Induismo

Libro dell'anno 2001

Induismo

"All'inizio non c'era né l'essere né il non essere" (Rigveda)

Dimensione concettuale e pratica dell'induismo

di Bidare Venkatasubbayah Subbarayappa

9 gennaio

Inizia ad Allahabad-Prayaga, nello Stato indiano dell'Uttar Pradesh, 650 km a sud-est di Nuova Delhi, il Kumbha Mela, il più grande raduno religioso dei seguaci dell'induismo, che attualmente costituiscono la terza comunità religiosa nel mondo, dopo i cristiani e i musulmani: sono circa 811 milioni, il 13% della popolazione mondiale. Il Kumbha Mela durerà fino al 22 febbraio e il culmine sarà raggiunto in coincidenza con il novilunio del 24 gennaio. Vi parteciperanno più di 70 milioni di persone.

Due dimensioni complementari

La civiltà indù, antica di circa 4000 anni, prende nome dai suoi fondatori, che abitavano la regione in cui scorreva il sistema fluviale del Sindhu (l'odierno Indo), ovvero l'area nordoccidentale del Subcontinente indiano e il Panjab; la popolazione di questa regione fu chiamata indù dai persiani e anche dagli invasori successivi e il termine aveva allora soltanto un significato territoriale.

Oggi il termine induismo è usato per indicare le credenze religiose e le convenzioni sociali di larga parte della popolazione dell'India. La matrice secondo la quale si attua è nota come sanatana ("eterna") dharma ("norma"), che è il cuore culturale dell'induismo. L'origine di questa, come di altre idee fondamentali che cominciarono a dar forma a un certo modo di vivere, si può far risalire alla letteratura vedica, costituita dai quattro Veda (Rigveda, Yajurveda, Samaveda e Atharvaveda), i relativi testi liturgici (Brahmana) e i trattati filosofici (Aranyaka e Upanishad). I Veda sono considerati rivelazioni divine dall'autorità religiosa indiscutibile; le Upanishad espongono invece una filosofia monistica, in cui non c'è differenza fra il sé individuale (atman) e il sé universale (brahman), e sottolineano l'importanza dell'autorealizzazione per la liberazione (moksa) dalla vita mondana.

Per molti versi il termine induismo è sinonimo del modo di vivere indù e dell'atteggiamento nei confronti della natura, ovvero del fatto che l'uomo è parte integrante di questa ed è inseparabile dal complesso terrestre e celeste; tale approccio è di genere 'inclusivo' e non crede in alcun tipo di esclusione. L'induismo ha assorbito o assimilato forme di pensiero differenti, altri rituali e altre pratiche che sono emersi in India nel corso di almeno tre millenni. In questo breve saggio è impossibile presentare un quadro dettagliato di tutti questi aspetti, ma si tenterà di dare un breve resoconto dell'induismo nella sua dimensione concettuale e nella sua dimensione pratica, essendo l'una complementare all'altra.

La dimensione concettuale comprendeva, fra l'altro, le tre vie del jnana ("sapienza"), della bhakti ("devozione") e del karman ("atto o rito religioso"). La prima non è soltanto discernimento intellettuale ma è, alla fine, conoscenza superiore che conduce all'autorealizzazione; la seconda è la via della devozione intensa verso dio (un'essenza attiva soprannaturale), ovvero il comprendere dio, mentre la terza è connessa ad azioni rette o virtuose nell'ambito di una vita basata sui valori.

La religione vedica

L'induismo, la religione vedica e i sei sistemi ortodossi sono concettualmente legati. Nel Rigveda, il più antico testo religioso indiano, le varie forze o poteri della natura, come il fuoco, il fulmine, il vento e il Sole, erano personificati, rispettivamente, come Agni, Indra, Vayu e Surya. Tali personificazioni provenivano da una credenza secondo la quale, dietro l'ordine che si percepisce nel ricorrere delle stagioni, del giorno e della notte, di nuvole e pioggia e così via, ci sono questi poteri divini, che bisogna rispettare e propiziarsi. Tuttavia, la deificazione dei poteri della natura, gli inni di lode loro rivolti e certi rituali loro associati provenivano anche dalla fede in un ordine naturale, che i veggenti vedici chiamavano rta; in effetti gli dèi vedici erano considerati i 'custodi' del rta e persino l'idea vedica di peccato era collegata alla trasgressione di questo ordine naturale o cosmico. Nel corso del tempo il rta si fuse gradualmente con il dharma (v. oltre), che rappresenta il principio fondamentale dell'induismo.

Un aspetto rilevante è il fatto che i veggenti vedici, fra la molteplicità degli dèi naturali, postularono un dio-padre supremo, chiamato Prajapati, con l'implicazione che tutti gli esseri creati fossero suoi figli; tale divinità unitaria era però descritta, a sua volta, come nata dal rta, oltre che come un'autorità morale. In seguito, comunque, questo postulato antropomorfico diventò subordinato a un monismo filosofico, in quanto si riteneva che il mondo dovesse la sua esistenza a un creatore, vale a dire a una causa primordiale unica che si evolve o si manifesta in forma di Universo, con tutti i suoi particolari. Il Nasadiya Sukta del Rigveda (X, 1, 129) dice: "all'inizio non c'era né l'essere né il non essere. [...] L''uno' respirava serenamente, sostenendosi da solo [...] oltre a esso non c'è nient'altro". Questa concezione dell'Assoluto che non ha bisogno di un potere esterno per evolversi, ma si evolve da sé - ovvero è l''uno' che diventa 'molti' e dunque è 'uno' in 'molti' - ha caratterizzato in modi e forme differenti il pensiero indù nel corso dei millenni.

L'aspetto spirituale

Le Upanishad sono considerate la parte finale (Vedanta) della letteratura vedica; sono piuttosto numerose, tuttavia una decina di esse sono ritenute le più importanti. Oltre a segnare una reazione contro i rituali e gli aspetti liturgici dei Veda, il messaggio delle Upanishad è, comunque, monistico: è il non-dualismo o la vera conoscenza e, soprattutto, l'esperienza finale dell'Assoluto, chiamato brahman. Una delle Upanishad dice: "È il brahman che è sotto e sopra, che è a occidente e a oriente, che è a meridione e a settentrione. Il brahman, invero, è l'intero Universo" (Chandogya-Upanishad, VII, 25, 2). Il significato letterale di brahman è 'infinito accrescimento', ma esso è anche inteso come 'luce infinita' o 'la luce delle luci'; inoltre, questa realtà assoluta è concepita anche come coscienza spirituale, suprema, ovvero come sé universale o anima del mondo; nel contempo le Upanishad parlano del proprio sé (atman) e ne mettono in risalto l'identificazione con il brahman attraverso frasi come "Tu sei quello" (tat tvam asi) e "Io sono il brahman" (aham brahma asmi). In altre parole, il principio onnipresente del mondo e l'intima essenza del proprio sé erano considerati la stessa cosa. Dunque la realtà ultima è inesorabilmente spirituale ed è illuminazione, abbracciando l'essere (sat), la coscienza (cit) e la beatitudine eterna (ananda). Il concetto di sat, cit e ananda, ovvero saccidananda, è una delle riflessioni più elevate dell'induismo.

Le Upanishad parlano anche della realtà del mondo, ma nello stesso tempo assumono che il mondo sia soltanto apparenza e non occupi una posizione distinta, essendo il brahman la realtà ultima; è stato anzi messo in evidenza che tutto l'Universo proviene dal brahman e, di conseguenza, possiede un carattere effimero. Gli indù credono fermamente nella successione ciclica di creazione e dissoluzione; affermano che la realtà spirituale ultima è eterna e si evolve da sé stessa in tutte le sue dimensioni tanto organiche quanto inorganiche.

