INFERNO

Enciclopedia Italiana (1933)

INFERNO (fr. enfer; sp. infierno; ted. Hölle; ingl. hell)

Umberto FRACASSINI
Giuseppe DE LUCA
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Il vocabolo latino infernus era originariamente un aggettivo e designava qualche cosa che fosse più in basso dello spettatore, o addirittura sotto di lui: era quindi il preciso opposto di ciò che stava più in alto o sopra (supernus) a lui. Il vocabolo assunse presto, presso i Latini, un significato cosmologico: l'uomo, spettatore del cosmo, designò le parti cosmiche più in basso di lui come parti "inferiori" o infernae, e quelle "superiori" come supernae, applicando naturalmente gli stessi aggettivi a esseri appartenenti alle rispettive parti; così si ha in Livio, XXIV, 38, superi infernique dii; e in Properzio, II, 1, 37, Theseus infernis, superis testatur Achilles. Quindi l'aggettivo, sostantivato (al plur. inferna, o inferi), designò la parte del cosmo sotterranea, "inferiore" all'uomo, nella quale la mitologia assegnò l'oltretomba umano e il regno di Ade.

L'accezione classica del vocabolo si protrasse nella Volgata; ivi, nell'Antico Testamento, il vocabolo traduce per lo più il termine ebraico she'ül. Anche gli Ebrei dividevano il cosmo in tre parti: celeste, terrestre, e sotterraneo o "inferno" (cfr. Filippesi, II, 10).

Il vocabolo entrò anche nella terminologia cristiana ecclesiastica e teologica. In essa mantenne l'antica accezione cosmologica, accentuando però la designazione escatologica individuale; così si trova, nello stesso Credo, che Gesù Cristo descendit ad inferos. Tuttavia la successiva terminologia teologica restrinse anche più questa accezione escatologica, riserbando comunemente il termine a designare quel luogo e stato dell'oltretomba, destinato agli uomini che sono incorsi nella dannazione eterna.

Storia delle religioni. - Il costume, molto antico e diffuso, di dare sepoltura ai morti fece sì che i popoli, i quali credettero in un'altra vita dopo la morte, da principio pensarono che questa si svolga per ciascun defunto nel sepolcro o accanto a esso; ma allorché ammisero una sopravvivenza collettiva, a somiglianza della vita presente, pensarono a una sede comune a tutte le anime, o ombre, dei defunti unite insieme; e l'immaginarono, come il sepolcro, posta sottoterra, e la designarono col nome appellativo d'inferno, ma talvolta con nome proprio: gli Egiziani earu, i Babilonesi arallu, gli Ebrei she'ül, i Greci Ades (v. ade), i Romani Orcus (v. orco), ecc.; e, nonostante la grande diversità dei miti e delle rappresentazioni, con tratti fondamentali in gran parte comuni.

L'inferno si credeva collocato nell'estremo Occidente, dove anche il sole la sera discende sotto terra per rimanervi durante tutta la notte. Ne custodisce l'ingresso una gran porta (presso i Babilonesi sette, che presuppongono una cinta di sette mura), la quale permette d'entrare ma a nessuno di tornare indietro, onde presso i Babilonesi la denominazione di "paese senza ritorno" (cfr. Giobbe, VII, 9; X, 21; Catullo, III, 11 seg., "unde negant redire quemquam"). Come nel sepolcro, così nell'inferno regnano le tenebre, non mai rischiarate da uno sprazzo di luce, eccetto, come vedremo, presso gli Egiziani; il silenzio, onde vi tace affatto anche la lode di Dio; l'oblio, donde presso i Greci l'idea del Lete; la polvere, che riempie ai morti perfino la bocca, onde è detta il loro cibo; l'acqua sotterranea, naturalmente fangosa, in cui i morti affondano fino alla gola. Le acque dell'inferno presso alcuni popoli sono veri mari o fiumi, come quelli sopra la terra. Così presso i Babilonesi e gli Ebrei. Sono noti i fiumi infernali dei Greci, Stige, Acheronte, Piriflegetonte e Cocito; nelle Rane di Aristofane si descrive un lago di fango incontrato da Dioniso nella sua discesa nell'inferno. Singolare è l'idea degli Egiziani di fare attraversare l'inferno da un Nilo sotterraneo, nel quale la sera entra la barca del sole dalla parte d'Occidente per uscirne la mattina a Oriente, salutato nella traversata dalle anime dei defunti sparse a destra e sinistra lungo la riva, che così successivamente per un'ora godono della sua luce.

