Inghilterra

Enciclopedia Dantesca (1970)

Inghilterra

Adolfo Cecilia
Filippo Brancucci
Eric R: Vincent

– È la parte meridionale della Gran Bretagna, ben distinta dal Galles e dalla Scozia. La maggiore prossimità al continente ne favorì le relazioni con gli altri paesi europei fin dai tempi di Augusto. Ai tempi di D. l'I., che era governata dai Plantageneti, rappresentava anche per Firenze una delle principali direttrici di scambi commerciali; i Fiorentini vi avevano enormi interessi (Davidsohn, Storia, passim), soprattutto a Londra ove possedevano anche una succursale di un banco di cambio.

Le conoscenze che D. ha dell'I. gli derivano probabilmente da Isidoro (Marigo), o da una carta terrestre secondo la descrizione geografica di Orosio (Casella), o dal Tresor di Brunetto Latini. Certamente egli ave-va della regione britannica notizie più esatte che delle altre regioni dell'Europa settentrionale, tenuto conto e dei numerosi contatti dei commercianti del suo tempo e di rappresentazioni cartografiche, come il planisfero del Vesconte, nel quale I., Galles e Scozia appaiono ben rappresentate, almeno nelle linee generali, e distinte una dall'altra (Revelli, Italia 52). Anche se D. non ebbe diretta visione del planisfero, se si considera che in esso la Gran Bretagna appare ben definita rispetto, ad esempio, alla regione scandinava, che invece vi è mal rappresentata, si può dedurre che ai tempi di D. si possedevano discrete cognizioni geografiche della regione britannica, quindi dell'Inghilterra.

In VE I VIII 4 le coste occidentali dell'I. (forse è da intendere le coste occidentali d'Irlanda, sottomessa agl'Inglesi; Marigo) sono il limite occidentale dell'area linguistica del jo che si estende ab hostiis Danubii sive Maeotidis paludibus, usque ad fines occidentales Angliae, così come l' ‛ anglicum mare ' (v.) è il confine della lingua d'oil a nord e a ovest. In Pg VII 131 la citazione è funzionale al personaggio ricordato, il re de la semplice vita, Enrico III (v.). Vedi anche INGHILESE.

Molto si è discusso di un presunto viaggio di D. a Oxford. Coloro che lo sostennero, tra gli altri il Marsh e il Gladstone, si basarono soprattutto su un passo del commento di Giovanni da Serravalle, che però potrebbe essere dipendente " da una tradizione che può essersi formata a Oxford per effetto della gloria ognora crescente di Dante " (V. Rossi); su un'indicazione contenuta in un verso del carme con il quale Boccaccio accompagnò la Commedia al Petrarca, che potrebbe però derivare dall'incertezza che regnò sempre sui viaggi di D., e il cui valore è comunque sminuito dal fatto che del viaggio il Boccaccio non fa parola nella sua Vita di D. (Rossi); su un passo della Cronica di G. Villani (IX 136 " e andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo "), che invece, proprio per la generica chiusa, sembra avvalorare l'incertezza sui viaggi del poeta (Rossi); sulla citazione (Gladstone) delle quattro città della Fiandra (Pg XX 46), poste su una linea che doveva percorrere chi dalla Francia si fosse recato verso il settentrione, e sulla citazione delle dighe fiamminghe (If XV 4-6), che D. avrebbe visto in viaggio per Oxford (ma v. FIANDRA; Wissant); su accenni a fatti della storia inglese (Gladstone), come quello di If XII 120 (v. TAMIGI), peraltro diffusi nella storiografia fiorentina (per la citazione di If XII 120, v. anche G. Villani VII 39). Sembrano quindi contestabili gli argomenti addotti per affermare la presenza di D. sul suolo inglese; come per molti altri luoghi, si può concordare con il Bartoli: " se si adottasse questo sistema d'interpretazione, che ogni luogo, ogni persona nominati da Dante, ogni voce dialettale da lui riferita significassero ch'ei visitò i relativi paesi, si arriverebbe alle più inattese conseguenze ".