Vengono descritti cinque elementi: l'etere (akasha), un principio onnipresente caratterizzato dal suono; l'aria (vayu), caratterizzata dal contatto; il fuoco (tejas), caratterizzato dal colore; l'acqua (ap), caratterizzata dal gusto; e la terra (prithvi), caratterizzata dall'odore. I cinque elementi costituiscono una dottrina le cui radici si possono ritrovare nelle Upanishad. Tale dottrina pluralistica, ma nello stesso tempo olistica, fornisce una spiegazione per il mondo apparentemente disordinato ed eterogeneo della materia, sia organica sia inorganica; nei suoi aspetti organici esso è associato ai cinque sensi, che sono le porte dell'esperienza e della conoscenza umane. Le Upanishad trattano anche della preparazione necessaria per acquisire la retta conoscenza, che comprende la meditazione (dhyana), mirante a ottenere l'esperienza diretta dell'Assoluto, in aggiunta allo studio formale e alla riflessione necessari alla convinzione intellettuale.

La meta ultima della vita, secondo l'enunciazione delle Upanishad, è la liberazione, o emancipazione (moksa), vale a dire lo scioglimento dalla schiavitù dei desideri mondani, come pure dal ciclo di nascita e morte. Mentre si è ancora in vita la liberazione può essere ottenuta trascendendo le barriere di tutti i desideri e innalzando il sé a uno stato di perfezione morale e intellettuale; in tale stato (jivanmukti), nel momento in cui il sé individuale raggiunge il sé universale (brahman), è distrutta la realtà delle distinzioni, che pure non cessano di apparire, e alla fine il sé realizzato diventa il brahman stesso dissociato dal corpo fisico (videha-mukti).

L'aspetto più significativo dell'induismo, dal punto di vista concettuale, è collegato ai quattro 'grandi detti' (mahavakya) del monismo, o non-dualismo, del livello più elevato. Due di essi sono già stati menzionati, precisamente "Tu sei quello" e "Io sono il brahman", mentre gli altri due sono: "Questo sé è il brahman" (ayam atma brahma) e "La coscienza è il brahman" (prajnanam brahma). Questi detti indicano essenzialmente cammini diversi per raggiungere l'Assoluto, la realtà ultima: il primo consiste nel comprendere che il sé, o l'essere innato, è parte dell'essere universale; il secondo è una meditazione profonda per comprendere la verità ultima o l'Assoluto; il terzo è simile e pone l'accento sul brahman onnipresente; il quarto, poi, è relativo all'aspetto di pura coscienza del brahman, che conduce alla fusione della coscienza individuale con la coscienza universale e al raggiungimento della beatitudine suprema, essendo stato il sé liberato dalla schiavitù mondana.

I sei sistemi ortodossi

Come si è detto, la struttura di pensiero fondamentale dell'induismo è costituita, da un lato, dai Veda e dalle Upanishad e, dall'altro, dai sei sistemi filosofici (darsana) che accettavano l'autorità dei Veda. Essi sono noti in genere nelle loro quattro forme sincretiche: Nyaya-Vaiseshika; Samkhya-Yoga; Purvamimamsa e Uttaramimamsa.

Il Nyaya-Vaiseshika accettava la realtà del mondo e si sforzava di comprenderla con una rappresentazione pluralistica, dando alla sostanza (dravya) del mondo una strutturazione di tipo inclusivo, quanto ai cinque elementi, allo spazio, al tempo, alla mente (l'agente conoscente) e al sé (colui che conosce). La spiegazione data dal Nyaya-Vaiseshika delle sfumature della sostanza, o essenza del mondo, comprendeva tanto il materiale e il non-materiale, quanto il sé cosciente e la mente. Anche se la concezione di dio o di creatore non aveva un ruolo rilevante in questo approccio, i seguaci del Nyaya-Vaiseshika accettavano l'idea di una forza invisibile o di un motore immobile, soprattutto per dare conto, nell'ambito del loro atomismo, del movimento primordiale degli atomi, che erano ritenuti eterni.

Se il modello del Nyaya-Vaiseshika tentava di spiegare le modalità della conoscenza relativa al mondo fisico, un altro modello, il Samkhya, comprendeva la natura dell'osservatore, ovvero dell'essere senziente, e la sua interazione con la natura immanifesta. Tale sistema postulava uno schema evolutivo nel quale i cinque elementi e i loro relativi stati sottili erano collegati all'Io, che, a sua volta, era associato tanto alla mente quanto ai cinque organi di senso e ai cinque organi d'azione; riguardo agli stati sottili, si riteneva che condividessero le caratteristiche della mente e della materia. Nei sistemi di pensiero indiani, a differenza di quello cartesiano, non c'era dicotomia fra mente e materia, tanto che il Nyaya-Vaiseshika postulava la mente come corporea e atomica. Nelle sue fasi più antiche, il sistema del Samkhya non riconosceva l'esistenza di dio, ma in seguito, nello stadio avanzato della sua esposizione, presentò una divinità alla testa del processo evolutivo. Questo sistema, inoltre, metteva in rilievo che il corpo sottile (senza i cinque elementi grossolani) si trasmetterebbe a un corpo, da una nascita all'altra, con le sue azioni (karman) buone o cattive; si può osservare, a questo proposito, che l'induismo crede nel karman, nel ciclo di nascita e morte e nella trasmigrazione dell'anima. Il Samkhya ha influenzato in grande misura il pensiero indiano nel suo insieme e, in modo particolare, le idee fondamentali dell'ayurveda, il sistema medico indiano, alla struttura delle quali ha contribuito anche il Nyaya-Vaiseshika.

Mentre il Samkhya accenna brevemente all'esercizio del distacco e all'acquisizione della conoscenza della verità ultima, liberati dalle catene dell'Io e dei desideri mondani, lo Yoga presenta la formazione pratica per superarli attraverso la meditazione e altre tecniche. Nelle Upanishad, lo Yoga ("unione" o "l'aggiogare") è anche trattato in termini di unione o fusione del sé individuale con l'Assoluto (brahman); ma lo Yoga, come sistema di pensiero e come pratica, sviluppa il districarsi del sé individuale dalle sue condizioni nocive e pone in rilievo il cammino di meditazione profonda o di perfetto raccoglimento, ovvero una visione più ampia che porta libertà dalla schiavitù.

La disciplina dello Yoga consta di otto membri (anga), o componenti, che sono i seguenti: autolimitazione (yama), osservanza (niyama), posture (asana), controllo del respiro (pranayama), ritrazione dei sensi dai loro oggetti (pratyahara), rendere salda la mente (dharana), contemplazione (dhyana), perfetto raccoglimento (samadhi). Il primo membro riguarda l'esercizio di qualità morali, vale a dire non violenza, veridicità, astensione dal furto di proprietà altrui, celibato e rinuncia al possesso. Il secondo è positivo giacché comprende il mantenimento della purezza di corpo e mente, l'essere soddisfatti dell'essenziale, la devozione a dio, lo studio di testi filosofici e così via. I sei stadi seguenti sono relativi a quel particolare esercizio del potere della mente che porta a una concentrazione mentale inattaccabile; di essi, il terzo, il quarto e il quinto hanno lo scopo di assicurare il pieno controllo della struttura fisica del corpo con una visione che favorisca il controllo della mente; il sesto e il settimo intervengono nella graduale acquisizione di un dominio diretto sulla mente che vaga ed è inconstante; l'ottavo, il perfetto raccoglimento o estasi yogica, occupa una posizione importante essendo della stessa natura di un'esperienza inesprimibile e incomunicabile. Il sistema dello Yoga postula anche l'esistenza di dio, Isvara, al di là e al di sopra di tutto, sebbene nella sua impostazione sia diverso dall'Isvara delle Upanishad.

