INGEGNERIA

Federiciana (2005)

Ingegneria

GGiovanni Coppola

Nel periodo svevo, il pensiero scientifico presenta una singolare koinè culturale determinata dall'intenso e continuo interscambio tra le più lontane scuole, alla cui qualificazione contribuiscono diverse tradizioni culturali. L'interesse, ben attestato dalle cronache, di Federico II per tutte le arti, philosophus e artifex peritus, esperto cioè in arti liberali e meccaniche, risponde alla logica del tempo di governare prestando ascolto ai consigli dei sapienti, facendo appello alle artes, per ottenere con lo sforzo tecnologico il controllo delle forze della natura, la sottomissione dei suoi elementi, insomma la conciliazione di Dio e del mondo. L'impegno scientifico e l'acutezza dell'ingegno dell'imperatore e dei suoi collaboratori affondavano le loro radici nell'armonia fra calcoli matematici teoretici e pratica sperimentale; l'origine di tale metodo deve essere ricercata nel substrato culturale in cui confluivano le culture dell'Oriente arabo-bizantino e dell'Occidente latino. I risultati raggiunti furono di portata formidabile e quasi tutti si basarono su una sorta di empirismo manuale e mentale, che finiva col mediare l'applicazione dei principi scientifici generali.

La continua conflittualità cittadina dell'Italia comunale costituì un terreno abbastanza fertile nel campo della sperimentazione dell'ingegneria bellica, in cui nell'età di Federico II trovarono una certa diffusione alcune innovazioni: il progresso evidente nella costruzione di particolari macchine da getto, la costruzione di ponti lignei ad uso militare, la deviazione con dighe di importanti corsi d'acqua, l'uso del fuoco greco e delle gallerie da mina. Il 7 ottobre 1237, i trabucchi dell'imperatore martellano il castello di Montichiari, presso Brescia, "gettando a terra muri e case" (Annales Placentini Gibellini, 1863, p. 476; Annales Parisii de Cereta, 1866, p. 10).

Nel 1243, durante l'assedio di Viterbo, una narrazione coeva descrive le fasi relative all'allestimento delle macchine da guerra: "Condusse artefici legnarii peritissimi, perché componessero meccanismi d'assedio e macchine di diverso genere, con i quali potesse espugnare quella rocca fortissima e invincibile" (Acta Imperii inedita, nr. 693). Dopo aver costruito ventisei torri mobili e aver confezionato grandi quantità di fuoco greco e materiale infiammabile, venne eretto un insolito edificio su ruote, detto 'maristella', che impressionò psicologicamente l'avversario per la molteplicità di funzioni e per la stranezza del suo modello. Tale particolare macchina ossidionale presentava forma oblunga, con la parte anteriore protetta da piastre e fornita di un enorme rostro metallico dotato di catene, con cui poteva agganciare e demolire la palizzata della città. Considerata un'invenzione dei pirati, poiché nella conformazione ricordava una nave, conteneva al suo interno non meno di trenta armati pronti ad attaccare con lance e frecce. Questa struttura, però, molto simile all'ariete e al gatto, almeno per quanto riguarda la parte relativa all'asta sporgente, poteva essere facilmente neutralizzata dagli assediati con un appropriato uso del fuoco e di altre contromisure in atto in quell'epoca. È anche da ricordare la citazione che appare nel mandato imperiale di Federico del 13 ottobre del 1239, in cui si fa menzione della 'blida', macchina da lancio dotata di contrappeso mobile abbastanza innovativa per quei tempi, perché rappresenta un perfezionamento del trabucco a contrappeso fisso; la sua costruzione fu finalizzata alla difesa dei castelli di Cassino e Rocca Ianula. Nello stesso anno troviamo notizie che ci informano che dalla Terrasanta il sovrano si rifornì di grandi balestre da posizione, azionate da un tornio, con un congegno a tensione in grado di lanciare grossi quadrelli di ferro; le fece depositare nel palazzo reale di Messina, nel quale è attestata anche la fabbricazione di dardi in apposite officine gazena fleckeriorum, da parte di alcuni operai specializzati nella costruzione delle armi, i maestri asbergerii. Poiché a Messina, però, non si trovavano altri operai capaci di svolgere un tale lavoro, l'imperatore assicurò il secreto di aver scritto a Pisa per farsi inviare alcuni operai esperti in quest'arte. In una lettera del 1240, sempre riguardo al palazzo messinese, è fatta menzione di un maestro Simone di Siria, addetto alla costruzione delle "baliste" per conto della Curia imperiale. Per tutte queste macchine, purtroppo, mancano informazioni tecnico-balistiche circa la gittata e i materiali usati.

