Industria e artigianato

Storia di Venezia (1996)

Industria e artigianato

Salvatore Ciriacono

Venezia come economia-mondo. Ambiente lagunare e paesaggi sociali

Si può affermare con sufficiente sicurezza, sulla base della letteratura esistente, che il XV e la prima metà del XVI secolo rappresentarono per Venezia il periodo in cui le manifatture della città raggiunsero l'importanza che il commercio aveva tradizionalmente svolto nell'affermazione della potenza veneziana (1). Si potrebbe ancora concludere che il sistema industriale cittadino, lungi dal costituire un ripiego alle attività commerciali che conoscevano nuove difficoltà - si pensi alla presenza ottomana nel Mediterraneo orientale -, veniva ad aggiungere un ulteriore elemento di forza a un'economia che conosceva fra il Quattro e il Cinquecento il suo apogeo. Vorremmo in tal senso seguire i postulati della economia-mondo teorizzata da Immanuel Wallerstein, piuttosto che le conclusioni che si potrebbe essere indotti a dedurre dalla lettura di alcune pagine di Fernand Braudel (2). Nel senso che se è vero, come è vero, che una economia-mondo si impone nel consesso internazionale per il fatto che controlla le produzioni manifatturiere più sofisticate, vale a dire quelle a maggior valore aggiunto e quelle per le quali il know-how più avanzato risulta la carta vincente nella conquista dei mercati internazionali, ebbene Venezia riuscì indubbiamente a svolgere tale funzione in questo periodo. Ovviamente, a partire dal modello si dovranno tenere presenti le condizioni storiche in cui le varie produzioni si svolgevano, tanto che è necessario concludere, con Robert A. Dodgshon, che si era di fronte periodicamente a delle economie-mondo dalle caratteristiche notevolmente diverse, nel momento in cui l'una succedeva all'altra (3).

Per cui le caratteristiche della supremazia veneziana nel Quattro e Cinquecento furono qualcosa di diverso rispetto a quelle espresse dai Paesi Bassi nel corso del XVII secolo. Considerazione di per sé ovvia, ma che è altrettanto necessario sottolineare perché è quella che più si deve opporre alle osservazioni svolte da quel pur fine studioso di storia olandese che è Jonathan Israel. Il quale appunto metteva in dubbio che si potesse parlare di una economia-mondo autenticamente moderna per quanto riguarda Venezia, al centro del famoso quadrilatero braudeliano (Milano, Genova, Firenze, Venezia) (4). È infatti fin troppo facile osservare che l'apertura di nuove rotte commerciali, lo sviluppo di nuovi processi di fabbricazione succedutisi tra Cinque e Seicento e l'approvvigionamento di materie prime provenienti da lontani continenti (come le Americhe e l'Asia) avrebbero permesso ai Paesi Bassi di porre su basi diverse la propria produzione industriale. Ma ciò non nega affatto che se guardiamo ad altri paesi europei nel corso del Quattrocento, se anche ne sottolineiamo il peso esercitato in alcuni settori economici (ad esempio l'industria laniera fiamminga o il settore metallurgico tedesco), Venezia riuscì in questa Golden Age quattro-cinquecentesca a imporsi in quasi tutti i settori chiave delle manifatture tardomedievali.

L'affermazione del sistema industriale andò ancora di pari passo, costituendone il coronamento, con gli indubbi progressi realizzati nel sistema dei trasporti, dell'informazione (5), dell'approvvigionamento idrico-alimentare, del sistema politico-militare, in grado quest'ultimo di difendere la Repubblica dall'esterno come di assicurare un'accettabile pace sociale all'interno: in altri termini i presupposti necessari allo svolgimento di una politica di grande respiro.

Lo sviluppo manifatturiero quattrocentesco, che sicuramente rappresentò il culmine di un processo che era incominciato molto prima, pone ancora un problema interpretativo generale, rispetto a una periodizzazione che deve affrontare la questione della grave crisi susseguente alla pestilenza del 1348, com'è noto di carattere europeo. Solo che lo stato veneziano conobbe soltanto in parte le gravi ripercussioni di carattere demografico ed economico che caratterizzarono invece altre regioni europee, non ultime quelle francesi e tedesche, con il fenomeno di interi villaggi e terre abbandonate (Wiistungen). Ed è a partire dalla rarefazione della popolazione nelle campagne e dalla caduta della produzione e della domanda di prodotti agricoli che si è voluto ipotizzare un conseguente sviluppo manifatturiero nei centri urbani europei. In tal senso la produzione di beni di lusso, che si affermò nelle città italiane nel corso del XV secolo, avrebbe rappresentato un ripiego alla caduta di un mercato di massa (se si può definirlo così) che avrebbe potuto dispiegarsi nel periodo che precedette la grande peste. Sarebbe stato quindi il setificio, settore tradizionale delle industrie di lusso, che in un'ottica europea si sarebbe espanso più del lanificio (6).

Ora, a parte il fatto che il settore laniero continuò a Venezia nel corso del Quattrocento una crescita che si era già manifestata sul finire del XIII secolo, è l'originalità del caso veneziano (di una città cioè aperta ai commerci e che lentamente estendeva il suo dominio alla Terraferma) che non permette di accettare pedissequamente tali conclusioni. È difficile poi spiegare che fosse solo un travaso demografico dalla campagna alla città (Venezia dopo aver conosciuto una brusca, quanto difficilmente calcolabile, caduta della popolazione a seguito della pestilenza del 1348, sarebbe risalita nel 1509 a quasi 100.000 abitanti, circa cioè a quanti ne aveva contati prima della peste (7)) a spingere il processo di industrializzazione verso l'alto (8). Ci sembra invece molto più convincente concludere che la maturità del sistema economico induceva ormai alla produzione diretta del maggior numero di beni, fossero essi di lusso o di massa, superando la funzione tradizionale mercantile, per quanto essa avesse assicurato indubbiamente a Venezia un netto vantaggio nello scambio di merci e prodotti all'interno del Mediterraneo e sulle sponde dell'Atlantico.

Questo dispiegamento delle manifatture veneziane aveva seguito peraltro nei secoli precedenti delle vie tortuose e contraddittorie, che da un lato riconducevano allo scontro di interessi che aveva caratterizzato la società veneziana nel XIII e XIV secolo, dall'altro trovavano le ragioni esplicative in un ambiente geografico particolare, qual era quello lagunare, favorito sin dalle origini più dall'avventura commerciale che da quella manifatturiera. Sul primo punto gli storici del Medioevo hanno messo in rilievo le condizioni di inferiorità e di diretto antagonismo a cui dovettero sottostare gli artigiani rispetto ai grandi mercanti (mercatores contra artifices), e questo non solo a Venezia, ma anche in altre città tardomedievali, come sta a confermare il caso fiorentino (9). Vero è che, ad esempio con la legge del 1271, si venne a favorire sotto il profilo fiscale non solo il commercio di transito, ma anche la produzione artigianale. Ma è altrettanto vero che restò dominante in quel periodo (durante lo stesso dogado di Lorenzo Tiepolo, che sembrò preludere a una maggiore apertura nei confronti dell'artigianato) la preoccupazione di perdere la tradizionale funzione di centro di intermediazione commerciale. Ciò nonostante è proprio sul finire del XIII secolo, a partire dal 1278, che la produzione manifatturiera veniva a trovare una sua formalizzazione giuridica attraverso la trascrizione in un unico registro dei capitolari delle Arti sino ad allora operanti (10). Questo atto giuridico esprimeva dunque eloquentemente la crescita di un settore che si era manifestata fra l'altro, nei decenni precedenti, con la redazione di più di una cinquantina di statuti d'Arte (11). In effetti gli artigiani costituivano in questo scorcio di secolo "la novità politica sconvolgente la geografia sociale veneziana" (12), conclusione che dice molto sulla marcia in avanti delle manifatture veneziane e dell'obbligato riconoscimento giuridico che avveniva attraverso gli statuti (13). È tuttavia altrettanto vero che, nonostante il velato appoggio goduto dall'industria laniera nella seconda metà del XIII secolo, essa non riuscirà ad affermarsi che nel corso del secolo successivo. E questa circostanza costituisce di per sé un problema interpretativo, perché era proprio il settore laniero la struttura portante che misurava la forza delle manifatture e il grado di sviluppo di molte economie urbane di questi secoli, dalle Fiandre a Firenze, dall'Inghilterra alla Lombardia.

Giustamente sono stati evidenziati i limiti di natura geografica e ambientale che condizionarono l'espansione del lanificio veneziano, costringendo ad esempio i produttori a ricorrere alle gualchiere di Treviso e di Padova, essendo necessario l'uso dell'acqua dolce dei fiumi della Terraferma per questa operazione fondamentale (14). La dipendenza dalla Terraferma, per questa ma anche per altre fasi della produzione manifatturiera in generale, su cui ritorneremo, spiega fra l'altro perché il pieno controllo dell'entroterra divenisse una necessità storica, se l'emporio commerciale voleva divenire davvero anche una città industriale. Il fatto che l'industria serica si affermasse di più di quella laniera nel corso del XIV secolo - favorita dall'immigrazione di artigiani lucchesi (15) - è certo spiegabile con le minori difficoltà che essa poneva, nella preparazione del tessuto, rispetto al lanificio. Ma al contempo questa tipica industria di lusso ci rimanda al problema dello sviluppo di questo fondamentale settore economico nella storia veneziana (ma anche italiana, e sicuramente dei grandi centri urbani). Perché non fu il solo setificio a imporsi nei mercati internazionali, ma anche tutta una serie di produzioni - dal vetro al cristallo, dalla cera allo zucchero, dal pellame alle calzature, dalla gioielleria alla tipografia - che trovarono a Venezia un habitat favorevole. Quei limiti ambientali di cui si diceva (nell'utilizzazione dell'acqua dolce ma anche nell'impiego di determinate materie prime, per alcuni processi manifatturieri impossibili da svolgersi nel delicato equilibrio ecologico veneziano) venivano invece a cadere nel caso di quelle industrie di lusso il cui impatto ambientale era minore. Occorrerà inoltre tenere presenti, nell'estrinsecazione di uno spiccato gusto artistico, i rapporti che Venezia intratteneva sin dalle origini con l'Oriente, approfittando della grande tradizione (tessile ad esempio) bizantina, araba, cinese e specialmente persiana.

Ben presto tuttavia Venezia potrà ricorrere ai suoi artisti più famosi, come Jacopo Bellini sul finire del Quattrocento, per stabilire un proficuo rapporto tra pittura e setificio, il Bellini fornendo i disegni ai setaioli veneziani (16).

È un dato di fatto comunque che proprio per il lanificio si tentasse di introdurre nel 1272 una divisione (più tardi rientrata) tra la filatura, che sarebbe rimasta in città, e la tessitura, che si sarebbe spostata a Torcello (17). Ma se questa misura fu presa probabilmente per una organizzazione più efficace delle fasi di distribuzione, senza escludere peraltro considerazioni di carattere igienico, furono senz'altro queste ultime a indurre il governo veneziano a confinare, nel 1271, la lavorazione delle pelli alla Giudecca. Mentre una scontata misura di sicurezza si rivelò quella di limitare nel 1278 la lavorazione del vetro nell'isola di Murano, ad evitare pericolosi incendi nel centro della città (18). Sul finire del XIII secolo, in un periodo cioè in cui la vocazione manifatturiera del comune veneciarum si stagliava abbastanza nettamente (19), quest'ultimo si rivelava perciò cosciente della necessità di introdurre alcune misure ambientali, al fine di assicurare un ordinato sviluppo delle attività artigianali (20).

Verso un'economia manifatturiera

La pace di Torino, a conclusione della guerra di Chioggia (1378-1381), costituì un momento di svolta nella politica manifatturiera e in quella della manodopera impiegata. I vuoti demografici creati dalla pestilenza del 1348 (ma anche da quelle che periodicamente si ripresentarono nel 1382, 1397, 1400 e nel corso del XV secolo (21)) spingevano verso una maggiore apertura nei confronti delle maestranze straniere. Ne sono una riprova i privilegi di cittadinanza concessi fra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, che raggiunsero i picchi maggiori proprio in quel torno di tempo (22). È indubbio che nell'arte della lana i Fiorentini si trovavano in questo periodo in netto vantaggio rispetto ai Veneziani, sia nella preparazione del tessuto che nella penetrazione nei mercati internazionali. Per quanto, in Levante, dovessero pur fare i conti con la produzione dell'Italia settentrionale (specialmente lombarda, ma anche veneziana, se venivano ivi smerciati panni veneziani con la cimosa "alla fiorentina" oppure panni tessuti a Venezia "al modo di Firenze") (23). I Fiorentini esportavano pure direttamente a Venezia, costituendo il porto realtino un centro di redistribuzione dei panni toscani in direzione sia delle città veneto-lombarde che del Levante stesso (24). Nessuna meraviglia che i provveditori di comun (ai quali venne delegata la sorveglianza sulla produzione laniera, esercitata in prima istanza dai consoli dei mercanti) autorizzassero nel 1383 l'arrivo di quattro tessitori-imprenditori fiorentini, se ciò permetteva di migliorare e incrementare la produzione veneziana. In effetti, un secolo più tardi la situazione si sarebbe rovesciata, l'industria laniera veneziana essendo migliorata a tal punto che si sarebbe visto Firenze esportare nei mercati internazionali i suoi panni lavorati "alla veneziana" (25).

Questa politica di accoglienza nei confronti degli artigiani, che fossero in grado di introdurre conoscenze tecnologiche preziose, si estendeva, sul finire del Trecento, ai lanaioli tedeschi (la presenza di maestranze tedesche in diversi settori manifatturieri è stata individuata da tempo). Esistevano non a caso nella Germania di fine Trecento-inizi Quattrocento delle associazioni (Gesellschaften, avvicinabili ai compagnonnages francesi) che raccoglievano apprendisti e lavoranti vaganti, alla ricerca di occupazione e nuove esperienze (26).

Né tale tendenza, all'invito e all'assorbimento di maestranze qualificate, portatrici di nuove conoscenze nei settori chiave dell'economia, era limitata alla sola Venezia. La stessa Anversa, che nel corso del XVI secolo contenderà alla città lagunare il ruolo di economia-mondo, metteva in campo sin dal Quattrocento la stessa strategia di attirare all'interno delle proprie mura operai stranieri che introducessero fabbricazioni altrimenti sconosciute. E questa politica la si vedeva applicata proprio nei confronti delle "colonie" dell'Europa meridionale, nell'ambito delle quali gli Italiani predominavano e sicuramente gli operai-imprenditori veneziani non risultavano assenti. Sebbene proprio ad Anversa, nei primi decenni del Cinquecento, allorquando le manifatture veneziane si erano affermate in gran parte dei mercati internazionali, la colonia veneziana risultava minoritaria non solo rispetto ai Fiorentini, ma ancor di più rispetto ai Genovesi, Lucchesi e Milanesi (27). Per Jan Denucé i Veneziani non sarebbero stati in grado neppure di formarvi una "nazione", a differenza degli altri gruppi di Italiani. Lo stesso "Balbani's suikerhuis" (lo zuccherificio dei Balbani) vi sarebbe stato impiantato da questa famiglia lucchese (28).

Ma la debolezza dei Veneziani all'estero illustra di riflesso la capacità magnetica della metropoli mediterranea nel raccogliere sulle sue isole un variegato mondo cosmopolita, che vi introduceva le sue conoscenze tecniche, rapidamente assimilate e superate, oltre che un gusto artistico dalle molteplici sfaccettature, che non poteva non risultare essenziale allo sviluppo della stessa civiltà veneziana. Come osservava Gino Luzzatto, non vi era città dell'Italia settentrionale, come della Toscana, Umbria e Marche che non fosse "rappresentata dai propri tecnici [...> . Talvolta si trattava di artisti, soprattutto architetti e scultori [...> ma più spesso si trattava di artigiani, che si stabilivano definitivamente a Venezia, vi aprivano bottega e davano spesso vita a dinastie di lavoratori specializzati in rami preziosi delle industrie specialmente artistiche" (29).

Sotto il profilo della tecnologia più avanzata, la Repubblica non si dimostrava meno ricettiva. Giulio Mandich metteva in evidenza come il decreto del 1474 formalizzasse sotto il profilo legislativo, probabilmente per la prima volta in tutta Europa, quelli che erano i diritti spettanti a coloro che avessero presentato dei nuovi procedimenti tecnici e ottenuto il privilegio di difenderne l'esclusiva (30). Il numero di tali brevetti e la provenienza geografica degli inventori non lasciano dubbi sull'apertura e sulla capacità della Repubblica di riciclare conoscenze tecnologiche e adattarle al proprio milieu geografico e ai propri fini produttivi. Nessuna meraviglia quindi che le prime privative di cui siamo a conoscenza concernessero i problemi energetici di una città posta tra terra e acqua e che cercava con pertinacia di trovare un equilibrio tra le attività svolte nel centro storico e quelle che si potevano svolgere solo nella immediata Terraferma. Come interpretare il primo brevetto di cui siamo a conoscenza, quello concesso a un francese, nel 1444, per un mulino con il quale si sarebbe potuto macinare il grano senz'acqua? O ancora quello con cui ci si proponeva di risparmiare metà del combustibile solitamente impiegato per la tintoria (il concessionario, nel 1460, era ancora uno "straniero", Guilelmo Lombardus)? (31). Certo le difficoltà di riprendersi da un ciclo economico depresso, qual era quello susseguente alla grande crisi di metà Trecento, spingevano a trarre vantaggio da qualsiasi occasione e da tutte le energie disponibili sul mercato. Ma di per sé la città era in grado di accrescersi laddove altre non lo furono.

Artigianato autoctono e forestiero. Il ruolo dei Tedeschi

Fra le "nazioni", nel senso medievale del termine, vale a dire gruppi di cittadini-mercanti-artigiani presenti a Venezia, quella tedesca fu quasi sicuramente la più numerosa e quella più in grado di incidere in misura rilevante sulle attività artigianali della città (32). Non a caso il XV secolo è stato indicato come il periodo d'oro del commercio tedesco a Venezia, simboleggiato dallo storico edificio del fondaco dei Tedeschi. Ma prima ancora della sua costruzione, avvenuta attorno al 1225, le relazioni con il mondo finanziario e commerciale dovettero essere nient'affatto irrilevanti se un Bernardo Teutonicus è stato indicato come uno dei più potenti uomini d'affari di fine Duecento-inizi Trecento (33). Questi aspetti del resto, quelli che concernono i rapporti commerciali con l'Europa del Nord, si rivelano determinanti per la migrazione di operai qualificati e il transfert di tecnologie, gli artigiani seguendo solitamente le tracce dei mercanti (34). Attraverso ancora l'attività del fondaco siamo informati sulla natura delle merci e sul grado di specializzazione raggiunta dalla produzione artigianale sui due versanti. Il classico lavoro di Henry Simonsfeld ha indicato da tempo la dipendenza che il mercato tedesco tributava a Venezia, nel corso del XV e XVI secolo, per quanto concerneva l'importazione di materie prime e generi alimentari, ma anche di prodotti finiti. Fra i venetianische Fabrikate si enumeravano stoffe di seta e di velluto, filati d'oro, vetrerie, armi (Panzer, Kürasse, Sturmhauben), carta (35). Non bisogna tuttavia sottolineare troppo la natura quasi coloniale delle importazioni tedesche da Venezia, in quanto nel corso del XV secolo la Germania, e soprattutto quella del Sud (Augusta, Ulma, Ratisbona, Norimberga) era in grado di sviluppare una sua struttura manifatturiera. L'industria del fustagno ad esempio (il famoso Barchent tedesco, per la preparazione del quale era indispensabile l'importazione del cotone da Venezia) esercitava una fortissima concorrenza nei confronti del fustagno lombardo e si rivelava probabilmente superiore a quello veneziano. Egualmente avanzata risultava la tecnologia applicata all'industria mineraria (basti ricordare ciò che ha significato il De re metallica di Georg Bauer Agricola in questo campo (36)) e a quella delle armi, sorretta da giacimenti minerari (lo Harz innanzitutto) di gran lunga più ricchi di quelli esistenti nei territori veneziani. Norimberga, i cui contatti con Venezia risalivano almeno al XIII secolo (37), era sul finire del Medioevo il più importante centro di scambio di informazioni e di tecnologia applicata di tutta la Germania del Sud. Circostanza che andava di pari passo con lo spostamento del baricentro delle transazioni economiche tra l'Europa nord-occidentale e Venezia dai passi alpini lombardo-piemontesi (Gottardo, Sempione, Spluga) a quelli delle Alpi orientali (Resia, Brennero, Tarvisio) (38). Si assisteva dunque a un grande sviluppo della produzione di oggetti in ferro che si svolgeva sia nella città di Norimberga che lungo i suoi fiumi (il Pegnitz soprattutto) e l'hinterland nel suo insieme. Dai fili di ferro alle bussole, dagli aghi ai chiodi, dai ditali alle stoviglie, dai campanelli alle padelle e pentole da cucina, non vi era prodotto in ferro e stagno che non trovasse diffusione in questa area strategica. La carta e i mulini per la macerazione, dislocati sui numerosi corsi d'acqua della regione, non lo furono da meno (39). Ebbene, buona parte di questa produzione, urbana o regionale che fosse, prendeva la direzione di Venezia e costituiva una dura concorrenza per le analoghe fabbricazioni che si facevano nelle vallate veneto-lombarde (tra il Salodiano, il Bresciano e il Bergamasco) e che erano avviate verso il porto di Venezia. L'organizzazione del lavoro nell'area tedesca trovava la sua punta di forza nella lavorazione a domicilio, la quale caratterizzava non solo gran parte della produzione manifatturiera di Norimberga (40), ma investiva un'area molto più vasta, inglobandovi gran parte della Germania meridionale. La forte ascesa dell'industria cotoniera e del fustagno tedesco, e la dura concorrenza che essa mosse alle città italiane e a Venezia stessa, estromettendole dai mercati dell'Europa centrale, avvenne dunque da un lato su tali basi produttive, dall'altro sulla capacità di impadronirsi delle tecniche di fabbricazione provenienti dall'Italia settentrionale e ben presto superar1e (41). Tutto ciò non impedì peraltro che la città lagunare non solo rimanesse la principale fornitrice del cotone del Levante per l'intera Germania meridionale, ma che fosse in grado di orientare e condizionare, per tutto il XIV e XV secolo, attraverso il controllo di questa materia prima di importanza strategica, la produzione in intere aree sia del Barchent che dei tessuti di cotone (42).

I legami tra l'economia tedesca e quella veneziana non si limitavano peraltro al solo settore cotoniero, su cui ritorneremo, ma si rivelavano essenziali, per Venezia, negli approvvigionamenti di argento, di ferro e di rame, provenienti dalle miniere dell'Europa centrale e necessari a tutta una serie di attività che andavano dalla monetazione all'industria navale, dalla fabbricazione delle armi all'utensileria pubblica e privata. Non a caso, in occasione del contenzioso diretto scoppiato fra l'imperatore tedesco Sigismondo e la Repubblica, nei primi decenni del Quattrocento, questa si vide costretta a ridurre il contenuto argenteo delle sue monete e a porre dei forti limiti alla libera circolazione monetaria, con tutto ciò che questo significava in termini di pagamenti internazionali, del ruolo e dell'immagine stessa di Venezia.

La città si sarebbe comunque ripresa da quella crisi, ma avrebbe dovuto rinunciare a un ruolo esclusivo svolto nei mercati internazionali per quanto concerneva il commercio e la lavorazione dei metalli, condividendo con i Tedeschi meridionali soprattutto il controllo del rame. In effetti, il rame dei Carpazi rimase saldamente nelle mani dell'alta finanza sveva e bavarese, la quale attraverso tecniche di raffinazione del metallo più avanzate (come il processo di Saigerhütten) avrebbe ben presto superato le analoghe tecniche che si svolgevano nel Ghetto di Venezia (43). I grandi banchieri di Augusta, di Ulma e Norimberga avrebbero d'ora in avanti giocato un ruolo fondamentale nell'economia internazionale, e si sa bene che a quest'epoca affari, commerci, manifatture, Verlagssystem e partecipazione diretta, attraverso investimenti adeguati, alla produzione rappresentavano un unicum di difficile distinzione. D'altro canto il destino comune delle due grandi aree quella - veneziana dovendo fare i conti con un mondo tedesco in grado di influire con i suoi capitali, le sue tecniche e la sua organizzazione del lavoro nelle strategie internazionali - si sarebbe confermato all'epoca delle grandi esplorazioni geografiche e dell'espansione nell'Atlantico (44).

Ad ogni buon conto, sul finire del "blocco continentale", un sicuro risultato era stato raggiunto dal mondo tedesco, che sicuramente veniva ora ad accentuare la propria presenza a Venezia. Il fondaco dei Tedeschi ne era una preziosa testimonianza, sebbene non la sola. Attraverso di esso dovevano passare tutte le merci provenienti dalla Germania, soprattutto quelle che erano in grado, agli occhi delle autorità veneziane, di impinguare le casse dello stato grazie ai dazi che le colpivano.

Ai Veneziani era concesso di importare solo merci di stretta necessità, in concomitanza di particolari momenti di difficoltà (45). L'intensità degli scambi si accrebbe indubbiamente nel corso del XV secolo, periodo durante il quale risultavano numerose le società commerciali e le città tedesche presenti all'interno del fondaco. Si è parlato anche di un milione di ducati rappresentante il fatturato annuo dell'import-export tedesco a Venezia. Siamo a conoscenza di transazioni che, in una sola volta, potevano contemplare l'arrivo di 45.000 pezze di lino oppure di 18.000 libbre di rame. Pur essendo difficile stabilire una gerarchia economica tra le diverse città tedesche presenti nel fondaco, o una loro netta specializzazione merceologica, si colgono tuttavia alcune linee indicative, come ad esempio il ruolo svolto da Ratisbona nelle importazioni del pellame a Venezia, proveniente dalle regioni dell'Europa centrale ed orientale, per esservi lavorato.

Gli inizi del XVI secolo rappresentarono sicuramente un momento delicato per la presenza tedesca a Venezia, coincidendo con l'incendio del fondaco del 1505 e le note difficoltà veneziane nei confronti della concorrenza portoghese nel commercio del pepe e delle spezie. Ma è altrettanto vero che la Serenissima si riprese da una congiuntura economica che poteva volgere al peggio ma che invece si rasserenò ben presto. Tanto da poter concludere che il trend restò positivo per ciò che concerneva le transazioni svolte all'interno del fondaco, approfittando anzi Venezia della crisi di Anversa di fine Cinquecento. Non a caso le entrate del fondaco nel corso del Cinquecento superarono nettamente quelle registrate nel corso del secolo precedente, passando dai 18.000 ducati del 1490 ai 41.000 del 1561-1562 (46).

La manodopera: la bottega, l'industria a domicilio e le prime manifatture

Se davvero il dato di circa un milione di ducati rappresentava il valore delle transazioni economiche tra il mondo tedesco e Venezia, questa circostanza poneva sicuramente la Germania al secondo posto fra i partners commerciali di Venezia. Dalla famosa arringa del doge Tommaso Mocenigo del 1423 (da alcuni considerata sin troppo celebrativa, ma che, nonostante alcune enfasi, tutto lascia supporre che non si allontanasse troppo dalla realtà storica) erano infatti Milano e le città lombarde che si collocavano al primo posto fra i satelliti che gravitavano attorno a Venezia. Si parla infatti di 900.000 ducati di tessuti (di fustagno e lana) e di 100.000 ducati di "canevaze" (telerie) che giungevano dalla Lombardia e che erano destinati ai mercati di esportazione (ma in parte anche al fabbisogno veneziano). Il valore di queste merci andava ad aggiungersi ai 200.000 ducati da imputarsi alle entrate doganali e ai diritti di magazzinaggio incamerati da Venezia, e ad almeno 1.600.000 ducati che Venezia ricavava dalla vendita diretta dei suoi prodotti. Era Firenze infine, che con i suoi "XVI millia panni finissimi, fini et mezani", che Venezia riesportava nel Mediterraneo (acquistandovi lana, seta, cera, zucchero e altre merci), contribuiva alla ricchezza della città con 150.000 ducati (47).

Inutile dire che le necessità di importare e riesportare una tale massa di merci metteva in movimento tutto un sistema di trasporti (galere, navi, piccole imbarcazioni, oltre che ovviamente marinai, galeotti, pesatori, mediatori) che Venezia, fra Quattro e Cinquecento, seppe organizzare con grande energia.