Bibl. - A. Bartoli, Della vita di D.A. (Parigi e Oxford), Firenze 1884; H. Zimmern, D. fu studente a Oxford?, Milano 1892; J.G. Alger, Did D. visit England?, in " Notes and Queries " s. 8, II (6 ag. 1892) 101; A.R. Marsh, D. at Oxford, in " The Nation " LVI (27 apr. 1893) 311-312; V. Rossi, rec. a I viaggi danteschi oltr'alpe. Studio di A. Rossi, in " Bull. " I (1893-94) 108-110; A. Bartolini, Il viaggio di D. a Oxford; a proposito di un articolo di Gladstone, Roma 1894, estr. da " L'Arcadia " VI n. 3; A. Valgimigli, D. a Oxford, in " Giorn. dant. " II (1894) 256-258; A. Marenduzzo, Se D. fu ad Oxford, Venezia 1896; W. Flower, Mr. Gladstone and D., in " Athenaeum " 28 magg. 1898, 693-694; W.E. Gladstone, Did. D. study in Oxford?, in " The D. Society Lectures " III (1909) 19-41; P. Toynbee, Oxford and D., in D., essays in commemoration, 1321-1921, Londra 1921, 39-74; M. Casella, Questioni di geografia dantesca, in " Studi d. " XII (1927) 76; Marigo, De vulg. Eloq., ad l.; R. Orengo, Le arti del mare in D., Roma 1969, 49.

Storia. – In Cv I VII 13 e in VE I VIII 4 D. indica con termine rispettivamente volgare (Inghilesi) e latino (fines... Angliae) il popolo e la relativa regione separata dal continente europeo dal mare an[glico sive] gallico (§ 9).

Nelle opere dantesche non sono menzionati i fatti dell'isola fino alla conquista normanna, mentre a D. è forse più nota la produzione letteraria. Menziona infatti il venerabile Beda, l'illustre autore della Historia ecclesiastica gentis Anglorum e di testi di esegesi biblica, in Ep XI 16 (iacet... abiectus... Beda) e il cui ardente spiro vede fiammeggiar nel cielo di Giove fra gli spiriti sapienti (Pd X 130-131), e dimostra inoltre di conoscere abbastanza bene i romanzi tratti dalla materia inaugurata dal gallese benedettino Goffredo di Manmouth intorno al 1135 e da Thomas nella seconda metà del secolo XII (Lancillotto, If V 128; Tristano, v. 67 e Fiore CXLIV 7; Mallehaut, Pd XVI 14-15; Mordret, If XXXII 61; Artù, v. 62 e VE I X 2).

Dopo aver accennato (If XXVIII 134-136), attraverso la presentazione di Bertram dal Bornio, al regno di Enrico II Plantageneto (1154-1189), angioino, salito al trono dopo il periodo di anarchia determinata dall'estinzione della discendenza maschiledi Guglielmo il Conquistatore, e del quale ricorda la ribellione del figlio re giovane, poi morto o fatto uccidere nel 1183, D. tace del tutto gli anni e le figure di Riccardo Cuor di leone (1189-1199) e di Giovanni Senzaterra (1199-1216); per quanto un riferimento a quest'ultimo è stato fatto da tutti i commentatori che hanno accolto la variante re Giovanni (If XXVIII 135) presente in molti codici (cfr. Petrocchi, Introduzione 141 e la voce GIOVANNI re d'Inghilterra). Questo re, in seguito all'inasprirsi delle lotte fra corona e baroni, fu costretto a concedere la famosa Magna Cartha libertatum, che però D. non mostra di conoscere.

