MECCANICA, INDUSTRIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993)

MECCANICA, INDUSTRIA

Vincenzo Atella
Giuseppe Rosa

In ogni paese l'i. m. riveste un ruolo primario, in quanto è alla base di tutti i processi produttivi, attraverso la fornitura di macchine alle altre industrie trasformatrici e manifatturiere. Pertanto, molto spesso il suo sviluppo s'identifica con il progresso industriale del paese.

La nascita dell'i. m. italiana, così come quella degli altri paesi industrializzati, può essere fatta risalire all'inizio del 19° secolo, allorché in Inghilterra fu scoperta e si diffuse la macchina a vapore per la produzione di forza motrice. Fino a quella data in Italia si poteva parlare unicamente di artigianato meccanico; gli unici esempi di realtà industriali erano rappresentati dai cantieri navali della Liguria e della Toscana. L'invenzione della macchina a vapore, e successivamente della ''macchina igneopneumatica'', del motore a scoppio e del motore a gas innescarono il processo di crescita dell'i. meccanica. Il comun denominatore di queste macchine era quello di fornire sempre maggiore potenza senza diventare per questo sorgenti troppo dispendiose di energia. Nonostante gli sviluppi di queste nuove macchine, la prima fase dell'industrializzazione italiana fu realizzata grazie all'energia prodotta dalle cadute dei corsi d'acqua. Con la costruzione di pompe e turbine divenne possibile utilizzare in modo sistematico l'energia; tuttavia, quel tipo di energia rendeva problematica la localizzazione delle imprese nascenti, che erano costrette a sorgere in prossimità dei corsi d'acqua o dei salti. Grazie ai contributi di A. Pacinotti e di G. Ferraris fu possibile trasportare l'energia elettrica prodotta nelle centrali idrauliche e utilizzare in un secondo momento il motore elettrico. In questo periodo, a cavallo tra Otto e Novecento, l'i. m. italiana ebbe un grande sviluppo. Notevoli miglioramenti furono ottenuti nella costruzione dei motori di ogni genere, nelle macchine agricole, in quelle per l'industria tessile e per il trasporto ferroviario e automobilistico.

Nel primo cinquantennio del 20° secolo l'i. m. italiana è stata attraversata da due grossi cicli economici, entrambi legati alle vicissitudini dei due conflitti mondiali. Agli inizi del Novecento si registrò un rapido incremento della produzione, determinato in modo particolare dalla corsa agli armamenti e sfociato nella prima guerra mondiale. Questo periodo di relativa crescita, condiviso anche dal settore dei trasporti per ferrovia e delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche, si esaurì con la fine della guerra. In molti casi apparve evidente che lo sviluppo della nuova industria, soprattutto quella bellica, era stato ottenuto in parte senza badare alla struttura dei costi. Esisteva inoltre il problema della riconversione dell'industria bellica in industria di pace, il tutto aggravato dalle non favorevoli condizioni congiunturali in cui si trovava il paese in quel periodo. La chiusura di grosse industrie, così come lo scandalo della Banca Italiana di Sconto nel 1921, segnarono uno dei periodi peggiori attraversati dal settore. Tuttavia, durante gli anni Venti l'i. m. italiana seppe riorganizzarsi, riuscendo a soddisfare i bisogni della nazione.

La leggera ripresa di questo periodo fu decisamente ribaltata con la crisi mondiale del 1929. Negli anni 1929-33 l'i. m. italiana fece segnare una contrazione del volume di produzione di circa il 33%, seguita da una ancor più drastica contrazione delle esportazioni (−71%). Negli anni 1929-34 i valori delle importazioni di manufatti e semilavorati scesero rispettivamente del 57% e del 65%. È in questo periodo (1933) che viene creato l'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Esauritasi la fase della grande crisi, l'i. m. italiana dovette affrontare il problema delle sanzioni economiche e dell'autarchia imposta dal regime fascista. Negli stessi anni il settore fu impegnato su due diversi fronti. Da un lato fu necessario produrre i beni non più importabili, dall'altro far fronte alla nuova corsa agli armamenti che si era scatenata nei paesi europei. Il periodo di crescita si ebbe dal 1934 al 1937, anno in cui potevano considerarsi concluse, sul fronte della produzione bellica, la corsa agli armamenti, e su quello della produzione civile, la valorizzazione dei territori conquistati dall'Impero.