Ma se abbandoniamo il settore mercantile, su cui esiste una vasta letteratura, e analizziamo il mondo del lavoro impiegato nelle manifatture, ci troviamo di fronte a un quadro certo non meno ricco e complesso. Le strutture istituzionali erano comuni a quelle di gran parte delle città europee, riassunte da un lato dalla bottega artigianale, dall'altro dalla presenza di un diffuso lavoro a domicilio (das ganze Haus), organizzato tradizionalmente dal mercante e regolamentato dalle corporazioni. Nel caso veneziano (ma non solo in esso tuttavia) comparve largamente un terzo tipo di organizzazione del lavoro, quello che faceva capo a delle piccole o più consistenti concentrazioni operaie. Furono queste rappresentate dalle vetrerie, dagli zuccherifici, dalle saponerie, dalle cererie, tutte attività (in parte riconducibili alle cosiddette industrie di lusso) sulle quali siamo informati in modo non sempre soddisfacente. Molto più conosciuto è il caso dell'Arsenale, descritto, da Dante in poi, da visitatori, tecnici, personaggi politici, oltre che da una letteratura che ne ha illustrato le economie di scala realizzate e l'elevato numero di operai impiegati.

Se questo è, approssimativamente, il quadro d'insieme, inevitabilmente più complessa appare la situazione della manodopera veneziana (ma sicuramente di molte altre città "industriali" europee) allorquando si incomincia ad analizzarla più da vicino. Ad esempio non è affatto vero che la bottega artigianale, la quale poteva ospitare al suo interno maestri, lavoranti e apprendisti, esprimesse sempre una solidarietà di base e che non desse vita a conflitti anche violenti tra maestri e lavoranti o tra maestri e apprendisti o, forse, tra questi ultimi e i lavoranti (48). Tutto ciò ci obbliga a controllare puntualmente cosa avvenisse nella realtà di questa primordiale unità di produzione (49). Si è giunti perciò a concludere, oltre alla poca solidarietà di mestiere, che l'artigiano non raramente risiedeva lontano dal luogo in cui esercitava il mestiere, tanto da poter escludere una identificazione tra attività svolte a Venezia e aree urbane che le accoglievano. O ancora che non tutti gli artigiani facevano testamento in favore delle Scuole cui erano stati iscritti (50).

Sul ruolo e sulle origini delle corporazioni si è sviluppato poi un dibattito storiografico che non accenna a diminuire, collegandosi a tematiche che investono l'età moderna, quali la diffusione del lavoro a domicilio nelle campagne, il ruolo frenante delle corporazioni nello sviluppo economico, il conseguente abbandono della città. Mentre è sicuro invece che, nel periodo che stiamo considerando, fossero proprio le città e i suoi occupati - e sicuramente a Venezia - che conducevano il gioco. Egualmente necessario è osservare che le corporazioni svolgevano in questo periodo - e tutto lascia concludere che riuscissero a farlo a lungo una funzione fondamentale nella difesa di un certo tenore di vita dei loro associati (i cosiddetti ammortizzatori sociali) e nel mantenere in vita, all'interno della città, una tradizione operaia, la quale al contrario non si sarebbe potuta salvare (51).

Non meno importante è spiegare le origini delle corporazioni di mestiere, considerato che il loro atto di nascita inevitabilmente andava a influenzare il loro ruolo all'interno della società. In effetti, se si ipotizza una fondazione delle organizzazioni di mestiere da parte della città, come fa Max Weber (52) - allo scopo di riservare alcuni servizi alle autorità: i fabbri che sarebbero stati costretti, nell'XI secolo, ad offrire le loro prestazioni al doge -, è inevitabile ridimensionare l'autonomia e la pressione dal basso da parte di coloro che esercitavano uno stesso mestiere nella loro autorganizzazione (53). Probabilmente l'interpretazione più corretta dovrà tener conto di entrambe queste esigenze, che si rifacevano da un lato alla tradizionale politica urbana medievale, dall'altro all'oggettiva ascesa dell'artigianato veneziano, che lottava per affermarsi nei confronti di mercanti e patrizi, i quali ultimi avrebbero espresso un crescente interesse nei confronti delle industrie urbane. In effetti un problema di non secondaria importanza è quello del ruolo sociale e politico giocato dalle Arti veneziane nei confronti dello stato, specie a un confronto con quello svolto dalle Arti fiorentine. Se ad ogni modo è fuor di dubbio che l'azione dell'artigianato fiorentino nell'agone politico è stata molto più incisiva e sinanco dirompente rispetto a quella svolta dall'artigianato veneziano, sussistono sfumature interpretative rispetto alle caratteristiche dello stato marciano e alla sua azione socio-politica nei confronti delle Arti. Va da sé che appare una forzatura parlare di lotta di classe a proposito della rivolta dei Ciompi nella Firenze del XIV secolo (54). Sembra invece corretto sottolineare quanto i rapporti feudali e signorili nella stessa Firenze del XV e XVI secolo si fossero mescolati e talvolta contrapposti agli interessi delle manifatture e delle corporazioni della città, determinando tale scontro una situazione di forte instabilità sociale. Si era di fronte quindi a delle Arti che sicuramente giocarono un ruolo politico ed economico molto più determinante che a Venezia (55), ma che alla lunga si trovarono a mal partito rispetto alle grandi famiglie mercantili (i Medici innanzitutto) e alle forze feudali: si ricordi la sconfitta delle Arti maggiori, e della lana soprattutto, da parte di entrambe. Un primo confronto con Venezia ci porta invece a sottolineare da un lato la ricchezza di origine commerciale che caratterizzò il patriziato veneziano, dall'altro la politica di apertura e di mediazione che esso esercitò durante il XV e il XVI secolo. Ancora, a differenza di Firenze, l'Arte della lana non costituì a Venezia, nel XIV e XV secolo, né un settore economico trainante come lo fu nella città toscana, né un centro di potere in grado di contrapporsi agli altri organi di governo. Fu del resto nella natura del capitalismo veneziano non creare delle coagulazioni di ricchezza né finanziaria né commerciale né tanto meno industriale. Si costituirono in tal modo tutta una serie di Arti "medie", nessuna delle quali si impose sulle altre (56). Non bisogna dimenticare inoltre che non poche organizzazioni di mestiere si formarono nell'ambito dell'industria di lusso (Giovanni Monticolo fa risalire le prime Scuole degli orefici e dei pellicciai al 1213 (57)) di per sé non in grado, a causa del numero non rilevante degli occupati, di rappresentare una forza d'urto nei confronti del potere costituito, di natura oligarchica e commerciale. La frammentazione sembrò piuttosto costituire la peculiarità veneziana (58), che significava ancora flessibilità del lavoro, vantaggio essenziale nei vari processi di fabbricazione, permettendo di raggiungere un'elevata qualità del prodotto finito (59). Ad esempio, all'inizio del XV secolo, ben 64 lavoratori di specializzazioni diverse erano impiegati nel cantiere della Ca' d'Oro (60), tale divisione del lavoro permettendo, in questo momento storico, di accentuare la produzione di beni di lusso e farli affluire nei mercati internazionali, progressivamente influenzati dal gusto veneziano.

Se ne conclude che l'interpretazione delle Arti come dei "cartelli" ante litteram (vale a dire delle concentrazioni di potere economico in grado di esercitare un forte controllo sulla produzione interna e sulle transazioni internazionali) non solo ci appare una forzatura interpretativa di carattere generale (risultato di un'impostazione storiografica sviluppatasi in un determinato periodo storico, particolarmente a cavallo tra il XIX e il XX secolo), ma ancor più se si guarda alla particolare situazione veneziana (61). È difficile certo definire gli ambiti dell'intervento legislativo, se esso cioè fosse da attribuirsi agli organi di governo, oppure alle Arti stesse, ma il risultato sicuro fu che tutto condusse a impedire un controllo esclusivo della produzione artigianale da parte del mercante imprenditore. Anche per quanto concerneva l'approvvigionamento delle materie prime, le Arti stesse cercarono, laddove fosse possibile, di organizzarlo per proprio conto, al fine di evitare una pericolosa dipendenza da parte degli stessi mercanti. Questi si trovarono di fronte, a Venezia, a degli spazi di manovra molto più ridotti rispetto ad altre realtà economiche, cercando gli artigiani di esercitare il più possibile in proprio il mestiere, dedicandosi non raramente al piccolo commercio: da qui probabilmente la forza dell'Arte dei merciai, sottolineata da alcuni (62).

Le Arti sembrarono di conseguenza rappresentare un pendant funzionale ed essenziale all'equilibrio della società veneziana, ponendosi a metà strada tra gli interessi commerciali del patriziato e la struttura amministrativa e governativa della città. In tal senso solo apparentemente sembrò che gli equilibri politici veneziani fossero più arretrati rispetto, ad esempio, alla situazione fiorentina. Anzi, se si guarda all'evoluzione successiva e alla natura dei rapporti che si stabilirono tra Arti e stato a Venezia, pur guardando con occhio critico al mito di una città non sconvolta da sollevamenti popolari e tensioni sociali, è necessario riconoscere che un certo equilibrio e una diffusa cooperazione tra i diversi produttori contraddistinsero il caso veneziano. Vero è che il governo, non rinunciando certo ad esercitare un controllo dall'alto sulla vita delle corporazioni, impose prestazioni da lavoro e donazioni che non cessarono nel corso del tempo, anzi si accrebbero nel corso del XVI e XVII secolo, parallelamente alle difficoltà economiche della Repubblica (63). Ma tutto questo aveva un contrappeso positivo sui rapporti lavoratori-corporazioni-stato, il tipico paternalismo del governo veneziano non impedendo che le legittime prerogative degli artigiani trovassero un qualche ascolto presso le magistrature (la giustizia vecchia ad esempio) preposte a gestire i rapporti tra stato e corporazioni. Non crediamo quindi che si cada, acriticamente, nel mito del "buon governo" veneziano se si conclude che il patriziato di questi secoli seppe fondamentalmente smussare gli angoli di un possibile scontro sociale e salvaguardare gli interessi generali. Per quanto si sia convinti che concetti quali la "dedizione alla cosa pubblica" o il "senso dello stato" siano giudizi storici tanto facili da formularsi quanto difficili da provarsi, la Repubblica e la capacità di governo di Venezia avendo costituito da tempo un topos storiografico siffatto (64).

Consapevoli le Arti ad ogni buon conto del ruolo crescente che esse andavano svolgendo, all'interno della società e dell'economia, esse cercarono di difendere gli interessi dei loro membri nei confronti non solo dello stato ma ancor più nei confronti della concorrenza estera. È più che scontato che esse cercassero quindi di aprirsi all'apporto di conoscenze preziose nei momenti di riconosciuta inferiorità tecnica e produttiva, o nelle fasi di netto declino demografico, ma che cercassero di chiudersi verso l'esterno quando l'importazione di manufatti ne minacciava l'esistenza (e questo accadde senza dubbio sin dalla seconda metà del XVI secolo e nel periodo successivo).

Un altro aspetto che è necessario considerare è quello della provenienza della manodopera che veniva ad ingrossare le fila degli occupati, nel senso che se nel corso del XIV e XV secolo artigiani specializzati giungevano da aree esterne ai territori della Repubblica, in seguito furono i lavoratori, specialmente tessili, provenienti dalle altre città dello stato che caratterizzarono il flusso migratorio (a cui si aggiunsero operai non qualificati dell'hinterland) (65).

Per tutti valeva l'obbligatorietà di un periodo di prova, maestri artigiani inclusi (alcune disposizioni variavano ovviamente da mestiere a mestiere), alla quale circostanza si aggiungeva una diffidenza di fondo nei confronti dei lavoratori più umili. Non a caso a questi ultimi si poteva chiedere una tassa d'ingresso, oltre al tradizionale giuramento che caratterizzava ogni rapporto socio-economico all'interno dell'Arte (come di gran parte della società medievale (66)). Egualmente, sotto un profilo generale, per quanto concerne i rapporti tra maestro e apprendisti lavoranti, se è vero che i rapporti di forza pendevano in favore del primo, è anche vero che le autorità di governo, stimolate probabilmente dalle fasce inferiori delle organizzazioni di mestiere, non raramente imponevano un preavviso di parecchie settimane e mesi nel caso il maestro volesse rinunciare alla collaborazione di apprendisti e lavoranti.

Il periodo di prova per gli apprendisti, lavoranti e maestri variava da mestiere a mestiere, come vedremo meglio più avanti (67), ma era naturalmente obbligatorio per tutti e si concludeva con la dimostrazione delle acquisite conoscenze tecniche, attraverso la fabbricazione di un prodotto (il "capolavoro") del mestiere a cui avrebbero aderito. Risulta ancora convincente il quadro di una sostanziale rappresentatività, concessa e dovuta, ai membri delle corporazioni (iudices, suprastantes e così via), nel senso che i capi eletti, o addirittura estratti a sorte, non potevano rifiutarsi, pena un'ammenda pecuniaria, di esercitare le funzioni alle quali erano stati preposti.

Le Arti non erano chiuse alle donne, soprattutto quelle tessili (setificio, lanificio, fustagno), come sembra che esse non fossero assenti da altri settori economici, come la merceria, il piccolo commercio e la ferramenta (68). Tuttavia non si costituirono a Venezia quelle Arti di sole donne (particolarmente organizzate quelle addette alla filatura, alla preparazione dei filati d'oro, alla torcitura e alla tessitura serica) che si formarono invece nel tardo Medioevo in città come Colonia e, sebbene in misura meno evidente, Parigi (69).

La carica più importante era naturalmente quella del gastaldo della corporazione, eletto annualmente e pagato, nel caso che lo fosse, dai membri della corporazione stessa (70). Fondamentale risultava la distinzione tra l'Arte, vale a dire l'organizzazione di coloro che esercitavano lo stesso mestiere, sorvegliata dalle autorità per il peso che essa aveva sulle strutture economiche e produttive della città, e la Scuola, che rappresentava l'organizzazione di carattere benefico e religioso. Le due organizzazioni solitamente coincidevano, come avveniva in gran parte delle città europee, sebbene a Venezia non tutti gli artigiani confluissero poi nelle stesse Scuole, potendo queste, soprattutto le Scuole grandi, accogliere membri di altri mestieri e anche di diversi ceti sociali. Piuttosto si è notato come proprio a partire dal XV secolo le Scuole divenissero sempre più dei "potenti complessi finanziari e immobiliari", perdendo le originali caratteristiche devozionali ed esprimendo la volontà dei piccoli artigiani di rafforzare su un altro piano gli aspetti di solidarietà economica e produttiva (71).

L'Arsenale

Un microcosmo particolare ed emblematico della forza-lavoro veneziana, pur sempre organizzato e presieduto da Arti e magistrature, è stato quello che ha fatto capo all'Arsenale. Celebrato da una storiografia consolidata e sostanzialmente mai messa in discussione, sin dal XIII secolo è stato indicato come il più grande e articolato complesso industriale dell'Europa tardomedievale. A esso erano affidate le sorti della difesa marittima della Repubblica e, precedentemente, della difesa dell'Impero bizantino (impegno veneziano sancito a livello diplomatico e formale con il trattato del 1187). Già a quest'epoca le potenzialità produttive di quella che sarebbe stata indicata volta a volta "l'officina del mondo" o "nuova Babilonia" erano fortemente sollecitate, preparandone il grande slancio che avrebbe raggiunto l'apice in occasione della battaglia di Lepanto (72). La costituzione di un cantiere navale - o di un suo nucleo originario (73) - direttamente controllato dal comune veneciarum si proponeva quindi di fondare, almeno sin dal XII secolo, le basi della voluta affermazione marittima. D'altro canto il comune, pur imponendo le superiori esigenze dello stato, che si identificarono sempre più con l'Arsenale stesso, non rinunciò ad avvalersi dell'opera degli squeri (cantieri) privati, concedendo loro la costruzione delle navi tonde, impiegate per la navigazione, e riservandosi (almeno di fatto se non di principio) l'allestimento delle galere, fossero esse "grosse da mercato" o "sottili da armada" (74). I cantieri privati coadiuvavano l'Arsenale, soprattutto alle origini, nell'accaparramento delle materie prime necessarie, come il legname proveniente dall'entroterra padano e le tele provenienti dalle Marche per le vele (75). Del resto la descrizione del doge Tommaso Mocenigo del 1423 non esaltava il numero dei marinai impiegati nelle trecento navi e nelle trecento imbarcazioni commerciali: un totale di 25.000 uomini contro un numero inferiore, 11.000 marinai, imbarcati nelle 45 galere? (76). Ancora, non si è appurato che dal XIV al XVI secolo la flotta mercantile restò superiore a quella da guerra allestita dallo stato? (77).

Cantiere navale ma anche "industria" complessa, l'Arsenale avrebbe visto svilupparsi all'interno delle sue mura almeno tre produzioni, vale a dire la costruzione delle navi vere e proprie, la fabbricazione delle funi (alla Tana, dove avrebbero operato i filacanevi, cioè i filatori/filatrici di canapa) e la produzione delle armi e dei cannoni. La presenza dello stato si sarebbe espressa attraverso la figura dei patroni all'Arsenale, assimilati nei loro compiti alla giustizia vecchia e considerati responsabili del dispositivo militare che il comune andava organizzando in questo periodo (78). Come si è già osservato a proposito dell'influenza bizantina in molti settori dell'economia veneziana, essa si confermava nella stessa organizzazione del lavoro all'interno dell'Arsenale. Non a caso ai vertici della gerarchia professionale che si andava profilando, e che sarebbe rimasta tale sino alla caduta della Repubblica (salvo alcune innovazioni nell'arruolamento della forza-lavoro), ritroviamo la figura del protomastro, responsabile di fronte alle autorità della costruzione dello scafo, nonché i maestri e le squadre di operai specializzati, che erano già stati presenti nei cantieri orientali (79). Ben presto a questa originaria suddivisione sarebbe subentrata una tripartizione tipicamente veneziana, che contemplava 1) i marangoni, che attendevano alla costruzione della struttura, chiglia e fiancate della nave; 2) i calafati, che ricoprivano di pece lo scafo della nave e la distendevano sulle giunture attaccate dall'acqua marina; 3) i remeri, che producevano le migliaia di remi utilizzati dalle galere (sebbene fossero usate in misura crescente le vele, parallelamente alla diversificazione dell'armamento navale). Come nelle altre corporazioni veneziane, ogni gruppo di lavoratori, per quanto specializzati, conosceva la distinzione in maestri, lavoranti e apprendisti. Ancora, ognuna di queste categorie confluiva sotto la guida di un proto e, al fine di imporre una disciplina del lavoro difficile all'interno di un'istituzione così articolata, dei sotto-proti, vale a dire dei capisquadra che coordinassero il lavoro, sempre svolto da piccoli gruppi di operai (80). In definitiva il 75% della forza-lavoro, all'interno dell'Arsenale, era riferibile a queste tre organizzazioni. Esisteva peraltro tutta una moltitudine di attività collaterali non meno essenziali alla funzionalità di questo organismo, che comprendeva gli alboranti, addetti alla costruzione degli alberi della nave; i tagieri, che allestivano pulegge e carrucole; gli intagliadori, che curavano la decorazione della nave; i botteri, che preparavano botti e barili; i filacanevi, i maestri fabbricanti di funi di canapa; i fondatori, i fonditori di cannoni e armi da fuoco; i carreri, che ne allestivano carri e affusti; e ancora gruppi vari di lavoratori ausiliari, le molte centinaia di facchini o bastasi, i mureri (muratori), i faori (fabbri), i segadori, addetti alle operazioni di segheria. Queste ultime categorie, pur organizzate in corporazioni, non erano incluse in senso stretto fra gli arsenalotti (letteralmente i figli dell'Arsenale), di cui facevano parte di diritto i marangoni, i calafati e i remeri (81).

Il momento di svolta, nella istituzionalizzazione dei lavoratori nell'ambito dell'Arsenale, è da collocarsi sul finire del Quattrocento-inizi Cinquecento, allorquando si assistette all'arruolamento definitivo degli arsenalotti nella strúftura pubblica dell'Arsenale. Sino ad allora infatti maestri carpentieri ed aiutanti avevano goduto dell'opportunità di offrire le loro prestazioni di volta in volta agli squeri privati e alla struttura pubblica, sulla base della remunerazione che potevano ricevere. Non a caso si era assistito frequentemente, risultando i salari offerti dalla cantieristica privata superiori a quelli erogati dalla struttura pubblica, alla necessità, da parte del governo, oltre che dell'Arsenale stesso, di precettare gli operai e di fissarne i salari d'autorità (82). Non bisogna in effetti dimenticare che la rarefazione della manodopera, a causa della peste di metà Trecento, aveva fatto del marangone e del calafato delle figure professionali preziose, da attirare e blandire con ogni mezzo, dal divieto di abbandonare la città all'elargizione di buoni salari e facilitazioni di diversa natura. Ma già nella seconda metà del XV secolo la situazione non appariva più così favorevole alla manodopera veneziana. La concorrenza degli altri cantieri dislocati nell'Adriatico, coniugata forse a una temporanea caduta della domanda, aveva ridato forza agli armatori privati, i quali offrivano delle mercedi così basse da indurre i calafati a chiedere alle magistrature cittadine "un giusto prezzo" per il loro lavoro. Veniva così fissato a partire dal 1460 un salario minimo garantito (32 o 22 soldi di piccoli a seconda delle stagioni lavorative) (83).

D'altro canto le esigenze crescenti della flotta militare, che non poteva accontentarsi di un'organizzazione del lavoro permanentemente instabile, spinsero verso la redazione di un libro delle maestranze ordinarie, nell'ambito delle quali i marangoni, calafati e remeri sarebbero stati registrati di diritto. A partire da questo momento essi avrebbero avuto il diritto di lavorare nei cantieri in qualsiasi momento, anche quando fossero divenuti troppo vecchi o incapaci di fare qualcosa di veramente utile. L'iscrizione a quello che sarebbe divenuto quasi il Libro d'oro degli arsenalotti concedeva il diritto di presentarsi al mattino e, in caso di mancanza di lavoro, recarsi altrove, magari in qualche cantiere privato, e svolgervi una qualche altra attività meglio retribuita. Un forte assenteismo sarebbe divenuto pressoché inevitabile, e si sarebbe aggravato nel corso del tempo, parallelamente ai momenti di forzata inattività e alla stagnazione dell'attività cantieristica veneziana, solitamente indicata per il XVII e il XVIII secolo. È probabile peraltro che il quadro a fosche tinte, tratteggiato da Frederic C. Lane e ora da Maurice Aymard (non così pronti ad accettare acriticamente il "mito" di un Arsenale occupante maestranze efficienti e dedite al loro lavoro (84)), vada in certo modo attenuato, se non altro sotto il profilo cronologico. Si dovrà in effetti tener conto del fatto che, nei secoli di cui ci stiamo occupando, l'attività era sicuramente più intensa che nel periodo successivo e che la produttività del lavoro permetteva nonostante - tutto pur rivisitando il "mito" - l'allestimento di una galera in poco meno di una giornata (85).

È indubbio inoltre che nel corso del Quattrocento non solo si assisteva a un notevole incremento della superficie occupata dalle strutture del cantiere (si è supposto che essa fosse quadruplicata rispetto al passato), ma che la divisione del lavoro e le economie di scala introdotte apparivano un fatto eccezionale nell'Europa del tempo. Jean de Chambes, che visitava l'Arsenale nel 1459, osservava come "mille e cinquecento operai, o più, non fanno che galere; e in un'altra parte [...> quaranta o cinquanta uomini non fanno che remi; e in un'altra parte ottanta donne che fanno e riparano vele; e in un'altra ancora quelli che lavorano ai cordami delle navi e delle galere" (86). Anticipando fenomeni sociali tipici della rivoluzione industriale più tarda, a fianco delle donne impiegate nella lavorazione della canapa alla Tana, incontriamo fanciulli che lavoravano alla giornata e in così tenera età da destare preoccupazione negli stessi magistrati, che temevano non solo un apprendistato problematico, proprio perché così giovani, ma anche gli eventuali danni che essi potevano provocare all'interno del cantiere. Non è escluso comunque che questi ultimi potessero essere più numerosi dei 120 indicati da Jean de Chambes (il quale parlava di circa 200 persone impiegate alla Tana, fra le quali 80 donne, un numero che ha fatto parlare di una delle più alte concentrazioni operaie dell'epoca (87)).

Forse un'organizzazione verticale del lavoro non così pronunciata caratterizzava l'altra area dell'Arsenale, quella destinata alla produzione di armi bianche e da fuoco, sebbene di certo non meno importante per le finalità complessive che il governo veneziano perseguiva in quest'area. Come sottolineava Marc'Antonio Coccio Sabellico negli anni '80 del Quattrocento "il nostro Arsenale è il massimo fondamento dello stato, soprattutto nelle cose da guerra". Il diretto confronto con i Turchi non lasciava dubbi in proposito, imponendo l'Arsenale un'accentuazione della produzione bellica, specialmente a partire da un certo momento, in favore delle armi da fuoco. Ai tradizionali fabbri, ai balestrieri, ai costruttori di scudi, ai vari maestri d'armi e fabbricanti di corazze, di frecce ed archi si aggiunsero quindi i raffinatori di salnitro e di polvere da sparo, i fonditori di bombarde e di cannoni, i carrai, permettendo tutto ciò alla Repubblica di sviluppare una potenza di fuoco non indifferente, rilevata dai contemporanei e testimoniata dalla presenza di fonditori veneziani nel 1505 sulle lontane coste del Malabar (88).

Più delicato è probabilmente concludere che ci si trovasse di fronte, con l'Arsenale, a un'impresa e a un'organizzazione del lavoro di carattere capitalistico. Vero è che il lavoro servile era sin dal XIV secolo bandito da questo organismo, sebbene esso fosse largamente diffuso nella Venezia del tempo (89). Vero è ancora che si è parlato di rivolte, con qualche coscienza di interesse di gruppo se non di classe, fra gli arsenalotti del Cinquecento, e che la concordia ordinum veneziana è stata sempre lungi dal realizzarsi completamente (90). Tuttavia più che di protofabbrica o di impresa moderna, sarà opportuno parlare di istituzione protetta, godendovi gli artigiani garanzia di salario e di impiego, operando "al riparo da qualsiasi concorrenza, esonerati dall'obbligo di produrre utili" (91). Si è parlato ancora di un'aristocrazia del lavoro e certamente non di una classe lavoratrice tradizionale (92). Simbolo della città, guardia del corpo del doge e alla Zecca, gli arsenalotti rappresentavano la prima corporazione della città presso i visitatori più illustri (93). Guadagnando uno stato giuridico privilegiato in un momento economico favorevole alla forza-lavoro veneziana (l'espansione di fine Quattrocento-inizi Cinquecento), furono sì colpiti, al pari delle altre Arti, dall'obbligo di fornire un determinato numero di rematori per le galere, ma ottennero, all'inizio del XVII secolo, il diritto di trasmettere ai figli il loro posto di lavoro. In altri termini quelle difficoltà che si erano già manifestate nel corso del XV secolo - nel senso che il cantiere pubblico si era trovato frequentemente in una situazione di debolezza nel contrattare salari e prestazioni con i maestri artigiani rispetto ai cantieri privati - vennero ad aggravarsi progressivamente subito dopo Lepanto, di fronte a una manodopera rigidamente organizzata. Certo, quando si rileva la pesante burocrazia che, presente nei cantieri, controllava la manodopera, redigeva le liste, conteggiava i salari settimanali, non si dovranno dimenticare le performances che essa aveva nonostante tutto realizzato. Tuttavia, i risvolti negativi della protezione pubblica concessa agli arsenalotti, sicuramente eccessiva, sarebbero alla fine venuti alla luce. Il picco segnato negli anni attorno a Lepanto (nel 1560 2.200 iscritti nei ruoli dei marangoni e calafati) non sarebbe stato più toccato nei decenni seguenti (94). Ma l'occupazione sarebbe rimasta egualmente elevata, tanto che le più recenti ricerche suggeriscono un quadro interpretativo diverso rispetto a quello tradizionale. In altri termini Lepanto avrebbe rappresentato una punta occupazionale, seguita tuttavia, e preceduta, da una egualmente alta presenza operaia nei ruoli delle maestranze dell'Arsenale (95). Se nei momenti di forte espansione commerciale, o nelle impellenti esigenze della difesa marittima, questa esuberanza umana rappresentò l'indicatore privilegiato della forza economica di Venezia, nei momenti di bassa congiuntura essa rappresentò piuttosto il prezzo che la perseguita pace sociale dovette pagare.