Negli anni del regno del successore di Giovanni Senzaterra, Enrico III (1216-1272), cade la data di nascita di Dante. È da notare che il poeta nasceva nell'età in cui in I., pur attraverso una prolungata contesa tra re e magnati, ricevevano maggiore, decisivo impulso le istituzioni nazionali. Ma D. ricorda Enrico III, il cui regno fu tra l'altro travagliato da cruente guerre civili, scatenate dai baroni ribelli guidati dal feudatario Simone di Montfort, conte di Leicester, come il re de la semplice vita (Pg VII 131). Questo giudizio (sono noti i problemi sull'interpretazione di quel semplice) probabilmente deriva dai cronisti contemporanei. Il Villani (V 4) dice del sovrano che fu " semplice uomo di buona fe' e di poco valore ", tuttavia sappiamo che ciò non corrisponde alla verità storica. D. dice ancora di Enrico III che ha ne' rami suoi migliore uscita (Pg VII 132), accennando al figlio Edoardo I (1272-1307) che in effetti è fra i più ammirati re contemporanei (Villani VIII 90). Ancora regnante il padre, vinse e uccise il capo dei baroni ribelli, Simone di Montfort, suscitando la reazione del figlio Guido di Montfort, che per vendicarsi gli uccise il cugino Enrico di Cornovaglia in una chiesa di Viterbo nel 1272 (cfr. Villani VII 39; If XII 118-120). Edoardo I inoltre riorganizzò il regno, fece del Parlamento non l'oppositore, ma il collaboratore della monarchia, così che l'autorità e l'unità dello stato vennero rafforzati; combatté contro la Scozia e contro Filippo il Bello, re di Francia, e D. sembra simpatizzare per lui ricordando l'impresa francese (Pg XX 64-66).

Nel 1307 salì al trono d'I. il figlio, Edoardo II (1307-1327), di cui D. ricorda il contrasto con Roberto Bruce di Scozia, facendoli insofferenti di rimanere ciascuno nei propri confini: lì si vedrà la superbia ch'asseta, / che fa lo Scotto e l'Inghilese folle, / si che non può soffrir dentro a sua meta (Pd XIX 121-123).

Effettivamente il regno di Edoardo II fu funestato non solo da continue, aspre lotte e da dure sconfitte inferte dagli Scozzesi, ma anche da dissidi interni mentre si andava profilando la questione francese che avrebbe portato alla guerra dei Cento Anni.

Sei anni prima della deposizione di Edoardo II D. moriva. Egli aveva guardato ai re d'I. come a monarchi di una nazione lontana, per nulla influenti sulla contesa che gli stava a cuore fra guelfi e ghibellini, fra Papato e Impero.

Bibl. - C. Gross, The Sources and Literature of English History, Londra 1915² (rist. New York 1970); The Cambridge Medieval History, Cambridge 1924 ss.; A.T. Milne, W'ritings on British History 1940-1945, I, Londra 1960; G. Macaulay Trevelyan, Storia d'Inghilterra, Milano 1962; F. Trautz, Literaturbericht iiber die Geschichte Englands im Mittelalter veròffentlichungen 1945 bis 1962-63, in Literaturberichte über Neuerscheinungen zur ausserdeutschen Geschichte, Monaco 1965, 108-259; Writings on British History 1901-1933, a c. della Royal Historical Society, I-II, Londra 1968.

Fortuna di D. in Inghilterra. - Uno dei più notevoli studiosi di problemi danteschi, Paget Toynbee, ci ha fornito statistiche molto significative sull'influenza relativa di D. nelle varie epoche della letteratura inglese. Ha rintracciato circa 250 esempi d'influenza dantesca (siano imitazioni, traduzioni o riferimenti) dal Trecento fino alla fine del Settecento, mentre nei soli primi quarant'anni dell'Ottocento ne ha trovato circa 300. Queste cifre non devono sorprenderci, perché è chiaro che D. fu letto e apprezzato in I., come altrove, principalmente durante il periodo romantico.