Gli altri due importanti sistemi ortodossi, la Purvamimamsa e l'Uttaramimamsa, sono basati essenzialmente sull'autorità vedica. La prima sostiene la struttura di pensiero contenuta, in particolare, nei Brahmana, che sono testi liturgici dei Veda. La seconda, invece, espone la posizione filosofica o metafisica delle Upanishad. La parola mimamsa significa tanto 'indagine sistematica' quanto 'riflessione'. La Purvamimamsa ha una propria ontologia, come pure determinati aspetti epistemici e, inoltre, fa luce sul bisogno e sull'importanza dei rituali. Per certi versi si differenzia dall'esposizione pluralistica e realistica del Nyaya-Vaiseshika; tuttavia essa esalta il primato dei Veda e si occupa ampiamente dei metodi d'interpretazione a essi relativi, sottolineando sia il fatto che il Veda esiste di per sé ed è eterno, sia che deve essere interpretato nella sua prospettiva più ampia e non alla lettera. Due sono le scuole principali dell'esposizione della mimamsa, e precisamente quella di Prabhakara e quella di Kumarila, ciascuna con un'impostazione troppo ricca di sottigliezze per essere qui delineata anche a sommi capi. C'è però un aspetto che merita di essere menzionato in particolare, ovvero la concezione del dharma, ritenuto in pratica sinonimo di riti vedici o di procedure di natura religiosa che richiedono purezza morale da parte dell'esecutore; le due scuole mettono in evidenza che soltanto i Veda determinano il dharma, anche se divergono l'una dall'altra riguardo alla natura di questo. Il concetto di liberazione dalla schiavitù mondana non è il punto forte della Purvamimamsa, mentre lo è per l'Uttaramimamsa.

L'Uttaramimamsa, detta anche Vedanta, espone l'eternità del sé e tratta della conoscenza per il raggiungimento della liberazione; in un certo senso è la quintessenza del pensiero indù. Il Vedanta può essere classificato, in generale, in base a due categorie, una assolutistica, in cui la realtà ultima è il brahman, come si è già osservato, l'altra teistica, con un dio personale. Ci sono tre scuole, vale a dire la advaita, del non dualismo, la visishtadvaita, del non dualismo con distinzioni, e la dvaita, del dualismo, presentate, rispettivamente, da Sankara, Ramanuja e Madhva.

Sankara (8° secolo d.C.) fu un grande pensatore che emerse come fondatore di una nuova corrente filosofica; egli riconosceva il brahman come la sola realtà e considerava il mondo della diversità come un'illusione, ovvero come irreale (mithya); il sé individuale, secondo il suo pensiero, non è illusorio, bensì è il brahman stesso, e il fatto che il mondo esterno venga in essere è dovuto a ciò che viene chiamato maya. È questa una dottrina molto difficile da comprendere su basi razionali; si potrebbe dire che, mentre il brahman è ultimo e immutabile, maya non è reale o irreale, ma subisce cambiamenti che conducono alla manifestazione del mondo. Si può osservare che, secondo il punto di vista dell'Advaitavedanta, fine ultimo dell'uomo in vita è realizzare la verità assoluta, ovvero comprendere che il sé individuale è il brahman stesso; questo è possibile attraverso la vera conoscenza, secondo la quale ciò che accompagna il sé, con la sua varietà, non è reale, bensì erroneo, e la retta conoscenza consiste nel liberarsi di ciò. Si tratta di autorealizzazione perché l'identità fra sé e brahman deve essere 'compresa' e sperimentata sottoponendosi ad alcune discipline pratiche come la meditazione e il dedicarsi ad attività di ordine morale.

Quello che è stato detto sopra riguarda il Vedanta assolutistico non dualista, ma c'è poi quello che si può definire Vedanta teistico. Il teismo indù ha una lunga storia, risalente al 2° millennio a.C.; all'inizio dell'era cristiana, però, il credo teistico indù era costituito principalmente dallo shivaismo e dal vishnuismo, nonostante che la triade divina indù sia composta da Brahma (colui che crea), Vishnu (colui che preserva) e Shiva (colui che distrugge). Questi tre dei sono stati esaltati nei Purana e nell'epica, cioè nel Mahabharata e nel Ramayana, come anche in altri testi. I postulati dello shivaismo e del vishnuismo hanno molte caratteristiche in comune. Lo Shiva-siddhanta, che si sviluppò, in genere, nell'India meridionale, è pluralistico e allo stesso tempo realistico, mentre un'altra forma di shivaismo, quella del Kashmir, è monistica.

Nel processo in cui il vishnuismo e il sistema dvaita (dualistico) assunsero la forma del Vedanta, un ruolo fondamentale fu svolto da Ramanuja (11° secolo) e da Madhva (13° secolo), entrambi filosofi dell'India del Sud, come Sankara. Nel Visistadvaita-vedanta di Ramanuja, fra l'altro, dio è il principio fondamentale sia per l'anima individuale sia per il mondo fisico, essendo le tre entità diverse fra loro ma strettamente correlate. Un'anima individuale, che in dio è un complemento e non una sua trasformazione, è considerata come 'corpo' di dio; inoltre materia e anima esistono a ragione di dio: dunque dio, il mondo fisico e le anime costituiscono un intero organico. Lo stadio finale consiste nel raggiungere dio (Narayana) e godere della perfetta beatitudine nella sua dimora, attraverso le vie del karma-yoga (atti e doveri), del jnana-yoga (conoscenza), e del bhakti-yoga (meditazione e devozione rivolte a dio).

Il sistema dvaita, così come esposto da Madhva, prevede che essenziale per la liberazione sia la conoscenza, accompagnata dalla continua devozione, ovvero amore intenso, verso dio; tale comprensione porta alla grazia di dio, che è la causa suprema della salvezza. Madhva non accetta neanche l'ideale di jivanmukti ("liberazione [in vita]"), ma mette in risalto la necessità di fare il proprio dovere con senso di distacco, di studiare le scritture nonché praticare costantemente la meditazione.

Le strutture di pensiero fin qui esposte sono caratteristiche dell'induismo, ma sembra che esse fossero relegate, allora come oggi, a una minoranza che era esperta nelle scritture, invero ridottissima, mentre la vasta maggioranza delle persone ancora oggi non ne ha una visione chiara. La loro forza principale, tuttavia, risiede in una credenza implicita nell'esistenza di dio e nella sua benevolenza; è in conformità a tale credenza che sono venerate, a proprio piacimento, molte forme di dèi e dee, troppo numerose per poter essere qui esaminate in modo approfondito e particolareggiato.

Il fine della vita

Per l'induismo è centrale il concetto di quello che viene chiamato il quadruplice purushartha: dharma (valore morale, retta condotta), artha (valore economico, beni materiali), kama (desiderio e piacere) e moksa (liberazione spirituale). Tale approccio attraversa, in un modo o nell'altro, tutto il pensiero indù, dal momento che questo, nel complesso, è incentrato sull'uomo e mira alla comprensione non soltanto del fine della vita umana ma anche all'evoluzione dei mezzi per liberarsi da schiavitù di varia natura. Il raggiungimento del moksa, la definitiva emancipazione, segue la legge del karman (gli atti di un individuo in questa vita e nelle precedenti) e si cerca di spiegare in riferimento a essa, ovvero al genere di vita, il fatto che un certo essere sia felice o infelice. L'aspetto più rilevante è che si dovrebbe agire o assolvere i propri doveri in modo disinteressato, ovvero con un senso di distacco, senza desiderio per il frutto del proprio atto, per quanto meritorio esso sia.

L'induismo, come si è già detto, consiste in un modo di vita, piuttosto che in un conglomerato di strutture di pensiero, sebbene esse costituiscano un significativo fondamento. È stabilito che il dharma, o retta azione, debba scaturire da un retto pensiero che si basa su verità, non violenza, compassione, pazienza e così via. Il Manudharmasastra (VIII, 15) afferma: "Il dharma protegge coloro che lo proteggono; coloro che distruggono il dharma vengono distrutti; perciò il dharma non deve essere distrutto, in modo che noi, di conseguenza, non possiamo essere distrutti". Si mette anche in evidenza che, sebbene il perseguimento della ricchezza materiale e della felicità sia legittima aspirazione dell'uomo, queste dovrebbero essere raggiunte attraverso il cammino del dharma, in quanto un simile cammino condurrebbe, alla fine, alla libertà spirituale dell'uomo. In altre parole, la disciplina etica dovrebbe essere il caposaldo di tutte le azioni umane. Il termine dharma significa, letteralmente, "ciò che tiene saldamente insieme" e sta a indicare che è il fondamento di ogni ordine, o disciplina di vita, sia sociale sia morale; esso comprende anche l'atteggiamento religioso e l'esecuzione di riti quotidiani e stagionali che assicurino a colui che li compie, alla fine, tutto quanto è buono e giovevole. Ci sono parecchi testi, chiamati Dharmasastra, che trattano di numerosi obblighi relativi alla dinamica fra individuo e società. Inoltre essi parlano di doveri per l'individuo in quanto studente religioso (brahmacarin), capofamiglia (grhastha), anacoreta o eremita (vanaprastha) e mendicante (samnyasin), negli ultimi anni della vita.