Il lanificio. La manodopera e i mercati

Sebbene il settore laniero non si identificasse con l'immagine che si aveva della città nella stessa misura dell'Arsenale, sicuramente gli occupati in questo settore (come del tessile in generale), costituirono una componente fondamentale della forza-lavoro veneziana, sia per numero di addetti (il più elevato) sia per il peso occupato nell'ambito dell'economia manifatturiera del Quattro e Cinquecento. A differenza tuttavia dell'armamento navale, l'"industria" della lana conobbe uno sviluppo più lento e contrastato (per quanto insufficientemente conosciuto), espressione degli scontri di interesse in atto non solo fra le forze economiche cittadine (artifices contra mercatores), ma anche nell'ambito dei mercati internazionali. Probabilmente le magistrature cittadine non poterono perseguire per molto tempo una qualsiasi strategia economico-politica, trovandosi di fronte a una situazione interna e internazionale complessa. Questa era rappresentata per un verso da strutture produttive probabilmente più deboli rispetto ai diretti concorrenti, ma dall'altro da strutture commerciali (presenza nei mercati mediterranei come in quelli atlantici, controllo dello scambio di prodotti finiti e delle materie prime necessarie) più solide e pronte a trarre vantaggio dalle difficoltà altrui. Ad esempio, pur avendo bisogno della lana greggia inglese (al pari di quella spagnola, fiamminga, pugliese, balcanica) per la propria tessitura, Venezia esportava nelle isole britanniche allume, materie tintorie ed altri prodotti chimici essenziali all'industria laniera inglese, senza i quali quest'ultima non avrebbe potuto svilupparsi (96). Nel corso del Quattrocento esisteva ancora a Venezia (non diversamente ad esempio dalla Francia (97)) un mercato di panni stranieri parallelo a una produzione nazionale in indubbia crescita. La risposta della Repubblica a questa congiuntura complessa fu quella tipicamente "veneziana": degli interventi empirici, talvolta contraddittori, alle sollecitazioni del momento, di volta in volta in favore dei produttori urbani o dei commercianti. La stessa dislocazione produttiva seguì a lungo delle vie tortuose e non sempre chiarite, pur risultando evidente che era impossibile, per le caratteristiche della produzione laniera, concentrare tutte le fasi della preparazione del tessuto a Venezia. Se nel 1272 si era circoscritta la tessitura all'isola di Torcello, nel 1306 si era ritornati indietro su questa decisione e riportata la tessitura nel centro urbano veneziano. Se per la follatura si ricorreva alle gualchiere di Treviso e Padova, per la lavatura delle lane se ne organizzarono le operazioni, nel 1365, lungo il fiumiciattolo della Tergola, nel Mestrino (98). Negli stessi anni, nel 1356-1358, si permetteva di far filare la lana in Terraferma, da Grado a Cavarzere, considerata la scarsità di filatrici. Ma nel 1437 altri motivi, e principalmente quelli di risparmiare sulla manodopera veneziana, inducevano molti mercanti a distribuire la filatura fuori della città, "pro alleviando sibi aliquam minimam expensam" (99). In effetti, le considerazioni economiche degli operatori, sull'opportunità di eseguire alcune fasi della produzione in città o in campagna, travalicavano continuamente la volontà dei magistrati. I quali proibivano certo che la filatura fosse affidata a donne che "habitent extra ducatum veneciarum" (100); oppure che le filatrici fossero pagate in natura (formaggi, vini, carne) (101), ma sembravano sempre in difficoltà rispetto a una realtà in continuo movimento. E questo risultava tanto più vero a fronte di un'organizzazione commerciale che nel corso del Trecento si era rafforzata, facendo del mercante-drappiere "capitalista" - solitamente uscito dalle fila dei maestri artigiani, e di volta in volta chiamato mercator, magister o magister mercator (102) - la chiave di volta del processo di produzione. Abbiamo visto tuttavia che contro un eccessivo rafforzamento del mercante-drappiere reagivano non solo i magistrati, ma soprattutto gli artigiani (103).

In ogni caso si hanno buone ragioni per ritenere che si mettessero in atto continui tentativi per scavalcare le norme non appena queste fossero state formalizzate, tanto che viene spontaneo chiedersi se davvero la realtà tecnico-organizzativa restasse nei fatti ingabbiata dalle regole sancite dal capitolare. Il fatto ad esempio che si proibisse al tessitore di impiegare un'altra persona al suo telaio significa evidentemente che nella realtà esisteva uno scambio continuo nelle funzioni esercitate da maestri e lavoranti (104). Egualmente che nel 1450 si sancisse il divieto al tessitore di lavorare a più di tre telai, questa circostanza non può che indurre a credere che una rigida divisione del lavoro all'interno della corporazione al fine di impedire che qualcuno facesse della concorrenza sleale agli altri membri del l'Arte, e che per questo se ne arricchisse trovasse forti difficoltà a realizzarsi (105). In effetti i maestri tessitori non potevano ancora, almeno nel corso del Trecento, lavorare per più di due mercanti allo stesso tempo (106), i quali dovevano portare a loro volta i panni alla camera del purgo sotto il loro nome, ad evitare una qualche forma di concentrazione commerciale (107). Insomma, tutto sembrava mirare, in linea con le caratteristiche del capitalismo veneziano, sottolineate fra l'altro da Fernand Braudel (108), a favorire la formazione di un ceto mercantile e artigianale interagente, con la possibilità di muoversi da un ceto e da un livello sociale all'altro. Che poi anche i lavoratori più umili cercassero di far sentire la loro voce nei momenti di difficoltà economica, questo è rivelato dal sollevamento dei cimadori del 1556, allorquando rivendicarono cottimi più elevati, suscitando peraltro da parte delle autorità, premute dalla classe dei mercanti, una subitanea azione repressiva (109).

Parallelamente alla formazione della forza-lavoro, si delineavano le strategie economico-produttive al fine di consolidare il mercato interno e potersi misurare ad armi pari con i mercati esteri. Nel 1373 si stabiliva, al fine di favorire il lanificio veneziano, che non si potessero vendere al minuto se non panni veneziani, oppure i tessuti inglesi e francesi trasportati dalle galere da mercato veneziane, sulla rotta Fiandre-Venezia. Tuttavia, solo alcuni anni dopo, nel 1380, accorgendosi che limitare la vendita al minuto e la rifinitura ai soli cavezzi (panni) trasportati dalle mude (convogli) di Fiandra risultava controproducente alla stessa industria laniera veneziana, che languiva per la scarsità di lana greggia, si ritornava sulla decisione e si permetteva la vendita e la lavorazione di ogni sorta di panno (110). Nel 1419 nuova caduta della produzione laniera veneziana (111), dopo una quasi sicura fase espansiva di fine Trecento; ma non volendo far precipitare il settore, si ritornava sull'antica politica protezionistica, bandendo i tessuti esteri, con la solita eccezione di quelli trasportati dalle navi di Fiandra (112).

A monte, sotto il profilo tecnologico, non si erano risparmiati gli sforzi per garantire la buona qualità del tessuto, che si consolidava grazie anche alla parallela affermazione della tintoria. Si fissava a tal fine il numero dei fili dell'ordito, si controllava severamente la qualità delle lane impiegate, escludendo le più modeste e vietando il mescolamento di lane diverse, esortando a tingere la lana prima della tessitura, obbligando i commercianti a vendere i tessuti in città in luoghi ben definiti (113). La camera del purgo, dislocata in rio Marin, al centro dell'area produttiva della lana, diventava il perno dei controlli tecnici e amministrativi del lanificio veneziano. Il senato nel 1419 se ne compiaceva, poiché se prima si erano lamentati difetti nei panni smerciati, ora l'occhiuta vigilanza - che imponeva fra l'altro di portare alla camera del purgo tutti i panni affinché fossero bollati - aveva permesso di raggiungere pressoché "la perfezione" (114).

In effetti, le norme fissate dal senato nel 1444 apparivano ormai indicare la volontà di proteggere decisamente il lanificio veneziano, superando le antiche remore di carattere commerciale.

Certo non si impediva formalmente che i cittadini veneziani vestissero panni forestieri, ma tutta una serie di pesanti dazi ne scoraggiavano sicuramente il proposito. Solo i tessuti di Fiandra e Inghilterra, trasportati dalle navi veneziane, avrebbero continuato a godere di un trattamento diverso rispetto agli altri tessuti, ivi compresi quelli che giungevano dalla Germania al fondaco dei Tedeschi (115). Nello stato marittimo non si potevano poi importare panni forestieri se non direttamente da Venezia (116).

Se Firenze e i panni tessuti alla fiorentina apparivano, ancora in questo torno di tempo, i diretti rivali del lanificio veneziano, quest'ultimo a partire dal 1436 riusciva ad imitare i panni di garbo di Firenze e ad esportarli direttamente in Levante. Di più, Hidetoshi Hoshino è convinto che nel 1458 i Veneziani ordinassero ai tessitori fiamminghi e inglesi di apprestare panni alla fiorentina, per poi riesportarli da Venezia (117). Del resto lo stesso Hoshino propende per un netto ridimensionamento della produzione fiorentina, valutandola in 20-30.000 pezze annue nella seconda metà del Trecento (anziché nelle 70-80.000 pezze celebrate da Giovanni Villani nel 1338) e in 11-12.000 pezze negli anni '20 del Quattrocento, dopo la grave crisi rappresentata dal tumulto dei Ciompi (118).

Ora, è vero che la cifra di 10.000 panni grossi e fini, tessuti a Venezia e indicati da un trattato del primo Quattrocento, non può essere accettata senza un riscontro documentario più probante (119). Tuttavia è altrettanto vero che il tempo ormai lavorava in favore di Venezia e che la curva della produzione laniera tendeva decisamente verso l'alto, tanto da reggere il confronto con Firenze, seppure a un livello inferiore. Ad esempio nel 1486-1488 le liste dei panni venduti sul mercato di Costantinopoli, registrate dal consolato di Venezia, indicavano i panni scarlatti o "bastardi de grana" come i più cari su quel mercato, avendo ormai sostituito definitivamente i panni di lusso fiorentini (120).

Pur esportando nelle piazze del Levante i panni bergamaschi e delle altre città di Terraferma, Venezia si assicurava ormai, sul finire del Quattrocento, la tessitura dei panni più pregiati (quelli confezionati con lana "francesca"), lamentando che le altre città dello stato (Padova, Vicenza, Treviso) volessero seguire la capitale su questa strada (121). A partire in effetti dalla fine del Quattrocento e per tutto il XVI secolo si sarebbe insistito su questo indirizzo, mirante a favorire i pannilana veneziani e ad ostacolare la vendita di quelli esteri e di Terraferma (122).

Le cifre illustrano chiaramente il successo di questa politica, che affondava nei decenni e secoli precedenti. La produzione, in forte espansione nei primi decenni del Cinquecento, sembrava inarrestabile. Secondo la serie pubblicata da Pierre Sardella e completata da Domenico Sella si passò da 1.310 pezze del 1516 a ben 26.541 nel 1569, con un massimo di 28.729 pezze tessute nel 1602 (123). Certo il dato di 36.000 persone che avrebbero lavorato verso la fine del Cinquecento come filatori, tessitori "scartezini" e "verghesini" al settore laniero ha bisogno di ulteriori conferme (124). Tuttavia, se questo è l'ordine di grandezza suggerito dalle poche informazioni a disposizione, non si sbaglia di certo se si indica nella lana, e in tutte le fasi di preparazione del tessuto, il settore manifatturiero a più alta occupazione operaia.

La tintoria: un "know-how" veneziano

L'affermazione dei pannilana veneziani nei mercati internazionali, come del resto dei tessuti serici, come vedremo tra poco, dipese senz'altro dal controllo di una fondamentale fase della preparazione del tessuto, la tintoria. Tecnica evoluta che di per sé concedeva un grande vantaggio a chi la possedeva, e che probabilmente rappresentò, assieme alla tessitura, il punto fondamentale attorno a cui ruotava la concorrenza internazionale. Se infatti la "portata" del tessuto (il numero dei fili dell'ordito) costituì per il Quattro e per gran parte del Cinquecento un aspetto fondamentale nella valutazione del tessuto (essendo rimandato alla fine del Cinquecento lo scontro decisivo tra panni alla veneziana, alquanto pesanti per numero di fili, e la New Drapery, costituita da panni più leggeri, con un numero inferiore di fili dell'ordito (125)), non meno essenziale fu in questo periodo il modo di tingere i tessuti, arte in cui la Repubblica senza dubbio si impose. Due date confine illustrano questo paradigma. Nel 1243 veniva redatto il primo statuto della corporazione dei tintori veneziani, fondamentale non solo per le manifatture della città, ma anche perché era il primo statuto europeo di una confraternita di tintori. Nel 1540 veniva pubblicato il primo trattato sull'arte della tintura, il Plictho de larte de tentori del veneziano Giovan Ventura Rosetti. Con esso l'autore si proponeva di diffondere tra gli artigiani veneziani tutta una serie di conoscenze ed esperienze (una specie di summa), maturate a Venezia come in altre città italiane, al fine di migliorare la preparazione tecnica dei tintori veneziani (per quanto la pubblicazione di un simile trattato avrebbe raggiunto inevitabilmente una cerchia molto più vasta dei soli produttori veneziani) (126). Se infatti mariegole e disposizioni statutarie avevano informato sull'uso e abuso di determinate materie tintorie, molto più difficile doveva esser sempre stato il conoscere l'uso di molti colori, come del rosso, del nero o dell'azzurro-turchino, colori in cui l'industria tessile veneziana primeggiava (127). Il Rosetti avrebbe consegnato all'industria tessile europea tale patrimonio di conoscenze, suggellando e probabilmente concludendo un periodo di supremazia veneziana.

Tecniche che la Repubblica aveva ovviamente impiegato in primis per la propria produzione. Nel 1520 i V savi alla mercanzia avevano deliberato infatti che fossero solo i panni tessuti a Venezia (di 80 e 100 portate di lana francesca) e i panni di Ponente, importati a Venezia, che potessero essere tinti "in grana", il famoso scarlatto veneziano. Per i tessuti di minor pregio si sarebbero usate tecniche tintorie più semplici, oppure si sarebbe dovuto chiedere espressa autorizzazione (128). Non meno essenziale alla fortuna dei panni veneziani fu il rosso derivato dalla robbia ("roza"), e la sua variazione detta "rosso turco", per la quale si utilizzava come componente ausiliario il sangue di bue o di capra (129).

Una volta conquistati i mercati, inevitabilmente seguivano le aspettative di facili guadagni, che inducevano i tintori ad usare coloranti meno pregiati, come ad esempio il legno verzino per alcune varietà di rosso. Il senato ne condannava nel 1545 l'uso, mettendo in evidenza come, usandosi precedentemente la robbia, i colori duravano quanto il panno, mentre da quando i tintori usavano il verzino, i panni apparivano slavati, tanto da perdere, con la vivacità dei loro colori, la loro stessa fama (130). Logica conseguenza, nel 1569, Si imponeva che i tessuti tinti di rosso ("in grana") presentassero una cimosa ben visibile, come indiscutibile marchio di qualità (131). La cura con cui le magistrature seguivano i processi di tintoria aveva portato inoltre a una forte specializzazione, illustrata dalla divisione che si fece, alla fine del XV secolo, della corporazione in Arte maggiore e Arte minore. Alla prima sarebbero appartenute le sezioni costituite dai tintori da seda, da guado, da grana, alle quali si aggiunse in seguito quella dei tintori da cremese (132).

I tintori da seda erano da considerarsi probabilmente tra i più esperti, dovendo trattare una fibra finissima e preziosa quale la seta. Ma anche la tintura da guado, ricavata dall'omonima pianta, poneva problemi non semplici nella fermentazione del colore (133). Occorrerà ancora tenere presente che se i tintori da guado assumevano il loro nome da quest'ultima pianta, era in realtà l'indaco che veniva sempre più utilizzato a Venezia nella preparazione dei colori azzurro e turchino. Una possibile ragione è stata indicata nell'opportunità che il commercio veneziano ebbe di importare il prodotto esotico dall'Oriente, probabilmente a prezzi più vantaggiosi rispetto al guado che era invece coltivato in Europa, e che era perciò ampiamente protetto rispetto all'indaco, ad eccezione, sembra, della sola Venezia (134).

Una prima conseguenza dell'espansione dell'industria tessile, e di quella tintoria ad essa collegata, fu il disporsi, lungo tutti i canali della città, di zattere per il lavaggio dei tessuti, oltre che di tintorie e tiratoi. La presenza di tali laboratori, ampiamente inquinanti, non poteva di certo passare inosservata, tanto che nel 1413, al fine di prevenire "infezioni o ammorbamenti dell'aria nel centro della città", il maggior consiglio imponeva a tutti i tintori di eseguire, a partire dalla primavera e in coincidenza di temperature più elevate, le operazioni di coloritura (con il guado e con il rosso-sangue) solo nelle zone periferiche e paludose della città (135). Fu questo forse il primo intervento in tal senso, a cui altri probabilmente seguirono. Non a caso per rispondere in parte a queste esigenze di carattere igienico-sanitario, si istituivano, nel 1485, provveditori alla sanità, sotto la cui competenza caddero molti procedimenti considerati nocivi. Non a ogni produzione si dette una risposta coerente, essendo quest'ultima di fatto (e non solo a Venezia o in quest'epoca) legata a considerazioni di carattere economico e agli interessi che venivano ad essere toccati. In effetti, proprio nella tintoria ci si sarebbe aspettati una maggiore severità nel bandire operazioni che difficilmente si potevano considerare inoffensive all'ambiente lagunare. Invece - come sarà confermato nel XVII secolo a proposito delle fabbriche di verderame, utilizzato per la tintoria e considerato altamente nocivo, ma tollerato proprio per l'impossibilità di farne a meno (136) - ci si accorgeva che le autorità cercavano a lungo di trovare un compromesso tra la tintura vera e propria e le ultime fasi della preparazione del tessuto. Nel senso che se la prima operazione poteva anche farsi a Venezia, pur con i prevedibili danni all'ambiente urbano, il lavaggio e il risciacquo finali delle lane tinte dovevano necessariamente svolgersi ai margini della laguna, alle foci del Brenta e del Sile. Un intenso traffico di battelli faceva dunque la spola tra le diverse parti della città e là dove esisteva acqua dolce in abbondanza. È molto probabile altresì che ci si accorgesse del costo eccessivo rappresentato dal continuo andirivieni dei panni, e che alcuni imprenditori e tintori decidessero di svolgere tout court la tintura in Terraferma, correndo poi il rischio di far passare i panni come autenticamente veneziani. I provveditori, nel 1578, avevano già registrato il fenomeno e stigmatizzandolo imponevano nuovi segni di distinzione per i panni effettivamente tinti a Venezia (137).

Il cotone

In posizione non così importante come il settore laniero, soprattutto quanto a tenuta nel tempo, si collocava nell'ambito delle manifatture veneziane la lavorazione del cotone e del fustagno. In questo Venezia si era trovata molto presto in una situazione vantaggiosa, potendo importare il cotone dall'Oriente (dalla Siria in primo luogo) e dalle altre regioni mediterranee (Puglia, Calabria e Romània). Secondo Eliyahu Ashtor, Venezia avrebbe tratto inoltre vantaggio nel consolidamento delle sue manifatture dal parallelo declino dell'industria orientale, evidente nel periodo 1403-1421 (138). Tuttavia il cotone era solo uno dei componenti dei molti tessuti che genericamente venivano indicati come "pignolati" o fustagni, per la fabbricazione dei quali si usava anche il lino, la canapa, ma anche la lana e la seta. In effetti, il fustagno classico, specialmente il Barchent tedesco, era costituito dall'ordito in lino e dalla trama in cotone, mentre sembra che non esistessero in Germania tessuti di tutto cotone come invece vennero tessuti nell'Italia settentrionale. Questo problema della disponibilità dei vari filati, specialmente di lino, non a caso diverrà un fattore fondamentale nella concorrenza internazionale, specie a partire dal XVI secolo. Tuttavia sin dal XIII secolo sia l'organizzazione dei mestieri che la strumentazione tecnica attribuivano a Venezia un netto vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Basti pensare alla messa a punto nella città lagunare di uno strumento (l'"arco", con tutta probabilità importato dal Medio Oriente e dall'India) il quale permetteva una rapida rottura e lavorazione dei batuffoli di cotone (139). Si sviluppò ancora sin da quest'epoca un'organizzazione del lavoro più flessibile e mirante a creare una certa integrazione tra i diversi addetti, di più ad esempio di quanto avvenisse nel settore laniero (140). D'altra parte il risultato fu che le varie fasi della produzione apparvero divise, più che in altri settori, facendo capo a tutta una serie di Arti parallele e ausiliarie, quali la tessitura, la filatura, la garzatura, la tintura, la biancheggiatura, la battitura del cotone. Le Arti contemplavano ancora i fabbricanti dei giubbetti (gli "zuponerii" o "zuparii") come delle corde dell'arco, i costruttori dell'arco stesso o dei pettini (141). I risultati economici non furono irrilevanti: come affermerà non priva di orgoglio la mariegola dei fustagnari: "un tempo [!> giungevano a Venezia tanti sacchi di cotone che vi lavorava mezza città" (142). In effetti, se seguiamo ancora una volta la "statistica" del doge Mocenigo, e le argomentazioni di Maureen Fennell Mazzaoui, la quale valuta gli operai addetti al settore cotoniero in circa 5-6.000 unità (1/3 dei 16.000 operai impiegati direttamente nell'intero comparto tessile), otteniamo un valore non molto diverso rispetto agli occupati milanesi, i quali a loro volta realizzavano una produzione vicina a quella veneziana (143).

La domanda risultava quanto mai articolata, tanto da riuscire difficile il poter offrire un quadro completo delle varietà merceologiche veneziane. In effetti, a fianco della tessitura "civile", si dovrà tener conto della tessitura delle vele per la flotta veneziana, comparto a cui si attribuisce la sostanziale tenuta del settore cotoniero nel corso del XVI secolo (144). L'uso crescente delle vele di cotone per la navigazione nel Mediterraneo, nonché l'aumento della stazza delle navi, avrebbero costituito in tal senso un indubbio incentivo alla produzione cotoniera in questo settore. Ma parallelamente, sin dai primi anni del Cinquecento, gli addetti alla tessitura, ad esempio di trapunte e coperte, si dovevano trovare in qualche difficoltà, se per far fronte alle spese di rappresentanza e del cerimoniale imposte alle Arti, chiedevano di unirsi all'Arte dei fustagnari, contando quindi su una ripartizione delle contribuzioni (145).

Se questa appariva la situazione all'interno del mondo urbano, ben diversa era l'attitudine delle magistrature e delle Arti rispetto agli artigiani che volessero abbandonare la città o penetrarvi, oppure rispetto ai tessuti che facevano concorrenza a quelli veneziani. Assistiamo quindi alla solita emanazione di misure protettive almeno sin dal XIV secolo, a riprova della forza raggiunta dal settore cotoniero, e della volontà di conservare all'interno dello spazio lagunare quelle maestranze che potevano essere indotte ad allontanarsene, come negli anni immediatamente dopo la pestilenza del 1348, attratte da migliori occasioni di lavoro (146). Tuttavia, per quanto temibili risultassero città come Milano o Cremona, con i loro tessuti di fustagno, occorreva pur sempre seguire una politica flessibile: per quanto concerneva l'importazione dei filati di lino, dai quali la città lagunare appariva dipendente; per l'esportazione dei tessuti lombardi avviati attraverso il porto veneziano; per una netta superiorità di alcuni fustagni lombardi nei confronti di quelli veneziani. Sarà necessario ricordare che, secondo i dati del doge Tommaso Mocenigo, Cremona esportava annualmente a Venezia ben 40.000 pezze di fustagno, per un valore di 180.000 ducati? (147). Essendo riesportati gran parte di questi tessuti dal porto realtino, di necessità la politica economica della Repubblica assumeva un andamento ondivago. La conquista della città lombarda da parte di Venezia indusse ad un certo punto quest'ultima ad abolire ogni forma di controllo sulle importazioni cremonesi, salvo ritornare sulla decisione una volta perduta la città (148).

Ma ancor più grave per l'industria veneziana si rivelava la concorrenza delle città della Germania meridionale, specie per l'evoluzione cinquecentesca. Già nel 1417 barriere doganali erano state elevate contro l'importazione dei tessuti di cotone (probabilmente i Barchent) provenienti de partibus Alemanie e dagli altri territori esteri (con l'eccezione di quelli milanesi e cremonesi, purché avviati all'esportazione). Nel 1477 tali rigidi provvedimenti erano rinnovati, nuovamente con l'eccezione delle cotonate lombarde (149). Il fatto è che l'organizzazione manifatturiera e la forte specializzazione dell'industria tedesca creavano sempre più una situazione svantaggiosa per Venezia. Giustamente Maureen Fennell Mazzaoui metteva in evidenza come la progressiva dislocazione di gran parte della produzione tessile verso la campagna avrebbe permesso alle città tedesche (Augusta, Memmingen, Biberach) di contenere i costi di produzione. Questi ultimi al contrario, a causa della rigida organizzazione corporativa, veneziana ma anche di altre città mercantili italiane, restavano elevati e avrebbero alla fine rappresentato un aspetto negativo di fronte a una concorrenza tedesca sempre più agguerrita. Non si deve infatti passare sotto silenzio la qualità dei Barchent tedeschi i quali, approfittando dell'abbondante produzione di lino e canapa nelle regioni d'oltralpe, presentavano delle varietà merceologiche più articolate e raffinate rispetto ai tessuti veneziani (150). In definitiva è molto probabile che l'insufficiente produzione di lino e canapa nelle campagne venete (151) frenasse in misura decisiva le capacità di reazione dell'industria cotoniera veneziana rispetto a quella lombarda e soprattutto tedesca.

Sul finire del XVI secolo la situazione volgeva chiaramente al peggio, non solo per ciò che concerneva gli sviluppi dell'industria cotoniera a Venezia - sui quali non siamo così bene informati come per il lanificio, grazie ai lavori di Pierre Sardella e Domenico Sella - ma anche per quanto atteneva la Lombardia e la Germania meridionale. L'avvio del cotone del Levante verso i porti del Mediterraneo occidentale e dell'Atlantico (Marsiglia, Rouen e Amsterdam) capovolgeva ancora una volta la situazione e imprimeva una svolta, in larga misura negativa, all'evoluzione di questo fondamentale settore (152). Alla fine del Cinquecento solo 45 telai lavoravano il fustagno, impiegando filati tedeschi di cotone (153).

Il setificio

Nel quadro dell'industria tessile veneziana era il setificio, tipica e rappresentativa produzione di lusso, che non solo si imponeva sui mercati internazionali, non solo appariva fortemente legato a una tintoria veneziana di grande peso, ma resisteva più del lanificio e del cotonificio alla concorrenza degli altri paesi. Al pari del cotonificio, le misure protezionistiche conoscevano sul finire del Quattrocento una sostenuta accelerazione, dimenticando l'apertura totale che il governo veneziano aveva assunto all'inizio del XIV secolo, allorquando aveva accolto con grande "generosità" i tessitori lucchesi che fuggivano dai conflitti interni di quella città. Il capitolare della seta non mancava di registrare in proposito l'inizio leggendario di un'attività che aveva condotto a Venezia in poco tempo 300 artigiani tra tessitori, tintori, filatori, che erano andati a concentrarsi in un'area urbana che comprendeva Calle della Bissa, S. Giovanni Grisostomo, S. Canziano e SS. Apostoli. Il senato ricordava egualmente, con toni autocelebrativi, la saggia decisione di introdurre l'Arte della seta, che avrebbe dato "lavoro a mercanti e tante famiglie, tanto popolo e monache". Perché "fra quelle cose che veramente fanno grandi et populose le città, si devono conumerar l'arti et li mestieri, imperoché da quelli nascono et li privati comodi et le pubbliche utilità" (154).

In effetti, misure protezionistiche furono prese molto presto, se nel 1366, essendosi l'Arte dei panni di seta e oro "molto accresciuta e affermata", invertendo attitudine e indirizzo economico, si decideva di difendere decisamente quei tessuti che stavano rapidamente diventando un monopolio veneziano: panni d'oro e d'argento, velluti e broccati (155), Le prime ad essere combattute erano le seterie che giungevano di contrabbando dalla Terraferma e che venivano esportate più o meno clandestinamente dal porto di Venezia verso il Levante oppure verso le Fiandre e Londra. Ma anche i panni provenienti dalla Toscana non erano caricati volentieri sulle navi veneziane. La sola eccezione che si volle fare fu quella appunto in favore dei panni serici di minor valore, quali taffetas, cendali, centanini, veli da seta (156). Del resto la lotta a cui si assistette a partire dal XV secolo e sino alla caduta della Repubblica fu quella incentrata nella volontà delle città di Terraferma di strappare qualche produzione serica alla capitale, che si assicurava ad ogni modo la tessitura dei panni più fini, in grado di spuntare i maggiori profitti. Emblematica è la risposta dei tessitori veneziani alla richiesta di Vicenza di poter lavorare, nel 1560 (ma l'anno dopo era la volta di Brescia, e con tutta probabilità di altre città), i velluti neri. Protestavano gli artigiani veneziani che, cedendo su questa richiesta, si sarebbe portato via il lavoro a maestranze che, secondo loro, a quell'epoca sarebbero ammontate a circa 30.000 persone, tra, tessitori, filatori e l'ampia gamma di lavoratori/lavoratrici a domicilio, di tutti i ceti sociali, non esclusi i monasteri (157).