Prima di tentare una valutazione dell'impressione fatta da D. sul pensiero e sulla poesia inglese, bisogna sottolineare il fatto che dopo l'epoca della Riforma religiosa un paese protestante ha dovuto sentire certe naturali antipatie verso un poeta profondamente cattolico. La chiesa anglicana, per esempio, non accorda una posizione privilegiata ai papi, non crede nel Purgatorio e non vuol ammettere l'efficacia delle preghiere per i defunti. Quindi, quando le descrizioni dantesche del mondo spirituale non vanno d'accordo con le credenze protestanti, anche i lettori inglesi che ammirano il poeta modificano l'ammirazione e lo chiamano ‛ superstizioso '. Delle volte, pur ammirando alcuni lati del suo genio, si mostrano indignati e lo tacciano di " pazzie disgustose " (Thomas Warton, 1722-1800) o di " stravaganze assurde, disgustose " (Horace Walpole, 1717-1797).

Grazie alle aspre critiche contro la corruzione ecclesiastica e contro certi papi nella Commedia, nonché per l'importanza data all'Impero in confronto al Papato nella Monarchia, i riformatori inglesi, molto prima di Gabriele Rossetti, hanno potuto vantare il poeta come loro campione. John Foxe (1516-1587) si compiacque che D. attaccasse " tre specie dei nemici della verità, cioè il Papa; gli ordini religiosi... ed i decretalisti ". John Jewel (1522-1571) cita da Pg XXXII 148 per chiamare Roma " the whore of Babylon ". Anche John Milton (1586-1640) biasima, citando D., la donazione di Costantino come causa della ricchezza e quindi della corruzione della Chiesa.

Questo filone religioso-politico può essere seguito nella fortuna di D. in I. giù giù per tutto il Novecento fino ai tempi moderni: il poeta cioè è biasimato per la sua ortodossia o lodato per una presunta eterodossia.

A parte i pregiudizi religiosi e politici, è evidente che non solo per queste, ma per altre ragioni ancora, D. per la generalità dei lettori inglesi fu in primo luogo l'autore dell'Inferno. Gli aggettivi più frequentemente accordatigli sono ‛ lugubre ' e ‛ crudele '; sono le pene e i tormenti che più hanno colpito i lettori comuni, quelli cioè che avevano un'idea limitatissima della Commedia e della vera statura di Dante. Anche i lettori più intelligenti sono stati influenzati dall'idea popolare. Il poeta Shelley (1792-1822) scrisse: " nessuno sarebbe tentato di viaggiare sull'oceano fosco del poema lugubre e stravagante [di D.] se non fosse per certe isole fortunate colme di aurei frutti ". Queste isole sono naturalmente gli episodi di Paolo e Francesca, Ugolino, la lodoletta e altri, bellissimi ma, in quanto ai vasti concetti del poema, poco importanti momenti lirici o drammatici.

Dopo aver indicato alcuni dei lati piuttosto negativi della fortuna di D. in I., è bene considerare l'influenza dantesca sul primo, grande poeta inglese, Geoffrey Chaucer (1340 - 1400). Qui non si trovano né le titubanze politico-religiose della Riforma né quelle religioso-moralistiche dei secoli posteriori. Il Chaucer come D. guarda il mondo fisico con l'occhio chiaro dei primi poeti dell'alba della poesia moderna. La natura in tutte le sue manifestazioni è guardata, capita e descritta con la lucidità luminosa dei fanciulli. I monti, i fiumi, gli alberi, gli animali, gli uccelli, vivono di vita propria nei versi di Chaucer come in quelli di D.; ambedue i poeti credono nello stesso Dio secondo le norme della stessa Chiesa; ambedue leggono gli stessi autori classici e li accettano nella stessa maniera, cioè condividono una cultura comune.

Imitazioni e traduzioni di versi e brani della Commedia si trovano in molte delle poesie di Chaucer. Nei Canterbury Tales c'è tutta la storia di Ugolino (Monk's Tale) e una bellissima traduzione libera della preghiera alla Vergine (Pd XXXIII). Ma l'influenza dantesca è più profonda di quanto possa essere indicato con esempi specifici, derivando essa da una naturale simpatia e da un atteggiamento comune verso la vita e il destino umano.