Anche se gli obblighi variano da stadio a stadio, devono essere conformi a quello che dice l'Arthasastra (I, 3, 13) di Kautilya: "Astenersi dal provocare ingiuria alle creature viventi, dire la verità, essere onesti, liberi da malevolenza, compassionevoli e pazienti". Il dharma, nel suo complesso, è quella non violenza nel pensiero e nelle azioni che avrà come esito il bene di tutti; il suo approccio è dunque umanistico e va al di là delle barriere della religione.

Il culto e altre pratiche

Gli dèi vedici non avevano una forma e non erano venerati nel modo in cui oggi lo sono le forme delle divinità nei templi indù. La pratica rituale consisteva allora in inni di lode e nell'esecuzione di sacrifici, nell'offerta di oblazioni accompagnate da formule magiche al dio del fuoco e ad altri dèi. Gli altari sacrificali, poi, erano di forma diversa, e potevano essere quadrati e rettangolari, a forma di uccello, tartaruga, ruota o altro, in base all'intento o al desiderio di colui che sacrificava; erano fatti di mattoni e costruiti a strati, e dovevano essere conformi a quanto specificamente prescritto dai testi noti come Sulbasutra, che appartenevano al kalpa, ovvero una delle discipline ausiliarie dei Veda.

Sembra che il culto delle forme di una pletora di dèi e dee sia entrato in uso nei primi secoli dell'era cristiana; per questo aspetto, gli indù potrebbero aver tratto ispirazione dal culto del Buddha e delle immagini jaina. I Purana, o testi mitologici, avevano sviluppato un ampio repertorio mitologico relativo a molti dèi e dee, alla loro onnipotenza, al loro potere divino e alle loro imprese. Della triade divina indù, come si è già osservato, Vishnu e Shiva cominciarono a essere venerati nelle loro varie forme, mentre Brahma lo fu molto poco; altrettanto accadde per le loro consorti, e la consorte di Shiva occupava il primo posto, allora come adesso. Per lungo tempo l'adorazione degli idoli è stata una caratteristica importante della vita indù; alcuni testi in sanscrito contengono infatti particolari di ordine iconometrico e iconografico riguardanti le divinità che presiedevano il sancta sanctorum di un tempio, come pure quelle da portare in processione per il tempio e all'esterno. Anche l'architettura del tempio era sottoposta,

come lo è ancora al giorno d'oggi, a numerose ingiunzioni. I templi indù sono noti per la loro costruzione elaborata e per l'alto livello architettonico; fino a poco tempo fa, essi costituivano anche la sede in cui si promuovevano la danza, la musica e gli studi religiosi, oltre all'istruzione orale nelle scritture e nella lingua sanscrita. Un tempio e la sua divinità rappresentano, in generale, tanto il fervore religioso quanto la partecipazione della comunità del luogo, sia esso un villaggio o una città, e si può dire senza esagerazione che l'induismo è oggi strettamente connesso ai templi e al venerare con devozione idoli di forme diverse.

Nelle aree rurali, un villaggio o una città ha in genere il proprio dio o la propria dea, vishnuita o shivaita, che considera come colui o colei che protegge da calamità e pestilenze. Con grande devozione e fervore religioso si tengono feste annuali, durante le quali, in parecchi luoghi, la divinità viene portata in processione su di un carro appositamente costruito, tirato dal devoto, nel giorno stabilito in base al calendario indù. Il computo calendaristico indù, antico quanto i Veda, si è evoluto nel corso dei secoli; può essere lunare, solare, o lunisolare, con l'aggiunta di un mese, in genere, ogni tre anni; con sottili distinzioni determina i periodi fausti e infausti, individuando le parti di cattivo auspicio in una giornata (dette rahukala), i giorni propizi e la parte di essi adatta per celebrare matrimoni, entrare in una nuova casa, compiere la cerimonia di attribuzione del nome a un bambino e un gran numero di altri atti in cui gli indù, nel complesso, credono con immensa fede.

La vita degli indù è dominata anche dall'astrologia. Quella vedica era generalmente basata su ventisette naksatra (gruppi di stelle o costellazioni) e il calcolo del tempo si basava sui movimenti della Luna e del Sole. L'astrologia dei pianeti era allora sconosciuta, ma nel corso dei primi due o tre secoli dell'era cristiana entrò in India l'astrologia greca, con le sue varie forme, tra cui i dodici segni zodiacali. Gli indù la elaborarono rapidamente adattandola all'astrologia dei naksatra, ed è questa miscela che si è profondamente radicata fra gli induisti, la maggior parte dei quali non è immune da superstizioni di ogni tipo.

Feste e osservanze religiose

La vita annuale di un indù è segnata da un gran numero di feste, che sono celebrate in giorni stabiliti in base al calendario tradizionale; alcune feste si tengono, pur con caratteri diversi, in varie regioni, altre hanno valenza soltanto locale. In particolare meritano di essere ricordate la dipavali, festa delle 'luci'; la navaratri, festa delle 'nove notti'; la shivaratri, festa dedicata a Shiva nel giorno delle sue nozze; la ramanavami, festa in onore di Rama, l'eroe dell'epica intitolata Ramayana; e la krishnajanmastami, dedicata a Krishna, la divinità dell'epica intitolata Mahabharata. La festa delle luci, che dura tre giorni del mese del calendario tradizionale corrispondente a ottobre-novembre, simboleggia il trionfo della luce sulle tenebre. Tutte le case e gli edifici sono illuminati con una fila di luci (in passato con lampade a olio, oggi con lampadine elettriche) e si fanno fuochi d'artificio spettacolari. In alcune parti dell'India, i mercanti indù aprono i nuovi libri contabili e pregano affinché abbiano successo e prosperità nell'anno a venire. Dipavali è una grande festa che unisce, poiché le persone, qualunque sia la vita che conducono, ricchi e poveri, donne e bambini, vi prendono parte gioiosamente, mangiano insieme dolciumi e si scambiano auguri.

La festa di navaratri è osservata per nove giorni all'inizio dell'estate, fra aprile e maggio, oppure in autunno, fra settembre e ottobre. Durga, una delle forme più potenti della consorte di Shiva, è venerata come madre divina nell'ottavo giorno per propiziarsi la sakti, ovvero il potere divino, affinché conceda ricchezza, prosperità e conoscenza. Il settimo giorno si venera anche la dea della sapienza, Sarasvati; il decimo giorno, detto vijayadasami, è considerato il più propizio per avviare qualsiasi nuova impresa e si fanno gioiose processioni.

La shivaratri cade di solito in un giorno del mese corrispondente al periodo tra febbraio e marzo. L'osservanza di questa festa, che esalta la gloria di Shiva, consiste nel digiunare durante il giorno e adorare Shiva, nella sua forma fallica, per tutta la notte, cantando il suo nome ed elevando a lui canti devozionali e inni di lode.

La ramanavami è celebrata fra marzo e aprile, al nono giorno dall'inizio del primo mese del calendario lunare annuale. Rama è ritenuto un'incarnazione di Vishnu e considerato una divinità dalla forma umana ideale, sincero e perfetto come lo è un dio; egli viene anche associato a Hanuman, il dio dalla faccia di scimmia, che è una delle più popolari forme di divinità venerate in India.