Il dato, probabilmente alterato per colpire l'attenzione dei magistrati, rivelava comunque l'incidenza che questa fondamentale industria di lusso aveva sull'economia veneziana del Quattro e Cinquecento. Crescita esemplificata fra l'altro dal numero dei tessitori, più che raddoppiati da circa 500 nel 1493 a 1.200 nel 1554 (158), nonché dal numero dei telai, che sarebbe ammontato a circa 2.200 a fine Cinquecento (159). Si deve comunque mettere in guardia dallo stabilire un preciso rapporto tra numero dei tessitori/lavoranti e mezzi di produzione, in quanto a un telaio poteva sempre alternarsi un numero mai riscontrato di operatori.

In effetti, a seguire la rigida normativa che venne sviluppandosi tra il XV e il XVI secolo, la conferma che si ricava, come si è già osservato a proposito del lanificio, è quella di una realtà sfuggente nei fatti, sempre lontana dall'assumere dei contorni definitivi. Gli auspici di un sostanziale equilibrio all'interno del mondo del lavoro miravano ad ogni modo a stabilire i seguenti punti: 1) la distinzione dei ruoli tra mercanti, maestri tessitori e lavoranti; 2) l'obbligo per i tessitori, formalizzato nel 1422, di lavorare, allorquando si proponevano di vendere direttamente la loro produzione, a un solo telaio, potendo solo eccezionalmente e saltuariamente cedere questa funzione agli apprendisti e lavoranti che li coadiuvavano (160); 3) fissare un limite dei telai forniti dai mercanti ai tessitori, al fine di impedire che la produzione si concentrasse in poche mani; 4) il divieto di accedere ad altre funzioni (alla mercatura e alla tintoria ad esempio), salvo deroghe occhiutamente ed eccezionalmente concesse. Tuttavia, nonostante si intervenisse periodicamente su ognuno di questi aspetti, la norma continuava a rappresentare un quadro ideale di riferimento, mai davvero realizzato. La disposizione di pagare a cottimo i tessitori (retribuiti "a braccio" per le sete lavorate) e non a giornata o a mese (lavoro salariato), ad evitare un rapporto di dipendenza del tessitore nei confronti del mercante, non doveva essere sempre seguita (una segnalazione è registrata nel 1407, ma è legittimo chiedersi se ciò non fosse avvenuto anche precedentemente) (161). La norma che vietava di retribuire il lavoro operaio in natura in luogo di una mercé in denaro rifletteva evidentemente una realtà in cui ciò era avvenuto e probabilmente continuava ad avvenire (162). Per ciò che concerneva il numero dei telai, si era di fronte a dei provvedimenti che a definirli contraddittori si pecca per difetto. Da un lato infatti si affermava che il tessitore doveva lavorare con un solo telaio, o al massimo due, oppure che vi si potevano alternare i membri della famiglia del tessitore, dall'altro si riconosceva che tale regola era continuamente contraddetta dalla realtà, alternandosi agli stessi telai, o spostando i telai di casa in casa, molteplici maestri (163).

Obtorto collo, alle autorità non restava altro da fare che concedere deroghe su deroghe. Per cui nel corso del XV secolo dapprima si concedeva ai vellutai e ai samiteri di poter lavorare per i mercanti a cinque e sinanco sei telai (oltre il telaio posseduto legittimamente secondo gli statuti), in seguito si annullava, o si cercava di farlo, tale concessione (164). Nel 1493 si reintroduceva la limitazione di lavorare a sei telai, considerato che, come si sarebbe denunciato nel 1559, alcuni tessitori avevano lavorato sino a 20-25 telai. A quest'ultima data sembrò opportuno limitarne ufficialmente il numero a sei, con l'eccezione della lavorazione degli ormesini per i quali, a fronte dell'elevata domanda di tale tessuto, che era di media qualità, si tollerava il lavoro su otto telai (165). Contemporaneamente (nel 1554) Si permetteva ai tessitori di lavorare per conto proprio con due telai: mediazione considerata necessaria, di fronte a un mercato del lavoro che vedeva la presenza di un eccessivo numero di tessitori, i quali premevano per una maggiore libertà d'azione (166).

Egualmente una rigida separazione dei ruoli tra tessitori e mercanti era respinta nei fatti dagli addetti del settore, i quali riuscivano già nel 1422 a imporre la norma che chi avesse voluto dedicarsi alla mercatura, avrebbe potuto farlo liberamente, salvo lasciarsi registrare dai provveditori del mestier della seta (a S. Giovanni Grisostomo, l'area chiave della lavorazione serica). L'unica condizione che si frapponeva era che chi fosse divenuto mercante a tutti gli effetti, e dunque un piccolo imprenditore, non avrebbe lavorato per conto terzi, pur non abbandonando completamente, egli stesso e il suo nucleo familiare, la tradizionale tessitura (167). Non diversamente la circostanza che si proibisse ai tessitori di essere "senseri" (mediatori), ai mercanti di tingere sete in casa propria, ai tintori di ingerirsi nella tessitura, tutto questo rifletteva un mondo del lavoro che si intersecava molto di più di quanto la legislazione volesse impedire (168). Insomma, nonostante la spontanea integrazione orizzontale fra i diversi corpi di mestiere, era pur sempre la diffidenza e la chiusura che si esprimevano attraverso l'atto legislativo e corporativo. La gelosia del mestiere esercitato poteva ad esempio spingersi sino alla proibizione di insegnarlo ai figli del mercante (169). Senza dire delle forme di controllo e delle ingiunzioni di pagamento a cui erano sottoposte le maestranze che volessero accedere al mercato del lavoro a Venezia (170); o ancora degli scontati sbarramenti frapposti periodicamente ad evitare esubero di manodopera proveniente dall'esterno; o, infine, delle sanzioni che si minacciavano, sin dal XIV secolo, contro coloro che volessero abbandonare la città per esercitare il mestiere al di fuori di Venezia (171). La stessa creazione del capitolo dei 25 mercanti da seta nel 1492 sembra che provocasse non pochi malumori tra i maestri e gli altri mercanti. I quali ultimi imposero, a salvaguardia della delicata funzione che i consoli andavano a svolgere, che questi stessi: 1) avessero almeno venticinque anni; 2) avessero tenuto bottega da quattro anni; 3) avessero tessuto direttamente almeno quaranta panni di seta in città (172).

Scarso successo conobbe invece il tentativo di impiantare a Venezia una lavorazione degli arazzi, eseguita da artigiani veneziani. La supremazia della tecnica fiamminga nell'uso del telaio verticale in luogo di quello orizzontale, ma anche la sensibilità artistica nell'esecuzione dei cartoni, lasciavano margini ristrettissimi a un'affermazione veneziana in questo settore. All'inizio del XV secolo si videro giungere proprio nella città lagunare i primi arazzieri fiamminghi (173), periodo in cui si assisteva a un progressivo spostamento di tale industria dai centri tradizionali dei Paesi Bassi meridionali e dalla Francia del Nord verso le province settentrionali dei Paesi Bassi, facendo di Anversa, nel corso del XVI secolo, il nodo commerciale e manifatturiero di quell'area (174). A questi primi arrivi a Venezia seguì tutta una schiera di artigiani che andarono a insediarsi nelle aree urbane, laniere e seriche tradizionali, confondendosi con Tedeschi, Fiorentini, Lucchesi. Non meno nutrito risultava il gruppo dei pittori cartonisti (Giovanni Rost, Bernardo van Orley, Giovanni van Eych), non di rado artisti attivi in altre città italiane, come il Rost al servizio dei Medici a Firenze o Bernardo van Orley, che collaborò con Raffaello alla preparazione di arazzi celebratissimi. In funzione complementare, ma di certo non assenti, i disegnatori veneziani, appartenenti alle scuole della migliore pittura veneziana del Cinquecento, da Tiziano a Tintoretto (175). Innegabilmente tuttavia la direzione e la commercializzazione del prodotto si svolgevano nelle Fiandre e sempre più ad Anversa, dove risiedevano le stesse compagnie italiane, che vi facevano affluire dalla penisola le sete grezze e lavorate, i filati d'oro e d'argento (da Milano e Firenze oltre che da Venezia), le materie coloranti, per riesportare poi l'arazzo finito nei mercati europei, da quello inglese a quello italiano. La presenza fiamminga a Venezia sia in termini commerciali, con i numerosi agenti ivi insediatisi, che produttivi, doveva accentuarsi nel corso del XVI secolo e conosceva un'ulteriore spinta in avanti con la crisi economica di Anversa (176), testimoniata dalla richiesta nei primi decenni del Seicento da parte di numerose maestranze fiamminghe di poter essere accolte a Venezia (177).

Il pellame

L'apporto dei forestieri non mancava di farsi avvertire non solo in tutto lo spettro delle industrie di lusso, ma anche in quei settori che con qualche difficoltà si potrebbero far coincidere con queste ultime. In effetti, la lavorazione della pelle, del rame e dei metalli in genere, del vetro domestico e del sapone si svilupparono a Venezia non meno dei laboratori e delle botteghe di carattere artistico. Vero è che i limiti imposti dagli equilibri ambientali emergevano chiaramente, tanto da veder relegate alcune lavorazioni, come quella della pelle, in un'area periferica della città, qual era l'isola della Giudecca. Le autorità veneziane dovettero accorgersi molto presto dell'inquinamento che la concia e la tintura delle pelli provocavano, tanto da proibire, nel 1366, di gettare le scorie della preparazione del cuoio nei canali (178). Tuttavia è legittimo chiedersi dove finissero davvero le sostanze prodotte da una lavorazione che impiegava, in tempi diversi, componenti altamente inquinanti, come allume di rocca (solfato doppio di alluminio e potassio), calce, estratto tannico di scorza di rovere, galle di quercia, mirabolanti e ingredienti vari per la tintura (179). Un vantaggio non indifferente per i canali che si volevano proteggere proveniva dalla circostanza che l'uso dell'acqua marina era proibito, risultando oggettivamente dannoso nella fase preparatoria che precedeva il distacco della superficie pelosa dalla pelle. Infatti, come è stato osservato, il sale contenuto nell'acqua della laguna, agendo da mordente, ostacolava lo stacco del pelo e, rendendo eccessiva la resistenza allo strappo, determinava dei guasti irreparabili alla superficie della pelle (180). Non a caso molto elevato risultava l'impiego di acqua dolce, trasportata in laguna su barche provenienti dal vicino entroterra. Tali difficoltà non avrebbero mancato di nuocere alla tenuta di questa industria, la quale sin dal XVI secolo dovette fare i conti con una preferenza sempre più marcata da parte dei mercanti-imprenditori nei confronti della Terraferma, dove i vantaggi comparativi risultavano sempre più evidenti.

Ma nel periodo dell'espansione commerciale tutto sembrava favorire il porto e i laboratori veneziani. Il trattato stipulato tra la città e il sultano d'Egitto nel 1262 aveva incrementato di molto l'arrivo dall'Oriente di pelli, conciate e rivendute in ruga della Pellizzeria a Rialto. Montoni e capretti dovevano probabilmente costituire il grosso di questa corrente di traffico (181). Le aree di approvvigionamento erano comunque molto più numerose e inglobavano sia il Mediterraneo che l'Europa del Nord, facendo di Venezia il polo manifatturiero e commerciale più importante del Mediterraneo, tanto quanto lo era Bruges per l'Europa del Nord (182). Pelli e pellicce giungevano ancora da Candia, dalla penisola balcanica, dalla Catalogna, dalla Puglia, dagli Abruzzi e dalle Marche; altre dall'Europa del Nord, trasportate sulle galere di Fiandra (caricate anche nel porto di Londra), altre ancora entravano in città grazie all'intermediazione del fondaco dei Tedeschi. Attraverso il fondaco e gli anseatici, tutti i tipi di pellicce dell'Europa del Nord affluivano a Venezia al pari di Bruges, congiungendo attraverso varie direttrici marittime e terrestri gli Urali siberiani ad Alessandria e Beyrouth (183). Venivano "ad discendam artem corii" artigiani veronesi come tedeschi, questi ultimi presenti sin dal Trecento sia a Vicenza, con una loro Fratalia teutonicorum, che a Venezia, dove formarono nel 1482 una Confraternita dei calegheri tedeschi, a dimostrazione del peso raggiunto nei confronti dell'omologa corporazione veneziana (184). In effetti il variegato quadro occupazionale rifletteva sia i diversi tipi di pellame che giungevano in città, sia l'articolata produzione di oggetti in cuoio che il pellame stesso alimentava. Alle banali calzature - ma anche di sofisticata fattura, come vedremo tra poco - si aggiungeva infatti la lavorazione del cuoio che interessava la marina (guarnizione dei remi e della velatura, corregge e otri), l'armamento (rivestimento di scudi ed elmi), la rilegatura dei libri, l'arredamento. Per questi ultimi settori, tipicamente più vicini ai consumi di lusso, si specializzarono i cuoridoro, gli artigiani che lavoravano i cuoi dorati. Considerato il gusto artistico che essi espressero, i cuoridoro invece di aderire alla corporazione dei curameri formarono una sezione autonoma nell'ambito dell'Arte dei pittori. Distribuiti in settanta botteghe i cuoridoro sviluppavano un giro d'affari non indifferente, calcolato nel XVI secolo approssimativamente in circa 100.000 ducati (185). E ovviamente, come in altre specializzazioni artistico-artigianali, gli influssi furono i più diversi, assimilando Venezia rapidamente la lezione che le giungeva dalla Spagna per quanto concerneva la preparazione delle tappezzerie in cuoio, dall'Oriente ma anche dalla Germania per ciò che riguardava la legatura dei libri. Il lusso e le spese eccessive, che soprattutto l'arredamento degli interni veneziani comportava, non mancarono peraltro di cadere sotto l'occhiuta sorveglianza dei provveditori alle pompe, i quali nel 1536 deliberavano che l'uso delle tappezzerie fosse consentito solo all'interno degli appartamenti dei magistrati (186). Più discreta, ma non meno lussuosa e raffinata, la legatura dei libri procedeva parallelamente alla forte espansione dell'editoria veneziana. Se quest'ultima era debitrice del mondo tedesco per l'introduzione degli stessi caratteri a stampa di Gutenberg, dalla stessa Germania giungeva l'uso del cuoio graffito, ben presto adattato a un più fine gusto veneziano. Molto più rilevante si dimostrava tuttavia l'influsso della tecnica orientale, che andava dai procedimenti di doratura a caldo, con oro in fogli sovrapposti alla pelle (introdotti da operai provenienti dalla Siria e dall'Egitto), all'ornamento di lettere greche, effettuato ovviamente da operai ellenici. La raffinatezza della legatura andò insomma di pari passo con l'evoluzione dell'editoria, la quale costituì un ramo produttivo non meno essenziale del mondo artigianale veneziano (187).

Lo stesso calzaturificio non mancava di avvicinarsi alle costose produzioni di lusso, di certo in grado di realizzare non minori profitti. Si ricorderanno almeno le famose scarpe femminili dal tacco altissimo, quasi dei trampoli, chiamate zopieggi o sopei, e presto diffuse, sin dalla prima metà del XV secolo, in tutta Europa, con il nome di chioppine o, alla francese, chopines (188). Ed ancora i guanti (altrettanto famosi quelli di Firenze e Rimini, e in grande voga nel Cinquecento i guanti profumati), fabbricati con grande perizia seppur con utensili relativamente semplici, impiegando pelli di capretto, di montone, di vitello, di volpe (189).

In effetti, sia per gli usi sopra indicati sia per la preparazione delle pellicce (il ramo probabilmente più florido dell'intero settore) non mancavano le spoglie degli animali più svariati: martore, ermellini, linci, faine, vai e scoiattoli, volpi e tutta un'ampia gamma di pelli ovine e caprine (agnelline, albertoni, soatti), dalle quali si ricavava un cuoio leggero (190). La scomposizione del mondo del lavoro, di fronte a tanta ricchezza di pellami, non poteva non risultare necessaria. A Venezia, al pari di Bruges e Lubecca, si era di fronte in effetti almeno a tre ordini di mestiere (allorquando in gran parte delle città europee essi si limitavano a due): i pellicciai che lavoravano le pelli di montone; i varoteri che lavoravano quelle del vaio (pelliccia grigia tratta dal mantello invernale dello scoiattolo siberiano e di altre speci); e quelli che si erano specializzati nelle pelli di ghiro (191). Non era infatti il solo commercio di importazione ed esportazione, calcolato in decine di migliaia di pelli trattate da un solo mercante, intercalato dalla concia e lavorazione delle pelli fatte a Venezia, che aveva portato a tale specializzazione, ma l'elevato consumo urbano. Sembra infatti che i rudi inverni del periodo 1345-1350 avessero portato a un forte incremento nell'uso delle pellicce anche nei paesi mediterranei. Circostanza che andava ad aggiungersi alla forte domanda, nobiliare e non, di Venezia stessa, in quanto l'ermellino ad esempio conosceva un impiego che superava quello limitato agli ordini più elevati. Basti dire che nel 1439 Andrea Barbarigo, commerciante tra i più affermati del settore, offriva alla consorte un abito per la confezione del quale erano stati impiegati 450 ermellini. E Andrea stesso utilizzava 80 pelli di montone per ricoprire le lunghe maniche aperte del suo vestito. Moltiplicando le spese accertate di questo "grand marchand" veneziano per il numero dei nobili veneziani dell'epoca (circa 1.500), si è ipotizzata una cifra massima di 65.000 ducati l'anno spesi a Venezia in acquisti di pellicce, tetto massimo e forse sovrastimato, ma in ogni caso non troppo lontano da un corretto ordine di grandezze (192). È sicuro peraltro che le fortune del Barbarigo e degli altri grandi commercianti veneziani del Quattrocento simboleggiavano l'evoluzione di un ramo produttivo poco studiato.

L'evoluzione del settore non avrebbe comunque confermato la situazione quattrocentesca. Il quadro che possiamo tratteggiare e riassumere in poche linee riconduceva a una cronica penuria di pelli comuni prodotte dall'allevamento veneto il quale, soprattutto dal XVI secolo in poi, sicuramente non si sviluppò in rapporto alla domanda delle concerie veneziane (193). Ciò provocò la forte dipendenza dall'estero, sino a quando il commercio veneziano resistette sul fronte internazionale. Un secondo e terzo aspetto furono la concentrazione crescente dell'intero settore nelle mani di pochi mercanti e la dislocazione delle concerie in Terraferma, dove esistevano condizioni di lavoro più vantaggiose (acqua dolce, manodopera a buon mercato, organizzazione del lavoro più flessibile, assenza di corporazioni). L'eccessiva regolamentazione sembrava quindi sortire risultati controproducenti. Nel 1564 si istituiva la Scuola degli onzadori di corami, ossia dei conciacorami (194), quando ancora pochi anni prima, nel 1548, si era lamentato che i mercanti facessero conciare le pelli nelle loro botteghe invece che farle lavorare dagli artigiani (195). Nel 1595, i savi alla mercanzia illustravano una situazione che volgeva rapidamente al peggio. Solamente 300.000 pelli, su un totale di 1.700.000, e le meno pregiate, erano state trattate a Venezia negli ultimi 24 mesi, la rimanente parte essendo stata inviata fuori dalla città, da 4-5 mercanti che controllavano l'intero mercato (196). Il numero degli artigiani (404 tra lavoranti, maestri e garzoni, distribuiti in 42 botteghe) risultava ormai eccessivo in questo scorcio di secolo: nel 1 744 Si ridurranno a 150 (197). Le balle di cordoani e moltonine che giungevano a Venezia (circa 10.000, per un totale di circa un milione e mezzo di pelli) davano egualmente lavoro, alla fine del secolo, solamente per sei mesi, e la specializzazione raggiunta dagli operai veneziani nella lustratura, follatura, tintura non sembrava più far fronte agli svantaggi già ricordati: in primo luogo, come ribadivano mestamente i magistrati, la forte umidità della città, che danneggiava le pelli, e la mancanza di acqua dolce (198).

La metallurgia

Gli stessi svantaggi contraddistinguevano le fucine veneziane, che pretendevano di lavorare al contempo il ferro, il rame, il bronzo e metalli pregiati come l'oro, l'argento, il peltro. Se infatti gli ultimi conobbero delle applicazioni artistiche di tutto rilievo (l'"arte nell'industria" come l'ha definita il Molmenti (199)) e soprattutto resistettero alla crisi che si profilò sul finire del XVI secolo, i metalli meno nobili dovettero affrontare molteplici condizioni sfavorevoli. Nei secoli dell'egemonia veneziana le autorità accettarono con difficoltà il principio che non si poteva al contempo aprire le porte ai prodotti in ferro provenienti dalla Germania, altamente concorrenziali, sviluppare in loco una siderurgia leggera, imporre elevati dazi sui metalli non lavorati, obbligare a trasportarli a Venezia, affinché pagassero dazio, allorquando esistevano nelle città limitrofe energia idrica e combustibile che ne permettevano la raffinazione a costi inferiori e risultati migliori (200). In effetti si ha la sensazione che per alcuni settori le difficoltà si manifestassero molto presto, tanto che nel 1354 i magistrati lamentavano - ma probabilmente con qualche esagerazione - il declino dell'Arte dei fabbri che operavano a Venezia, mettendo in evidenza al contempo il sorgere di molte fucine nei territori di Ceneda, del Trevisano, di Cividale, del Vicentino, oltre che di quelle località dove tradizionalmente si lavorava il ferro: il Bresciano, il Bergamasco e il Salodiano (201). È vero peraltro che nel 1430 si minacciava che non si portasse a Venezia ferro lavorato, ad evitare "la rovina della città" (202). Il fatto è che la concorrenza delle città di Terraferma, le quali talvolta esportavano le loro produzioni scavalcando il porto di Venezia (203), si aggiungeva a una serie impressionante di merci che giungevano al fondaco dei Tedeschi (204), Contrabbandi, importazioni dall'interno e dall'esterno dello stato, concorrenza internazionale, tutto ciò non impedì comunque che fra Quattro e Cinquecento si sviluppasse a Venezia tutta un'ampia gamma di prodotti che coprivano le necessità domestiche, l'armamento navale e soprattutto la fabbricazione delle armi, nel tentativo, solo in parte riuscito, in termini di durata nel tempo, di confrontarsi con l'omologa produzione bresciana. Sin dal capitolare del 1271 i fabbri si divisero dunque in tutta una serie di specializzazioni che tradivano l'articolazione di una produzione che andava dai coltelli (corteleri) alle varie armi, preparate in larga misura per e all'interno dell'Arsenale: frezzeri, corazzeri, spaderi, vaginari (fabbricanti cioè di frecce, corazze, spade, guaine). La lavorazione del ferro, forgiato solitamente alla tedesca o alla francese e ornato con decorazioni rinascimentali, non mancava di conoscere dei miglioramenti di rilievo, come nella fabbricazione delle corazze, miranti ad accrescerne la leggerezza senza ridurne la resistenza. Vittore Camelio è stato in proposito indicato come l'armaiolo che otteneva nel 1509 il privilegio per la preparazione di tali corazze (205). Restano tuttavia molti aspetti, in questo come in altri settori della fabbricazione delle armi, che meriterebbero approfondimenti maggiori.

Il rame era l'altro metallo strategico - necessario com'è noto alla monetazione e a tutta un'ampia gamma di lavorazioni che conosceva nella città lagunare un'evoluzione non meno originale (206). Anche nel caso di questo metallo era la raffinazione fatta a Treviso, e in misura minore a Verona, che rappresentava già a metà Quattrocento un pericolo immanente per i forni fusori presenti a Venezia (207). Qui, soprattutto al Ghetto, sin dal 1424 le capacità di raffinazione erano state potenziate per far fronte a una domanda che, nonostante tutto, spaziava dal vasellame ai fili di rame e ottone, oltre che ai candelieri, campanelli, ditali, bottoni e forbici di rame: articoli che talvolta si confondevano con quelli che giungevano dalla Germania ed erano riesportati da Venezia.

In effetti, l'evoluzione del settore avrebbe caratterizzato in misura crescente la funzione commerciale di Venezia, e guardato all'esportazione di rame non lavorato e di prodotti semifiniti, piuttosto che alla fabbricazione di prodotti finiti. Spinsero a un trend del genere due ordini di fattori: da un lato l'elevata pressione fiscale sul materiale grezzo importato dalla Germania, dall'altro le forti perdite (insostenibili alla lunga, per ciò che atteneva le tecniche veneziane) che si registravano nella fusione del rame, perdite che potevano talvolta raggiungere il 60% del materiale impiegato (208). È per questo che nella seconda metà del Cinquecento si sarebbe assistito a un ripensamento della politica fiscale sino ad allora seguita, esentando dal dazio d'importazione il rame che giungeva a Venezia con sempre crescente difficoltà, indirizzandosi verso altre direzioni (209). D'altro canto fu giocoforza rinunciare alla raffinazione completa da eseguirsi a Venezia: sempre più frequentemente fra le voci all'esportazione sarebbero figurati "rami sia grezzi sia cavadi dal battirame" (210). La forte dipendenza dai grandi mercanti tedeschi (Johann Thurzo, Jacob Fugger), l'approvvigionamento in aree che sfuggivano al controllo del commercio veneziano (lo Harz, l'Ungheria, il Tirolo, la Slovacchia (211)), le difficoltà ambientali avrebbero fatto precipitare il settore, negli ultimi anni del Cinquecento, al pari delle pelli, in una crisi da cui Venezia non si sarebbe ripresa con facilità.

Le industrie d'arte e i "conspicuous consumptions"

La lavorazione dei metalli d'arte conobbe invece, all'interno dello spazio urbano veneziano, un'affermazione durevole e sicuramente più resistente nel tempo. Non diversamente da altri settori artigianali-artistici si dovevano registrare dapprima un influsso bizantino e orientale, in seguito un influsso più marcatamente nordico (francese, tedesco, fiammingo). In effetti, ancora nel XVI secolo l'oreficeria sembrava ispirarsi al gusto tedesco e veniva esercitata da numerosi artigiani e gioiellieri dai frequenti contatti con quell'area (212). D'altro canto le incisioni in rame sovrapposte ai libri a stampa, e in particolar modo a quelli liturgici, imitarono le analoghe incisioni d'oltralpe, conosciute a seguito dell'arrivo degli eserciti francesi agli inizi del Cinquecento (213). La lavorazione del peltro, posta su solide basi a partire dal 1430, traeva vantaggio dall'emigrazione di artigiani provenienti dalle Fiandre, correnti migratorie che divenivano più intense in coincidenza delle difficoltà economiche che si potevano conoscere in quell'area, come ad esempio a metà Cinquecento. In ogni caso i peltreri veneziani, associatisi agli stagneri, intravvidero presto la possibilità di sottolineare i caratteri artistici di tale produzione, incrementandone le esportazioni, in aggiunta a una produzione domestica largamente consolidata (214).

Indubbiamente l'industria d'arte andava evolvendo parallelamente alle principali correnti artistiche (gotica, lombardesca, rinascimentale) e all'affermazione di singole personalità, seguire le quali ci porterebbe troppo lontani. In effetti è proprio in questo campo che è impossibile distinguere il laboratorio artigianale dalla bottega del maestro e attribuire all'uno o all'altra la miriade di oggetti che inondavano il mercato veneziano. Gli orafi erano ad esempio anche armaioli e, per continuare con questo settore, erano legati all'evoluzione di altre correnti artistiche, come la doratura e l'architettura (215).

L'arte del ferro battuto non conobbe forse a Venezia la perfezione che viene attribuita agli altri centri rinascimentali italiani, come Firenze, Siena o Milano (216). Tuttavia nella lavorazione del bronzo, a fianco di statue e monumenti che si proponevano, per volontà della committenza, finalità artistiche, occorrerà prender nota di tutta una serie di oggetti in bronzo (vasi, tazze, mortai, candelieri, calamai) che superavano frequentemente la quotidianità del semplice prodotto artigianale, rifacendosi in ogni caso agli influssi di altre aree (217). Non fu infatti circostanza fortuita che il trattato più rappresentativo nelle tecniche di fusione del bronzo sviluppate in Italia (e degne di reggere il confronto con il know-how più avanzato, di origine tedesca, vale a dire il De re metallica di Georg Bauer Agricola) fosse pubblicato a Venezia: De la Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio, del 1540 (218). Trattato a dire il vero che, diffondendosi sulle tecniche di lavorazione degli altri metalli, come l'oro, l'argento, l'ottone, più di ogni altro rifletteva la complessità e i progressi raggiunti nelle tecniche di fusione, le quali andavano ad incrociarsi ad altre lavorazioni, apparentemente molto lontane, quali erano i filati d'oro ed argento (219).