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l'i. m. italiana aveva raggiunto un grado di sviluppo tale da sopperire ampiamente al fabbisogno interno di prodotti meccanici e da alimentare un apprezzabile flusso di esportazioni. Dal lato qualitativo la situazione non sempre poteva definirsi positiva: gli anni delle sanzioni (dal 1935) e la successiva politica dell'autarchia avevano tagliato fuori per lungo tempo alcuni settori dalla competizione con gli altri paesi. Se da un lato ciò aveva in parte assicurato ''rendite di posizione'', dall'altro aveva comportato un veloce processo d'invecchiamento del patrimonio tecnologico e del know how.

Nel periodo 1939-43 si ebbe un rapido incremento della produzione dell'i. m., mentre la produzione industriale complessiva diminuì sensibilmente. Gli anni 1944-48 videro, invece, un rapido declino di tutte le produzioni, dovuto all'impossibilità di ottenere rifornimenti di materie prime e semilavorati, alla situazione di grave prostrazione in cui la guerra aveva gettato il paese e alla necessità di riconvertire a scopi civili molte industrie belliche.

Dopo il 1948, la produzione dell'i. m. italiana cominciò a risalire, facendo anche segnare un discreto livello delle esportazioni nei settori delle macchine per ufficio, della ferramenta e dei derivati da vergella. La produzione totale nel 1948 era pari a 550 miliardi di lire del 1950 e rappresentava circa il 15% della produzione totale dell'industria italiana. Sempre con riferimento ai valori del 1950, nel 1948 le esportazioni erano pari a 125 miliardi, segnando un incremento del 290% rispetto al 1938. Le esportazioni meccaniche rappresentavano oltre il 21% del valore totale delle esportazioni italiane. La maggior parte degli stabilimenti era concentrata al Nord (88%), mentre al Centro e al Sud era localizzato, rispettivamente, solo il 7 e il 5%. In particolare, le industrie del Nord erano concentrate nel Piemonte, nella Liguria e nella Lombardia. Nel 1948 l'IRI costituì la Finmeccanica, che riuniva tutte le partecipazioni statali nel settore dell'i. meccanica.

A partire dal 1950 l'andamento dell'economia italiana fu caratterizzato da fasi cicliche della produzione e degli investimenti particolarmente marcate. In questi ultimi 40 anni è possibile individuare due periodi ben distinti: nel primo periodo, durato fino al 1970, la produzione dei settori meccanici ha seguito sostanzialmente la tendenza della produzione del settore industriale nel suo complesso, accentuandone il comportamento congiunturale con tassi d'incremento più alti nelle fasi di ripresa e più bassi in quelle di recessione. Nel corso dell'ultimo ventennio, invece, non si sono riscontrate fasi cicliche altrettanto marcate e inoltre l'andamento del settore meccanico si è meno discostato da quello dell'intero settore industriale.

In particolare, a partire dal 1970, l'industria metalmeccanica ha rafforzato in Italia il suo ruolo di asse portante di tutto il settore industriale, anche se si è trovata a dover affrontare i problemi causati dalle due crisi petrolifere del 1973 e del 1978. Il problema principale dell'industria è stato quello della riconversione delle tecniche di produzione e degli impianti. Infatti i vecchi impianti erano stati progettati per lavorare con ampie disponibilità di energia a basso prezzo. Esistevano, poi, altri fattori che rendevano ancor più difficile il problema della riconversione: l'incertezza dell'evoluzione dei prezzi dell'energia, la mancanza di tecnologie adeguate e la necessità di cambiare la combinazione tra i fattori della produzione.