Tali sforzi dimostrano la preoccupazione dell'imperatore verso la costruzione di nuovi e più efficaci congegni bellici, tecnologicamente più adatti a contrastare gli optimi inzignerii delle città italiane. Pur disponendo l'imperatore di una qualche tecnologia nel campo della poliorcetica (arte degli assedi), quest'ultima non si rivelò determinante rispetto a quella dei suoi avversari; gli assedi di Brescia (1238), di Viterbo (1243) e di Parma (1248), anche se le fonti sottolineano una certa genialità nella strategia bellica e nella costruzione delle macchine da guerra, si dimostrarono sostanzialmente un fallimento.

Ciò nondimeno, la rilevante attenzione data dallo Svevo, come committente e controllore esigentissimo, alle strutture murarie castellari è evidente nello Statutum de reparatione castrorum (v.), nelle lettere inviate da Lodi nel novembre del 1239 e nel marzo del 1240 a Riccardo da Lentini, che ci permettono di capire a che punto arrivasse la partecipazione del sovrano nella difesa 'passiva' del Regnum. L''ufficio tecnico', secondo la felice definizione di Giuseppe Agnello (1935), formato da uomini opportunamente selezionati dal sovrano, era composto: dal provisor castrorum, carica istituita nel 1239 con il preciso ordine, tra l'altro, d'ispezionare, redigere inventari e amministrare personalmente i beni esistenti all'interno e all'esterno dei castelli della propria giurisdizione (v. Provisores castrorum); dall'ingegnere-architetto (protomagister nell'Italia continentale, o magister edificiorum imperialis curie in Sicilia), con mansioni tecnico-amministrative, il cui compito era quello di ricevere le somme necessarie alla costruzione, rilasciando le opportune ricevute delle spese, stabilire il sito sul quale organizzare il cantiere, scegliere la cava di pietra, decidere sulle dimensioni delle mura e informare direttamente di tutte le sue decisioni progettuali il sovrano, che esprimeva l'azione di indirizzo. Sul cantiere federiciano le maestranze erano numerose e rivestivano specializzazioni diverse: si andava dagli operai, che non avevano nessun compito specifico, agli scultori, scalpellini, muratori e cavapietre, marmisti, mosaicisti, per la lavorazione della pietra, ai carpentieri e falegnami, per la lavorazione del legno, ai fabbri e vetrai e tutte quelle maestranze che partecipavano alla costruzione ex novo o alla reparatio. Numerosi sono i nomi di uomini sperimentati che attuarono tale ambizioso programma; molti sono rimasti nell'anonimato, altri sono giunti a noi dalle fonti scritte attraverso le opere che eseguirono: ricordiamo i provveditori Nicola di Cicala, Filippo Chinardo il Cipriota, Giacomo di Molino, Guido del Vasto (quest'ultimo indicato dallo Svevo come provveditore generale della Terra di Bari, d'Otranto e di Basilicata). Accanto a questi nomi di esperti in sistemi difensivi troviamo poi i nomi dei progettisti attestati nella parte continentale del Regnum come protomagistri: Fuccio, Bartolomeo da Foggia e il figlio Niccolò, Gualterio di Puglia, Lifante, il monaco cistercense Bisanzio, Stefano di Romualdo da Bari; in Sicilia ricordiamo il famoso Riccardo da Lentini, prepositus edificiorum o magister edificiorum, direttore di numerosi cantieri militari insieme con Nicola da Brindisi e il padre Madio, qualificati come magistri ingeniorum.

