzione originaria, la legge del 1991 interviene a sostegno di situazioni di disoccupazione strutturale attraverso la predisposizione di una strumentazione più trasparente e ispirata – quantomeno nel disegno originario – al superamento delle previgenti logiche assistenzialistiche. Perno del nuovo statuto protettivo è proprio l’indennità di mobilità: strumento che “nato dalle ceneri” del trattamento speciale di disoccupazione per l’industria (Di Stasi, A., Ammortizzatori sociali e solidarietà post-industriale, Torino, 2013, 139), evoca, nella sua stessa denominazione, la nuova funzione ad esso sottesa: sostenere la mobilità dei disoccupati, per agevolare la transizione verso un nuovo posto di lavoro e, così, aumentare l’efficienza allocativa del mercato del lavoro. Il diritto alla percezione dell'indennità rappresenta, invero, una tra le molteplici conseguenze di un peculiare stato che i lavoratori, licenziati collettivamente all’esito di una particolare procedura, acquisiscono con l'iscrizione nelle liste di mobilità. In tale momento si radica, difatti, «un complesso di rapporti interconnessi, dei quali quello avente ad oggetto l'erogazione dell’indennità di mobilità costituisce il principale ma non l'unico» (C. cost., 18.1.1999, n. 6); ai beneficiari del trattamento è riconosciuta una posizione fortemente preferenziale nel mercato del lavoro, attraverso il riconoscimento di maggiori chances occupazionali per tutto il periodo di iscrizione nella relativa lista, finalizzate ad assicurarne la più pronta ricollocazione.

Pur in presenza di un tale interesse generale, l’istituto è stato fin dalle origini caratterizzato da un assetto particolaristico, essendo riservato ai lavoratori licenziati in forma collettiva da un’impresa che abbia già fruito, o possa comunque anche solo potenzialmente fruire, del trattamento straordinario di integrazione salariale. Con esso sono state soddisfatte, dunque, situazioni di tipo categoriale, individuate in base al settore produttivo di appartenenza dell’impresa, nonché al suo ambito dimensionale; ciò in sinergico raccordo con la fruibilità, anche solo potenziale, di strumenti di sostegno al reddito al verificarsi di sospensioni qualificate dell’attività lavorativa (e dei relativi rapporti di lavoro). Un disegno, questo, ispirato al contenimento nell’utilizzo dello strumento, originariamente circoscritto al settore industriale (e alle imprese di cui all’art. 12, l. n. 223/1991); disegno che, di lì a poco è andato progressivamente dissolvendosi, sommerso «da una continua alluvione di interventi» (in questo senso v., già a pochi anni di distanza, Liso, F., La galassia normativa dopo la legge 223/1991, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1997, 2). In effetti, dopo la l. n. 223/1991 si è intervenuti con una pioggia di micro-norme, sovente a carattere occasionale, che hanno variamente esteso i termini di durata del trattamento, addirittura arrivando a sostenere lavoratori sospesi/espulsi da aziende escluse dal campo di applicazione della disciplina di legge (v., da ultimo, l’art. 3, co. 1, l. n. 92/2012). A partire dai primi anni del 2000 (d.l. 3.5.2001, n. 158, conv. dalla l. 2.7.2001, n. 248, e l. 24.12.2003, n. 350) si è assistito, poi, al reiterato utilizzo degli “ammortizzatori in deroga” alla normativa vigente, in tempi più recenti quasi interamente affidati all’azione amministrativa, con progressivo coinvolgimento delle regioni, di concerto con le parti sociali, nella gestione delle risorse – statali e del fondo sociale europeo – a tal fine predisposte (su cui v., per tutti, Garofalo, D., Gli ammortizzatori sociali in deroga, Milano, 2010; per il progressivo superamento di tale strumento, sinergicamente alla graduale transizione verso l’Aspi, v. l’art. 2, co. 64, l. n. 92/2012).  La materia è stata, da ultimo, completamente revisionata ad opera del d.lgs. 14.09.2015, n. 0148 che, nell'ottica della semplificazione e razionalizzazione dell'assetto normativo previgente, ha - tra l'altro - ridefinito il campo di applicazione soggettivo e oggettivo della cassa integrazione guadagni, tanto ordinaria che straordinaria.