Fra le numerose specializzazioni di cui si componeva l'Arte degli orefici (gioiellieri, diamanteri, cesellatori, pittori di smalto, fonditori a lutto e a staffa, lavoratori di catenine d'oro di filigrana, di catene d'oro massiccio, di rubino, di smeraldo, di medaglie) si distingueva quella degli sfaccettatori di diamante e di cristallo di monte o di rocca (220). Tale specializzazione era strettamente legata all'importazione delle pietre preziose dall'Oriente, giunte soprattutto dall'India attraverso la Persia (221). La sua importanza venne sancita nel 1284, allorquando si costituì l'Arte dei cristalleri, indipendente da quella degli orefici e anche da quella dei vetrai, come si vedrà subito dopo (222). Rilevanza che si sarebbe confermata sino a tutto il XVI e gli inizi del XVII secolo, allorquando con 186 intagliatori di diamante Venezia costituiva ancora il maggior centro di lavorazione del diamante (223). Tuttavia era proprio il XVI secolo che vedeva affacciarsi nuovi concorrenti, parallelamente all'apertura di nuove correnti di traffico, in direzione di Lisbona e Anversa. Un ramo della ricca famiglia degli Herwart di Augusta, quello di Jorge Herwart, apriva non a caso un importante laboratorio per il taglio dei diamanti a Lisbona, dove giungevano i diamanti grezzi. Considerati gli stretti rapporti tra Lisbona, il commercio tedesco e l'espansione di Anversa, era quest'ultima che diveniva lentamente il punto nodale dell'importazione-lavorazione del diamante, con una grossa diamantensnydernatie (corporazione degli intagliatori di diamante), formatasi nel 1584. In seguito, a causa della forzata migrazione di molti artigiani da Anversa, sarebbe stata Francoforte a trarre i maggiori vantaggi da quella qualificata ondata migratoria, vedendo installarsi tra le sue mura circa 51 maestri, che costituirono comunque non più di 1/3 della manodopera attiva ad Anversa (224). In ogni caso tali gruppi artigianali sia ad Anversa che a Francoforte non sembra che superassero, secondo questi pochi dati a disposizione, le maestranze attive a Venezia.

Perle, pietre preziose, diamanti, oro, tanta ricchezza non poteva non preoccupare il governo della città, che ricorreva periodicamente a una politica restrittiva - al pari di altre città italiane ed europee - al fine di evitare lo spreco di patrimoni privati e pubblici nell'acquisto di beni superflui (225). L'istituzione, nel 1476, dei provveditori alle pompe va vista dunque in quest'ottica, considerato che le tentazioni di incanalare fiumi di denaro in consumi eccessivi (dai cibi al vestiario, dai gioielli alle pellicce) non erano di sicuro assenti nella Venezia quattro-cinquecentesca (226). Tuttavia, crisi di bilancio e pressanti necessità finanziarie - come ad esempio nel 1437 in coincidenza della guerra di Milano - inducevano a sostenere tali emergenze attraverso tutte le risorse economiche disponibili (227). Che poi si riuscisse nell'intento è altra questione, come sta a dimostrare tutta una letteratura che ha messo in evidenza l'inefficacia di tale legislazione. Circostanza di cui erano ben consapevoli le stesse autorità, le quali non a caso dopo qualche tempo ritornavano sulle decisioni prese, annotando mestamente che non appena si era intervenuti in un settore, la corruzione dilagava in altri campi, oppure semplicemente la norma non veniva applicata (228).

Il problema di fondo era comunque un altro, ed era che una legislazione siffatta contraddiceva manifestamente gli interessi di tutto un tessuto economico vasto e articolato qual era quello rappresentato dalle industrie di lusso veneziane. Nel caso della produzione di belletti e profumi come impedirne ad esempio l'uso e abuso, allorquando la domanda da parte delle sofisticate gentildonne veneziane e delle famose cortigiane appariva in forte espansione, essendosi ormai costituito un significativo settore economico? (229). Sapere artigianale in cui vennero ad incrociarsi, oltre che la magia e l'alchimia, sempre presenti nella cultura rinascimentale, una jatrochimica, affermantesi in questi decenni, e una tecnologia di carattere moderno. Avanzamento di conoscenze che trovavano a Venezia il centro privilegiato di diffusione, grazie alla pubblicazione ivi avvenuta di due trattati fondamentali: i Notandissimi secreti de l'arte profumatoria di Giovan Ventura Rosetti (1555) e gli Ornamenti delle donne di Giovanni Marinello (1562). Diffusione ancora di pratiche tintorie, cosmetiche, farmaceutiche e chimiche che superavano, con la pubblicazione di questi primi trattati a stampa, i segreti di una fabbricazione tramandati oralmente, e che andavano di pari passo con una sensibilità accentuata nei confronti dell'odore e del profumo, facilmente debordante nella mollezza e nella trasgressione (230).

Prodotti di lusso, prodotti di massa: il sapone, la cera, lo zucchero

Vicini a questa caratteristica produzione di lusso, ma al contempo contrassegnati da un maggiore significato economico, e soprattutto destinati a coprire un mercato più vasto, i saponifici veneziani costituirono un ramo importante della produzione manifatturiera della città almeno sin dal XIII-XIV secolo. Evidentemente non bisogna prendere in eccessiva considerazione le lamentele dei magistrati veneziani di un supposto "declino" del settore, delineatosi già sul finire del XIV secolo, tali denunce rappresentando quasi un leitmotiv delle magistrature veneziane, che contrastavano invece con l'affermazione, ampiamente testimoniata, dei manufatti veneziani nei mercati internazionali. Secondo i magistrati infatti, già nel 1391, l'Arte dei saponi, che "un tempo" aveva dato lavoro a molti artigiani veneziani, soffriva della concorrenza di quei saponifici rivali che erano sorti in altre città, non ultima Ancona, che a loro dire aveva strappato quote di mercato rilevanti ai saponi veneziani (231). Un secolo più tardi il senato rilevava che erano sorti saponifici a Gaeta e Gallipoli, grazie a costi di produzione più bassi rispetto a quelli veneziani, dovuti alla maggiore disponibilità di olio e di ceneri (232). In effetti, il fabbisogno in olio era rilevante nel processo di produzione del sapone, costituendo circa 1/3 del peso finale del prodotto (nel corso del Cinquecento per 18.000 libbre di sapone occorrevano circa 6.000 libbre di olio). Erano necessarie ancora 3.000 libbre di soda di Siria e 1.500 di soda egizia, ottenute dalla combustione di piante ricche di sostanze alcaline e gettate nella caldaia al fine di procedere alla "cotta" (233), Sia l'olio che le ceneri importati a Venezia costituivano l'oggetto di una regolamentazione molto severa oltre che pesante sotto il profilo fiscale, tanto da minacciare la redditività dell'intero settore (come in effetti avvenne nel corso del XVII e XVIII secolo, allorquando i saponifici veneziani non ressero la competizione dei loro diretti concorrenti) (234). D'altro canto, nonostante le nostre informazioni dirette siano estremamente scarse per il XV e XVI secolo, i Veneziani dei secoli del "declino", il Settecento soprattutto, considerarono il Quattro e il Cinquecento come i secoli d'oro delle importazioni olearie e della produzione di sapone (235). In effetti già nel XIV secolo il settore appariva ben avviato, costituito com'era non solo da "numerosi e minuscoli opifici, prevalentemente domestici, [...> ma anche da grosse società, come quella costituita nel 1389 [...> fra il nobile Pietro Marini, Rolando Ognibene e Pietro Dolze, con un capitale di 20.000 ducati d'oro" (236). Nel 1489 la Repubblica si sentiva sufficientemente forte per proibire di produrre sapone fuori di Venezia (237), concentrando tale attività nei suoi soli saponifici. Questi assommavano agli inizi del XVII secolo a 17 unità, con 40 caldaie attive, tutte destinate tuttavia a conoscere un netto declino nel corso del secolo (238).

Molto meno di quanto sarebbe necessario sappiamo della fabbricazione della cera, la quale, importata dalla penisola balcanica allo stato greggio, veniva lavorata a Venezia (nel 1591 in 23 impianti (239)) per la produzione di candele, sia per la riesportazione che per gli usi domestici e religiosi interni (240). Si calcolava in effetti, a una data peraltro più tarda, agli inizi del XVII secolo, che i cereri riesportassero 1/4 della cera grezza importata e biancheggiata, circa 2.300.000 libbre, concorrendo dunque ad alimentare una notevole corrente di esportazioni, indirizzate verso città come Roma, Napoli, Firenze (241). È molto probabile tuttavia, ripensando al restringimento dei mercati di esportazione che si registrerà per le altre produzioni manifatturiere nel corso del XVII secolo, che nel Quattro e Cinquecento tali esportazioni si indirizzassero verso mercati ancor più lontani delle città italiane sopra menzionate, ipotesi comunque che dovrà essere confermata da ricerche più analitiche.

Di certo non meno della cera, lo zucchero, importato da diverse regioni del Mediterraneo (Cipro, Creta, la Sicilia, Malta, l'Africa del Nord e in special modo il Marocco, la stessa Spagna) costituì un prodotto raffinato e di lusso, in sintonia con le capacità di trasformazione della Repubblica. Ad esempio, sin dagli inizi del XIV secolo un attivo interscambio era stato posto in essere con l'Inghilterra, dove si vendeva zucchero in cambio di lana fiamminga e inglese e dove l'analisi dei prezzi di acquisto in Oriente e di rivendita agli importatori fiamminghi e inglesi testimonia che la raffinazione era già avvenuta a Venezia (242). Il debito nei confronti delle tecniche orientali e soprattutto arabe era enorme: arabe risultavano le tecniche irrigue necessarie alla coltivazione della canna da zucchero; di origine araba il mulino impiegato per la macinazione della canna da zucchero, mosso dall'energia idrica o animale (243). Non è un caso quindi che i Corner nel momento in cui divennero concessionari del distretto di Piscopi nell'isola di Cipro, uno dei pochi ad essere costantemente irrigato, rivolgessero ogni cura al potenziamento della rete irrigua e all'impiego dell'acqua per una prima trasformazione del prodotto. A tal fine avevano trasportato nell'isola due caldaie di rame di grandi dimensioni, necessarie alla bollitura dei succhi. Ma se da Cipro lo zucchero giungeva a Venezia in larga misura già raffinato, dalle altre aree produttrici veniva avviato alla capitale ancora in polvere, per essere solo allora definitivamente trasformato: lo zucchero assumendo maggior valore nella misura in cui subiva molteplici bolliture (244).

E di ottima qualità doveva risultare lo zucchero raffinato nelle più diverse forme (zucchero candito, violato, rosato, in polvere, in pani, in confetti) e riesportato da Venezia in tutta l'area del Mediterraneo e dell'Occidente. Sicuro è in effetti che sino all'inizio del Cinquecento Venezia rimase "la capitale sucrière de l'Occident, marché d'importation majeur fixant les prix, et redistribuant le sucre à travers les couches sociales aisées de l'Occident chrétien" (245). In questo stesso periodo, l'affermazione-competizione dello zucchero nei confronti del miele - l'altro dolcificante classico dell'epoca - assumeva dunque un significato elitario, che si sarebbe peraltro perso gradualmente nel corso del Cinque e Seicento, in coincidenza con l'affermazione di altri centri di trasformazione. Con l'espansione coloniale, soprattutto nell'area atlantica, lo zucchero, da tipico prodotto di lusso, sarebbe divenuto in effetti bene di più largo consumo, trend evidenziato a sufficienza da una produzione saccarifera decuplicata alla fine del XVI secolo rispetto agli inizi del secolo (246).

Ancora una volta era ad Anversa che sorgevano agli inizi del Cinquecento i primi zuccherifici, in grado questa volta di muovere una concorrenza più dura a Venezia di quanto Genova fosse riuscita a fare sino a quel momento (quest'ultima aveva potuto controllare nel basso Medioevo lo zucchero importato a Barcellona, Granada e Valencia). Una prima raffineria fu aperta nella città fiamminga nel 1508 da Jan Bela Flie, mentre nel 1513 Jan Vrancken era indicato come "raffineur de sucre", salendo il numero degli opifici dal 1500 al 1539 a ben 19 unità (247), L'accaparramento della crescente produzione saccarifera diveniva inevitabilmente in questo contesto il fattore fondamentale che incideva sui costi finali del prodotto.

E ovviamente la forte espansione della coltivazione della canna da zucchero, sotto gli auspici del Portogallo, a Madeira (a partire dagli anni '20 del Quattrocento), nelle Canarie (all'incirca dal 1480) e in seguito nelle isole di Capoverde, avrebbe favorito i porti del Nord Europa, che potevano importare lo zucchero grezzo a costi di trasporto inferiori rispetto a quelli che doveva affrontare Venezia (248). Non a caso nel 1520 si denunciavano minori arrivi di zucchero grezzo e si esortavano tutte le galere "da viazi" a incrementare le importazioni del prodotto da Valencia e dalla Sicilia (249). E nel 1622, allorquando i savi alla mercanzia tracceranno un quadro generale dell'import-export del prodotto, abbastanza fosco, denunceranno la perdita dell'importante mercato tedesco, rifornendosi quest'ultimo nelle Fiandre. La stessa Lombardia, la Toscana, la Romagna, il Regno di Napoli si approvvigionavano, a detta dei magistrati, a Livorno, allorquando prima caricavano grandi quantità di zucchero, in pani, a Venezia (250).

Il vetro

Produzione probabilmente la più rappresentativa dell'economia veneziana, la vetreria avrebbe resistito più di ogni altra alla concorrenza internazionale e all'usura del tempo. Le origini, gli sviluppi e l'impatto con gli altri paesi produttori seguirono in filigrana la stessa evoluzione che abbiamo individuato per gli altri settori economici, salvo tuttavia caratterizzarsi per una maggiore originalità sia nelle tecniche di fabbricazione che nell'esecuzione artistica. Si sbaglierebbe comunque a sottolineare del vetro le sole caratteristiche di tipico prodotto di lusso. In realtà sin dalle origini e fino al Quattrocento finestre e tutta una gamma di vetrerie comuni (bottiglie, bicchieri, brocche) costituirono buona parte dell'industria di Murano. Non a caso alle origini l'Arte del vetraio si identificava con quella dei fiolari, termine con cui si indicavano coloro che lavoravano le cosiddettefiole o fiole ossia le bottiglie panciute a collo stretto e gli "altri vetri cavi destinati a scopi utilitari" (251). In particolare i fenestreri costituirono una loro corporazione, rappresentando in questo probabilmente un esempio unico in Italia. Erano tali finestre fondamentalmente di due tipi: i vetri tondi, i cosiddetti rui, "uniti con piombo filato oppure ottagonali e alternati a lastre più piccole romboidali, sempre legate con piombo filato" (252). Si è raccolta una testimonianza preziosa che illumina il peso di questa produzione, la quale prendeva decisamente la direzione dei paesi esteri. Nella prima metà del Cinquecento venivano importate ad esempio in Polonia 230.000 lastre per le finestre del castello di Wawel: ebbene 140.000 (il 60%) giungevano da Venezia. Anche i borghesi, si è osservato, facevano mettere vetri veneziani alle loro case. Ovviamente ancor più rilevante appariva il ruolo giocato dal vetro d'arte nelle importazioni in Polonia, paese che dal XV secolo era largamente aperto ai prodotti di lusso provenienti dall'Italia, e da Venezia in particolare (253). Volume di traffici quest'ultimo difficilmente quantificabile, e che non costituiva il grosso del commercio polacco, ma che purtuttavia esprimeva un valore importantissimo in termini culturali e artistici (254).

Del resto fu in questa direzione che la vetreria veneziana si spinse decisamente a partire dal XIII-XIV secolo, ereditando la tecnologia romana e araba, attraverso i contatti con l'Oriente, da cui fra l'altro si importò a lungo vetro rotto per riutilizzarlo e raffinarlo (255). Non bisogna infatti dimenticare, nella valenza artistica della vetreria veneziana, che la città lagunare si distingueva nettamente dagli altri centri produttori europei in quanto fondamentalmente stanziale, mentre com'è noto molte fornaci medievali erano itineranti. Utilizzavano cioè il patrimonio boschivo in cui si trovavano a operare e in seguito si spostavano in altre aree alla ricerca del combustibile necessario. È molto probabile tuttavia che alla lunga la dipendenza energetica dell'isola di Murano dalla Terraferma non favorisse il sorgere di opifici di maggiori dimensioni, come invece avverrà ad esempio alcuni secoli più tardi nella Francia di Colbert (256).

Un altro aspetto tipico della vetreria veneziana e dei suoi produttori era costituito dalla loro appartenenza alla struttura corporativa della città, e non a quei ceti particolari che in alcuni paesi europei vennero addirittura nobilitati, probabilmente per la delicatezza della loro funzione, primi fra tutti i gentilshommes verriers francesi (257). A livello di organizzazione di mestiere non venne imposta, almeno nei primi secoli, come il XIII e il XIV, una rigida esclusività veneziana, per cui si assistette al solito travaso di manodopera dalla Terraferma verso la città lagunare, come alla chiusura e successiva installazione di vetrerie appartenenti a piccoli imprenditori di Venezia come dei centri viciniori. In effetti, a seguito della peste del 1348, almeno tre famiglie padronali di origine padovana e friulana (i dalla Frattina, i da Pianiga e i da Stra) cessarono la loro attività a Murano, sostituite da altri imprenditori non muranesi (258). Così come per tutta la seconda metà del Trecento e gli inizi del Quattrocento l'elenco degli Umbri, degli Emiliani, dei Lombardi e soprattutto dei Toscani, giunti a Murano come addetti ai forni, alle fornaci, alla tintoria - ma anche ritornati in patria dopo qualche tempo - restò sempre molto nutrito (259). Non potevano mancare, proprio in questo settore, i soliti interventi atti a trattenere a Venezia gli artigiani più qualificati, soprattutto allorquando, superata la crisi demografica conseguente alla pestilenza trecentesca, affermatosi nei mercati internazionali il vetro di Murano, divenne scontata una politica di protezione dei conseguiti segreti professionali e degli interessi di mestiere. In effetti con disposizioni emanate nel 1469 e ribadite nel 1482 e nel 1489 si legiferava che "nissun forestier" (fachini, schiavoni, o altri) potesse lavorar vetro o esser padrone di fornace, o "haver compagnia cum algun de l'arte, per lavorar veri cristallini, né paternostri..." (260). Provvedimenti a dire il vero così esclusivi da rivelarsi controproducenti all'espansione stessa del settore, tanto che fu necessario attenuarli, al fine di non privare le vetrerie della manodopera che incominciava a scarseggiare. A tal uopo si congelò il numero dei lavoratori forestieri presenti in città, si introdussero delle misure restrittive per quanto concerneva la futura migrazione, senza precludere un ricambio fisiologico della manovalanza necessaria (261).

La chiusura del mondo del lavoro andava di pari passo con il perfezionamento della legislazione esistente, la quale risaliva, come per altri mestieri, almeno al XIII secolo. L'antico capitulare de fiolariis, redatto nel 1271, diveniva peraltro nel 1441 la mariegola dei verieri de Muran, recependo l'articolazione e la spiccata specializzazione della produzione vetraria. Vediamo in tal modo aggiungersi ai padroni di fornaci, maestri e operai, già contemplati nel capitulare, una gamma articolata di fioleri, cristalleri, margariteri, specchieri, fenestreri e stazioneri. Erano tutte queste Arti dedite alla lavorazione del vetro e residenti in gran parte a Murano, ad eccezione degli stazioneri, i quali operando a Venezia vendevano veri al minuto, costituendo una loro mariegola nel 1436 e trovandosi talvolta in contrapposizione ai padroni delle fornaci di Murano (262). Del resto è assurdo ipotizzare un rapporto idilliaco tra i diversi vetrai dell'isola: prova ne è che sul finire del Cinquecento (in uno scorcio di secolo peraltro caratterizzato da una incipiente crisi del settore) la mariegola dei cristalleri segnalava una situazione conflittuale fra maestri e lavoranti-garzoni (263). Al fine di attenuarla, in accordo con quelle che erano le linee di fondo della legislazione sociale veneziana, si imposero otto giorni di preavviso al maestro vetraio che avesse voluto liberarsi dei suoi lavoranti-garzoni, ma lo stesso periodo di tempo ai garzoni che avessero voluto allontanarsi dal loro maestro (264).

Molto più forte appariva tuttavia - a fronte di una problematica sociale interna da non sottovalutare, ma pur sempre non dirompente - il timore crescente, manifestatosi almeno da metà Quattrocento, che i procedimenti più segreti della fabbricazione del vetro si diffondessero al di fuori della città. Sono in proposito leggendari gli strumenti legislativi e penali approntati al fine di impedire la fuoruscita degli artigiani muranesi, senza per questo sortire risultati definitivi (265). D'altro canto la segretezza con cui si volle circondare tali procedimenti, e la trasmissione orale di queste conoscenze, portò alla mancata redazione di un trattato tutto veneziano. Di conseguenza sarà necessario attendere la pubblicazione de L'arte vetraria di Antonio Neri, avvenuta a Firenze nel 1612, per trovare una trattazione esauriente della materia, rifacendosi essa esplicitamente a tutto un patrimonio tecnico e terminologico chiaramente di origine muranese (266).

Le ragioni per impedire la diffusione dei risultati tecnologici raggiunti a Murano non mancavano sicuramente a metà Quattrocento, essendosi raggiunto in questo torno di tempo l'apice di un sapere consolidatosi almeno negli ultimi due secoli. Esso andava dalla fabbricazione delle grandi vetrate artistiche per chiese e palazzi, colorate con una tecnica avanzata, per la quale furono debitori soprattutto dei maestri vetrai francesi (267), alla lavorazione delle prime forme di cristallo, dagli occhiali alle perle, dagli specchi ai famosi veriselli (i vetricelli, i piccoli vetri colorati che imitavano le pietre pregiate). Se infatti l'invenzione degli occhiali sicuramente non è da attribuirsi ai Veneziani (la si colloca solitamente nel XIII secolo e la si attribuisce piuttosto ai Fiorentini) ciò nonostante la fabbricazione degli stessi conobbe a Murano un rapido sviluppo, specie presso i cristallai più che presso i vetrai, come argomenta opportunamente Luigi Zecchin (268). Essendo pervenuti ancora i produttori veneziani a lavorare il cristallo di rocca (una varietà di quarzo trasparente, o quarzo ialino, con il quale si approntavano le lenti), i magistrati si preoccuparono ben presto di reprimere ogni abuso che spacciasse il vetro per cristallo (269). Vero è tuttavia che tali norme non riusciranno a impedire del tutto che gli occhiali, divenuti agli inizi del XIV secolo un oggetto di largo consumo (i "rodoli de vero da ogli per lezer", com'erano suggestivamente indicati nel capitolare dei cristalleri) utilizzassero sempre più il comune vetro piuttosto che il vero cristallo (270).

Comunque sia, nessun dubbio sussiste che i cristalleri andassero a giocare un ruolo privilegiato fra i lavoratori del vetro, evidenziato fra l'altro dal fatto che essi potevano restare in attività tutto l'anno, a differenza di tutti gli altri addetti del settore. Questi ultimi infatti, padroni di fornaci e maestri lavoranti, erano obbligati a limitare la loro attività lavorativa a nove mesi e mezzo (da metà ottobre a fine luglio, secondo le disposizioni fissate nel lontano 1291 e confermate nel 1469). Si erano in effetti decisi in quella circostanza da un lato la chiusura delle fornaci a Venezia, dall'altro il trasferimento definitivo delle vetrerie, per ragioni di sicurezza e igiene, a Murano, limitando il periodo lavorativo dei maestri vetrai ai mesi più favorevoli per la fabbricazione del vetro, evitando quelli estivi e più caldi (nei restanti mesi si sarebbero curate le esportazioni e i lavori di riattamento e pulizia delle fornaci) (271). A Venezia sarebbero sopravvissuti solo i laboratori di più modeste dimensioni, e soprattutto quelli che lavoravano i veriselli, purché, come si stabilì nel 1292, distassero almeno cinque passi dalle abitazioni (272).

Ciò che comunque rafforzò la posizione dei cristalleri, sia in termini merceologici che di strategie di mestiere, sarebbero state le innovazioni tecnologiche intervenute all'incirca a metà Quattrocento. Com'è noto nella composizione della fritta, vale a dire il materiale informe da cui si ricavava il vetro, intervenivano la silice (vetrificante), la cenere sodica (il fondente) e il decolorante, identificato a Murano con il manganese. È molto probabile che nella realizzazione del vetro cristallino - vale a dire quella varietà di vetro incolore e terso, privo di imperfezioni - si sommassero miglioramenti decisivi nell'impiego di questi materiali, dovuti all'accumulo di conoscenze e di nuovi tentativi, coagulantesi all'incirca a metà XV secolo, piuttosto che l'"invenzione" di un singolo vetraio, magari geniale, talvolta identificato con il più noto di quel periodo cruciale, Angelo Barovier (273). In particolare sembra che l'avanzamento nelle tecniche si realizzasse nell'uso della silice, ricavata da ciottoli quarzosi, provenienti sino al XV secolo dal letto dei fiumi veneti (il Sile innanzitutto), e a partire dai primi decenni del Quattrocento dal Ticino (274), Non meno qualificante, nella produzione del cristallo e del vetro veneziano in genere, si rivelò l'uso della cenere sodica anziché di quella potassica, espressamente vietata dalle autorità veneziane (275). Il vetro veneziano si presentava quindi privo di quelle tracce di ferro e piombo che comparivano negli altri vetri, i quali non potevano competere con la trasparenza e purezza del soffiato veneziano (276).

Le innovazioni nella fabbricazione del cristallo non potevano che accrescere lo spirito di chiusura delle autorità veneziane (giustizia vecchia, provveditori di comun) come, e probabilmente ancor di più, dei vetrai muranesi. Questi ultimi infatti, per proteggere il loro know-how, diventavano diffidenti e gelosi nei confronti degli stessi rivenditori veneziani, ai quali si sarebbe voluto impedire, nel 1463, di porre in vendita nelle loro botteghe i recenti cristalli. Nel 1482 i provveditori di comun sembravano dunque recepire queste istanze, ribadendo che "nissun forestier" potesse essere padrone o socio di una fornace "de veri cristallini, semplici et compositi". Inoltre che potessero rivendere a Venezia "i sopraditi veri cristallini massicci et sopiadi soltanto i loro stessi fabbricanti" (277). Interessi legittimi, ma potevano proteggersi davvero i maestri vetrai dalla concorrenza degli altri produttori? I vari paesi europei non sviluppavano l'uno contro l'altro un autentico spionaggio industriale, rivelando un'aggressività che appariva proporzionale alla forza economica che essi esprimevano? (278). Nel 1494 gli stessi muranesi lamentavano che alcuni bergamaschi se ne erano andati per Venezia a vender "vitra cristallina sufflata, paternoster, oldani et alia vitra cristalina, tam simplicia quam misturata". Alcuni anni dopo, nel 1501, erano costretti ad annotare che i lavoranti "ultramontani, zenovesi et fiorentini et de altri luoghi et terre aliene", che avevano lavorato presso di loro, tornando in patria, sufficientemente edotti sui nuovi sistemi di fabbricazione, divulgavano a piene mani le ricette "a fare cristallino" (279).

L'imitazione del cristallo veneziano si accompagnava a una celebrazione che non aveva limiti geografici o culturali. Storici, letterati, viaggiatori (Marin Sanudo, Pietro Aretino, Marc'Antonio Coccio Sabellico, Felix Faber, Pietro Casola), trattatisti (Tommaso Garzoni, Leonardo Fioravanti, Leandro Alberti), scrittori di tecnica mineraria (Vannoccio Biringuccio, Georg Bauer Agricola), tutti esaltavano, riecheggiando le impressioni di visitatori, turisti e politici del tempo, le capacità di esecuzione degli artigiani veneziani e l'insuperabilità degli oggetti artistici prodotti (280). Testimonianze che ricordavano l'affermazione non solo del cristallino - per tutto quel periodo che andò da metà XV secolo alla metà di quello successivo - ma di tutta una serie di specialità vetrarie (numerose le testimonianze dei rapporti diretti tra pittori e vetrai), conoscenze nell'uso dei materiali, dei colori e della decorazione. Gli specchi di cristallo, eseguiti con un brevetto concesso ai fratelli Andrea e Domenico dal Gallo nel 1507, sicuramente rappresentarono l'applicazione di un nuovo materiale, il cristallo, a un oggetto di largo consumo. In questa particolare produzione (specchi d'acciaio e di vetro) Tedeschi e Francesi avevano controllato quote consistenti del mercato internazionale. Ora i Veneziani, introducendo una nuova tecnica - consistente nello stendere un sottile strato di stagno su una superficie vitrea cristallina - inondavano i mercati europei con un prodotto che era riuscito a sposare una tecnica avanzata con uno spiccato gusto artistico (281). Nel 1549 Vincenzo dal Gallo, ottenendo il privilegio di un nuovo procedimento, consistente nella possibilità di effettuare delle incisioni sugli specchi, con il diamante o con una pietra silice, a scopo decorativo (282), consolidava il predominio veneziano in questo campo.

Varietà di prodotti vitrei che superavano del resto il pur importante cristallo, al quale si affiancò ad esempio il cosiddetto lattimo, un particolare vetro bianco-opaco: citato per la prima volta nel 1420, il lattimo si sarebbe affermato parallelamente alla forte espansione del cristallo (283). Né minore rilevanza economica rivestirono le conterie, termine con cui si indicavano genericamente le perle di vetro, soffiate da artigiani specializzati chiamati appunto suppialume (284). Perle grosse da vetro, di colori diversi e raffinati, costituivano i paternostri e le corone da preghiera, che alimentavano una non meno redditizia corrente d'esportazione e che facevano capo a specializzazioni di mestiere ben distinte, come i margariteri e i paternostreri da vero (285).