A una semplice osservazione, le fabbriche federiciane evidenziano la presenza di paramenti murari caratterizzati da conci squadrati o lavorati a bugne. Tra i monumenti, i castra e le domus (v.) attribuiti con buona probabilità al sovrano, circa sessanta sono stati realizzati con murature costituite in blocchi squadrati di materiale diverso: calcare compatto, tufo e arenaria. La natura variegata della geomorfologia del territorio ne influenza la scelta, mentre la lavorazione è assicurata dai due tipi di asce (piana e dentata), dal piccone da cantiere e dall'uso dei tre tipi di scalpello (punteruolo, gradina e brunitoio) usati con le apposite martelline e mazzuoli in legno. La presenza di contrassegni lapicidi sulle superfici lapidee delle torri di Capua e del castello di Lucera e di Cosenza nella parte continentale, e nei castelli Ursino e Maniace in Sicilia, sottolinea l'importanza data dallo Svevo nel reperire maestranze specializzate anche per i cantieri militari. Di natura diversa invece è l'apparecchio a bugnato utilizzato per i paramenti murari delle fortificazioni di Bari, Trani, Gioia del Colle, Lucera, Lagopesole, sulla base poligonale del torrione cilindrico di Caserta Vecchia e sulla Porta di Capua. Tale particolare tecnica a bugnato è molto simile a quella antica ed è stata utilizzata in Germania e Alsazia, in Linguadoca, in area provenzale e nel Delfinato, in alcuni castelli armeni e fortificazioni crociate in Medio Oriente, dove gli influssi della cultura ellenica erano più sentiti. Le bugne, di medie e grandi dimensioni, presentano finiture diverse anche in uno stesso edificio: rustico e semirustico (Bari, Trani, Gioia del Colle, Lagopesole, Augusta) e a tavola (Prato e Capua). Dal punto di vista costruttivo sia l'adozione della tecnica a conci squadrati a filari che quella a bugnato traggono spunto dalle tradizioni costruttive precedenti: mentre l'uso dei conci squadrati disposti a filari isometrici, seppure con qualche alternanza di applicazione, è stata sempre presente nella memoria e nei saperi pratici delle maestranze antiche e medievali, quella del bugnato è un'operazione molto più complessa che traeva origine dal carattere aulico e serviva ad aumentare il significato simbolico e formale del programma ideologico di Federico, che prevedeva la ripresa della cultura del mondo antico.

Nei vari interventi di restauro, consolidamento ed adattamento delle strutture, per i quali l'attenzione diretta dell'imperatore è certa, ricordiamo i decisi interventi regi del 1239 che si occuparono dei castelli di Roseto Capospulico, Cosenza e Nicastro, in Calabria. A proposito di Roseto, Federico suggeriva alcuni interventi urgenti atti a impedire che infiltrazioni d'acqua provenienti dalle coperture potessero compromettere pitture e soffitti; a Cosenza, per le inadeguate coperture la pioggia aveva rovinato le sculture degli archi, mentre a Nicastro il solaio costruito con pietra e calce non idonea aveva consentito all'acqua piovana di rovinare il soffitto ligneo: problema risolto con la costruzione di nuovi solai e con l'innalzamento delle falde delle capriate delle sale che evitarono il ristagnare dell'acqua. Negli stessi anni, uguale preoccupazione era rivolta ai castelli di Augusta, Catania, Milazzo, Siracusa, Lentini e Caltagirone, dove l'imperatore raccomandava di coprire le mura esterne, affinché i castelli "defensionem decentem videantur habere" (Historia diplomatica, V, 2, p. 510), e quelle superfici che la pioggia avrebbe potuto danneggiare. Tutte le raccomandazioni dello Svevo sono, però, sempre accompagnate dalla preoccupazione scrupolosa di farlo "sine magnis expensis", a dimostrazione dell'enorme peso economico che il sovrano stava affrontando per portare a termine l'ambizioso programma di edilizia militare.