A fronte di questa complessa disciplina e di una disorganica prassi derogatoria, la ratio e la struttura dell’indennità di mobilità si sono mantenute sostanzialmente inalterate nel corso del tempo, così come l’impianto normativo che l’ha, fin dalle origini, regolamentata. Come ha chiarito il giudice delle leggi, essa consiste in un «trattamento di favore che la collettività riserva, in nome dei principi di solidarietà sociale contenuti nell'art. 38 Cost., a quei lavoratori che, per particolari ragioni previste dalla legge, vedono risolto il loro rapporto di lavoro; per cui chi beneficia di detto trattamento è già, in sostanza, un disoccupato»(C. cost., 12.7.2000, n. 335). Si tratta, in sostanza, di un “trattamento previdenziale provvisorio”, erogato dall’Inps – previa presentazione di apposita istanza entro i termini decadenziali previsti in materia di disoccupazione involontaria: Cass., S.U., 6.12.2002, n. 17389 – e sostitutivo di ogni altra prestazione di disoccupazione (art. 7, co. 8, l. n. 223/1991); esso è regolamentato dalla normativa che disciplina l'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, in quanto applicabile (art. 7, co. 12, l. n. 223/1991). Un rinvio, quest’ultimo, attraverso il quale il legislatore ha inteso disciplinare gli aspetti non espressamente – e non diversamente – regolamentati in ordine alla corresponsione dell'indennità in esame, rifacendosi testualmente alla normativa già emanata per la regolamentazione di altra indennità avente identica matrice causale (la tutela del lavoratore per l'evento della disoccupazione). Quest’ultima normativa deve considerarsi inserita a tutti gli effetti formali e sostanziali nella nuova disciplina dell'indennità di mobilità, con la conseguenza che più che di “rinvio” da una norma ad un'altra, deve parlarsi di applicazione diretta di una norma nel suo effettivo contesto letterale e sostanziale, avente per contenuto tutta la disciplina idonea a regolare l'istituto (Cass., S.U., 6.12.2002, n. 17389). Lo stesso giudice delle leggi ha, del resto, più volte sottolineato le evidenti analogie presenti nella finalità e nella struttura dei due trattamenti, riconducendoli entrambi nel più ampio genus degli ammortizzatori sociali contro lo stato di bisogno dovuto alla disoccupazione (v. C. cost., 9.6.2000, n. 184; C. cost. 26.1.2007, n. 18; C. cost., 19.7.2011, n. 234).