Come i morti nell'inferno non sono altro che un'ombra delle persone che furono in vita, così la loro condizione laggiù è un riflesso di quella che ebbero sulla terra; onde la medesima distinzione di classi sociali e di caratteri individuali, insieme però con un'eguale sorte oscura e vuota per tutti; solo personaggi cospicui (i morti per la patria e gli eroi dei tempi primitivi) occupano un posto speciale. Tutti sono sottoposti all'impero delle divinità infernali (che risiedono in una reggia sotterranea): una regina alla quale comunemente si accoppia un dio marito: Persefone e Ades o Plutone presso i Greci, Ereshkigal o Allatu e Nergal presso i Babilonesi; anche in Giobbe, XVIII, 14 si trova "il re del terrore".

Nella primitiva concezione dell'inferno non si tenne conto della diversità morale dei suoi ricoverati, e dell'idea della retribuzione nella descrizione del loro destino. I Greci antichi ammisero una pena nell'inferno solo per gli omicidi e gli spergiuri, ed eccezionalmente per i nemici degli dei, quali Tizio, Tantalo e Sisifo; ma poi nei misteri, e in specie nell'orfismo, si divise l'inferno in due parti: una, il Tartaro, buia e triste per gl'impuri o non iniziati, e l'altra, l'Eliso, luminosa e felice per i puri o iniziati. Da ciò si svolse l'idea di un luogo oltremondano di tormento per i cattivi. In Oriente, al contrario, fino da tempi antichissimi gli Egiziani, a lato della concezione volgare d'un inferno uguale per tutti, hanno coltivato l'altra idea che dopo morte tutti debbono comparire al tribunale di Osiride per essere giudicati e, se trovati rei di qualche azione cattiva, essere gettati in un lago d'acqua o di fuoco. Anche i Babilonesi facevano comparire le anime dei defunti dinnanzi agli Anunnaki, ma a quale effetto propriamente non si sa. Presso gli Ebrei, nei libri più antichi della Bibbia, si trova un regno dei trapassati - la she'ül - concepito solo in maniera confusa. La gehenna (v. geenna), luogo di dannazione per gli empî e di tormento per i cattivi, menzionata di frequente nella letteratura del giudaismo post-esilico, è nel Nuovo Testamento, in opposizione al paradiso, il regno di Satana, che con i suoi angeli malvagi tormenta i dannati con ogni genere di pene, ma specialmente col fuoco. La she'ül e la geenna nel giudaismo rabbinico hanno continuato a rimanere distinte: secondo alcuni autori, la geenna sarà creata dopo il giudizio universale per tormento dei dannati, che fino a quel tempo rimarrebbero nella she'ül; secondo altri invece essa esisterebbe già, come il paradiso, da prima della creazione del mondo.

V. inoltre germanici, popoli: Mitologia e religione.

L'inferno secondo la dottrina cattolica. - La teologia cattolica spiega tutto il dogma cristiano sull'inferno mediante poche affermazioni, secondo le quali la vita presente è temporanea prova, trascorsa la quale si entra nell'eternità; chi muore con la coscienza gravata di peccato mortale, è condannato all'inferno, luogo di tormenti dove per tutta l'eternità soffre una duplice pena: quella del danno, che consiste nella privazione della visione di Dio, della beatitudine essenziale e di tutto ciò che è il paradiso; e quella del senso che consiste in una pena esterna, inflitta per così dire dal di fuori. Ambedue le pene costituiscono l'inferno, cioè non tanto un luogo, come comunemente viene inteso, quanto uno stato delle anime dopo la morte. L'eternità dell'inferno, correlativa a quella del paradiso, è insegnata in parecchi testi dell'Antico e specialmente del Nuovo Testamento, nella tradizione e nel magistero della Chiesa.

Le eresie contro il dogma dell'eternità si riducono principalmente a due: l'ipotesi di un'annichilazione dei dannati, sostenuta già da Arnobio (sec. IV) e risuscitata nel secolo XIX da alcune sette di protestanti, come per es., l'avventista; e la teoria dell'universale ristabilimento (restitutio, ἀποκατάστασις, v. apocatastasi), insegnata già da Origene, e oggi pure diffusa qua e là tra i protestanti.