Nella strategia federiciana di controllo e di potenziamento del territorio, l'ingegneria civile occupa un posto di rilievo nei programmi di opere pubbliche. Quasi tutti gli interventi, piccoli o grandi che siano, sono tesi a migliorare la difesa dello stato. Nel 1239, Federico ordinò che l'arsenale militare nel porto napoletano, rimasto inalterato dall'epoca ducale, fosse ampliato da due a sei o a otto galere. Verso il 1240 diede inizio alla costruzione del nuovo porto di Bari, localizzandolo però sempre vicino alla penisoletta di S. Cataldo, difesa dal castello. All'ultima età sveva, sotto il regno di Manfredi, risalgono gli interventi portuali di Salerno, città in cui venne ingrandito il porto e ristrutturato l'arsenale. Un altro intervento d'ingegneria portuale, operato sempre da Manfredi, ci viene offerto dalla città antica di Siponto dove, nel 1263, il porto ormai inutilizzabile a causa di insabbiamenti venne costruito, a pochissimi chilometri a nord, con mura amplissime poste nel mare, nella nuova città che prese il nome del sovrano svevo, Manfredonia. L'attenzione rivolta da Federico verso i sistemi di comunicazione non fu da meno: nell'agosto del 1240 prese infatti Ravenna in soli quattro giorni, dopo aver disseccato paludi, deviato fiumi e "facty ubique pontibus" (ibid., p. 1209). Tre anni dopo, partendo da Capua per recarsi a Flagella, si muove "di lì verso la Campania, e dopo aver fatto un ponte sul fiume a Ceprano, attraversandolo si avventa sulla città, dove fece radere al suolo numerose torri" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 216). Altri ponti vennero costruiti da istituzioni monastiche o ecclesiastiche su licenza dello stesso sovrano: il ponte sull'Ofanto, nei pressi di Barletta, realizzato nel 1224 dal vescovo di Melfi, e il ponte sul Biferno, presso Campo Marino, edificato dall'abate di S. Bartolomeo di Saccione nel 1239. Non va inoltre dimenticato ciò che resta della porta-ponte fortificata di Capua (1234-1239; v. Capua, Porta di), posta eloquentemente supra pontem sul Volturno. Attualmente ridotta alla sola base della solenne porta biturrita, presenta un impianto d'intonazione aulica che testimonia la grandezza dell'opera federiciana, con un valore intrinsecamente simbolico caratterizzato da una sintesi storica che si sposa con la proposta ideologica. Nella frenetica mobilità dell'imperatore anche il sistema viario acquista un'importanza capitale per i suoi continui spostamenti nel Regnum. I lavori di manutenzione delle strade dovevano gravare sulle spese degli abitanti dei paesi che si trovavano lungo le principali arterie, sotto il controllo dei funzionari locali, i baiuli locorum o baiuli terrarum.

Federico II, come ambientalista e cultore di ingegneria idraulica, fece arginare il fiume Bradano in Basilicata, dando luogo a un lago artificiale che ripopolò con fauna ittica assai ricca e varia. In una lettera del 17 novembre 1239 (Historia diplomatica, V, 1, p. 509) si fa menzione della volontà del sovrano di creare bacini artificiali, a S. Cusmano nei dintorni di Augusta e a Lentini, mediante alcune dighe oggi praticamente distrutte. Sempre in Sicilia, a Chindia, presso Siracusa, nel 1240 il sovrano ordinava si costruisse un bacino d'acqua per l'irrigazione. Un cronista dell'epoca descrive scandalizzato le trasformazioni apportate nella città di Lucera, in cui al posto della preesistente cattedrale Federico costruì il suo palazzo: l'ubicazione degli impianti igienici era stata scelta laddove era prima l'altare! Del resto il sovrano non era nuovo a simili demolizioni per costruire i suoi palazzi, e non esitava a smantellare chiese, come aveva già fatto forse a Ordona e a Salapia.

Anche se probabilmente Castel del Monte (v.) non venne mai visitato dal sovrano svevo, esso presenta un sofisticato sistema idrico formato da tre impianti separati per la raccolta delle acque pluviali: la parte superiore delle cinque torri angolari, che non ospitavano le scale, era munita di piccole cisterne pensili. Un complesso sistema idraulico di adduzione delle acque meteoriche e di scarico di fondo convogliava l'acqua raccolta in due grandi cisterne sotterranee, una delle quali, scavata nella roccia, era posta sotto il cortile, mentre l'altra era situata davanti al portale principale del castello, garantendo l'approvvigionamento nei periodi di siccità. Tale sistema idraulico permetteva di selezionare l'acqua in base al sistema di raccolta e di garantire un'acqua abbastanza pulita agli abitanti del castello. Non è stato possibile accertare se le cisterne pensili fossero raccordate ai bagni delle torri, in numero di tre per ogni piano. Inoltre, in quasi tutti gli ambienti con servizi igienici si trovava una sorta di lavandino incastrato alle pareti, i cui tubi di scarico erano nascosti nei muri e si collegavano a quelli dei bagni. L'impianto di tubazioni era realizzato, in base alla sua funzione, con tre tipi diversi di materiali: pietra, argilla e rame. Inoltre una particolare tubazione collocata nelle volte di copertura del primo piano, con scarico all'intradosso sul piano di calpestio delle terrazze, veniva utilizzata per versare dalle coperture olio nelle grandi lucerne sospese al soffitto. Nel castello di Termoli, in una sala al piano più basso, databile all'età federiciana, sono visibili due doccioni di adduzione dell'acqua alla cisterna, testimoniata anche da malte idrauliche presenti sulle pareti e da una buca di decantazione ricavata nel pavimento. A Castel Ursino a Catania in ognuna delle quattro torri circolari d'angolo si trova un bagno al chiuso, aerato da una sottile apertura posta all'ingresso. Gli impianti, alquanto raffinati per i tempi, erano espedienti già ampiamente sperimentati dalla cultura arabo-normanna di Sicilia: ne sono un esempio i qanāt, fitta rete di condotte sotterranee, i riyād palaziali del periodo aglabita, fatimida e kalbita (secc. IX-XI), e i sistemi idraulici delle residenze normanne della Cuba e della Zisa.