Destinatari e requisiti di accesso

Soffermandoci in questa sede sui tratti principali dell’istituto in esame, deve innanzitutto evidenziarsi come il diritto all’indennità di mobilità non rivesta, sotto il profilo soggettivo, portata generale, essendo subordinato alla sussistenza di requisiti che concernono, prioritariamente, l’assetto tipologico e dimensionale del datore di lavoro (dovendosi trattare di impresa che, per le sue caratteristiche produttive, rientra nel circoscritto ambito di applicazione dell'integrazione salariale straordinaria); e, in secondo luogo, la tipologia lavorativa e l’anzianità aziendale del potenziale beneficiario. Il trattamento spetta, infatti, a specifiche categorie di lavoratori licenziati – operai, impiegati e quadri (esclusi i dirigenti, invece conteggiati nel personale da computare ai fini dell’applicabilità della procedura collettiva e nel numero dei lavoratori interessati dal licenziamento collettivo: l. 30.10.2014, n. 161) – che possano far valere un’anzianità aziendale di almeno dodici mesi, di cui almeno sei di lavoro effettivamente prestato (ivi compresi i periodi di sospensione del lavoro derivanti da ferie, festività e infortuni, nonché da astensione obbligatoria per gravidanza o puerperio: C. cost., 6.9.1995, n. 423), ed assunti “con un rapporto di lavoro a carattere continuativo e comunque non a termine” (art. 16, co. 1, l. n. 223/1991, cui rinvia l’art. 7, co. 1). Restano espressamente esclusi dal trattamento gli occupati in attività stagionale o saltuaria e gli assunti con contratto a tempo determinato; in linea con la ridefinizione dell'ambito di applicazione soggettivo dei trattamenti di integrazione salariale, l'indennità di mobilità deve oggi (e fino al 2016) ritenersi estesa ai lavoratori assunti con contratto di apprendistato professionalizzante (art. 2, d. lgs. n. 148/2015). La previsione di una anzianità minima aziendale presso la medesima azienda che abbia poi attivato la procedura di mobilità risponde alla necessità di arginare ricorsi abusivi all’istituto (Liso, F., La nuova legge sul mercato del lavoro: un primo commento, in Inf. prev., 1991, 21, 9); finalità perseguita, però, attraverso una norma inquadrabile in una prospettiva occupazionale di tipo tradizionale, volta a tutelare i soggetti stabilmente occupati nell’impresa, con un’aprioristica marginalizzazione delle forme di lavoro caratterizzate dalla discontinuità della prestazione lavorativa. È questo, del resto, il senso dell’esplicito richiamo al “carattere continuativo” del lavoro svolto, che descrive una fattispecie distinta ed ulteriore rispetto all’apposizione di un termine finale al rapporto lavorativo; il che non stupisce, se si considera che, all’epoca della formulazione della norma, non esisteva quella molteplicità di tipologie contrattuali discontinue che, a partire dalla l. 24.6.1996, n. 197, è andata sempre più caratterizzando l’assetto del mercato del lavoro. Anche sotto questo profilo, risulta avvalorata la configurazione, nella legge del 1991, di una strumentazione di gestione degli esuberi di personale elaborata “più guardando indietro che guardando avanti” (Liso, F., La più recente legislazione di protezione del lavoro: una riflessione critica, in AA.VV., Lavoro e politiche della occupazione in Italia (Rapporto 1991-1992), Ministero del lavoro, Roma, 1992, 233), ancorata ad una visione tradizionale del mercato del lavoro incentrata, da un lato, sulla predominanza delle caratteristiche proprie del settore industriale e, dall’altro, addirittura estremamente tarata sulla posizione lavorativa acquisita nella singola realtà aziendale. Prospettiva, quest’ultima, di recente fatta propria dal giudice delle leggi, che ha negato la possibilità per i lavoratori somministrati, successivamente assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato dall’azienda utilizzatrice, di cumulare nell’anzianità aziendale utile ai fini del diritto all’indennità di mobilità anche il periodo prestato in forza del contratto di somministrazione di lavoro (C. cost., 9.7.2014, n. 215). La Corte ha confermato, così, che la continuità del rapporto di lavoro, ai fini del computo dell’anzianità aziendale utile per fruire dell’indennità di mobilità, necessariamente presuppone lo svolgimento dell’attività lavorativa alle dipendenze del medesimo datore di lavoro che ha attivato la procedura. Ciò perché esiste una diversità strutturale tra la situazione dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, dopo un periodo svolto in forza di lavoro (all’epoca di tipo) interinale, e i lavoratori assunti ab initio a tempo indeterminato dalla medesima impresa; eterogeneità che esclude la violazione dell’art. 3 Cost., stante la non comparabilità delle fattispecie poste a confronto. Del pari non risulta violato il precetto dell’art. 38, Cost., essendo «frutto di una razionale scelta discrezionale del legislatore» l’avere contemperato e bilanciato un trattamento speciale di disoccupazione maggiormente consistente, per importo e durata, rispetto a quello ordinario, con la necessità di un’anzianità lavorativa minima, alle dipendenze del medesimo datore di lavoro. Alla Corte poi non sfugge l’inquadramento delle imprese fornitrici o somministratrici, ai fini previdenziali, nel settore terziario (art. 49, l. 9.3.1989, n. 88), cui consegue l’adempimento di tutti gli obblighi contributivi, previdenziali, assicurativi ed assistenziali relativi ai lavoratori somministrati unicamente sulla base delle aliquote e dei premi previsti per tale settore; con evidente penalizzazione del sistema delle prestazioni previdenziali ad essi spettanti, nell’ovvio presupposto del legame intercorrente tra specifico regime contributivo e specifico regime delle prestazioni.