Krishna, anch'egli ritenuto incarnazione di Vishnu, è adorato nel giorno del suo compleanno, che cade fra agosto e settembre; in genere, durante l'intera giornata si osserva il digiuno e lo si interrompe a mezzanotte, poiché si pensa che Krishna sia nato a quell'ora. Nell'occasione si ornano i templi e si intonano canti devozionali per dare risalto alla circostanza. Krishna è il precettore divino della Bhagavadgita, uno dei più importanti testi religioso-filosofici degli indù; infatti la gita-jayanti è celebrata per tutta l'India nel giorno stabilito, che cade fra dicembre e gennaio, giorno in cui si crede che Krishna abbia comunicato il suo messaggio divino; questo comprende l'adempimento del proprio dovere, la fermezza, la distinzione fra corpo e anima, l'eternità dell'anima, l'equanimità e altri fattori, tutti rivolti a una vita basata sui valori.

Una delle feste indù più popolari riguarda la venerazione di Ganeshi, dio dalla testa di elefante, che è il figlio di Shiva e della sua consorte. Il giorno fissato secondo il calendario indù per la celebrazione di questa festa cade fra agosto e settembre. Ganeshi è venerato con grande devozione per invocare il suo favore nel superare ostacoli e nell'ottenere potere e saggezza; si tratta di una festa di massa, in particolare nelle regioni occidentali e meridionali dell'India.

Ci sono anche feste per segnare il giorno in cui il Sole inizia il suo corso settentrionale o il suo corso meridionale; in questi due giorni, che sono considerati di buon auspicio, un gran numero di devoti fa bagni sacri in fiumi sacri come la Ganga (Gange) al Nord e la Kaveri al Sud. Ogni dodici anni, quando il Sole entra nel segno dell'Acquario e Giove si trova in Toro, si tiene l'enorme riunione detta Kumbha Mela.

Un aspetto notevole dell'ampio spettro delle feste indù è che le persone vi partecipano, in generale, in modo indipendente dalla loro casta e dalla loro condizione sociale, e tale partecipazione assume un grande significato sociale.

Il tantrismo

Nei primi secoli dell'era cristiana cominciò a svilupparsi un pensiero esoterico e mistico, con pratiche eccentriche, che andava sotto il nome di Tantra e aveva origini alquanto vaghe nel periodo vedico e in quello postvedico. I Tantra possedevano un loro approccio alla liberazione in vita che si distingueva dal concetto di salvazione (moksa) della religione indù ortodossa e dal nirvana degli asceti eterodossi buddhisti e jaina, sebbene il buddhismo avesse un proprio genere di pratiche tantriche. Le idee yogiche furono adottate per portare a compimento traguardi tantrici, fra cui c'era quello di ottenere poteri sovrannaturali. I seguaci del tantrismo erano liberi da qualsiasi genere di distinzione sociale e in seno al tantrismo tutti erano ammessi, al di là della casta, del credo o del sesso; non c'era dunque l'esclusività, la irregimentazione e il sistema castale di origine vedica.

Interessante è il concetto tantrico di corpo e di mente, come pure la loro integrazione con riferimento a quelli che sono chiamati chakra ("cerchi" o sedi del potere) che conduce, alla fine, a uno stato illuminato. In base a tale concetto, nel corpo c'è un potere residuo, un serpente arrotolato, chiamato kundalini, che sostiene un corpo e una mente individuali e la cui sede è detta muladhara-chakra ("ruota", ovvero sostegno di base della corda spinale/spina dorsale). Quando la kundalini viene risvegliata, per mezzo di varie pratiche, fra cui quelle yogiche, sale al secondo chakra, detto manipura, situato nella zona ombelicale; poi al terzo, anahata, la zona del cuore; al quarto, visuddha, sopra l'incavo nella gola; al quinto, aina, fra le sopracciglia; e infine al sesto, detto sahasrara, situato nella zona parietale. I seguaci del tantrismo, allora come adesso, credevano che, risvegliando la kundalini attraverso la meditazione intensa e altre pratiche, un individuo potesse rendere manifesto l'elemento in lui più potente e sperimentare la realtà o il proprio sé in uno stato di beatitudine eterna.

Il tantrismo aveva anche le sue dimensioni profane ed è una tradizione tuttora vivente, con pratiche occulte, metodi oscurantistici nell'offerta di sacrifici rivolti a soddisfare dèi e dee allo scopo di ottenere poteri soprannaturali, uso di talismani e altre cose simili. Tali pratiche eccentriche, per altro, non sono insolite anche fra l'élite della società.

La situazione attuale

Nel corso dei secoli l'India è stata il luogo d'origine di diverse religioni: induismo, buddhismo, jainismo e sikhismo; ha inoltre assorbito l'Islam e il cristianesimo, nonché alcune altre fedi. Fin dal momento dell'indipendenza indiana, nel 1947, c'è stato un nuovo modo di pensare che ha portato al concetto di secolarismo, ovvero a un uguale rispetto per tutte le religioni in una nazione democratica qual è l'India. Dunque ogni regione ha piena libertà quanto all'applicazione dei suoi principi e delle sue pratiche. La Costituzione dell'Unione Indiana sostiene il secolarismo, da un punto di vista legale, nella stessa misura in cui promuove l'atteggiamento scientifico.

Negli ultimi cinquant'anni, l'India ha ampliato i suoi programmi di sviluppo della scienza moderna e della tecnologia; possiede una rete imponente di autorevoli organismi e istituzioni di tipo scientifico e tecnologico che si occupano sia dell'istruzione, sia della ricerca e dello sviluppo. Passi significativi sono stati compiuti in campi sofisticati come l'energia atomica, la tecnologia spaziale, la biotecnologia e la tecnologia informatica, e si stima che nel paese il personale scientifico e tecnico sia molto numeroso. Qual è lo status dell'induismo in questa situazione?

Sembra che, mentre le strutture del pensiero induista, che prima abbiamo descritto, sono relegate a un settore insignificante degli indù, le pratiche a esso relative continuino ad avere un ruolo cospicuo: la venerazione di dèi e dee, l'esecuzione di sacrifici, le feste religiose e altri rituali non sono stati messi in disparte e anzi hanno seguaci a tutti i livelli della società, nell'élite religiosa e fra i laici. Il fervore religioso è aumentato e non sembra esservi nessun conflitto con un atteggiamento o approccio scientifico; scienza e religione appaiono, in India, complementari e non contraddittorie.

Già in passato la scienza tradizionale, vale a dire astronomia, matematica, medicina, botanica ed ecologia, era promossa anche in ambiente religioso senza alcun conflitto. Quando, nel 19° secolo, la scienza occidentale fu introdotta in India perlopiù dagli inglesi, gli indù non considerarono la nuova venuta come qualcosa di alieno alla propria etica, ma se ne impadronirono. All'inizio del 20° secolo emersero diversi scienziati di fama internazionale (uno di essi, Chandrasekhara Venkata Raman, vinse nel 1930 il premio Nobel per la fisica), nonostante seguissero lo stile di vita indù. Oggi, l'induismo, i suoi principi e le sue pratiche sono parte integrante dell'India plurireligiosa nella nuova atmosfera della scienza e della tecnologia moderne.

Ultimamente il nome di induismo è entrato in qualche modo nell'arena politica; alcune organizzazioni sono venute alla ribalta invocando l'obiettivo di proteggere ciò che è chiamato hindutva, ovvero il cuore dell'induismo. Bisogna osservare che hindutva sta per secolarismo e la battaglia politica a suo sostegno ha la natura di reazione alle altre forze che gli si oppongono. Tuttavia, in India, persone con convinzioni religiose diverse continuano a vivere insieme seguendo le proprie pratiche religiose. L'induismo in quanto modo di vita ha avuto una natura assimilativa, che è stata a lungo la sua forza e che conserverà il suo carattere tradizionale negli anni a venire, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello pratico.