William Shakespeare (1564-1616), a dispetto di certe rassomiglianze che si possono discernere nella sua vasta produzione letteraria, deve molto all'Italia ma quasi niente a Dante. Anche Edmund Spenser (1552 - 1599) è troppo uomo del Rinascimento per sentirsi attratto da un poeta medievale come Dante.

Per trovare un altro che abbia subito una vera influenza dantesca, bisogna giungere fino a John Milton (1608 - 1674), il quale conobbe bene l'Italia e le lettere italiane e nei suoi lunghi poemi su Dio e l'uomo (Paradise Lost e Paradise Regained) sentì profondamente la grandezza di Dante. Qui (e anche in poesie minori) si trovano imitazioni dantesche, conscie o inconscie, e nel suo diario latino i riferimenti alla Commedia abbondano. Thomas Gray (1716 - 1771) nel suo saggio sulla metrica cita dal De vulg. Eloq. e ne fa non poco uso; pare che sia stato il primo inglese a far menzione del libro. Però l'influenza di D. sulle sue poesie è minima ad onta del famoso primo verso della sua elegia, " The curfew tolls the knell of parting day " (Pg VIII 5-6 se ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more).

La conferenza pronunciata dal poeta Samuel Taylor Coleridge (1772 - 1834) fu una pietra miliare nella storia della comprensione inglese di D.: per la prima volta il pubblico inglese poteva apprezzare il poeta italiano nel suo ambiente storico, come pensatore e poeta. Dalla data della sua conferenza (1818) comincia un vero e più informato entusiasmo per il poeta italiano. Lo stesso anno apparvero due importantissimi articoli su D. dell'esule Foscolo che più tardi (1825) pubblicò le sue illustrazioni sulla Commedia contemporaneamente a quelle di un altro esule, Gabriele Rossetti. La diffusione della fama di D. nell'Ottocento però fu in primo luogo dovuta alla traduzione della Commedia di Henry Francis Cary (l'Inferno pubblicato nel 1805-06 e tutta l'opera nel 1814). Se non la prima completa traduzione in inglese (un certo Boyd ne aveva pubblicata una di poco valore nel 1802) rimase certamente la migliore per molti anni.

I poeti romantici quindi, anche quelli che non conoscevano l'italiano, ebbero una versione grazie alla quale acquistarono familiarità col poema dantesco. I pittori cominciarono a trovare soggetti nelle opere di D.: Sir Joshua Reynolds aveva già esposto il suo Ugolino e anche un Paolo e Francesca; William Blake (1757-1827) fece una meravigliosa serie d'illustrazioni della Commedia e John Flaxman (1755-1826) ne pubblicò un'altra serie meno geniale (Roma 1793, Londra 1807). Più tardi il figlio di Gabriele, Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), dipinse molti quadri d'ispirazione dantesca e fece la traduzione, forse migliore a tutt'oggi, della Vita Nuova.

D., l'amante di Beatrice, poeta di sonetti e canzoni d'amore, personificazione dell'amore spirituale e romantico, D. non più poeta ‛ lugubre e crudele ', ma creatore di quelle " isole fortunate " di puro lirismo, era il D. amato dal poeta Percy Bysshe Shelley (1792 - 1822), che ne tradusse la canzone Voi che 'ntendendo il tergo ciel movete, e l'episodio di Matelda (Pg XXVIII); e diverse delle sue poesie mostrano l'influenza dantesca (per es. Prometheus Unbound, Epipsychidion, The Triumph of Life). Lo Shelley fu uno dei tanti inglesi che dimorarono per molti anni in Italia e perciò dovevano subire l'influenza dantesca più di altri. George Byron, vivendo nell'ambiente liberale di Ravenna, descrive nel The Prophecy of Dante un D. che prevede le sofferenze d'Italia sotto le dominazioni straniere e che riflette il D. patriottico del Risorgimento. Però, a dispetto delle non poche imitazioni e traduzioni dantesche nelle sue poesie, egli non subì una profonda influenza.