Nel campo soggettivo di applicazione dell’indennità di mobilità sono stati, invece, ricondotti i lavoratori a domicilio licenziati, per riduzione del personale o per cessazione dell’attività aziendale, da imprese sempre rientranti nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale (Cass., S.U., 12.3.2001, n. 106). Ciò sul presupposto che la subordinazione del lavoratore a domicilio non è ontologicamente diversa da quella degli altri lavoratori: si tratta cioè di un soggetto che, pur in presenza «di modalità di prestazione intrinsecamente precarie e carenti di garanzia giuridica in ordine alla continuità ed entità delle commesse», è inserito nell’azienda, in quanto partecipante allo svolgimento del processo lavorativo con la messa a disposizione delle sue energie lavorative sotto la direzione del datore di lavoro. Le Sezioni Unite hanno inoltre ribadito che la «compatibilità del rapporto con modalità di prestazioni intrinsecamente precarie e carenti di garanzia giuridica in ordine alla continuità ed entità delle commesse» non esclude la sussistenza di una «attenuata subordinazione», la cui sussistenza dovrà di volta in volta essere verificata in relazione alla peculiarità della situazione concreta, essendo la precarietà del rapporto una caratteristica del tutto eventuale, e non essenziale, dello stesso.

Durata e importo

Sotto il profilo della durata, l’erogazione dell’indennità di mobilità risulta calibrata al grado di difficoltà che, prevedibilmente, il beneficiario incontrerà nel reperire una nuova occupazione. Tale presunzione si basa su due parametri, tipizzati dalla legge: quello anagrafico e quello territoriale. Relativamente al primo, la legge riconosce una durata più elevata per i lavoratori in età avanzata: il periodo massimo di fruizione del trattamento indennitario è, infatti, pari a 12 mesi per i lavoratori con età inferiore a 40 anni, 24 mesi per gli ultraquarantenni e 36 mesi per gli ultracinquantenni. Rilievo assume, poi, la situazione occupazionale dello specifico territorio, riconoscendosi che tali periodi siano prolungati di 12 mesi nelle aree del Mezzogiorno (art. 7, co. 1 e 2, l. n. 223/1991; per il riconoscimento della maggiorazione deve farsi esclusivo riferimento al luogo in cui l’impresa ha organizzato stabilmente il lavoro del soggetto interessato: Cass., S.U., 30.5.2005, n. 11326). Al fine di evitare il rischio di programmate precostituzioni di anzianità lavorative volte al godimento di una maggiore indennità di mobilità, si prevede l’impossibilità di corrispondere l’indennità per un periodo superiore all'anzianità maturata dal lavoratore presso l’azienda che ha avviato la procedura per la dichiarazione di mobilità (art. 7, co. 4). Inoltre, nelle aree del Mezzogiorno, nonché in quelle in cui il tasso di disoccupazione è superiore alla media nazionale, in presenza di particolari requisiti di età e di anzianità contributiva maturati entro una specifica data (originariamente, 31.12.1992, termine esteso più volte per specifici contingenti di personale e tipologie di aziende) è stato previsto il prolungamento dell’'indennità fino al compimento dell'età pensionabile ovvero fino alla data di maturazione del diritto alla pensione di anzianità (cd. mobilità “lunga”: art. 7, co. 6 e 7). Il regime ora descritto, rimasto operante per i lavoratori collocati in mobilità fino al 31.12.2014, è oggi in via di progressiva parificazione alle regole in vigore per il trattamento “ordinario” di disoccupazione (dal 1.5.2015, la Naspi), con graduale ridimensionamento temporale dell’intervento in ragione dell’età del beneficiario, dell’ubicazione territoriale dell’impresa e dell’anno di collocamento in mobilità. L’indennità di mobilità resta, dunque, solo temporaneamente in vigore e la durata di godimento della prestazione viene ridotta a partire dall’1.1.2015 (secondo la tempistica indicata nell’art. 2, co. 46, ulteriormente ammorbidita a seguito delle innovazioni apportate dall’art. 46-bis, co. 1, lett. f, d.l. 22.6.2012, n. 83, conv. dalla l. 7.8.2012, n. 134): a decorrere dal 1.1.2017 le norme che disciplinano la materia saranno abrogate e tutti i lavoratori accederanno alla Naspi. La modulazione decrescente delle durate di erogazione, che riguarderà tutti i lavoratori collocati in mobilità entro il 31.12.2016, sconta indubbiamente i rilevanti problemi – derivanti dall'abolizione dell'istituto – nella gestione degli esuberi di personale e, in particolare, nell'accompagnamento dei lavoratori anziani verso il pensionamento (problema, quest’ultimo, al quale si cerca di fornire risposta con le disposizioni di cui all'art. 4, co.1-7, l. n. 92/2012); da qui la necessità di una gestione soft della sua abrogazione, che di fatto consentirà ai lavoratori over cinquanta occupati nelle aree del Mezzogiorno di poter beneficiare di tale trattamento fino a tutto il 2018. La legge del 2012 ha poi riconosciuto la possibilità di una revisione del regime transitorio sulla durata dell’indennità di mobilità, al fine di verificarne la corrispondenza alle prospettive economiche e occupazionali in essere al 31.10.2014: tale revisione non risulta, ad oggi, essere stata attuata (art. 2 co. 46-bis, l. n. 92/2012, introdotto dall’art 46-bis, co. 1, lett. f, d.l. n. 83/2012, conv. dalla l. n. 134/2012).