A fronte di tante specialità, è quasi una legge economica che la concorrenza internazionale cerchi in ogni modo di impadronirsi delle conoscenze tecnologiche raggiunte dagli avversari, nel caso veneziano sia arruolando transfughi muranesi, sia imitandone tout court le produzioni. I vetri façon de Venise si diffusero in tutta Europa e a partire da metà Cinquecento divenne sempre più difficile distinguere i vetri importati da Venezia da quelli fabbricati in loco. Del resto a questa data, attorno al 1550, il numero delle vetrerie maggiori raggiunse il picco più elevato, trentasei, riducendosi a ventiquattro nel 1607-1608 e a solamente venti nel 1621. Gli addetti nel corso del XVI secolo, stimati in circa 3.000 unità (pressoché la metà della popolazione di Murano, che ammontava a circa 7.000 abitanti (286)), non potevano di certo competere con i molto più numerosi addetti del settore laniero o di quello serico. Tuttavia essi sicuramente rappresentarono non solo una forza di base dell'economia veneziana, un settore specialistico e qualificante, ma anche, e soprattutto agli occhi degli osservatori europei, uno dei simboli della civiltà veneziana.

Le altre Arti. Il mobile, la ceramica, gli strumenti musicali e la stampa

Troppo lontano ci condurrebbe seguire i contatti tra vetrai e le altre Arti veneziane, sebbene essi fossero intensi e carichi di significato economico e artistico. Si pensi solo ai rapporti tra i fenestreri e la costruzione di palazzi ed edifici artistici (287). Del resto, abbordare la produzione artistica nell'ottica delle strutture associative della manodopera - oltre che dei mercati, dei costi economici e delle tecniche - appare sempre impresa di difficile riuscita (288). Tanto tale produzione si scontrava con le regole rigide del "collectivisme statique" imposto dalle Arti, privilegiando essa i rapporti con il mecenate o il capitale ed esprimendo la creatività dell'artista in conflitto con gli altri maîtres (289). Ci si trova quindi di fronte ad artigiani che da un lato erano obbligati ad appartenere a una determinata corporazione - come praticamente avvenne a Venezia a partire dal 1539 - dall'altro conquistavano una grande fama grazie all'originalità della loro produzione (sebbene si sia lontani dal poter seguire le loro biografie in modo soddisfacente).

Il mobile e la ceramica si presentavano come dei settori a metà strada tra una produzione di largo consumo e una a vocazione di carattere artistico. Siamo peraltro scarsamente informati, per quanto concerne il mobilificio, sulle strategie di mestiere e sulle sue caratteristiche, per quanto chiaramente agli inizi del XV secolo il mobile avesse superato la stretta funzione domestica e fosse divenuto elemento estetico e decorativo dell'abitazione. Le politiche governative lasciavano egualmente intravvedere un'attitudine non rigida nell'accettare marangoni, intajadori e maestri di tarsia all'interno dello spazio urbano veneziano, segno di un'occupazione e di un mercato largamente espansivo. I moduli artistici rinascimentali non mancavano neppure di lasciare delle tracce evidenti nella preparazione di armadi, sedie, tavole, panche.

Eguali conclusioni si possono trarre se guardiamo allo sviluppo della ceramica fra Quattro e Cinquecento, non meno influenzata dal gusto artistico dell'epoca, ma al contempo caratterizzata dalla presenza di bocaleri, scudeleri, squelini (fabbricanti di scodelle, di brocche, molti dei quali concentrati nelle vicinanze di S. Barnaba) (290).

I costruttori di strumenti musicali sicuramente rappresentarono per Venezia, come per le altre città d'arte italiane, un punto di forza nelle già sostenute esportazioni di beni di lusso. Liuti, strumenti a fiato, cembali e così via assicuravano in effetti ai loro fabbricanti un elevato reddito, a causa dei sostenuti prezzi di mercato, conseguenza dei costi non irrilevanti del materiale impiegato e del rapporto tra ore di lavoro e preparazione dello strumento musicale (291). In particolare i liutai - appartenenti, assieme ai costruttori di strumenti a fiato e ai cembalari, alla corporazione dei merciai (292) - conoscevano una crescita costante nel numero e quanto a presenza nella società. Al pari di tante altre professioni, la Repubblica continuava ad attirare maestri artigiani da altre regioni: come ad esempio i famosi liutai di Füssen, nella Germania meridionale, in crisi nel corso del XVI secolo per la diminuzione del traffico commerciale lungo il passo di Resia (293). La domanda sociale di questi ed altri strumenti doveva essere infatti in grande espansione, parallelamente alla presenza dei numerosi strumentalisti e musicisti. Come si è osservato, ogni casa patrizia possedeva un clavicembalo, un liuto, anche se non necessariamente si sapeva suonarlo (294). Gli storici della musica ci forniscono in proposito due argomentazioni tanto convincenti quanto appassionanti. La prima è che con l'emancipazione graduale della musica strumentale da quella vocale si dette corso tra il XV e il XVII secolo non solo a un nuovo indirizzo musicale ma, ed è ciò che più ci interessa, si impresse un'accelerazione alla fabbricazione degli strumenti musicali. Il secondo aspetto, che incrementò la fruizione musicale, consistette nella larga diffusione delle partiture musicali, resa possibile dalla "rivoluzione" della stampa (295). Non a caso il primo libro di musica (Harmonicae Musices Odhecaton, del 1501, di Ottaviano Petrucci) era stampato a Venezia, testimonianza emblematica di una nuova evoluzione culturale (296).

In tale contesto la stampa e le altre arti grafiche (xilografia, calcografia, miniatura) vennero in effetti a costituire non solo un florido settore economico e una fonte d'occupazione, ma il principale strumento divulgativo nella diffusione delle conoscenze tecnologiche raggiunte dalla Venezia umanistica e rinascimentale. Da La piazza universale di tutte le professioni del mondo di Tommaso Garzoni alla Pirotechnia di Biringuccio, dai ricettari alle istruzioni pubblicate nel Cinquecento, era tutto un sapere pratico e tecnico che, grazie alla forte crescita della stampa veneziana, raggiungeva ora dei destinatari molto più numerosi.

Ancora una volta l'apporto tedesco, ma anche francese e fiammingo, contribuiva alla crescita di un tessuto socio-economico ricettivo, pronto a trarre tutti i vantaggi da un'invenzione, i caratteri mobili, che assumeva un chiaro significato moltiplicatore. Erano infatti dei tipografi tedeschi, i fratelli Giovanni e Vindelino da Spira, che introducevano nel 1469 nella città lagunare le nuove tecniche messe a punto alcuni anni prima, nel 1456, a Magonza dal Gutenberg. È superfluo annotare come i legami con il mondo tedesco passassero ancora una volta attraverso l'Arte dei metalli (Giovanni da Spira era stato in primis orafo), necessaria se si voleva controllare la fusione dei caratteri a stampa. Nicola Jenson giungeva invece da Parigi, nel 1470, dopo aver lavorato alla zecca del re di Francia, il che non risultava meno significativo. Non a caso a un primo periodo "tedesco" dell'Arte della stampa veneziana (nel 1478 su 22 tipografie il maggior numero era in mano a questa comunità), seguì un blocco franco-tedesco, con lo Jenson in posizione di spicco, in grado di competere con l'ingresso sulla scena di Aldo Manuzio (297). Costi ed investimenti si valutavano in entrambi i casi nell'ordine delle centinaia di ducati, riferibili sia alle attrezzature (i costi dei caratteri ne costituivano la voce più rilevante) sia al pagamento degli operai. Nel 1481 la morte dello Jenson, e l'accentuazione del ruolo commerciale della società, che aveva visto operare assieme tipografi francesi e tedeschi, aprirono la strada a tutto un pullulare di aziende, questa volta più veneziane ed italiane, ad esempio il fiorentino Luca Antonio Giunta. Sullo scorcio del XVI secolo si potevano contare fra 100 e 200 tipografie operanti a Venezia, con tirature librarie altissime (298). Se accogliessimo la cifra più elevata(200 tipografie), ci troveremmo di fronte a un numero di aziende più elevato di quello raggiunto, nel loro insieme, nelle più importanti città europee. Se fosse ancora veritiera la cifra di 1.125.000 volumi stampati nell'ultimo ventennio del XV secolo, riferentesi a 4.500 edizioni, dovremmo concludere che il 10% della produzione europea del libro, scientifico e letterario, veniva stampato a Venezia. Percentuale che verrebbe aumentata, se prendessimo in considerazione le operette di carattere religioso (299).

A fronte di tale produzione libraria le maestranze dovettero contare (mancano cifre globali, seppur approssimative) centinaia di addetti, impiegati in tipografie di varie dimensioni, con rapporti di lavoro egualmente diversi. Si era di fronte infatti, sul finire del Quattrocento, a un artigiano fiammingo, Gerardo da Lisa (Lier?), "che faceva l'insegnante e il maestro del coro e solo talvolta, con limitati mezzi, lo stampatore". Ma esistevano al contempo "aziende di notevole importanza, con vari torchi, numerosi operai e impegnativi programmi editoriali. Nel mezzo, tutta una gamma di aziende di varie dimensioni, intese a strapparsi una fetta di mercato con tutti i mezzi possibili" (300). È certo che allorquando una tipografia occupava più lavoranti - com'era il caso dei dodici operai alle dipendenze di Jacques Le Rouge nel 1474 - il costo della manodopera raggiungeva le parecchie decine di ducati. Larga appariva comunque la divergenza salariale che si poteva evidenziare tra la paga degli inchiostratori o degli addetti ai torchi (turculatores), relativamente modesta, e quella dei compositori (2-4 ducati) o di un capo operaio (8 ducati). In quest'ultimo caso un compenso annuale di poco meno di 100 ducati non era affatto trascurabile e si avvicinava a quello percepito da gerarchie culturali-professionali di grande e forse maggiore prestigio sociale. Livello di vita relativamente elevato, che sicuramente si accresceva anche per le fasce meno qualificate, se solo si considera che l'organizzazione della produzione libraria imponeva agli stampatori di ospitare nei loro laboratori le maestranze e di farsi carico delle loro spese "de bocca" (301).

I costi di produzione non mancavano di incidere sul prezzo finale del libro, facendone un prodotto raffinato, specie con le edizioni più curate come le famose aldine. Tutto ciò non impediva comunque che i prezzi si rivelassero pur sempre inferiori a quelli dei tradizionali manoscritti. E che i volumi a stampa assicurassero quella circolazione più ampia di conoscenze applicabili ai settori portanti dell'economia veneziana, più volte richiamata. Resta tuttavia qualche margine di dubbio che, raggiunto lo zenith della civiltà rinascimentale, si assicurasse anche nei decenni successivi la dovuta circolarità tra trasmissione della cultura tecnologica e tenuta dell'economia nel suo insieme. Il riconoscimento dell'importanza delle attività artigianali, espresso da tale editoria, non necessariamente implicò che gli indirizzi generali di politica economica seguissero sino in fondo questa strada (302).

Conclusioni

Queste ultime considerazioni ci porterebbero comunque troppo lontani, e descrivono in ogni caso una situazione che resta di necessità sfocata. Con maggiore nettezza emerge invece l'immagine di una città e di un mondo occupazionale che trovavano nelle Arti, in questi secoli cruciali, una forza fondamentale del loro sviluppo. I dati statistici a proposito della composizione professionale del mondo del lavoro veneziano restano insoddisfacenti per il periodo che abbiamo considerato, mentre una migliore conoscenza del problema si profila per il secondo Cinquecento e il Seicento, con una prospezione anticipata al 1539. A quest'ultima data più del 43% della forza-lavoro - che risultava inquadrata dalle Arti ufficiali, le quali a loro volta risultavano obbligate a fornire il personale marittimo alla marina - era impiegata nei settori di cui ci siamo occupati (303). Occorre considerare peraltro che in tale calcolo apparivano esclusi i lavoratori dell'Arsenale, tradizionalmente esenti dal fornire marinai alla flotta e perciò non conteggiati nelle liste predisposte dalla Milizia da Mar. Non iscritti alle Arti risultavano ancora numerosi operai, la cui consistenza numerica non può che continuare a lasciare grandi incertezze. Si è avanzata ad esempio l'ipotesi che per ogni arsenalotto esistesse almeno un altro operaio non direttamente registrato nella lista ufficiale. Nel 1597 si protestava che di 3.000 lavoratori della lana solo 600 erano iscritti alle Arti, cadendo perciò solo questi ultimi sotto il controllo e gli obblighi fiscali delle autorità cittadine (304). D'altro canto, secondo un'altra elaborazione di questo stesso periodo (1586-1595), la forza-lavoro disponibile a un impiego immediato ammontava a ben 33.852 individui, di cui 22.504 iscritti alle Arti (all'incirca 100-110) (305). Vero è che in tale numero si debbono considerare gli iscritti ad Arti come quelle degli speziali, dei medici (il "terziario" in genere), degli addetti al vettovagliamento della città, degli edili, degli occupati cioè in settori che non possono considerarsi di carattere strettamente artigianale. Ma è altrettanto vero che l'indotto di settori come la lana e la seta doveva coinvolgere fasce della popolazione molto più larghe dei soli iscritti alle Arti e dei lavoratori ad esse collegati. Era certo un'esagerazione dei rappresentanti del setificio allorquando facevano ammontare, ancora nel 1672, a 40.000 le persone che vivevano in città grazie a quell'importante comparto produttivo, ma tale cifra voleva in ogni caso sottolineare la discrepanza con il numero ufficiale dei soli iscritti all'Arte, egualmente troppo riduttivo: solo 2.000 (306). Se quindi ipotizzassimo un sostanziale equilibrio tra quanti non appartenevano ad Arti direttamente produttive e quanti ne facevano parte o vi gravitavano dall'esterno, potremmo conservare la cifra di 33.852 occupati nelle manifatture urbane, poc'anzi indicata. Se poi moltiplicassimo per tre o quattro persone tale cifra - come propongono rispettivamente Maureen Fennell Mazzaoui e Fernand Braudel, valutando in tal modo l'ipotetico nucleo familiare che ne risultava - si otterrebbe una percentuale elevatissima degli abitanti, rispetto alla popolazione totale veneziana, che vivevano delle attività manifatturiere (307). Ottenendo una percentuale (approssimativa è ovvio) ma che variava ciò nonostante dal 66 all'88% della popolazione totale (circa 148.000 abitanti), si supererebbe abbondantemente quella soglia del 50% che talvolta si indica perché si possa parlare di una città come di una "città industriale". In ogni caso l'interpretazione tradizionale di una Venezia mercantile, ricca per i suoi traffici commerciali, e meno per le sue industrie - non ultime le conclusioni di Heinrich Kretschmayr, ma anche di Fernand Braudel, i quali sostanzialmente hanno negato che Venezia avesse coronato la propria ascesa economica attraverso lo sviluppo del settore industriale (308) -, deve tener conto di una struttura produttiva sicuramente complessa e articolata.

1. Desidero ringraziare il Mpi für Geschichte di Göttingen, e soprattutto Rudolf Vierhaus, Otto G. Öxle e Peter Kriedte, per avermi offerto ancora una volta l'opportunità di trarre vantaggio dalla letteratura storica tedesca sull'argomento, sebbene utilizzata solo in parte in questa occasione. Ho approfittato ancora di indicazioni preziose e di una lettura critica del dattiloscritto da parte di Luca Molà, che ringrazio altrettanto vivamente.

2. Immanuel Wallerstein, The Modern World-System. Capitalistic Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York 1974 (trad. it. Il sistema mondiale dell'economia moderna, I-II, Bologna 1978-1982); Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIIe siècle. Le temps du monde, Paris 1979 (trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo [secoli XV-XVIII>, I-III, Torino 1981-1982), pp. 101-111.

3. Robert A. Dodgshon, The Early Modern World-System: A Critique of Its Inner Dynamics, in The Early Modern World-System in Geographical Perspective, a cura di Hans J. Nitz, Stuttgart 1993, pp. 26-41.

4. Jonathan Israel, Dutch Primacy in World Trade, 1585-1740, Oxford 1989, pp. 4-5.

5. John R. Hale - Michael E. Mallet, The Military Organization of a Renaissance State, Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984; Pierre Sardella, Nouvelles et spéculations à Venise au début du XVIe siècle, Paris 1948.

6. Cf su questo punto Harry A. Miskimin, The Economy of Early Renaissance Europe, 1300-1460, Cambridge 1975; Id., Economic Depression of the Renaissance, "The Economic History Review", 16, 1964, p. 528 (pp. 528-529).

7. Karl J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, Die Bevölkerung der Republik Venedig [...>, Berlin 1961, pp. 3-6.

8. Può indurre a qualche riflessione il tono depresso dell'economia padovana nel corso del Quattrocento, espresso fra l'altro da una persistente stagnazione demografica: Silvana Collodo, Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, pp. 414-435.

9. Gene A. Brucker, Fiorentine Politics and Society, 1343-1378, cit. da Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, p. 293 n.

10. I Capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, a cura di Giovanni Monticolo - Enrico Besta, I-III, Roma 1896-1914; G. Cracco, Società e stato, p. 292.

11. G. Cracco, Società e stato, pp. 218-219. Tuttavia anche questa conclusione, apparentemente legittima, è stata in parte rifiutata, sottolineando il fatto che a ben vedere l'istituzione delle Arti corrispondeva alla volontà della grande mercatura e del governo cittadino di porre sotto controllo, giuridico ed economico, l'ascesa del ceto artigianale, che poteva rovesciare gli indirizzi della politica economica. Inoltre, l'elevato numero di mestieri, la cui proliferazione secondo Giorgio Cracco nascondeva una precisa volontà politica, assecondava il proposito di porre sotto controllo le Arti maggiori, e soprattutto quella della lana, che poteva minacciare l'assetto e gli equilibri costituiti.

12. Ibid., p. 259.

13. È vero tuttavia che l'Arte della lana, costituitasi in modo autonomo rispetto alle altre Arti già verso il 1250, venne subito posta sotto il controllo dei consoli dei mercanti, i quali avrebbero vegliato non solo sulla qualità della produzione, ma che anche quest'ultima non andasse ad ostacolare lo smercio dei pannilana solitamente trasportati dalle navi veneziane (Nella Fano, Ricerche sull'arte della lana a Venezia nel XIII e XIV secolo, "Archivio Veneto ", 66, 1936, pp. 75-76 [pp. 73-213>).

14. Ibid., p. 128; Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 69 ss. Treviso cadrà nelle mani dei Veneziani nel 1344 e Padova nel 1420. Se si ricorreva forzatamente alla follatura della lana in Terraferma, non per questo si permetteva l'importazione dei panni trevigiani e padovani a Venezia, che erano invece colpiti da forti dazi di importazione.

15. Romolo Broglio D'Aiano, Die venetianische Seidenindustrie und ihre Organisation, Stuttgart 1893, pp. 25 ss.

16. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Trieste 19737, p. 157.

17. N. Fano, Ricerche sull'arte della lana, pp. 114 e 126.

18. Giovanni Monticolo, Prefazione a I Capitolari, II/1, pp. LXVIII-LXIX e n.; ibid., II/2, p. 488.

19. Eguale sviluppo della lavorazione della lana si registrava a Padova: Roberto Cessi, Per la storia delle corporazioni dei mercanti di panni e della lana in Padova nei secoli XIII e XIV (1908), in Id., Padova medioevale. Studi e documenti, raccolti e riediti a cura di Donato Gallo. Presentazione di Paolo Sambin, I, Padova 1985, p. 302 (pp. 299-304). Sulla vitalità dell'industria laniera in tutte le città venete del basso Medioevo, Silvana Collodo, La produzione tessile nel Veneto medievale, in AA.VV., Tessuti nel Veneto. Venezia e la Terraferma, Verona 1993, pp. 42-56.

20. Nlcolò Spada, Leggi veneziane sulle industrie chimiche a tutela della salute pubblica dal secolo XIII al XVIII, "Archivio Veneto", ser. V, 7, 1930, p. 126 (pp. 126-156).

21. K.J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, p. 4.

22. Luca Molà - Reinhold C. Müller, Essere straniero a Venezia nel tardo Medioevo: accoglienza e rifiuto nei privilegi di cittadinanza e nelle sentenze criminali, in Le migrazioni in Europa (secc. XIII-XVIII), a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1994 (Atti della XXV Settimana di studio dell'Istituto internazionale di storia economica "F. Datini" di Prato), p. 842 e grafico nr. 2 a p. 851 (pp. 839-851).

23. G. Luzzatto, Storia economica, p. 191. Si deve anche registrare una netta caduta dell'afflusso di artigiani fiorentini (ma anche lucchesi) verso Venezia fra il 1430 e il 1500, parallelamente a un'analoga contrazione dei diritti di cittadinanza veneziana concessi a forestieri nello stesso periodo: Maureen Fennell, Mazzaoui, Artisan Migration and Technology in the Italian Textile Industry in the Late Middle Ages (1100-1500), in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell'Italia medievale, a cura di Rinaldo Comba - Gabriella Piccinni - Giuliano Pinto, Napoli 1984, p. 533 (pp. 519-534).

24. Hidetoshi Hoshino, L'arte della lana in Firenze nel basso Medioevo, Firenze 1980, pp. 77-79.

25. G. Luzzatto, Storia economica, pp. 190-191.

26. L. Molà - R.C. Muller, Essere straniero a Venezia, p. 8.

27. Jan Albert Goris, Étude sur les colonies marchandes méridionales à Anvers de 1488 à 1567, Louvain 1925, pp. 9 e 28. In totale, fra il 1533 e il 1600 sarebbero giunti nella metropoli del Nord 8 Veneziani contro 25 Genovesi, 20 Milanesi e Piemontesi, 18 Lucchesi e 12 Fiorentini. I Veneziani vi avrebbero esercitato la mercatura e professioni varie, fra le quali la sartoria e la merceria.

28. Jan Denucé, Italiaansche Koopmansgeslachten te Antwerpen in de XVIe--XVIIIe eeuwen, Mechelen 1934, pp. 6 e 51.

29. G. Luzzatto, Storia economica, p. 203.

30. Giulio Mandich, Le privative industriali veneziane, "Rivista di Diritto Commerciale", 34, 1936, p. 513 (pp. 511-547).

31. Helmut Schippel, La storia delle privative industriali nella Venezia del '400, Venezia 1989 (Quaderni del Centro tedesco di studi veneziani, 38), pp. 8 e 13.

32. "[...> fornai o calzolai, tessitori o facchini, servi o medici o soldati che fossero, si trattava di una schiera importante, da tenere in considerazione nell'economia svariata e cosmopolita della città": Giorgio Fedalto, Stranieri a Venezia e a Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 517 (pp. 499-535). Sull'ambiguità del termine "tedesco", per una comunità di circa un migliaio di persone nel corso del Quattrocento, e che poteva includere volta a volta Carinziani, Friulani, Viennesi e, specie nel corso del Cinquecento, Fiamminghi, Philippe Braunstein, Remarques sur la population allemande de Venise à la fin du Moyen-Âge, in Venezia centro di mediazione fra Oriente ed Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans-Georg Beck et al., I, Firenze 1977, pp. 235-236 (pp. 233-243); ibid., pp. 237-238, a proposito dell'inurbamento nelle varie aree della città a seconda del mestiere esercitato (oreficeria, metallurgia, tipografia, piccolo commercio). Cf. pure Id., Appunti per la storia di una minoranza: la popolazione tedesca di Venezia nel Medioevo, in Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell'Italia medievale, a cura di Rinaldo Comba - Gabriella Piccinni - Giuliano Pinto, Napoli 1984, pp. 511-517.

33. Wolfgang von Stromer, Bernardus Teutonicus e i rapporti commerciali tra la Germania meridionale e Venezia prima della istituzione del Fondaco dei tedeschi, Venezia 1978 (Quaderni del Centro tedesco di studi veneziani, 8), pp. 8-9.

34. Philippe Braunstein, Réseaux familiaux, réseaux d'affaires en pays d'empire: les facteurs de sociétés (1380-1520), in AA.VV., Le négoce international, XIIIe-XXe siècles, Paris 1989, pp. 23-34; Salvatore Ciriacono, La manodopera italiana e il mercato serico germanico (secoli XVI-XVIII), in La seta in Europa (secc. XIII-XX), Firenze 1993 (Atti della XXIV Settimana di studio dell'Istituto internazionale di storia economica "F. Datini" di Prato), pp. 375-385.

35. Fra le materie prime importate da Venezia in Germania, nel Quattro e Cinquecento: cotone, cocciniglia, legno del Brasile, rabarbaro, zafferano, salpetra, olio, vino, pesce secco, le classiche spezie, fichi, mandorle, rosine, zucchero, cera, sapone, pelli (Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi, II, Stuttgart 1987, p. 104). Il trattato Welthandelsbraüche (1480-1540), attribuibile a uno dei membri o allo scrittoio della potente famiglia dei Paumgartner di Augusta enumerava altre materie prime (come lana greggia, indaco, grana per la tintoria, allume, lacca, vitriolo, terpentina, cinabro, mercurio, zolfo) e prodotti non meno pregiati, come libri e pietre preziose (cf. l'ediz. a cura di Karl Otto Müller, Wiesbaden 1962).

36. Vi è da rilevare peraltro che in quello che è considerato il maggior trattato di scienza mineraria dell'epoca, il De re metallica libri XII, pubblicato a Basilea nel 1556, confluiscano "passi dell'opera postuma di Vannoccio Biringuccio De la pirotechnia libri X (Venezia 1540) che trattano dell'estrazione del sale marino, dello zolfo e del mercurio, la produzione dell'acciaio e del vetro come pure quella del salnitro, dell'allume e del vetriolo" (Karl - Heinz Ludwig, Origine e caratteri dell'espansione produttiva dei metalli nobili nell'Europa centrale del Quattrocento, "Società e Storia", 54, 1991, pp. 813-814 [pp. 813-828>).

37. H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi, p. 73.

38. Uta Lindgren, Alpenübergänge von Bayern nach Italien, 1500-1800, München 1986; cf. pure su questi temi Ead., Alpenübergänge vor 1850. Landkarten, Strassen, Verkehr, Stuttgart 1987 (Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 83).

39. Herbert Maschat, Technik, Energie und Verlagswesen. Das Beispiel der spätmittelalterlichen Reichsstadt Nürnberg, München 1988, pp. 61 e 124 ss. I1 Welthandelsbräuche riconosceva ovviamente che "Venedig ist der Mittelpunkt, dem die Waren der ganzen westlichen Adriaküste bis von der Terra d'Otranto zuströmen", ma dopo Venezia la città più citata, fra tutti gli altri centri commerciali europei, risultava essere proprio Norimberga (ibid., p. 26; cf. pure Handelsbräuche des 16. Jahrhunderts. Das Meder'sche Handelsbuch und die Welser'schen Nachträge, a cura di Hermann Kellenbenz, Wiesbaden 1974, pp. 9-10).

40. Allorquando si raggiunse a Norimberga una produzione settimanale di 90.000-100.000 campanelli, fu giocoforza che lo smercio si facesse attraverso una robusta rete di mercanti-imprenditori: H. Maschat, Technik, Energie und Verlagswesen, p. 84.

41. Wolfgang von Stromer, Une clé du succès des maisons de commerce d'Allemagne du Sud: le grand commerce associé au " Verlagssystem", "Revue Historique", 115, 1991, p. 45 (pp. 29-49); Salvatore Ciriacono, Protoindustria, lavoro a domicilio e sviluppo economico nelle campagne venete in epoca moderna, "Quaderni Storici", 18, 1983, pp. 57-80.

42. Wolfgang von Stromer, Die Gründung der Baumwolle Industrie in Mitteleuropa. Wirtschaftspolitik im Späitmittelalter, Stuttgart 1978, p. 79. Gran parte delle città tedesche, da Breslavia a Ulma, da Norimberga a tutte le città manifatturiere della Svevia, dipendevano dagli approvvigionamenti delle materie prime trasportate da Venezia. Non a caso il tentativo dell'imperatore tedesco Sigismondo (1412-1433) di liberarsi da questa dipendenza veneziana, dichiarando un "blocco continentale" contro Venezia, fallì miseramente. Egualmente la volontà di fondare un nuovo centro cotoniero in Ungheria, a Karschau, rinunciando all'importazione dei filati di cotone, di diversa provenienza e in partenza da Venezia, incontrò gravissimi ostacoli. V. Id., Die Kontinentalsperre Kaiser Sigismunds gegen Venedig (1412-1413) und die Verlagerung der Transkontinentalen Transportwege, in Trasporti e sviluppo economico, secoli XIII-XVIII, Firenze 1986 (Atti della V Settimana di studio dell'Istituto internazionale di storia economica "F. Datini" di Prato), pp. 61 ss. (pp. 61-84).