La presenza di vasche di varie forme, e le diverse testimonianze delle frequentazioni delle terme dei Campi Flegrei, emergono con chiarezza nelle miniature del De balneis Puteolanis, scritto in onore di Federico II da Pietro da Eboli. Nell'opera si contano ben trenta bagni già attestati in epoca normanna, dimostrando l'attenzione data al corpo e al benessere fisico con l'esaltazione delle virtù terapeutiche delle acque. Non c'è da meravigliarsi che lo stesso Federico, nell'ottobre del 1227, ne faccia uso insieme alla sua corte, rimandando così la crociata. Nei recenti scavi del palazzo fortificato di Entella è stata scoperta una sorta di bagno a vapore costituito da un bancone ricoperto, con una fornace che riscaldava un contenitore metallico riempito d'acqua per la produzione del calore.

Un edificio castrale della città di Fiorentino, recentemente oggetto di scavi archeologici, mostra che il rifornimento d'acqua dell'abitazione avveniva per mezzo di una grondaia posta all'esterno, lungo il paramento murario laterale, e, grazie a un tubo costituito da due coppi contrapposti, attraversava il muro e scaricava l'acqua piovana in una cisterna scavata nel terreno naturale. Un'altra cisterna per la raccolta delle acque pluviali, posta al centro del cortile interno del castrum-palatium di Gravina, era costituita da un ambiente profondo 8 m con forma rettangolare di 7x10 m, coperto con volte di tufo.

Sempre a Castel del Monte, risulta accertato in alcuni ambienti del pianterreno un sistema di aerazione che avveniva attraverso strette aperture poste sul lato esterno degli ambienti e incassate nella zona bassa del soffitto a volta. Impianti simili di circolazione dell'aria e per la ventilazione degli ambienti sono presenti in epoca sveva a Castel Maniace, a Siracusa, e ancora visibili in diversi palazzi ommayyadi, abbasidi, fatimidi, e nella Zisa della Palermo normanna.

Nella costituzione 48 del terzo libro (De conservatione aeris) delle Costituzioni melfitane del 1231, Federico, come ha recentemente messo in evidenza Ortensio Zecchino (2002), emanò una serie di norme in difesa dell'ambiente e contro l'inquinamento dell'aria, intuendo la contaminazione nociva di certe lavorazioni artigianali (attività legate alla coltura del baco da seta, alla concia del pellame, alla macerazione della canapa e del lino, ecc.). La trasformazione di questi prodotti, ritenuti insalubri, doveva essere effettuata fuori dall'abitato a non meno di un quarto di miglio dai centri urbani. La stessa costituzione (III, 48. 1) prescrive per i residui della macerazione del lino e della canapa: "Vogliamo […] preservare la salubrità dell'aria […] ordinando che a nessuno in futuro sia permesso porre a macerare lino e canapa nelle acque vicine meno di un miglio a qualunque città o castrum", pena la confisca delle merci. Un'altra norma (III. 48. 4) imponeva di gettare carogne o resti della lavorazione del cuoio oltre un quarto di miglio "fuori dalle mura, oppure in mare o in un fiume", pena il pagamento di un augustale per cani o animali più grandi dei cani, o di mezzo augustale nel caso di animali più piccoli. Ispirata sempre alla pubblica igiene è una norma (III. 48. 3) che impone di seppellire i morti, non chiusi in urne, in fosse profonde almeno mezza canna. Tra i vari interventi di ingegneria ambientale, ricordiamo: lo sbarramento della valle di S. Cusmano, tra Augusta e Siracusa, destinato alla creazione di un laghetto artificiale, oltre alle bonifiche programmate nei pantani della zona; i prosciugamenti in Romagna dei fossati del castello di Piumazzo e quelli realizzati diebus paucis intorno al castello di Crevalcore.