L’importo dell’indennità di mobilità risulta parametrato al trattamento di integrazione salariale già percepito (o che sarebbe spettato) nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto di lavoro. In particolare, la misura dell’indennità è pari – per i primi 12 mesi – all’ammontare del trattamento di integrazione salariale straordinaria, con riduzione all’80 per cento dello stesso nel periodo rimanente; all’importo spettante per i primi 12 mesi si applica il prelievo contributivo del 5,84 per cento (art. 26, l. 28.2.1986, n. 41). Il trattamento opera, poi, nel rispetto di importi mensili massimi, pari per il 2015 a 971,71 euro, se la retribuzione mensile di riferimento è inferiore a 2.102,24 euro, e a 1.167,91 euro se di importo superiore (Circ. Inps, 30.1.2015, n. 19. Per la nuova disciplina dei massimali, v. l'art. 3.co. 5-6, d.lgs. n. 148/2015).

Indennità di mobilità e nuova occupazione

Il godimento dell’indennità di mobilità è accompagnato da misure finalizzate ad agevolare la ricollocazione professionale del suo beneficiario; tra esse rilevano la possibilità di svolgere un’occupazione senza decadere dal diritto al trattamento; gli incentivi all’autoimpiego; i benefici economici per nuove assunzioni.

Sotto il primo profilo, le norme contenute nella l. n. 223/1991 (la cui vigenza resta confermata nel periodo transitorio 2013-2016: circ. Inps 7.1.2013, n. 2) non si sono invero occupate, almeno espressamente, della questione della compatibilità della indennità con lo svolgimento di altre attività subordinate od autonome (e della cumulabilità della indennità con i redditi provenienti da questa attività), se non per specifiche situazioni. Così, è prevista la sospensione del trattamento – con conservazione di iscrizione nella lista – nei casi in cui il lavoratore accetti un lavoro subordinato a tempo determinato (senza indicazione della durata) o a tempo parziale (sia esso a tempo determinato o indeterminato), a condizione che la somma dei periodi lavorati sia inferiore al numero dei giorni complessivi di spettanza dello stesso trattamento (art. 8, co. 6 e 7). Il principio generale della incompatibilità tra retribuzione da lavoro subordinato e percezione del trattamento di disoccupazione rinviene un’eccezione per i lavoratori collocati in mobilità lunga, per i quali – in caso di svolgimento di attività di lavoro sia subordinato che autonomo – è riconosciuta la facoltà di cumulare l'indennità di mobilità, nei limiti della retribuzione spettante al momento della messa in mobilità (art. 9, co. 9). Nel silenzio della legge, in via amministrativa è stato poi riconosciuto un generale regime di cumulabilità parziale con i redditi derivanti da un'attività lavorativa in forma autonoma, qualora questi si attestino al di sotto delle soglie utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, di cui all' (oggi abrogato) art. 4, co. 1, lett. a), d.lgs. 21.4.2000, n. 181 e succ. mod. (e pari a 4.800 euro nell’anno solare per l’attività di lavoro autonomo e 8.000 euro per le collaborazioni coordinate e continuative); in tale ipotesi, la remunerazione può essere cumulata  con l’indennità nei limiti in cui sia utile a garantire la percezione di un reddito pari alla retribuzione