In questo clima, la tendenza generalizzata è stata quella di ridurre drasticamente gli investimenti: in particolare, nel periodo 1970-76, in presenza di un tasso di crescita del prodotto lordo del 5,3% annuo per il settore dei ''minerali e metalli ferrosi e non'', gli investimenti totali hanno registrato un decremento di −1,4% all'anno. Analogamente, il settore delle ''macchine di precisione e per ufficio'' ha registrato una crescita della produzione media annua dell'11,3% e una caduta degli investimenti totali di −6,8% all'anno. Gli unici settori nei quali si è riscontrata una dinamica positiva degli investimenti sono stati quello delle ''macchine e forniture elettriche'' con il 2,2% all'anno e quello dei ''prodotti in metallo escluse macchine e mezzi di trasporto'' con il 2,6% all'anno.

Le aziende meccaniche che meglio hanno superato questo periodo di crisi e hanno saputo ristrutturarsi sono state quelle che hanno necessitato di bassi investimenti, spesso finanziabili direttamente attraverso capitale proprio. Purtroppo, però, in queste condizioni il riaggiustamento ha avuto un contenuto tecnologico molto limitato. Nel lungo periodo ciò ha determinato un'accresciuta specializzazione internazionale del paese nelle produzioni a basso contenuto tecnologico, e una più elevata dipendenza dalle importazioni di prodotti con maggiore tecnologia.

Tra il 1978 e il 1981 l'i. m. è stata caratterizzata dal fenomeno della deverticalizzazione, attraverso la quale molte imprese sono riuscite a ridurre i fabbisogni per investimenti, che le avevano costrette a rimanere su produzioni a bassa intensità tecnologica. Il trasferimento di quote di produzione verso imprese esterne ha raggiunto valori medi del settore oscillanti intorno al 15% negli anni 1979-84. Tuttavia, all'interno del comparto ''meccanica'' singoli settori hanno assunto comportamenti molto diversi: si è passati dal 31% circa del settore ''mezzi di trasporto'' al 3% circa del settore ''impianti''.

La deverticalizzazione ha reso il processo di produzione delle imprese del comparto ''meccanica'' molto più flessibile e potenzialmente più efficiente, permettendogli di fornire, al tempo stesso, una vasta gamma di prodotti più qualificati e innovativi. Tuttavia, essa ha generato un maggior ricorso all'importazione di beni intermedi e componenti, oltre che di taluni beni finali d'investimento. Un tale risultato farebbe propendere per l'ipotesi secondo cui il comparto meccanico italiano si sarebbe ricollocato in segmenti del ciclo produttivo che richiedono una maggiore manodopera specializzata ritirandosi allo stesso tempo da quelle produzioni di base, quali i componenti elettronici, in cui l'innovazione tecnologica richiede grossi sforzi, che non possono essere sopportati da una miriade di piccole e medie imprese. Tale processo di ricomposizione dell'i. m. italiana si è concluso verso la fine dei primi anni Ottanta, periodo in cui gli investimenti effettuati dalle grandi imprese si sono ridotti ancora di più di quanto non si era registrato nel ciclo di ristrutturazione. Al contrario, per le piccole e medie imprese gli investimenti sono cresciuti.

Con l'inizio degli anni Ottanta è ripreso il processo di crescita degli investimenti che è tornato a essere in favore delle grandi imprese. D'altra parte, il nuovo flusso di investimenti non è finalizzato solo all'aumento della capacità produttiva, ma tende soprattutto a migliorare la produttività del capitale e del lavoro. In tal senso, le imprese che sono riuscite a crescere in questo periodo sono quelle che hanno guardato all'innovazione, sia di prodotto che di processo. Nel primo caso si è conseguito l'aumento della redditività attraverso un aumento del prezzo unitario del prodotto piuttosto che mediante una riduzione dei costi; nel secondo la redditività è aumentata attraverso la riduzione della forza lavoro. Il settore meccanico si qualifica per il buon livello della propria redditività che, sia come margine di profitto unitario lordo, sia in termini di redditività globale del capitale investito, si pone sistematicamente sui livelli più elevati dell'industria manifatturiera. Nel 1984 la redditività del capitale nel settore meccanico è stata del 7,1% contro il 5,5% dell'industria manifatturiera.