Il Kumbha Mela

Il Kumbha Mela, la "festa del vaso", è la più imponente celebrazione induista. Esso ha la sua origine nel mito del "rimescolamento dell'oceano" (samudra manthana) a opera delle divinità fra loro contrarie, chiamate deva e asura. Le une e le altre collaborarono all'immane compito di frullare l'oceano, per ricavarne l'amrita, ovvero il liquore che rende immortali ed eternamente giovani. Come frusta fu usato l'enorme serpente Vasuki, tenuto per la coda dai deva e per la testa dagli asura. Man mano che l'operazione procedeva, apparvero sul fondo dell'oceano i quattordici gioielli del mondo, come la dea della bellezza e della fortuna Lakshmi, quella del vino Varuni, il cavallo più splendido della Terra, la luna Chandra, la vacca primordiale e perfetta Surabhi, la grande conchiglia di Vishnu Sankha, il più potente arco mai esistito Dhanus, l'elefante bianco. L'ultimo dei gioielli fu Dhanvantari, il fondatore della medicina ayurvedica, che reggeva nelle mani il kumbha, contenente l'amrita.

Per il possesso del vaso si scatenò una guerra feroce fra i deva e gli asura. Ne uscirono vincitori i deva, ma nel corso della lotta quattro gocce del prezioso liquido traboccarono e caddero in quattro località situate presso i fiumi sacri Gange, Yamuna, Sipra e Godawari. Qui sorsero le città tirtha (città "guado") di Hardwar, Allahabad-Prayaga, Ujjayini e Nasik. Per ricordare l'eccezionale e involontario dono che gli uomini ricevettero grazie a quella battaglia durata dodici anni, ognuna di queste località celebra a turno, ogni tre anni, la Festa del Vaso.

Il momento principale consiste nel bagno rituale nei fiumi sacri. L'immersione nelle acque che contengono una goccia di nettare divino consente la purificazione da tutti i peccati, e quindi una maggiore forza nell'assicurarsi una migliore rinascita, avviandosi verso la moksa, la liberazione finale del sé dal corpo.

Al rito partecipano ogni volta milioni di pellegrini e anche migliaia di sacerdoti e 'uomini di santa vita', che vivono però separati dalla massa in speciali accampamenti. Prendono regolarmente parte al Kumbha Mela anche i quattro sankaracarya, i capi supremi dei matha, le quattro scuole a base filosofica fondate da Adi Sankara, che 'codificò' l'usanza del tirtha yatra, il pellegrinaggio alle città tirtha, desumendola dalla tradizione orale e da alcuni testi di quella sacrale.

L'uomo indù e i suoi riti

Nella religione induista, l'uomo assume una posizione centrale in quanto spetta a lui superare lo iato tra la sfera dei rapporti e delle interdipendenze terrene (pravritti) e quella della contemplazione (nivritti), in un percorso di liberazione da tutti i vincoli materiali verso l'Assoluto. Il sacrificatore è il legame vivente tra le due sfere, essendo gli dèi ridotti a meri nomi che devono essere pronunciati per compiere i vari sacrifici: è il rito come tale a rivestire un'importanza primaria ed è l'uomo a compierlo.

La sua iniziazione comincia quando, bambino, egli apprende presso il suo guru (o presso il suo stesso padre) i testi della rivelazione, ciò che lo renderà capace in seguito di avere una famiglia ed esserne il capo. Potrà così sposarsi, alimentare un fuoco domestico e vivere la sua vita fatta di riti e di doveri: questo non significa semplicemente entrare in un gruppo sociale e farne ufficialmente parte, ma piuttosto contrarre una serie di vincoli che lo rendono anello di una catena non circoscritta alla società umana, ma più complessa, comprendendo gli dèi, i morti, i vivi nonché l'intero ordine che rende possibile il dispiegarsi di ogni cosa, ogni giorno e sempre. Persino il sorgere del Sole, nella visione induista del mondo, non avverrebbe se i brahmani non compissero un particolare rito propiziatorio che lo rende possibile.

L'uomo dunque può essere definito e compreso appieno proprio attraverso i numerosi riti che la religione induista gli impone di compiere e che egli apprende e pratica al fine di potersi un giorno liberare definitivamente dalla natura umana. L'attitudine dell'uomo a compiere i riti lo distingue sia dagli animali sia dagli dèi e lo colloca in una gerarchia articolata in quattro classi (varna, "colore"): i sacerdoti (brahmani) con compiti essenzialmente didattici e ritualistici; i guerrieri (ksatriya), che non solo devono combattere quando ciò si renda necessario per mantenere l'ordine, proteggere il territorio e il popolo, ma hanno il compito di studiare, far compiere sacrifici e sostenere economicamente la classe brahmanica; la gente comune (vaisya), che si occupa delle varie attività di allevamento del bestiame, agricoltura, artigianato e commercio, pur dedicandosi allo studio e ai rituali; i servi (sudra), che hanno appunto il compito di servire coloro che appartengono alle tre classi superiori, partecipando ai riti solo passivamente. I sudra possono sperare solo in una rinascita migliore; d'altra parte, la minaccia di una rinascita come sudra grava sempre sugli uomini delle classi più elevate.

A rendere ancora più complesso questo ordinamento gerarchico, le quattro caste principali si suddividono in migliaia di sottocaste (jati, "nascita"), originatesi in epoche diverse e per molteplici fattori. Il sistema castale è sacro e intoccabile, perché connesso alla dottrina del karman. È la legge del karman, cioè le azioni compiute in questa vita e nelle precedenti, a determinare l'appartenenza a una casta: tra un'esistenza e l'altra l'uomo può dimorare nei cieli come divinità o negli inferi come demone, e quando tornerà sulla Terra nascerà in una casta o nell'altra oppure in forma non umana. Un rifiuto del sistema castale equivarrebbe a una ribellione contro l'ordinamento cosmico, mentre l'adempimento dei doveri della casta assicura una rinascita migliore.

Al di sotto del sistema delle caste sono i paria, gli 'intoccabili', considerati massimamente impuri sia perché nati da una donna di casta molto più elevata rispetto a quella dell'uomo sia perché svolgono attività contaminanti, come per es. quelle connesse con la morte. Poiché possono contaminare un membro dei varna anche solo sfiorandolo con lo sguardo o con la propria ombra, sono circondati da una serie di regole severe che ne assicurano l'isolamento dalla comunità.

Nell'induismo non esiste un'interruzione netta fra umanità e animalità, al contrario vi è una grande fluidità che va dagli dèi alle forme più infime dell'essere. L'uomo nella sua attività rituale manifesta la sua specificità distinguendosi sia dagli animali (di cui si serve per compiere i riti), che non conoscono la rivelazione e non potrebbero eseguire i riti da essa prescritti, sia dagli dèi (ai quali i riti sono rivolti), che sono già felici e non devono compiere riti per ottenere la liberazione.

I sacrifici vedici si distinguono in solenni e domestici. Sono quasi completamente tramontati i sacrifici solenni, che richiedevano la presenza di vari specialisti. Tra questi uno dei più complessi, ancora in uso fino al 18° secolo, era il 'sacrificio del cavallo' (asvamedha), un rito che veniva compiuto per diventare imperatore e garantirsi la piena sovranità e prosperità. Il cavallo destinato al sacrificio veniva lasciato libero di pascolare ovunque per un anno intero, scortato da giovani che avevano il compito di proteggerlo da eventuali avversari, simbolicamente rappresentativi degli ostacoli che avrebbero potuto frapporsi al potere del re. Trascorso un anno e dopo vari rituali che si svolgevano nell'arco di alcune giornate, il cavallo veniva soffocato e la sposa principale del re giaceva con il cavallo morto simulando un coito, mentre intorno a loro uomini e donne si scambiavano proposte sessuali. La conclusione del rito prevedeva infine lo smembramento del cavallo, cui si accompagnavano altri sacrifici animali.