spettante al momento della messa in mobilità (circ. Inps, 14.4.2011, n. 67 spec. par. 3 e 4. La questione non si è rivelata pacifica in seno alla giurisprudenza di legittimità: nel senso della incompatibilità della percezione dell’indennità in esame – al pari del trattamento ordinario di disoccupazione - con lo svolgimento di lavoro autonomo, specie se trattasi di collaborazione coordinata e continuativa, v. Cass., 2.10.2014, n. 20826 e Cass., 14.8.2004, n. 15890; contra, v. Cass., 20.10.2011, n. 21820). L'indennità di mobilità è poi interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro accessorio, nel limite complessivo di 3.000 euro per anno civile; per i compensi che superano detto limite, fino a 7.000 euro (limite massimo annuale rivalutabile di reddito percepibile nell'ambito del lavoro accessorio), il reddito derivante dallo svolgimento di tale attività sarà compatibile e cumulabile con l'indennità di mobilità nei limiti previsti dall'art. 9, co. 9, l. n. 223/1991 (circ. Inps 13.10.2015, n. 170). Il legislatore incentiva la rioccupazione in attività di lavoro autonome, al fine di ridurre la pressione sul mercato del lavoro subordinato, al disoccupato in mobilità è riconosciuta la facoltà di richiedere la corresponsione anticipata della prestazione in un’unica soluzione, per intraprendere un’attività autonoma (ivi compresa attività di natura imprenditoriale: Cass., 20.6.2002, n. 9007) o associarsi in cooperativa, con esclusione delle mensilità eventualmente già godute e restituzione dell’indennità anticipata nel caso in cui, entro 24 mesi dalla data di corresponsione dell’importo, il lavoratore instauri un rapporto di lavoro subordinato (art. 7, co. 5, l.n. 223/1991). Si tratta, in questo caso, di una legislazione di tipo promozionale - in epoca più recente estesa anche ai percettori dell'Aspi e, da ultimo, della Naspi (art. 8, d. lgs, n. 22/2015) - volta a creare i presupposti affinché nuovi soggetti assumano iniziative di natura imprenditoriale o professionale; in tal modo riducendosi l'eventualità di un intervento del sistema previdenziale in forma meramente assistenzialistica e, sotto altro profilo, sollecitandosi una partecipazione "attiva" da parte del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione, al di fuori dell’area congestionata del lavoro subordinato. L’indennità perde, così, la sua connotazione di tipica prestazione di sicurezza sociale e si configura non già come funzionale a sopperire ad uno stato di bisogno, ma come un contributo economico «destinato a sopperire alle spese iniziali di un’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio» (cfr, ex plurimis, Cass., n. 20826/2014, cit.; Cass., 25.5.2010, n. 12746; Cass., 18.9.2007, n. 19338; Cass., 21.7.2004, n. 13562; Cass., 28.1.2004, n. 1587; Cass., 10.9.2003, n. 13272; Cass., n. 9007/2002, cit.). In sinergia con la richiamata finalità occupazionale, all’anticipazione sono ammessi non solo i lavoratori che vogliano dare inizio, per la prima volta, ad una attività autonoma dopo il licenziamento, ma anche coloro che tale attività proseguano per averla già svolta, non a tempo pieno, durante il cessato rapporto di lavoro subordinato (Cass., 21.4.2001, n. 5951; Cass., n. 1587/2004, cit.).