43. Sembra comunque che la tecnica di separazione dell'argento dal rame argentifero fosse conosciuta a Venezia sin dal XV secolo, anche se non estensivamente applicata. Su questi temi, Raffaello Vergani, Progressi e ritardi nelle tecniche venete: l'estrazione mineraria e la metallurgia dal XV secolo al XVIII secolo, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 149, 1990-1991, pp. 220-221 (pp. 209-237).

44. W. von Stromer, Die Kontinentalsperre Kaiser Sigismunds, pp. 82-84.

45. H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi, p. 31.

46. P. Sardella, Nouvelles et spéculations à Venise, p. 13; Gerhard Rösch, Il fondaco dei tedeschi, in AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, pp. 51-63. Le entrate del fondaco in favore della Serenissima sono state anche indicate in circa 100 ducati al giorno: H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi, p. 37.

47. Arringhe del doge Tommaso Mocenigo, aprile 1423, in Documenti finanziari della Repubblica di Venezia. Bilanci Generali, a cura di Fabio Besta, ser. II, vol. I, t. I, Venezia 1912, doc. 81, p. 97; doc. 80 bis, pp. 577-579. Tali merci andavano dal cotone e i filati alle lane della Catalogna e "francesche" (com'è noto non solo francesi e fiamminghe, ma anche inglesi), dai panni d'oro e di seta a pepe, noce, cannella e zenzero, dall'indaco e grana al sapone e agli schiavi. Si deduce la somma di almeno 2.800.000 ducati su un totale di circa 10 milioni costituenti la bilancia commerciale veneziana.

48. Cf. i classici lavori di Otto Brunner, fra i quali Das "ganze Haus" und die alteuroptäsche "Ökonomik", in Id., Neue Wege zur Sozialgeschichte, Göttingen 19682. Ma non si devono neppure dimenticare le osservazioni di Werner Sombart, a proposito del nucleo familiare come struttura economica primordiale e fondamentale. D'altro canto il maestro offriva protezione a tutti i suoi dipendenti, lavoranti e apprendisti (Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus, cit. da Wilfried Reininghaus, Das "ganze Haus" und die Gesellengilden. Über die Beziehungen zwischen Meistern und Gesellen im Spätmittelalter, in Deutsches Handwerk in Spätmittelalter und Früher Neuzeit, a cura di Reiner S. Elkar, Göttingen 1983, p. 56 [pp. 55-70>).

49. I lavoranti poterono in alcuni casi dar vita a loro organizzazioni di mestiere, per difendersi da un presunto sovraccarico di lavoro. Non a caso confronti diretti tra Gesellen (lavoranti) scoppiarono frequentemente sul finire del Medioevo in molte città europee, tra le quali quelle tedesche e Venezia stessa (W. Reininghaus, Das "ganze Haus", pp. 55-70; Guido Ruggiero, Violence in Early Renaissance Venice, cit. da Richard Mackenney, Corporazioni e politica nel Medioevo veneziano (1250-1400 circa), in Venezia tardomedioevale. Istituzioni e società nella storiografia angloamericana, Venezia 1989 [Ricerche Venete, 1>, p. 123 [pp. 87-129>).

50. Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundation of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, p. 81.

51. Altra cosa è però chiedersi se davvero il rendimento del capitale, a partire dal XVII secolo e sinanco dal XVI, si sarebbe meglio realizzato in città piuttosto che nelle campagne. Ma queste considerazioni ci proietterebbero in una problematica e in un periodo storico che esula da questa trattazione.

52. Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, a cura di Johannes Winckelmann, Tübingen 19765, pp. 753 e 778.

53. Sono queste invece le conclusioni a cui giunge Gunnar Mickwitz, contro l'interpretazione opposta di Pier Silverio Leicht, il quale si rifà all'interpretazione tradizionale weberiana: Gunnar Mickwitz, Die Kartellfunktionen der Zünfte und ihre Bedeutung bei der Entstehung des Zunftwesens, Amsterdam 1968, pp. 17-27. Di conseguenza se a capo dell'Arte compariva negli statuti di fine Duecento il gastaldo, è d'obbligo chiedersi se tale figura nascesse in prima istanza come necessità avvertita da parte del governo veneziano di voler esercitare uno stretto controllo sull'organizzazione artigianale, oppure se l'Arte stessa volesse attraverso il gastaldo imporre la sua autolegittimazione e la difesa dei suoi interessi (ibid., p. 31).

54. Richard Mackenney, Arti e stato a Venezia tra tardo Medioevo e '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, p. 127 (pp. 127-143).

55. John M. Najemy, Corporatism and Consensus in Florentine Electoral Politics, 1280-1400, Chapel Hill 1982, pp. 3 ss. Cf. pure Alessandro Stella, La révolte des Ciompi. Les hommes, les lieux, le travail, Préface di Christiane Klapisch - Zuber, Paris 1993, pp. 21-23, specie per quanto concerne la revisione di un certo mito storiografico, che ha ipotizzato blocchi sociali sin troppo netti.

56. R. Mackenney, Arti e stato a Venezia, p. 128.

57. G. Monticolo, Prefazione a I Capitolari, II/1, p. LXXVII.

58. Se la giustizia vecchia registrava tra il 1218 e il 1330 gli statuti di 52 corporazioni, a Firenze non se ne registrarono, all'incirca nello stesso periodo, che poco più di una ventina (Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250-c. 1650, London-Sidney 1987, p. 10).

59. Ibid., p. 98. I filatori di canapa si distinsero ad esempio in ars grossa e ars subtile, i pellicciai in ars nova e ars vetera, i segatori vollero un loro statuto indipendente dai falegnami, pur non dissociandosene completamente. L'Arte dei pittori si divise in "dipintori, pittori di stemmi, pittori di selle, pittori di cassoni, pittori di quadri e pittori di mobili (E. Favaro, L'arte dei pittori a Venezia, p. 119 e A. Sagredo, Sulle consorterie delle arti edificative, p. 158, citati da R. Mackenney, Corporazioni e politica, p. 91).

60. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 102; Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-343.

61. Jakob Strieder, Studien zur Geschichte kapitalistischer Organisationsformen. Monopole, Kartelle und Aktiengesellschaften im Mittelalter und zu Beginn der Neuzeit, München-Leipzig 1914; Reinhard Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus in Venedig, Stuttgart-Berlin, 1905. Sui rapporti commerciali tra Venezia e il mondo tedesco si tengano presenti ancora Heinrich Sieveking, Aus venetianischen Handlungsbüchern. Ein Beitrag zur Geschichte des Großhandels im 15. >ahrhundert, "Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft im deutschen Reich", 26, 1902, pp. 189 ss. (pp. 189-225); Wilhelm Stieda, Hansisch-venezianische Handelsbeziehungen im XV. jahrhundert, Rostock 1894; per la fine del XVI secolo Hermann Thimme, Quellen zur Geschichte der italienischen Kaufmannschaft in Köln um die Wende des 16. Jahrhunderts, "Mitteilungen aus dem Stadtarchiv von Köln ", 35, 1914, pp. 33-94.

62. Frederic C. Lane, Venice, a Maritime Republic, Baltimore-London 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1987), p. 156; R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 123.

63. In tal modo i fabbri, i falegnami, i calzolai, i tessitori di fustagno vennero periodicamente sollecitati ad offrire prestazioni e prodotti con compensi del tutto simbolici, mentre alle Arti in genere si chiese di fornire, in funzione del numero dei loro aderenti, rematori e sussidi alla flotta da guerra (R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 24; Richard T. Rapp, Industry and Economic Decline in Seventeenth- Century Venice, Cambridge, Mass. 1976 [trad. it. Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986>, p. 50).

64. "Gli appartenenti alle corporazioni veneziane non godevano di grandi benefici nel senso della libertas, ma potevano esser sicuri di far parte di una res publica": R. Mackenney, Corporazioni e politica, pp. 119-121, 126 e spec. p. 129.

65. L. Molà - R.C. Müller, Essere straniero a Venezia, pp. 11-12; Salvatore Ciriacono, Venise et ses villes. Structuration et déstructuration d'un marché régional, XVIe-XVIIIe siècle, "Revue Historique", 176, 1986, pp. 287-307. Crediamo infatti che il rafforzamento delle industrie veneziane nel Cinquecento si svolse tentando di tarpare lo sviluppo di quelle della Terraferma, le quali pur potendo contare su un porto di dimensioni internazionali per le loro esportazioni, come sottolinea M. Knapton (Tra Dominante e Dominio [1517-1630>, in Gaetano Cozzi - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, p. 263), ebbero tuttavia più a soffrire che a guadagnare dal diretto confronto con le manifatture della capitale.

66. Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna 1992, p. 209.

67. "La durata dell'apprendistato variava da un anno e mezzo per un tessitore di fustagno a otto per un vetraio, o per un non veneziano che volesse diventare orafo. Per lo più la durata era compresa tra i quattro e i sette anni" (R. Mackenney, Corporazioni e politica, p. 114).

68. Ibid.; Id., Tradesmen and Traders, p. 23.

69. Margret Wensky, Women's Guilds in Cologne in the Later Middle Ages, "The Journal of European Economic History", 11, 1982, pp. 631-632 (pp. 631-650). Solo ulteriori ricerche a livello europeo potranno comunque confermare queste prime conclusioni.

70. Esso era tuttavia responsabile degli affari dell'Arte più nei confronti dei magistrati che dei membri dell'Arte stessa (R. Mackenney, Corporazioni e politica, p. 112). Si è avanzata ancora l'ipotesi che fossero esistiti due gastaldi, uno che presiedeva all'organizzazione tecnica e produttiva, l'altro a quella sociale e religiosa. A questa conclusione si è fatto comunque osservare che la doppia figura del gastaldo apparve solo in determinate epoche, e comunque a un'epoca più tarda rispetto alle origini, e solo per alcune Arti (G. Monticolo, Prefazione a I Capitolari, II/1, p. XLVII n. e p. CVII; Bartolomeo Cecchetti, Le industrie in Venezia nel secolo XIII, "Archivio Veneto", 4, 1872, p. 228 [pp. 211-257>; G. Mickwitz, Die Kartellfunktionen der Zünfte, pp. 30-31; Alessandra Sambo, La spada della giustizia: giurisdizioni, inquisizioni, contenzioso, in AA.VV., I mestieri della moda [catalogo della mostra, giugno-settembre 1988>, Venezia 1988, pp. 79-80).

71. Ruggero Maschio, Investimenti edilizi delle Scuole Grandi a Venezia (XVI-XVII sec.), in Investimenti e civiltà urbana, secoli XIII-XVIII, a cura di Annalisa Guarducci, Firenze 1989, p. 408 (pp. 383-426). Per un quadro d'assieme Brian Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice. The Social Institutions of a Catholic State, Oxford 1971 (trad. it. La politica sociale della Repubblica di Venezia, 1500-1620, I-II, Roma 1982).

72. In occasione infatti di quel primo trattato Venezia si impegnava a fornire all'Impero una flotta di quaranta-cento galere, entro sei mesi dalla richiesta esplicitamente rivoltale. Mentre nel 1172 "l'allestimento di un centinaio di galere in quattro mesi era apparso poco meno che una prodezza, tanto da trovar luogo tra i topoi della cronachistica medievale": Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal Medioevo all'età moderna, Milano 1984, pp. 11-12.

73. Complesso è il problema della localizzazione del primo Arsenale (termine che stava ad indicare allo stesso tempo l'istituzione come il sito, venutosi ad identificare alla fine con una parte del sestiere di Castello), essendosi distribuita l'attività armatoriale sino alla metà del XIV secolo in diversi punti della città. Su questi aspetti, Maurice Aymard, Strategie di cantiere, nel volume di quest'opera dedicato al Mare, pp. 262-263 (pp. 259-283) e Ennio Concina, La casa dell'Arsenale, ibid., pp. 147-210.

74. M. Aymard, Strategie di cantiere, pp. 263-265.

75. E. Concina, L'Arsenale, p. 13.

76. Arringhe del doge Tommaso Mocenigo, doc. 81, p. 95.

77. F.C. Lane, Navires et constructeurs e G. Luzzatto, Per la storia delle costruzioni navali a Venezia, citati da M. Aymard, Strategie di cantiere, pp. 267 e 270.

78. Tale dispositivo prevedeva, per affermare la presenza veneziana nell'Adriatico e nel Mediterraneo, la possibilità di armare e far veleggiare in qualsiasi momento una squadra di quattro galere e due altri vascelli (E. Concina, L'Arsenale, p. 14).

79. Ibid., p. 15. I magistrati che sovrintendevano al buon funzionamento dell'Arsenale furono dapprima i patroni, coadiuvati dalla metà del Quattrocento dai provveditori (dapprima due, in seguito tre) e dagli inquisitori. I patroni, eletti dal senato, rimanevano in carica 32 mesi, i provveditori 16 e gli inquisitori solo 6. Questa discontinuità non avrebbe mancato di esercitare qualche riflesso negativo sull'organizzazione del lavoro (Robert C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal. Workers and Workplace in the Pre-Industrial City, Baltimore 1991, p. 76).

80. M. Aymard, Strategie di cantiere, pp. 274 e 276.

81. R.C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal, pp. 11-12.

82. M. Aymard, Strategie di cantiere, p. 276. Una forma di compromesso era stata quella di stabilire un calendario di massima ("l'alfabeto") che fissava i turni di lavoro all'Arsenale a cui dovevano attenersi tutti i maestri carpentieri, al fine di evitare che alcuni continuassero a lavorare negli squeri privati e gli altri cadessero sotto l'obbligo di offrire la loro opera all'Arsenale con salari inferiori.

83. G. Luzzatto, Storia economica, pp. 193-194.

84. M. Aymard, Strategie di cantiere, p. 260.

85. R.C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal, p. 4.

86. E. Concina, L'Arsenale, pp. 30 e 38.

87. Frederic C. Lane, The Rope Factory and Hemp Trade in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Venice and History. The Collected Papers of Frederic C. Lane, Baltimore 1966, p. 270 (pp. 269-284); E. Concina, L'Arsenale, p. 88.

88. E. Concina, L'Arsenale, pp. 84 e 89.

89. Ibid., p. 46.

90. Maurice Aymard, L'Arsenale e le conoscenze tecnico-marinaresche. Le Arti, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 313-315 (pp. 289-315).

91. Id., Strategie di cantiere, p. 271.

92. In quanto tale sarebbe stata risparmiata dal destino che avrebbe conosciuto il proletariato moderno e "far from being marginalized, [...> rather than experience a sense of alienation from their work place, they became thoroughly integrated into the ruling order of the Republic" (R.C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal, p. 7).

93. R. Mackenney, Corporazioni e politica, p. 100.

94. R.C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal, p. 13. Se quest'ultimo dato è da considerarsi veritiero, peccava dunque per eccesso la valutazione del doge Mocenigo nel 1423, il quale parlava per quell'epoca di 3.000 calafati e di 3.000 marangoni, cifra che è stata accolta anche da Gino Luzzatto (Storia economica, p. 195).

95. R.C. Davis, The Shipbuilders of the Venetian Arsenal, pp. 13 ss.

96. Edmund Fryde, The English Cloth Industry and the Trade with the Mediterranean, c. 1370-c. 1480, in Produzione, commercio e consumo dei panni di lana (nei secoli XII-XVIII), a cura di Marco Spallanzani, Firenze 1976, p. 343 (pp. 343-367). Fra il 1440 e il 1444 i Veneziani importarono in Inghilterra allume, legno del Brasile e altre materie tintorie per un valore di almeno 2.300 lire sterline, di cui 1.500 solo in allume (ibid., p. 358). Per Alwyn A. Ruddock, Italian Merchants and Shipping in Southampton, 1270-1600, Southampton 1951, p. 113, a metà Quattrocento i Veneziani pagavano lire 2.000 in soli dazi. Sul controllo esercitato a quest'epoca dagli Italiani sulle merci scambiate nei porti dell'Inghilterra occidentale e meridionale cf. pure Eleanor M. Carus Wilson - Olive Coleman, England's Export Trade, 1275-1547, Oxford 1963, p. 13.

97. Richard Gascon, Au carrefour des concurrences: draps de France et draps étrangers à Lyon au XVIe siècle, in Produzione, commercio e consumo dei panni di lana (nei secoli XII-XVIII), a cura di Marco Spallanzani, Firenze 1976, pp. 393 ss. (pp. 393-402).

98. N. Fano, Ricerche sull'arte della lana, pp. 107 e n., 114 e 126; A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 127, Deliberazione del maggior consiglio (copia), 3 agosto 1272 e 5 luglio 1306.

99. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, ms. cl. IV. 129, c. 102, Decreto del senato (copia), 19 novembre 1437.

100. Ibid.

101. Ibid., c. 82, Decreto (copia), 8 giugno 1419. Cf. pure c. 83, s.d. ma provvedimento coevo sull'obbligo di pagare le filatrici almeno mezzo ducato, tuttavia per del lavoro non meglio precisato.

102. N. Fano, Ricerche sull'arte della lana, p. 109.

103. I maestri, che dal maestro-drappiere dipendevano per l'approvvigionamento della materia prima e per lo spaccio della produzione, si dividevano in tessitori, scardassatori, tintori (questi ultimi facenti capo a una loro Arte distinta), garzadori. Seguivano gli apprendisti e i lavoratori al diretto servizio dei maestri, che non potevano peraltro iscriversi all'Arte, in quanto lavoratori pagati "a prexio" (ibid., p. 110).

104. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 175, copia tratta dal Capitolare dell'Arte dei testori (tessitori), 29 settembre 1400.

105. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, c. 84, 14 maggio 1450.

106. N. Fano, Ricerche sull'arte della lana, p. 110.

107. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, c. 102v, 26 luglio 1436.

108. F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, p. 105.

109. F. C. Lane, Venice, a Maritime Republic, p. 314.

110. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, c. 83v, Capitolo 347.

111. Ibid., c. 79, Decreto del senato (copia), 8 luglio 1419.

112. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 128, Decreto del senato (copia), 18 settembre 1430. Dal lanificio dipendevano ormai, si annotava, molte famiglie, costrette in caso contrario ad emigrare.

113. Cf. le deliberazioni quali furono registrate dal capitolare: c. 79v, 9 dicembre 1419 e c. 82, 8 giugno 1419; cf. pure H. Hoshino, L'arte della lana, pp. 246-247.

114. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, c. 70v, 22 marzo 1408; c. 86v, Decreto del senato (copia), 27 ottobre 1419; c. 95, 4 agosto 1434.

115. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 128, Decreto del senato (copia), 29 febbraio 1433. All'interno del fondaco potevano peraltro operare artigiani tedeschi, che non risultavano perciò iscritti alle Arti veneziane. Essi si limitavano a rifinire tessuti provenienti direttamente dalla Germania (per una testimonianza in tal senso, ibid., 12 ottobre 1502).

116. Ibid., Decreto 11 dicembre 1444.

117. H. Hoshino, L'arte della lana, p. 247: a metà Quattrocento esisteva non a caso un'importante colonia di lanaioli fiorentini a Venezia.

118. Ibid., pp. 194, 196, 200, 205; Paolo Malanima, La decadenza di un'economia cittadina. L'industria di Firenze nei secoli XVI-XVIII, Bologna 1982, p. 295. Un massimo di 30.000 pezze sarebbero state tessute a Firenze negli anni 1560-1572, contro 18.500 nel 1527 e 16.000 nel periodo 1550-1560.

119. Vittorio Rossi, Jacopo D'Albizzotto Guidi e il suo inedito poema su Venezia, "Nuovo Archivio Veneto ", 5, 1893, P. 439 (pp. 397-451).

120. H. Hoshino, L'arte della lana, pp. 274 e 297.

121. Si dettavano in proposito precise norme per riconoscere ogni eventuale contraffazione (A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 83, Decreto del senato [copia>, 21 ottobre 1490).

122. Ibid., b. 140, Decreto del senato, 20 settembre 1567; b. 127, Decreto del senato, 9 febbraio 1505.

123. Pierre Sardella, L'épanouissement industriel de Venise au XVIe siècle, "Annales E.S.C.", 2, 1947, pp. 195-196; Domenico Sella, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 117-118.

124. Venezia, Museo Correr, Mariegola della lana, c. 220, Scrittura dei soprastanti dell'ufficio del Purgo, 13 luglio 1556.

125. La concorrenza e l'imitazione dei panni pettinati fiamminghi si era manifestata a dire il vero sin dal XIV e XV secolo: M. Fennell Mazzaoui, Artisan Migration and Technology in the Italian Textile Industry, p. 533; Herman Van Der Wee, Industrial Dynamics and the Process of Urbanization and De-Urbanization in the Low Countries from the Late Middle Ages to the Eighteenth Century. A Synthesis, in The Rise and Decline of Urban Industries in Italy and in the Low Countries (Late Middle Ages-Early Modern Times), a cura di Id., Leuven 1988, pp. 325-326 (pp. 307-381); Salvatore Ciriacono, Mass Consumption Goods and Luxury Goods: the De-Industrialization of the Republic of Venice from the Sixteenth to the Eighteenth Century, ibid., pp. 44-45 (pp. 41-61); D. Sella, Commerci e industrie, p. 119; Hermann Kellenbenz, Bergbau und gewerbliche Produktion, in Handbuch der europtäschen Wirtschafts- und Sozialgeschichte, a cura di Wolfram Fischer et al., III, Stuttgart 1986, p. 210 (pp. 201-224).

126. Giovanni Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, Milano 1970, pp. 42-43. Il Rosetti guardò in effetti a materiali ed esperienze che travalicavano la sola esperienza veneziana.

127. Franco Brunello, Arti e mestieri a Venezia nel Medioevo e nel Rinascimento, Vicenza 19812, pp. 137 e 152.

128. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 175, 12 maggio 1520. Tale colore era realizzato con il "chermes", un insetto trattato con allume, che agiva come mordente. Con il chermes si produceva anche la lacca usata per la miniatura (F. Brunello, Arti e mestieri, p. 138).

129. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 140 e 143.

130. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 175, Decreto del senato (copia), 30 maggio 1545. Anche la qualità dell'acqua - quella ad esempio ad alto contenuto di sali, come nitrato di calcio, di magnesio, di solfato, di carbonato di calcio - risultava essenziale nell'impedire la dissoluzione delle materie coloranti (Claude-Louis Berthollet, Eléments de l'art de la teinture, I, Paris 1791, p. 307; G. Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, pp. 31 e 47).

131. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 75, Terminazione dei provveditori di comun, 20 aprile 1569.

132. Il cremese d'India venne utilizzato per la tintura dei panni "paonazzi" (un particolare tipo di rosso). Nel 1543 i V savi assumevano informazioni per deliberarne un uso più largo. Nel 1574 gli stessi magistrati obbligavano i tintori a non mescolare il cremisi con lo scarlatto all'interno della stessa caldaia (ibid., 5 febbraio 1543 e 25 agosto 1574).

133. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 144-145.

134. Ibid., pp. 140-141. Il principale centro di scambio e di approvvigionamento dell'indaco era Baghdad, a cui facevano capo le carovane provenienti dall'India e dalla Persia. Non a caso a Venezia l'indaco venne anche chiamato "bagadeo".

135. Ibid., p. 143.

136. N. Spada, Leggi veneziane, pp. 127-130. Erano invece considerate perniciose dalle autorità sanitarie "le lavorazioni chimiche con piombo, mercurio, zolfo, creta, pece e sostanze organiche; le distillazioni [...>; le fabbriche di biacca, pollini, ceramiche, candele, vetro e perle [...>, del salnitro, calomelano, verderame, azzurro di Berlino, cinabro [...>, fondenti, colori e vernici, la concia delle pelli, e persino la combustione del carbon fossile" (ibid., p. 128).

137. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 175, Terminazione dei provveditori di comun, 9 aprile 1578.

138. Eliyahu Ashtor, Levant Trade in the Later Middle Ages, Princeton 1983, pp. 255-269; B. Cecchetti, Le industrie in Venezia, p. 229.

139. Per una illustrazione dell'"arco", il quale pendeva dal soffitto della bottega artigianale, e fondamentalmente costituiva uno strumento abbastanza semplice, cf. Maureen Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry in the Later Middle Ages, 1100-1600, Cambridge 1981, pp. 76-77.

140. F.C. Lane, Venice. A Maritime Republic, p. 161.

141. Ibid., pp. 74-76, 99, 108. Utensili e tessuti vennero in tal modo a espandersi in mercati che sicuramente travalicarono i confini dello stato veneziano, confrontandosi con le altrettanto buone produzioni milanesi, cremonesi o tedesche.

142. Venezia, Museo Correr, Mariegola dei fustagnari, b. 1, cap. VIII.

143. M. Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry, p. 113.

144. Ibid., pp. 114 e 212. L'A. calcola in circa 7 libbre veneziane (poco più di 2 kg) il cotone impiegato per una vela standard di 45 braccia (circa 28 m). Utilizzando ancora un dato fornito da G. Monticolo e B. Cecchetti (300 miara di cotone nel 1283, pari tuttavia a 90 t e non 158 come calcola la Fennell Mazzaoui) ipotizza una produzione di 68.000 pezze di cotone.

145. Ibid., pp. 101 e 111.

146. Ibid., p. 71. Nel 1356 per proteggere la produzione locale Venezia aveva imposto un dazio di 5 soldi per lira sul valore di tessuti in lana e cotone importati dall'entroterra.

147. Ibid., p. 115.

148. Venezia, Museo Correr, Mariegola dei fustagnari, cc. 75-76, Decreto del senato (copia), 20 aprile 1515. Già nel 1477 si era parlato della minaccia arrecata dalla concorrenza estera alla produzione veneziana, che era stata più florida precedentemente (ibid., cc. 278-279, 16 giugno 1477).

149. M. Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry, p. 146

150. Ibid., pp. 141-143.

151. I savi alla mercanzia lamentavano nel 1520 che la scarsa produzione di lino danneggiava non solo la contadinanza ma gli interessi generali dello stato. Solo una politica che favorisse la coltivazione di quella pianta avrebbe avuto una positiva ricaduta sulla produzione tessile (A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 85, 28 marzo 1520). Cf. ora su questi temi anche Ivana Pastori Bassetto, La coltivazione e il commercio della canapa nella Repubblica veneta, "Archivio Veneto", 141, 1993, pp. 7-9 (pp. 5-65).

152. M. Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry, P. 154.

153. Ugo Tucci, Venezia nel Cinquecento: una città industriale?, in Crisi e rinnovamenti nell'autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1991, p. 76 (pp. 61-83).

154. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 87, Decreto del senato, 13 marzo 1559; b. 159, Copia di un Capitolo della mariegola della seta del 1309.

155. Ibid., b. 87, Decreto del senato (copia), 28 febbraio 1366.

156. Ibid., Decreto, 31 maggio 1421. Tutti i panni esportati da Venezia dovevano essere fabbricati in città, ad eccezione appunto dei tessuti sopra citati.

157. Ibid., b. 158, Scritture dell'Arte della seta, 28 gennaio 1560 e 3 settembre 1567. Nel 1567 si sarebbe messo in evidenza come le altre città dello stato non si rifornivano a Venezia come precedentemente. Anzi giungevano nella capitale panni di buona fattura e a minor prezzo, essendo le città di Terraferma provviste di seta greggia e di filatoi. Una prima conseguenza era che i tessitori, dapprima 600, si erano ridotti della metà. Una soluzione sarebbe stata, per le Arti veneziane, proibire del tutto la fabbricazione dei velluti neri in Terraferma.

158. Ibid., b. 16o, 26 agosto 1554; F.C. Lane, Venice, a Maritime Republic, p. 313.

159. D. Sella, Commerci e industrie, p. 123.

160. In modo contraddittorio tuttavia lo stesso senato aveva tentato di imporre ai mercanti, salvo ritornare ben presto sulla decisione, di fornire ai tessitori materiale per almeno due telai (R. Broglio D'Aiano, Die venetianische Seidenindustrie, p. 50).

161. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 159, 18 agosto 1407, Dei maestri che fanno accordo con i mercanti.

162. Venezia, Museo Correr, Mariegola dei tessitori di seta, nr. 49, c. 19, 13 agosto 1457.

163. Ibid., c. 14., 18 dicembre 1430; A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 149, Scrittura dell'Arte della seta, 4 gennaio 1481. Cf. pure su queste disposizioni la mariegola dei veluderi di metà Quattrocento sempre al Museo Correr e R. Broglio D'Aiano, Die venetianische Seidenindustrie, pp. 40-59.

164. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 174, Terminazione del console dei mercanti, 2 settembre 1471; F. Brunello, Arti e mestieri, p. 125.

165. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 174, Decreto del senato (copia), 11 novembre 1559.

166. Ivi, Senato Terra, reg. 39, c. 196, 15 dicembre 1554.

167. Ivi, V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 149, 25 agosto 1422 (copia tratta dal capitolare vecchio dell'ufficio della seta).