La pena del danno, formalmente considerata, non consiste nella perdita di Dio in sé (ché il dannato ostinatamente odia Dio), ma nella perdita di Dio in quanto ultimo, solo ed essenziale fine di ciascun uomo; la pena del senso, principalmente nel "fuoco". Sull'esistenza del fuoco come pena infernale, la teologia cattolica non ha dubbî; si è posto invece il delicato problema della vera natura di questo fuoco. Come il fuoco, cosa materiale, può essere adibito a pena di angeli e di anime, esseri spirituali? La Chiesa, nonostante alcune opinioni isolate nella tradizione (per es., Origene) favorevoli alla natura metaforica del fuoco infernale, e pur senza essersi pronunciata esplicitamente, ritiene reale e corporeo il fuoco dell'inferno. All'altra questione circa il modo di conciliare una pena materiale con esseri puniti privi di sensi e immateriali, rispondono i teologi che il fuoco infernale creato da Dio per castigare anche le anime, ha tali proprietà a noi misteriose per le quali si diversifica dal fuoco ordinario conservando con esso un'identità specifica soltanto analogica. Il dogma cattolico ritiene che la pena dell'inferno sia d'intensità varia, a seconda della reità maggiore o minore dei dannati. Non ammette, invece, che sia mai possibile una mitigazione della pena. In Prudenzio, e in parecchie visioni del Medioevo, si trova l'opinione delle "ferie infernali", secondo cui in certe più solenni festività cristiane i dannati dell'inferno avrebbero una sospensione delle pene, che riprendono a festività cessata: opinione evidentemente dettata da un popolare senso di pietà. Il dannato, infine, non può pentirsi dei suoi peccati; tale impossibilità è variamente spiegata dai teologi. Circa la questione cosmologica, sul luogo cioè dell'inferno, nulla vi è di definito nel dogma cattolico.

Le rappresentazioni letterarie. - La descrizione delle pene infernali è certo uno dei temi p iù sfruttati dalle letterature più diverse. Per rimanere nel mondo classico, è quasi superfluo ricordare e la Nékyia omerica (Odissea, VI) e la descrizione di Virgilio (Eneide, VI) o quelle che ne dànno Ovidio, in varî luoghi delle Metamorfosi o Claudiano nel De raptu Proserpinae. L'argomento ha assunto maggiore importanza col cristianesimo, nelle letterature medievali: dove le descrizioni dei tormenti infernali costituiscono tanta parte in specie delle cosiddette "visioni" (Visio Pauli nelle redazioni latine e volgari; Visio Tundali; Visio Alberici; De Babylonia infernali di Giacomino da Verona; Libro delle tre scritture di Bonvesin da la Riva, ecc.). In questi scritti, la fantasia degli autori più o meno popolareschi si sforza di rappresentare al vivo e di variare e moltiplicare e classificare le pene e i tormenti; talvolta con qualche efficacia, più spesso assai rozzamente: e in maniera certo non comparabile, quanto all'arte, con la descrizione di Dante, alla quale furono ravvicinate, specie in una certa fase degli studî danteschi, per l'affinità dell'argomento; mentre non si può escludere senz'altro, pur mancando argomenti diretti, che di alcune egli abbia avuto conoscenza.

Nelle arti figurative, invece, i tormenti dei dannati sono rappresentati prevalentemente in connessione con un altro motivo iconografico, quello del Giudizio universale (v.).

Bibl.: Per l'inferno nella storia delle religioni in genere, v.: E. Rohde, Psyche, 9ª e 10ª ed., Tubinga 1921; C. Pascal, Le credenze d'oltretomba nelle opere letterarie dell'antichità classica, 2ª ed., Torino 1924; A. Dieterich, Nekyia, 2ª ed., Lipsia 1913; A. Wiedemann, Die Toten und ihre Reiche im Glauben der alten Aegypter, Lipsia 1902; A. Jeremias, Hölle und Paradies bei den Babyloniern, Lipsia 1903; E. Schrader, Die Keilinschriften und das Alten Testament, 3ª ed., Berlino 1903; P. Volz, Jüdische Eschatologie, Tubinga 1903; W. Bousset, Religion des Judentums, 3ª ed., Tubinga 1926. Per il dogma cattolico, oltre ai vari corsi di teologia nel trattato De novissimis, cfr.: C. Passaglia, De aeternitate poenarum deque igne inferni commentarius, Ratisbona 1854; H. Martin La vie future d'après la foi et suivant la raison Parigi 1870; I. Sachs, Die ewige Dauer der Höllenstrafen, Paderborn 1900. Per l'inferno cosmologico degli Ebrei e per le ferie infernali dei dannati, v. G. Ricciotti, L'Apocalisse di Paolo siriaca, I, Introd., trad. e commento; II, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante, Brescia 1932. Per le descrizioni medievali dell'inferno, specie in relazione a Dante, v.: A. F. Ozanam, Dante et la philosophie catholique au XIIIe siècle, Parigi 1845; A. D'Ancona, I precursori di Dante, Firenze 1874 (riprodotto in Scritti danteschi, ivi 1912); F. Torraca, Le opere minori di D. A., ivi 1906 (ristampa, I precursori della Divina Commedia, ivi 1921); N. Zingarelli, Dante, Milano 1931, II, p. 809 segg.; M. Asín Palacios, La escatología musulmana en la D. C., Madrid 1919 (cfr. V. Rossi, in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930, I, p. 99 segg.; M. Asín Palacios, Historia y crítica de una polémica, in Bol. Ac. Esp., 1924).

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