La legge riconosce, infine, una dote economica al datore di lavoro che rioccupi il disoccupato in mobilità in un lavoro stabile e a tempo pieno: per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, a questi viene concesso un contributo mensile pari al cinquanta per cento dell’indennità residua che sarebbe spettata al lavoratore (entro determinati limiti di mensilità: art. 8, co. 4. Per il riconoscimento di tale beneficio anche in caso di rioccupazione del percettore dell'Aspi e, si ritiene, anche della Naspi, v. l'art. 2 co. 10-bis, l.n. 92/2012).

Decadenza dal trattamento

La disciplina decadenziale applicabile all’indennità di mobilità è stata oggetto di interventi legislativi stratificati nel tempo, tra loro non coordinati, tutti orientati alla omogeneizzazione dei diversificati regimi decadenziali applicabili ai trattamenti di disoccupazione vigenti, secondo una linea di politica del diritto incentrata sul rafforzamento del principio della subordinazione dell’erogazione del trattamento previdenziale alla disponibilità del lavoratore ad accettare un nuovo lavoro, ovvero a partecipare ad iniziative volte a favorire il suo reinserimento nel mercato del lavoro (cd. condizionalità). Tale principio ha caratterizzato, invero, ab origine l’erogazione dell’indennità in esame, avendo l’art. 9 della l. n. 223/1991 disposto la decadenza dal trattamento in presenza di motivi sia “fisiologici” di cancellazione dalle liste di mobilità (quali il reimpiego del lavoratore con un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato; la liquidazione anticipata dell’intero importo dell’indennità di mobilità; la scadenza del periodo massimo di godimento della prestazione indennitaria; e anche il godimento di trattamenti pensionistici diretti: art. 6, co. 7, d.l. 20.5.1993, n. 148, conv. dalla l. 19.7.1993, n. 236), sia di tipo sanzionatorio, qualora il lavoratore non collabori attivamente per il suo reimpiego (cd. comportamenti non collaborativi). In particolare, la decadenza si realizza in caso di mancata frequenza di un corso di formazione professionale; per indisponibilità ad impegnarsi in opere o servizi di pubblica utilità; per mancata comunicazione preventiva dello svolgimento di un lavoro a tempo determinato o a tempo parziale; in caso di mancata risposta, senza giustificato motivo, alla convocazione da parte degli uffici per il lavoro; e, soprattutto, qualora il lavoratore non accetti un’offerta di lavoro professionalmente equivalente alle mansioni di provenienza o solo professionalmente omogenea ma di livello retributivo inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza, nei limiti del 10 per cento, ed il cui svolgimento si realizzi entro determinati limiti territoriali e temporali. In tal modo l’indennità di mobilità ha, fin dalle origini, assunto una particolare funzionalizzazione che, a ben vedere, ha travalicato il fine tradizionale della protezione dal rischio della disoccupazione per mancanza di lavoro, per configurarsi quale strumento di garanzia della condizione professionale ed economica precedente. Essa infatti realizza una tutela rispetto a tutte quelle situazioni occupazionali “altre”, incapaci di assicurare al lavoratore ricollocato sul mercato la medesima remuneratività rispetto alla posizione ricoperta in precedenza. Lettura, questa, ulteriormente avallata dalla garanzia di un trattamento indennitario integrativo della eventuale ridotta retribuzione offerta al lavoratore a seguito di nuova occupazione sul mercato del lavoro (art. 9, co. 5), in grado di assicurargli la temporanea conservazione dello standard retributivo pregresso e, quindi, il mantenimento di un tenore di vita adeguato a quello raggiunto in precedenza.