Anche il grado di autofinanziamento delle imprese meccaniche è risultato buono durante gli anni Ottanta, pari a circa il 10% contro il 5,4 dell'intero settore manifatturiero. Tuttavia, l'elevata incidenza del capitale circolante ha costretto le imprese del settore a indebitarsi in misura cospicua soprattutto a breve termine. Tale fattore, unitamente alla lunghezza del ciclo produttivo, alla presenza preponderante di lavorazioni su commessa e all'elevato valore unitario dei prodotti, ha costituito un vincolo strutturale alla possibilità di contenimento del capitale di esercizio, rendendo delicata la gestione della liquidità, soprattutto in periodi di forte dinamica inflazionistica.

Segnali ancora più netti di difficoltà si sono riscontrati all'avvio del nuovo decennio. Il rallentamento dell'attività economica italiana che, manifestatosi sul finire del 1990, si è andato via via consolidando, non poteva non riflettersi anche sul comparto della meccanica complessivamente considerata. Nel 1992, infatti, il settore ha presentato un calo dei livelli produttivi, dovuto in parte alla debole domanda interna, e ciò a causa della riduzione degli investimenti nella maggioranza dei settori utilizzatori. Il minor grado di utilizzo degli impianti dev'essere ascritto, quindi, alle flessioni produttive, anche perché non sono stati operati adeguati investimenti volti ad aumentare la capacità produttiva.

Sul fronte dei prezzi e dei costi la peculiarità del prodotto offerto ha comunque permesso ai prezzi di recuperare integralmente la dinamica dei costi: il settore meccanico ha realizzato pertanto nel 1992 margini lordi unitari crescenti. Il concorso di tali andamenti spiega anche la flessione (avviatasi già nel 1991) della forza lavoro occupata (−4% circa). La riduzione dei livelli occupazionali è stata realizzata attraverso licenziamenti, prepensionamenti e aumento del numero di ore di CIG (Cassa Integrazione Guadagni).

L'aspetto di maggiore evidenza risiede, in sostanza, nella maggiore difficoltà per il settore di mantenere le posizioni sui mercati esteri, causando con ciò un significativo peggioramento del quadro degli scambi con l'estero, nell'ambito del quale, nel 1991, si osserva una maggiore propensione delle imprese meccaniche a investire in prodotti esteri rispetto a quelli nazionali (le importazioni, infatti, sono cresciute a un ritmo più sostenuto rispetto a quello delle esportazioni): il saldo commerciale attivo è così sceso a 8329 miliardi di lire rispetto agli 11.516 dell'anno precedente (v. tab.). Pesa su questa situazione il gap di competitività rispetto ai nostri più diretti concorrenti − Germania unificata, Stati Uniti e Giappone − nonché la particolare natura della fascia di collocazione dei nostri prodotti, stretta com'è tra prodotti di elevata qualità e lavorazioni meno redditizie, ma con basso costo del lavoro.

Non va tralasciato, però, che attraverso imponenti processi di riconversione e di ristrutturazione l'i. m. italiana, soprattutto nei suoi segmenti più avanzati (robotica e automazione), ha saputo acquisire, nel tempo, un'eccellente posizione nella qualità dell'offerta. Auspicabilmente, tale situazione dovrà essere sfruttata al massimo nell'immediato futuro, e ciò soprattutto per conquistare ampi spazi di presenza nelle nascenti economie di mercato dei paesi dell'Est europeo.