168. Ivi, V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 159, 13 agosto 1457 e 16 luglio 1496.

169. Venezia, Museo Correr, Mariegola dei tessitori di seta, c. 37, s.d. ma attorno agli anni 1460-1470.

170. Le maestranze straniere dovevano in ogni caso presentarsi ai giudici dell'Arte prima di incominciare a lavorare a Venezia (ibid., cc. 21-22, 17 gennaio 1468). Era fissata ancora una tassa di ingresso all'Arte, la quale agli inizi del Cinquecento ammontava a lire 10 di piccoli per i lavoranti stranieri. Questi potevano sottoporsi alla prova del capolavoro solamente dopo sei anni, pagando altri due ducati, elevati a sei in caso di superamento della prova stessa (ibid., nr. 48, fine secolo XV, c. 57, 20 agosto 1508).

171. Ibid., nr. 49, c. 8v, 27 agosto 1370.

172. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 149, Decreto del senato (copia), 28 novembre 1532.

173. Doretta Davanzo Poli, in Gli arazzi di Venezia, in Quaderno 2 (Centro studi di storia del tessuto e del costume), Venezia 1990, p. 35 (pp. 35-45) Nel 1421 sembra che aprissero i primi laboratori a Venezia Jehan di Bruggia (Bruges) e Valentino di Raz (Arras).

174. Jan Denucé, Les tapisseries anversoises, fabrication et commerce, Anvers 1936, p. X.

175. Ibid., p. XIII; P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, pp. 163-164; D. Davanzo Poli, in Gli arazzi di Venezia, pp. 36-37; J. Denucé, Les tapisseries anversoises, p. XIII.

176. J. Denucé, Les tapisseries anversoises, pp. XII-XIV. La vitalità dell'arazzo fiammingo era testimoniata dalla varietà dei soggetti rappresentati, i quali superando quelli tradizionali-religiosi introducevano nuovi motivi di carattere contemporaneo e geografico.

177. D. Davanzo Poli, in Gli arazzi di Venezia, p. 38.

178. Venezia, Museo Correr, Capitulare conciatorum pellium vel curaminium, nr. 103, c. 11v, 18 agosto 1366.

179. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 156-161. Fondamentale per i processi di tintura del pellame il Plictho de l'arte de tentori del Rosetti, il quale dettava almeno nove prescrizioni, delle cinquanta che comprendevano l'intero trattato, specificatamente alle pelli. Un trattato dell'alsaziano Gailer, pubblicato nel 1516, se aveva affrontato la stessa problematica, non si era tuttavia dimostrato altrettanto utile agli specialisti del settore (Franco Brunello, Storia del cuoio e dell'arte conciaria, Vicenza 1991, pp. 141-142).

180. Id., Arti e mestieri, pp. 157-159. La prima operazione era quella del taglio delle pelli, scarnificate e lavate una prima volta, lavorazione eseguita dagli "scorzeri". Lo scopo ultimo era quello di riuscire a produrre un cuoio morbido e scamosciato, impiegato dall'importante corporazione dei calegheri e zavateri. Cf. Id., Storia del cuoio, p. 142. Sui conflitti all'interno dell'arte, Paolo Vianello, L'arte dei calegheri a Venezia in età moderna, Venezia 1993. Per un confronto con un'altra area, urbana e rurale, Carlo Poni, Norms and Disputes: the Shoemakers' Guild in Eighteenth-Century Bologna, "Past & Present", 123, 1989, pp. 80-108.

181. F. Brunello, Arti e mestieri, p. 156.

182. Robert Delort, Un aspect du commerce vénitien au XVe siècle: Andrea Barbarigo et le commerce des fourrures (1430-1440), "Le Moyen Âge", 71, 1965, p. 32 (pp. 29-79 e 247-273)

183. Ibid., pp. 272-273.

184. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 158 e 162. La confraternita tedesca sembra che non perdesse di importanza neppure in seguito, allorquando l'intero settore conobbe indubbiamente un notevole declino.

185. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 172.

186. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 164-165.

187. Ibid., pp. 166-167.

188. Tommaso Garzoni avrebbe annotato che le veneziane in piazza S. Marco sembravano delle navi "convertite in gigantesse", Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1595 (1585), p. 839.

189. Ibid., pp. 651 s.; F. Brunello, Storia del cuoio, p. 147.

190. Cf. per un'analisi più scrupolosa, R. Delort, Un aspect du commerce vénitien, pp. 32 ss.

191. Ibid., p. 46; F. Brunello, Arti e mestieri, p. 160.

192. R. Delort, Un aspect du commerce vénitien, pp. 39 ss.

193. La penuria di carne e quindi di pellame per la

Giudecca è già denunciata nel 1465 da un decreto del senato: Venezia, Museo Correr, Mariegola

Curameri, c. 19, 4 aprile 1465.

194. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 132, 29 novembre 1564.

195. Venezia, Museo Correr, Mariegola Curameri, nr. 103, c. 70v, 13 dicembre 1548.

196. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 132, 30 marzo 1595.

197. Ibid., 5 agosto 1596 e 26 novembre.

198. Ibid., 5 agosto 1596.

199. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 137.

200. Philippe Braunstein sottolinea opportunamente come le necessità fiscali e una politica centralizzatrice si coniugavano male con un'economiamondo che avrebbe dovuto aprirsi di più (Id., Le commerce du fer à Venise au XVe siècle, "Studi Veneziani", 8, 1966, p. 292 [pp. 267-302>).

201. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 65, 23 marzo 1354 (copia di una deliberazione del maggior consiglio). A S. Barnaba non sarebbero sopravvissute già a quest'epoca che 4-5 fucine contro le più numerose di un tempo.

202. Ibid., Decreto del senato, 23 dicembre 1430.

203. Ibid., b. 66, Decreto del senato (copia), 20 giugno 1520. Le merci in ferro provenienti dalla Germania via Verona, oltre a quelle lavorate nel Trevigiano raggiungevano i porti dell'Adriatico scavalcando Venezia (ibid., b. 67, 1° marzo 1570).

204. Azzali, aghi, archibugi, bilance, badili, brocche da cavallo, canne da follo, chiodi di ogni sorta, coltelli, campanelle, else da spada, filo di rame, ferri da cavallo, falci, lucchetti, lime, morsi da cavallo, pugnali, palette di ferro, pesi di ogni sorta, schioppi (ibid., b. 65).

205. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 60-63.

206. Per un approfondimento, v. Ugo Tucci, La meccanizzazione della coniatura delle monete e la zecca veneziana, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 251-274.

207. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 142, Decreto del senato (copia), 4 dicembre 1442; ibid., Decreto, 17 settembre 1518. Il decreto del 1442 è anche in Ugo Tucci, Il rame nell'economia veneziana del secolo XVI, in AA.VV., Schwerpunkte der Kupferproduktion und des Kupferhandels in Europa, 1500-1650, a cura di Hermann Kellenbenz, Köln-Wien 1977, p. 104 (pp. 95-116).

208. Philippe Braunstein, Le marché du cuivre à la fin du Moyen Âge, ibid., p. 85 (pp. 78-94); U. Tucci, Il rame nell'economia veneziana, p. 104.

209. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 142, Decreto del senato (copia), 19 giugno 1584.

210. U. Tucci, Il rame nell'economia veneziana, p. 104.

211. H. Kellenbenz, Bergbau und gewerbliche Produktion, p. 220.

212. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, pp. 143-144; G. Luzzatto, Storia economica, p. 201.

213. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 165.

214. F. Brunello, Arti e mestieri, p. 59.

215. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 146; F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 42 e 47-49. Una Scuola degli orefici venne fondata nel 1213 e il primo capitolare è uno dei più antichi a Venezia.

216. Giuseppe M. Urbani De Gheltof, Les arts industriels à Venise au Moyen Âge et à la Renaissance, Venise 1885, pp. 231-259.

217. Ibid., pp. 49 ss.

218. Cf. l'ediz. curata da Adriano Carugo: Milano 1977.

219. Venezia era infatti ragguardevole produttrice di filati d'oro e d'argento, i quali alimentavano un'importante corrente d'esportazione. I filati erano ottenuti ricoprendo un robusto filo di lino con l'oro e l'argento opportunamente preparati: ibid., pp. 139r-142r.

220. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 143.

221. G. Luzzatto, Storia economica, p. 201.

222. F. Brunello, Arti e mestieri, p. 42.

223. Sul "modo come le pietre preziose si conciano, e in su che si puliscano", una data fondamentale è la redazione del trattatello di Benedetto di Baldassarre Ubriachi, autore di origine toscana e vissuto nel XV secolo. Cf. l'edizione a cura di Gaetano Milanesi (Bologna 1864) e F. Brunello, Arti e mestieri, p. 185.

224. H. Kellenbenz, Bergbau und gewerbliche Produktion, p. 219. Nel 1618 si sarebbero contati 164 maestri del diamante ad Anversa, essendosi convertita l'economia della città in larga misura alla produzione di beni di lusso: Alfons K.L. Thijs, Structural Changes in the Antwerp Industry from the Fifteenth to Eighteenth Century, in The Rise and Decline of Urban Industries in Italy and in the Low Countries (Late Middle Ages-Early Modern Times), a cura di Herman van der Wee, Leuven 1988, pp. 207-209 (pp. 207-212).

225. Già nel 1334 si era parlato di spese superflue, a causa delle quali molti "erano periti e si erano ridotti al niente" (A.S.V., Provveditori alle pompe, b. 3, Decreto del maggior consiglio, 22 maggio 1334). La letteratura sull'argomento è molto vasta. Senza alcuna pretesa di esaustività, considerato che i rapporti che intercorrevano tra ceti, consumi e mentalità meriterebbero ben altri approfondimenti, si vedano almeno, su Venezia, Antonio Pilot, Di alcune leggi suntuarie della Re-pubblica veneta, "Ateneo Veneto", 26, 1903, pp. 449-455 e Giulio Bistort, Il magistrato alle pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico (1912), con Premessa di Giulio Zorzanello e Ugo Stefanutti, Bologna 1969; su Padova, Antonio Bonardi, Il lusso di altri tempi in Padova, Venezia 1910; cf. pure R. Delort, Un aspect du commerce vénitien, p. 39 n.

226. Nel 1443 erano le vesti femminili, del costo talvolta di 600 ducati, a rappresentare il tentativo di una svolta moralizzatrice, respinta peraltro dal senato (G. Bistort, Il magistrato alle pompe, p. 21). Nel 1460, nel 1476 e nel 1488 si tentava nuovamente, stilando appositi elenchi, di proibire "tutte le eccedenze ch'a quel tempo correvano", vale a dire panni d'oro, broccati, velluti. Nel 1495 si bandivano i cavedoni, lavorati d'oro e d'argento o alla damaschina (A.S.V., Provveditori alle pompe, b. 1, Capitolare I, c. 3, Decreto del maggior consiglio, 1° giugno 1488; b. 3, Decreti del senato [copie>, 20 maggio 1460 e 14 gennaio 1495).

227. Si volle colpire in questa occasione l'acquisto di perle, sete, ori; nel 1460, 1463, 1472 il portare perle al collo, pendenti d'oro e gioie, tollerando un solo filo di perle, del valore di 200 ducati, o in alternativa una collana del valore di 500 (Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, I, Venezia 1795, p. 337).

228. A.S.V., Provveditori alle pompe, b. 3, Decreto del senato (copia), 9 gennaio 1556.

229. Gli addetti alla preparazione dei cosmetici e profumi veneziani (i muschiari, dal nome del muschio, una sostanza largamente impiegata nella profumeria orientale) non riuscirono peraltro a costituire una corporazione autonoma, rimanendo una sezione della più vasta Arte dei merciai (F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 169-179).

230. Ibid., pp. 180-182; Alain Corbin, Storia sociale degli odori, XVIII e XIX secolo, Milano 1983, p. 108.

231. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 145, 2 marzo 1391.

232. Ibid., b. 145, Decreto del senato (copia), 9 ottobre 1489.

233. D. Sella, Commerci e industrie, pp. 132-134.

234. Salvatore Ciriacono, Olio ed ebrei nella Repubblica veneta del Settecento, Venezia 1975, p. 131.

235. Cf. ibid., p. 11, la scrittura di Andrea Memmo

del 1728.

236. G. Luzzatto, Storia economica, p. 197.

237. A.S.V., Senato Terra, reg. io, Decreto, 9 ottobre 1489, in Angelo Bassani, Il controllo di qualità del sapone nella Repubblica di Venezia, "Rendiconti dell'Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL. Memorie di Scienze Fisiche e Naturali", ser. V, vol. XII, t. II, pt. II, 1988, p. 81 n.

238. D. Sella, Commerci e industrie, pp. 132-134; Bruno Caizzi, Industria e commercio della Repubblica veneta nel XVIII secolo, Milano 1965, pp. 148-150; Ivo Mattozzi, Crisi, stagnazione e mutamento nello stato veneziano sei-settecentesco: il caso del commercio e della produzione olearia, "Studi Veneziani", n. ser., 4, 1980, p. 222 (pp. 199-276).

239. D. Sella, Commerci e industrie, p. 4 n.

240. G. Luzzatto, Storia economica, p. 197.

241. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 197, 8 marzo 1622. Come in altri settori, a quell'epoca Venezia avrebbe dovuto affrontare nuovi concorrenti, che lavoravano cere certo di qualità inferiore (le cere gialle tedesche o quelle del Nord Africa, che raggiungevano Genova) ma offerte a prezzi più vantaggiosi.

242. Noel Deerr, The History of Sugar, II, London 1950, pp. 526-527.

243. Sidney W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Torino 1990, pp. 28 ss.

244. G. Luzzatto, Storia economica, p. 196. È stato calcolato che un chilogrammo di zucchero cotto una sola volta costasse a Cipro, nel 1468, almeno 1,3 grammi d'argento; se cotto due volte 8,4 grammi; se cotto tre volte 12 grammi. D'altro canto Francesco Balducci Pegolotti distingueva non meno di una diecina di varietà di zuccheri (La Pratica della mercatura, a cura di Allan Evans, Cambridge, Mass. 1936, pp. 297 e 309-311). Secondo una relazione dei V savi del 1622 i pani (panelle) di zucchero comportavano una perdita del 60% rispetto al greggio, gli zuccheri mascatadi (di Mascat) del 45% e lo zucchero bianco dal verzin del 25% (A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 197, 8 marzo 1622).

245. Jean Meyer, Histoire du sucre, Paris 1989, p. 17; S.W. Mintz, Storia dello zucchero, p. 126.

246. Charles Verlinden, Les débuts de la production et de l'exportation du sucre à Madère, in AA.VV., Studi in onore di Luigi Dal Pane, Bologna 1982, pp. 301-310; Hans Heinrich Mauruschat, Gewiirze, Zucker und Salz im vorindustriellen Europa. Eine preisgeschichtliche Untersuchung, Göttingen 1975, p. 98. Per un confronto dell'andamento dei prezzi dello zucchero e del miele in alcuni paesi europei, fra il XV e il XVIII secolo (il valore del miele crescendo progressivamente rispetto allo zucchero, nella misura in cui questo si affermava nei mercati internazionali), ibid., pp. 1 e 5.

247. Fernand Donné, Notice historique et statistique sur le raffinage et les raffineurs de sucre à Anvers (XVe au XIXe siècle), Anvers 1892, p. 4; H. Kellenbenz, Bergbau und gewerbliche Produktion, p. 218.

248. H.H. Mauruschat, Gewürze, Zucker und Salz, pp. 32-34. Si deve registrare tuttavia un calo dei prezzi dello zucchero nel corso del XV secolo, a fronte di una forte crescita della produzione e una domanda globale che ristagnava.

249. A.S.V., V savi alla mercanzia, serie seconda, b. 197, Decreto del senato (copia), 29 settembre 1520. Nel 1503 lo stesso senato denunciava l'arrivo da Genova di prodotti di cui si minacciava la confisca: cere, stagno, rame, cuoi, saponi e zuccheri (ibid., Decreto del senato, 30 luglio 1503). Ma nel 1595 il senato si vedeva costretto a concedere a un commerciante portoghese di pagare gli stessi dazi dei Veneziani, purché fosse in grado di importare lo zucchero dal Marocco (ibid., 23 settembre 1595).

250. Ibid., 8 marzo 1622. Raffinerie di zucchero ormai esistevano in Francia come in Sicilia, Spagna e Brasile. Si calcolava a quell'epoca che si raffinavano più di 2 milioni e mezzo di libbre all'anno: ne arrivavano 4.300.000, ma i procedimenti di bollitura provocavano una perdita del 40% di quelle quantità, potendosi tuttavia commercializzare un residuo di non irrilevante importanza nella forma di melassa.

251. F. Brunello, Arti e mestieri, p. 18; Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982, p. 12. Lo stesso Luzzatto sottolineava le caratteristiche comuni di gran parte delle esportazioni veneziane, effettuate sino a metà Quattrocento in direzione della Germania, della Sicilia e dell'Oriente, individuando solo per quest'ultimo periodo lo scavalcamento del vetro artistico nei confronti del vetro comune, con tutto ciò che un indirizzo siffatto significava in termini economici e di produzione di alto prestigio (G. Luzzatto, Storia economica, pp. 199-200).

252. Silvia Gramigna - Annalisa Perissa, Scuole di arti, mestieri e devozione a Venezia, Venezia 1981, pp. 120-121; Luigi Zecchin, L'arte fenestriera a Venezia nel XIV e XV secolo, in Id., Vetro e vetrai di Murano: studi sulla storia del vetro, I-III, Venezia 1987-1990: III, p. 320 (pp. 319-323).

253. A. Wyrobisz, Il vetro veneziano nella Polonia cinquecentesca, pp. 123- 124.

254. Ibid., p. 129.

255. Ada Polak, Glass, Its Makers and Its Public, London 1975, p. 14.

256. Rinvio su questo punto a Salvatore Ciriacono, Per una storia dell'industria di lusso in Francia. La concorrenza italiana nei secoli XVI e XVII, "Ricerche di Storia Religiosa e Sociale", 14, 1978, pp. 181-202 e bibliografia.

257. A. Polak, Glass, Its Makers and Its Public, p. 23.

Ciò non impedì tuttavia che si ammettesse - in una circostanza peraltro ben particolare - il figlio nato dall'unione di un patrizio veneziano con la figlia di un mastro vetraio al maggior consiglio, garantendogli quindi una patina di nobiltà (Decreto del 22 dicembre 1376, cit. da F. Brunello, Arti e mestieri, p. 21 n.).

258. Luigi Zecchin, Forestieri nell'arte vetraria muranese (1348-1425), in Id., Vetro e vetrai di Murano, III, p. 194 (pp. 194-197).

259. Ibid., p. 195; cf. pure Id., Presenze balcaniche a Murano e presenze muranesi nei Balcani, ibid., pp. 197 ss. (pp. 197-209); R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 15.

260. Luigi Zecchin, L'arte muranese fra il 1441 e il 1525 secondo i capitoli della mariegola, in Id., Vetro e vetrai di Murano, II, p. 36 (pp. 33-40). La cittadinanza veneziana e muranese non era meno ribadita in un'altra deliberazione coeva, specialmente per quanto concerneva la direzione di una vetreria: "che niuno el qual non sia originario et legitimo citadin et nativo de Venesia et de Muran, habitante in Muran, e sapia con le sue man lavorar de l'arte predita, non possa far botega né fornaxe de veri, né aver compagnia con algun in Muran né in Venexia de l'arte".

261. R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 50.

262. F. Brunello, Arti e mestieri, p. 25; L. Zecchin, L'arte muranese, p. 26.

263. Le fasi della lavorazione contemplavano l'intervento successivo di più addetti. Il maestro vetraio, che era il responsabile ultimo delle operazioni, veniva aiutato dal servente, il quale impostava il lavoro perfezionato da ultimo dal maestro stesso. Partecipavano ancora a queste prime fasi della lavorazione il serventin, addetto all'estrazione della prima massa vetraia, che il maestro avrebbe modellato, e il garzonetto, "il cui compito consisteva nel portare gli oggetti finiti alla tempera, a ripulire le canne da soffiatura e ad eseguire altri modesti servizi" (F. Brunello, Arti e mestieri, p. 23 n.).

264. Venezia, Museo Correr, Mariegola dei cristalleri, nr. 99, cc. 61-62, Capitolo CXI.

265. Nel 1544 si prevedevano sei mesi di prigione e 200 ducati di multa per chi fosse emigrato in altri territori dello stato, il doppio se avesse abbandonato la Repubblica. Nel 1587 il consiglio dei X faceva abbattere le fornaci vetrarie di Treviso, Padova e Vicenza. Nel 1597 si decretava "la galea al remo con li ferri alli piedi per cinque anni continui" agli espatriati (R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 99).

266. Il trattato del Neri fu successivamente ripubblicato a Venezia: cf. l'edizione del 1678 (L'arte vetraria distinta in libri sette) e ora quella curata da Rosa Barovier Mentasti (Milano 1980).

267. Nel 1493 a un maestro lorenese veniva concesso di erigere un forno a Murano, nella vetreria di Giorgio Ballarin, per far "lastre da vetrate de color rosso trasparente c veri per specchi in tuta belleza" (Luigi Zecchin, Chi inventò gli specchi veneziani?, in Id., Vetro e vetrai di Murano, II, p. 369 [pp. 368-371>).

268. Id., I "cristalleri" e l'invenzione degli occhiali, ibid., pp. 236-238; Id., I "roidi da ogli", ibid., pp. 244-245.

269. "Che si venda vetro per vetro e cristallo per cristallo", si legge al Capitolo X della mariegola dei cristalleri (c. 4, 8 gennaio 1333).

270. L. Zecchin, I "cristalleri", p. 239.

271. Id., I "veriselli", in Id., Vetro e vetrai di Murano, II, pp. 241-242; Id., L'arte vetraria muranese all'inizio del 1469, ibid., p. 376.

272. Eccezionalmente si concesse nel 1330, e ancora una volta nel 1333, a un maestro vetraio di Murano, ma abitante a Venezia, di tenere aperta una piccola fornace per la lavorazione dei vetri colorati da finestra. I lavoranti dei veriselli sarebbero risultati i progenitori degli addetti alle conterie (perle, collane, margherite per braccialetti ed ornamenti vari), i quali avrebbero approfittato tuttavia delle conoscenze tecniche sviluppate a Murano (L. Zecchin, I "veriselli", pp. 242-243).

273. Id., Il vetro "cristallino" nelle carte del Quattrocento, in Id., Vetro e vetrai di Murano, I, p. 230; Id., Nascita del cristallo veneziano, ibid., pp. 238-239.

274. "I ciottoli venivano preventivamente macinati e prima ancora, al fine di facilitarne la frantumazione, arrostiti e raffreddati bruscamente, gettandoli in acqua" (R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 16).

275. La cenere, ricca di carbonato di sodio, era il prodotto dell'incenerimento di piante che crescevano in terreni paludosi e salini, quali erano quelli del Levante e della Siria: Eliyahu Ashtor - Guido Baldo Cevidalli, Levantine Alkali Ashes and European Industries, "The Journal of European Economic History", 12, 1983, pp. 475-522.

276. Occorrerà attendere l'introduzione del vetro al piombo nel XVII secolo, dovuta all'inglese George Ravenscroft, perché inizi una diversa tradizione vetraria (R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 79).

277. L. Zecchin, Il vetro "cristallino", p. 230.

278. Su questi aspetti Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e controspionaggio: cifrari, intercettazioni, delazioni, tra mito e realtà, Milano 1994, pp. 381-382. Nel XIV e XV secolo era Venezia che sottraeva segreti preziosi agli operai lorenesi nella fabbricazione degli specchi, nei quali conserverà una netta superiorità sino al XVII secolo: Edouard Frémy, Histoire de la manufacture royale des glaces de France au XVIIe et au XVIIIe siècle; Paris 1909, cit. da P. Preto, I servizi segreti di Venezia, p. 382. Ancora qui, pp. 403-421, sulla "lunga guerra contro i vetrai di Murano".

279. L. Zecchin, Il vetro "cristallino", p. 230.

280. Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia 1551, p. 423; Vannoccio Biringuccio, De la Pirotechnia, p. 43V. Su questi aspetti cf. pure Luigi Zecchin, Il vetro muranese negli scritti del Cinquecento, in Id., Vetro e vetrai di Murano, I, pp. 233-234; G. Luzzatto, Storia economica, p. 200.

281. L. Zecchin, Chi inventò gli specchi veneziani?, p. 369.

282. I Tedeschi incaricavano frequentemente vetrai e ceramisti veneziani di stampare motivi della propria famiglia sugli oggetti commissionati (R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 72).

283. Per ottenerlo si aggiungeva alla fritta biossido di manganese come decolorante e calce di stagno come opacizzante. Un'altra varietà di colore-decorazione era quella del calcedonio, che riproduceva una sorta di venature marmorine. Né meno raffinato, fra i connaisseurs dell'epoca, era il vetro a filigrana, con decorazioni a reticello e a retortoli (A. Polak, Glass, Its Makers and Its Public, p. 58; R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, p. 94).

284. Erano così indicati perché la fiamma che riscaldava la canna era alimentata da un piccolo mantice che soffiava l'aria (F. Brunello, Arti e mestieri, p. 26).

285. Ibid.; A. Polak, Glass, Its Makers and Its Public, p. 57.

286. A. Polak, Glass, Its Makers and Its Public, pp. 56-57.

287. A. Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia, p. 343. Abbondante materiale documentario in Giovanni Caniato - Michela Dal Borgo, Le arti edili a Venezia, Roma 1990.

288. Jean-Pierre Sosson, Structures associatives et réalités socio-économiques dans l'artisanat d'art et du bâtiment aux Pays-Bas (XIVe-XVe siècles), in Artistes, artisans et production artistique au Moyen Âge, I, Les Hommes, a cura di Xavier Barral I Altet, Paris 1986, p. 111 (pp. 111-118).

289. Ibid., pp. 112 e 116.

290. F. Brunello, Arti e mestieri, pp. 31-38 e 72-75.

291. Giulio M. Ongaro, 161th-Century Venetian Wind Instrument Makers and Their Clients, "Early Music", August 1985, p. 395 (pp. 391-397).

292. Stefano Toffolo, Antichi strumenti veneziani, 1500-1800: quattro secoli di liuteria e cembalaria, Venezia 1987, p. 18. Con il termine di liutaio si indicavano sia i costruttori di strumenti a corde pizzicate che di strumenti ad arco.

293. Ibid., p. 181; Id., Sui liutai tedeschi a Venezia nel Cinque e Seicento e sui rapporti tra liuteria tedesca e pittura veneziana, in AA.VV., Venedig und Oberdeutschland in der Renaissance. Beziehungen zwischen Kunst und Wirtschaft, Sigmaringen 1993, p. 201.

294. Giulio M. Ongaro, New Documents on a Sixteenth-century Venetian Viol Maker, "Journal of the Viola da gamba Society of America", 27, 1990, p. 22 (pp. 22-28). Gli strumenti a fiato erano ampiamente raffigurati durante le manifestazioni pubbliche e i cortei dogali (Id., i6M_Century, pp. 393-394).

295. Elisabeth Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change. Communication and Cultural Transformations in Early-Modern Europe, I-II, Cambridge 1979: I, pp. 71 ss; sulla letteratura tecnica in generale cf. ibid., II, pp. 520 ss.

296. S. Toffolo, Antichi strumenti veneziani, p. 19; Victor Ravizza, Das instrumentale Ensemble von 1400-1550. Wandel eines Klangbildes, Bern-Stuttgart 1970, pp. 32 ss. Seguirono il Petrucci su questa strada una larga schiera di musicisti.

297. Prova ne è che lo Jenson, dopo essersi associato a un altro connazionale, Jacques Le Rouge di Chablis, e a un patrizio veneziano, Smerio Querini, per tentare di avviare, senza troppo successo, una tipografia, trovò i finanziamenti necessari all'impresa presso i commercianti e gli altri stampatori tedeschi (Marino Zorzi, Stampatori tedeschi a Venezia, in AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, p. 132 [pp. 115-140>).

298. Ibid.; P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 164.

299. Martin Lowry, The World of Aldus Manutius, Oxford 1979 (trad. it. Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1994), p. 41.

300. M. Zorzi, Stampatori tedeschi, p. 123.

301. Esistevano poi i correttori di bozze e i curatori di edizione molto spesso, questi ultimi, intellettuali affermati, che pretendevano compensi adeguati (ibid., p. 124).

302. Ugo Tucci, I mestieri nella "Piazza universale" del Garzoni, in AA.VV., Studi in onore di Luigi Dal Pane, Bologna 1982, p. 319 (pp. 319-331).

303. Le percentuali elaborate da R.T. Rapp sono l'1,42% delle corporazioni dei settori arti e musica, l'1% per l'editoria e la carta (R.T. Rapp, Industry and Economic Decline in Seventeenth-Century Venice, pp. 76-77).

304. Ibid., p. 26.

305. Ibid., pp. 24 e 58-63.

306. Ibid., p. 27.

307. M. Fennell Mazzaoui, The Italian Cotton Industry, p. 113; F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, p. 112.

308. Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 456-457.

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