Come si è già ricordato, le disposizioni ora richiamate saranno abrogate, a far data dall’1.1.2017. In realtà, a seguito della richiamata stratificazione legislativa, poteva già dubitarsi che il regime decadenziale ex l. n. 223/1991 fosse sopravvissuto all’avvento di quello “più arcigno” disposto dall’art. 1-quinquies, d.l. 5.10.2004, n. 249, conv. con mod. dalla l. 3.12.2004, n. 291, che faceva esplicito riferimento anche ai lavoratori destinatari del trattamento di mobilità, la cui iscrizione nelle relative liste fosse finalizzata esclusivamente al reimpiego (in questo senso, v. Pascucci, P., Servizi per l’impiego, politiche attive, stato di disoccupazione e condizionalità nella legge n. 92 del 2012. Una prima ricognizione delle novità, in Riv. dir. sic. soc., 2012, 3, 453 ss.; nel senso della abrogazione della normativa ex l. n. 223/1991, per incompatibilità con la nuova disciplina generale dettata nel 2004, v. la Circ. Inps, 15.2.2007, n. 39). Sennonché la stessa l. n. 92/2012, nel ridefinire le ipotesi di decadenza dai trattamenti di disoccupazione, aveva ulteriormente alimentato le incertezze interpretative avendo, da un lato, confermato la vigenza, fino al 31.12.2016, delle disposizioni contenute nell’art. 9, l. n. 223/1991; e, dall’altro, introdotto un generale e più severo regime di condizionalità, a carattere immediatamente operativo (art. 2, co. 41-43). La disciplina del 2012 è, oggi, in via di superamento (art. 34, co.2, d. lgs. n. 150/2015). Il decreto n. 150, nel ridisegnare la materia delle politiche attive del lavoro, subordina ora la fruizione di tutti i trattamenti di disoccupaione - con espressa ricomprensione dell'indennità di mobilità (art. 21, co. 1 e 7) - alla stipulazione di un patto di servizio personalizzato e alla partecipazione alle iniziative ivi previste, così come al rispetto di meccanismi di condizionalità ancora più rigidi che in passato; con previsione di un impianto sanzionatorio molto articolato e graduato in ragione della gravità del comportamento omissivo tenuto dal beneficiario della prestazione. La permanenza, anche a seguito di tali ultime modifiche legislative, della previsione contenuta nell'art. 9, l. n. 223/1991 conferma la complessità del quadro normativo di riferimento; in mancanza di esplicito coordinamento, si ritiene che la disciplina speciale dettata da tale norma resti temporaneamente in vigore limitatamente alle previsioni non incompatibili con le regole generali del nuovo regime decadenziale.

Finanziamento

Al finanziamento del trattamento di mobilità partecipa in misura consistente lo Stato, attraverso trasferimenti annualmente programmati; è altresì prevista a carico delle imprese una contribuzione corrente su tutto il personale in servizio (pari allo 0,30 per cento delle retribuzioni imponibili) ed una contribuzione speciale relativa ai soli lavoratori in mobilità, pari a sei volte l’ammontare del trattamento mensile di mobilità per ogni dipendente interessato; tale importo è ridotto del 50 per cento se la dichiarazione di eccedenza del personale è oggetto di accordo sindacale, mentre non è dovuto se i licenziamenti derivano dal ricorso a procedure concorsuali (art. 5, co. 4, l. n. 223/1991).

Fonti normative

L. 27.7.1991, n. 223; art. 2, l. 28.6.2012, n. 92.

Bibliografia essenziale

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