Federico, da Foggia, nell'aprile del 1240 di fronte alle molteplici richieste degli abitanti del luogo ordinava al giustiziere d'Abruzzo, Pissono, la bonifica del lago Fucino mediante la ricostruzione dei vecchi argini e la pulitura e riapertura dei canali di scolo costruiti dall'imperatore Claudio; i canali, attraverso un apposito tunnel, passavano sotto una montagna, mettendo in comunicazione il Fucino col fiume Liri. L'operazione di bonifica serviva a consentire un più facile scorrimento delle acque superflue.

Altre opere ingegneristiche furono tese a migliorare le condizioni di vita delle sue domus solaciorum. Edificati per l'ozio e per la festa, questi particolari edifici non vanno immaginati isolati, bensì considerati come complesse strutture abitative, in cui l'architettura civile riesce a incidere sul rapporto con l'ambiente circostante, con il regime delle acque e con giardini, fattorie e grange, arsenali, serragli e parchi ricchi di selvaggina. Troviamo qui grandi architetture civili provviste di torri, scuderie, vivai, spazi destinati all'allevamento. A S. Lorenzo in Pantano (4 km a sud di Foggia) vi era una domus immersa in un verde parco recintato e popolato da animali, attraversato da un aqueductus che alimentava il vivarium. Sempre in Capitanata, nelle due domus vicine di Salpi e Tressanti, l'imperatore aveva convocato esperti falconieri e fatto impiantare strutture atte all'allevamento dei volatili, ovvero torri isolate, destinate ai nidiacei, dotate di piccole aperture nella parte superiore. Il castrum-palatium di Gravina (1231) era una sorta di casina di caccia non fortificata, fiancheggiata da un parco per gli uccelli cinto da mura, orientato nord-sud nel senso della lunghezza, di forma rettangolare (58,60x29,20 m). Il lato nord si affacciava su un lago, non più esistente ma facilmente individuabile dalla leggera depressione del terreno, il cui toponimo 'La Pescara' ne ricorda l'antica funzione. In prossimità di un lago sorgevano la domus di Salpi e il castello di Lagopesole. Poco dopo il 1250 la diffusione dell'opera di veterinaria Medicina equorum (v. Ippiatria) del cavaliere calabrese Giordano Ruffo, che si occupava delle scuderie dell'imperatore, è collegata alla crescente importanza attribuita alla cavalleria leggera dagli eserciti meridionali del sec. XIII. Nel Regno di Federico, infatti, importanti provvedimenti vengono emanati nel campo dell'ingegneria zootecnica. L'organizzazione di stazioni da monta per l'allevamento dei cavalli nell'Italia meridionale, le prime documentate in Occidente, raggiunse con la politica imperiale ottimi risultati in campo sia scientifico che tecnico: il famoso cavallo pugliese era frutto dell'incrocio di cavalli locali con quelli arabi o berberi. Il palatium di Palazzo S. Gervasio era la sede di un allevamento con un edificio centrale, cortile porticato con una stazione da monta dove venivano riprodotti e governati i cavalli, e scuderie coperte da volte. Ma gli allevamenti di cavalli non erano i soli a interessare il sovrano. In una lettera spedita da Pisa nel dicembre 1239 a Rinaldino, che risiedeva a Palermo, si richiedevano sei leopardi, "dei quali tre ammaestrati e tre non ammaestrati", che dovevano essere accompagnati con una scorta fino alla sua residenza sottendendo una precisa scelta per un probabile allevamento.

La similitudo naturae porterà lo Svevo a una passione assai singolare per il tempo in cui visse, forse già conosciuta nelle corti di Bisanzio, di Damasco e di Bagdad: gli automi. Le opere di Filone di Bisanzio e di Erone di Alessandria, riprese da alcuni trattati arabi, ne avevano già descritto i meccanismi. Probabilmente il sovrano svevo riuscì anch'egli a possedere un albero d'oro e d'argento con uccellini meccanici che cinguettavano tra i rami al soffiare del vento: dono ricevuto dal sultano mamelucco dell'Egitto al-Kāmil. Stando alle diverse trattazioni del periodo, tali sofisticati meccanismi erano delle vere e proprie opere di oreficeria, realizzate con oro e argento, smalti e pietre preziose.

fonti e bibliografia

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