I riti domestici sono ancora oggi in uso, soprattutto quelli dedicati alla Grande Dea e a Shiva. Tra i principali è la puja, il culto riservato a un idolo, fatto oggetto di cure e premure che vanno dal lavarlo, ungerlo e vestirlo, al nutrirlo con offerte vegetali di fiori, frutta e riso, al portarlo in processione nelle occasioni festive. Vi sono poi i cosiddetti cinque grandi sacrifici quotidiani, che scandiscono la giornata dall'alba al tramonto: l'oblazione nel fuoco di cibo, rivolta a tutti gli dèi; il sacrificio compiuto gettando a terra del cibo per nutrire gli spiriti, fatto a beneficio di tutti gli esseri; l'offerta di ospitalità soprattutto agli asceti, fatta a beneficio di tutti gli uomini; il rito di offrire acqua agli antenati defunti, a beneficio dei padri; lo studio e la recitazione di testi vedici e altre preghiere, compiuti per il brahman. È soprattutto il padre di famiglia che deve ottemperare a queste regole.

Fondamentali sono i riti di purificazione e di espiazione, rivolti ad allontanare ogni pericolo di contaminazione da impurità e a eliminare, o almeno ridurre, le conseguenze di colpe proprie o altrui. Comprendono abluzioni, necessarie prima di compiere ogni atto cultuale, digiuni e altre forme di automortificazione, e varie cerimonie di penitenza, che possono essere decise per scelta personale oppure, nei casi di maggiore gravità, vengono imposte da un collegio di sacerdoti.

Grande importanza hanno i riti di passaggio (samskara) da una fase all'altra della vita, che devono essere compiuti in determinati giorni e in particolari condizioni di purezza. Numerosi sono i samskara connessi al concepimento e alla nascita, che vanno da quello per riuscire a concepire un figlio, a quello, successivo, per fare in modo che il figlio sia maschio, a quello della scriminatura dei capelli della madre, compiuto tra il quarto e l'ottavo mese di gravidanza allo scopo di tenere lontani gli influssi negativi. Dopo la nascita ci sono i riti dell'infanzia, che sostanzialmente sono l'imposizione del nome, tra il decimo e il dodicesimo giorno, e il primo taglio di capelli a tre anni. I maschi delle tre caste superiori devono sottoporsi, tra gli otto e i dodici anni di età, al rito dell'iniziazione, con l'imposizione del cordone sacrificale che conserveranno per tutta la vita. Lo studio dei Veda, la prima rasatura della barba, il ritorno a casa una volta conclusi gli studi, il matrimonio, i funerali sono tutti eventi contrassegnati da riti più o meno complessi ed elaborati che tendono a sottolineare il passaggio da una fase a un'altra della vita, con un simbolismo specifico connesso all'evento. Per es., un bagno rituale attendeva il giovane che rientrava a casa alla fine del suo studentato, a simboleggiare sia la necessità di purificarsi da tutto ciò che durante il periodo di lontananza poteva averlo distratto e contaminato, oltre che arricchito, sia l'inizio di una nuova fase della vita nella quale egli si sarebbe avvicinato a un principio universale; l'accensione del fuoco domestico, che accompagna il rito del matrimonio, simboleggia invece l'istituzione di un nuovo nucleo familiare; il samskara funebre, l'antyesti, prevede che la persona defunta, lavata, vestita e adorna di fiori, venga condotta al crematorio, tra i canti e le preghiere delle persone care, e posta sulla pira, e che il figlio maschio maggiore o il parente più stretto appicchi il fuoco.

I sacerdoti

Estremamente variegato è il panorama dei sacerdoti, o più genericamente di coloro che sono preposti a conservare e a trasmettere la conoscenza sacra dei Veda. Ne esistono varie categorie ma al di sopra di tutti sta il brahmano, il sacerdote per eccellenza, con la particolare funzione di controllo sull'andamento delle cerimonie nel loro insieme; in materia dottrinaria, rituale e religiosa, egli in genere si pronuncia e agisce senza alcuna limitazione di competenza, avendo anche il compito di rimediare a eventuali errori degli altri sacerdoti. Altra figura sacerdotale molto importante è il purohita, il preposto, che ha il compito di officiare i riti, ma è al tempo stesso una sorta di cappellano familiare, non solo quindi esperto dei rituali, ma anche consigliere dei capi. I naga baba vivono in ascesi e il loro nome (naga significa "serpente") è riferito al fatto che simbolicamente cambiano pelle come i serpenti nel passaggio da una vita normale a quella dell'eremita; i sannyasin si dedicano alla vita contemplativa, alieni da qualsiasi valore materiale o mondano, nonché da interessi personali; si chiamano sadhu gli asceti che rinunciano a una fissa dimora e vivono viaggiando da un luogo all'altro e mendicando; alcuni asceti si votano al servizio dell'umanità e prendono il titolo di swami; infine i tapasin (da tapas, "ardore, calore"), dotati di grande capacità di autocontrollo e di potere su sé stessi, si dedicano a pratiche ascetiche estremamente rigide e austere.

I grandi maestri dell'induismo moderno

L'induismo recente, almeno a livello delle masse, appare soggetto a un processo di trasformazione lento, per nulla paragonabile alla profonda evoluzione socioeconomica che interessa il mondo indiano. Antiche credenze, remote pratiche rituali, superstizioni e culti ancestrali di divinità locali non hanno perso il loro significato primitivo. La maggior parte degli indù non si riconosce in alcune delle tante sette che costellano l'induismo moderno, ma spesso sono queste correnti e questi indirizzi particolari a dare un contributo rimarchevole alla sopravvivenza delle istanze più remote e della più genuina tradizione mistica. L'induismo continua a essere più un'ortoprassi che un'ortodossia, e gli insegnamenti del passato trovano la via ideale per la loro continuità nel perpetuarsi di antichi riti e di abitudini quotidiane. Il contrasto tra nuovo e antico è tuttavia innegabile e la ricerca di un equilibrio è difficile, perché è arduo superare lo sfasamento temporale che separa la cultura indiana, autoctona, da quella occidentale, importata, così diversamente ricche di valori e così contrastanti per differenze essenziali negli schemi interpretativi dell'esperienza. Confronti significativi tra di esse non sono possibili se non in aree molto ristrette o all'interno di grandiose sintesi creative. Sono tali sintesi a costituire il fenomeno di maggior rilievo nel processo di acculturazione. In questo sforzo di ricerca di una connotazione unitaria ed equilibratrice i casi più significativi per la grande eco che hanno suscitato sono stati quelli del Mahatma Gandhi, di Shri Aurobindo Gosh e di Jiddu Krishnamurti.

Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948) non si considerò mai un riformatore religioso e si schermì sempre dai tentativi che gli altri facevano di definirlo un guru o di fargli esplicitare il suo preciso pensiero religioso, ma nella sua lotta non violenta per l'indipendenza dell'India e nella sua attività politica in genere era indubbiamente presente una religiosità universale, fatta di sacrificio di sé, di rinunce, di digiuni e anche di ferma opposizione al sistema delle caste. Gandhi era inoltre persuaso che tutti potessero meritare la salvezza, indipendentemente dalla religione di appartenenza. La sua era una riscoperta creativa e personale della tradizione che lo spingeva a un forte impegno etico-politico, dove gli antichi valori della non violenza e dell'esaltazione della verità, prima appannaggio esclusivo degli asceti, venivano proposti come strumenti di lotta politica all'intera nazione indiana. Il suo atteggiamento scatenò le avversioni di coloro che abbracciavano la tradizione più ortodossa e Gandhi rimase vittima di un attentato a opera di un brahmano fanatico.

La riscoperta della cultura antica si delinea più netta nel caso del filosofo e mistico Aurobindo Gosh (1872-1950). Figlio di una buona famiglia di Calcutta, Aurobindo Gosh studiò a Cambridge, preparandosi a diventare funzionario dell'amministrazione britannica, ma si dedicò presto all'attività politica e venne arrestato. In prigione ebbe una crisi mistica e dopo essere stato liberato, fondò un asram, una scuola di yoga e di filosofia indù che ebbe risonanza in tutta l'India e anche in Europa, dove numerosi furono gli adepti. Nell'ottica di un Universo non ancora pienamente realizzato, all'interno dell'asram preparava i suoi seguaci al raggiungimento di un cosiddetto quarto stadio, quello del 'sovraumano' (i precedenti tre essendo la 'materia primordiale', la 'vita' e lo 'stato mentale' tipico dell'uomo). L'insegnamento di Aurobindo, sostenitore di un induismo ecumenico deputato a realizzare la sintesi tra i valori spirituali della cultura indiana e i principi più vitali del mondo occidentale, si distacca dalla tradizione, rovesciando completamente la prospettiva della visione indù: il mondo, nel suo continuo divenire, non cessa mai di migliorare fino ad ascendere all'essere supremo, mentre secondo i testi dell'induismo il mondo non fa che degradarsi fino a scomparire. Gli induisti ortodossi lo hanno considerato un eretico.

Jiddu Krishnamurti (1895-1986) ha propugnato un'intima e determinante ricerca della verità, attingibile nella sua pienezza solo a prezzo di una disciplina costante e di un impegno sincero per eliminare quanto vi è di inessenziale nella coscienza dell'uomo: soltanto in sé stesso l'uomo è in grado di trovare il rimedio al dolore che nasce dall'egoismo, dall'avidità, dalla corruzione, dall'ipocrisia.

L'induismo fuori dall'India

L'interesse dell'Occidente nei confronti dell'India e delle sue tradizioni culturali ebbe un forte incremento quando, tra il 1785 e i primi anni dell'Ottocento, apparvero in Europa le prime traduzioni dei testi sacri e filosofici indiani, di cui si era sentito parlare quasi esclusivamente in termini di mito e leggenda. I testi fondamentali dell'induismo furono tradotti, per iniziativa di W. Jones e di Ch. Wilkins, a cura della Società Asiatica, fondata dagli inglesi a Calcutta, nel 1784, allo scopo di avvicinare i loro amministratori alla mentalità e alle tradizioni degli indigeni. Apparvero in tal modo la Bhagavat-Gita (1785), i Shakuntala (1789), il Gita-Govinda (1792), Le Leggi di Manu (1794) ecc. La Francia fornì la prima traduzione dei testi vedici Upanishad (quattro nel 1786 e cinquanta nel 1802) a opera di A.H. Anquetil-Duperron, un pioniere degli studi orientali. Nel 1814, presso il Collegio di Francia, venne creata la prima cattedra di sanscrito in Europa.

L'entusiasmo fu immediato, soprattutto tra i giovani, e il movimento romantico, prima in Germania e poi in Francia, prese a rifarsi costantemente all'India, riscoprendo nella sua cultura e nella sua religione idee e immagini di riferimento. I filosofi tedeschi dell'inizio del 19° secolo (J.G. Herder, G.W.F. Hegel e soprattutto A. Schopenhauer, che dopo aver letto la traduzione latina di cinquanta Upanishad si convertì alla metafisica del Vedanta) furono fra i primi ispiratori della conoscenza e dell'apprezzamento del pensiero induista. L'idea dell'India come patria della tolleranza e della saggezza è alla base di quel movimento di pensiero, originatosi appunto con Schopenhauer, che ha spinto numerosi occidentali verso il 'mistico Oriente'. Tuttavia, a imprimere a questo movimento la forza necessaria perché l'induismo potesse radicarsi in Occidente, non furono i tedeschi ma piuttosto gli anglosassoni. Gli scrittori americani, per es. R.W. Emerson nel suo Diario (1845), e in genere tutti i trascendentalisti, si rifecero in larga misura alle letture indiane e all'esperienza dei numerosi inglesi che, nel contatto con gli indù nella stessa India, erano stati costretti a rivedere le proprie posizioni e il proprio pensiero. Tra questi, Sir E. Arnold, traduttore geniale e scrittore ispirato, occupa un posto di rilievo. Il suo libro The light of Asia (1879) ebbe tale influenza e risonanza che, dopo la sua pubblicazione, concetti e parole come 'trasmigrazione', 'nirvana' o 'saggezza primitiva' cominciarono a essere accolti e a destare curiosità e interesse anche negli ambienti più chiusi. In questo percorso di apertura e conoscenza, svolse un ruolo importante la Società Teosofica, la cui attività fu fondamentale soprattutto in India e in Inghilterra.

Grande rilievo per la conoscenza dell'induismo in Occidente ebbe il suo riconoscimento come religione universale al Congresso mondiale delle religioni, riunito nel 1893 in occasione dell'Esposizione mondiale di Chicago, ove l'induismo fu rappresentato dal pensatore, organizzatore e propagandista religioso indiano Vivekananda, il cui vero nome era Narendra Nath Datta. Vivekananda (1863-1902) era il fondatore dell'Ordine di Ramakrishna, un'associazione di carattere monastico, alla quale tuttavia chiunque aveva la possibilità di essere ammesso in ritiro per ascoltare l'insegnamento dei sacerdoti. L'ordine fece costruire numerosi monasteri in varie zone dell'India nonché un'università vicino a Calcutta e una Missione permanente, i cui esponenti si diffusero in tutto il mondo occidentale trovando un cospicuo seguito.

Dopo Vivekananda, la diffusione dell'induismo in Occidente diventò una tendenza costante, seppure limitata a un numero sempre ristretto di persone. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, grazie all'opera di pensatori e scrittori come R. Rolland o R. Guénon, l'interesse per l'India fu rilanciato nuovamente, con conversioni numerose e la fondazione di nuovi centri e missioni per incrementare la ricerca, la conoscenza e la diffusione dell'induismo.

Nel mondo contemporaneo la diffusione dell'induismo appare collegata soprattutto ad alcuni nuovi movimenti. Tra i più vivaci è quello degli Hare Krishna, il cui fondamento è una rinnovata 'coscienza di Krishna', così come era stata propugnata dal bengalese Svami Bhaktisiddhanta (morto nel 1936), con la speranza di diffonderla successivamente in Europa e nell'America Settentrionale. Fu Abhaya Charana De (1896-1977), chiamato dai discepoli Bhaktivedanta Svami Prabhupada, a realizzare questo progetto. Pronunciati i voti monastici nel 1956, dopo un'intensa attività editoriale volta a diffondere il culto di Krishna, Bhaktivedanta si trasferì a New York nel 1966 e qui fondò la Società internazionale per la coscienza di Krishna. Il movimento ha avuto grande seguito e si è esteso gradualmente in tutti gli Stati Uniti e poi in Europa. Suo punto centrale è la ricerca dell'estasi (realizzazione della coscienza divina), attuata attraverso la ripetizione continua di una formula di invocazione: "Hare Krishna! Hare Krishna!" ("O Signore Krishna! O Signore Krishna!"), accompagnata da musica di tamburo, campanelli, flauto, e danze. Gli adepti, sia indiani sia occidentali, portano i capelli completamente rasati, si vestono con abiti color zafferano e percorrono le strade delle città danzando e cantando ossessivamente questa formula.

Altra corrente che ha avuto una diffusione rilevante è quella di Meditazione trascendentale, fondata da Mahesh Prasad Varma, detto Maharishi, già studente di fisica ad Allahabad, poi fattosi monaco. Dal 1957 Mahesh cominciò a tenere conferenze pubbliche in India e nei paesi dell'Asia sudorientale, per passare poi negli Stati Uniti, dove incontrò un successo crescente. Il suo pensiero è alla base di un movimento di 'rigenerazione spirituale', fondato su una lettura semplificata dei Veda.

Seguito in ogni parte del mondo ha ottenuto poi il movimento capeggiato da Satyanarayna Raju, un asceta proclamatosi nel 1940 reincarnazione di Sai Baba, venerato asceta di Sirdi, che ha assunto il nome di Satya Sai Baba. Il movimento si basa sul culto della sua personalità, alla quale sono attribuiti poteri prodigiosi (ubiquità, onniscienza, capacità terapeutiche). Il valore soteriologico è il punto di partenza: il guru, incarnazione del divino, è il salvatore, la felicità del devoto sta nell'abbandono totale a lui.

Riguardo alla diffusione dell'induismo in Occidente bisogna in ogni caso tenere presente che si tratta di un fenomeno comunque limitato. Il 99% degli induisti vive nei paesi dell'Asia meridionale, nella grandissima maggioranza in India, ove essi rappresentano più del 75% degli abitanti.

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