Walter Savage Landor (1775-1864), che visse lunghi anni a Firenze e nel suo Pentameron descrisse una conversazione immaginaria fra Petrarca e Boccaccio sui meriti e i difetti di D., si scosta poco dall'opinione popolare inglese che fa di D. il poeta ‛ lugubre ', che non si legge se non per degli episodi stupendi.

Anche Leigh Hunt (1784-1859) visse diversi anni in Italia e conobbe benissimo le opere di D.; il suo poema The Story of Rimini narra la storia di Paolo e Francesca, ed egli cita spesso dalla Commedia nei suoi saggi critici; però il suo innato anglicanismo non gli permette di ammirare D. senza riserve.

Un altro poeta inglese che si stabilì in Italia fu Robert Browning (1812 - 1889); ma a parte qualche casuale menzione e imitazione, l'influenza dantesca sulle molte sue poesie che illustrano l'ambiente italiano è scarsa. Egli ebbe pure a Firenze amici inglesi che lo tenevano al corrente di cose dantesche, fra l'altro della scoperta del ritratto di D. nell'affresco del Bargello. A una strana sua conoscenza, Seymour Kirkup (1788-1880), spetta l'onore di avere stimolato i lavori nella cappella del Bargello.

I letterati inglesi residenti in Italia nell'Ottocento, se non molto influenzati da D. nelle poesie, contribuirono almeno a rendere più noto il suo nome fra i lettori colti in patria. Anche i viaggiatori spesso fecero menzione del poeta nelle loro opere. Samuel Rogers, Lady Morgan, Hobhouse, W.S. Rose e tanti altri quando visitano Firenze, Vallombrosa, Ravenna e altri luoghi d'interesse dantesco fanno opportuni commenti. Così dalla metà del secolo, grazie a Cary, Coleridge, Foscolo e ad altri letterati, D. e la sua opera divennero molto più noti al pubblico inglese. Il tempo era maturo per studi più seri.

Il più illustre dantista inglese dell'Ottocento fu, senza dubbio, Edward Moore (1835 - 1916), rettore del collegio di St. Edmund di Oxford. Come editore di Tutte le Opere di D., pubblicate nel 1894 (il cosiddetto Oxford Dante), egli guadagnò fama internazionale, e i suoi testi, insieme con quelli editi dal tedesco Witte, furono largamente accettati e consultati fino alla pubblicazione del testo critico della Società dantesca italiana.

Lunghissimo è l'elenco dei saggi danteschi del Moore che non furono tutti inclusi nei suoi Studies in Dante (1896-1917; 1969²). Si direbbe che il più utile contributo del Moore, a parte le sue ricerche testuali, siano stati i confronti che ha fatti fra D. e gli autori classici. Grazie a lui l'università di Oxford divenne il centro degli studi danteschi inglesi e la società fondata nel 1876 da lui e dai suoi amici, " The Oxford Dante Society " (sempre attiva sotto la guida del dantista Colin Hardie), ha contribuito molto alla più informata conoscenza del poeta in Inghilterra.

Uno dei più produttivi fra i membri della Società fu Paget Jackson Toynbee (1855 - 1932) il cui Dictionary... of Dante è stato strumento utilissimo dal 1898 fino alla più recente revisione (a c. di C. Singleton, 1968). Fra le molte opere del Toynbee c'è un vasto studio nel campo delle letterature comparate, D. in English Literature (1901). Egli diede pure un contributo importante allo studio delle Epistole.

Un predecessore inglese del Moore negli studi testuali fu Henry Clark Barlow (1806 - 1876) che riuscì a collazionare più di 150 codici della Commedia e lasciò fondi all'University College di Londra per finanziare conferenze annuali su D. che continuano tuttora.

Un altro studioso di D. fu George Vernon, che pubblicò testi e commenti, questi ultimi con disegni del Kirkup. L'anglicanismo del Moore e di altri non nuoce quando essi trattano di questioni cattoliche, però quando uno studioso condivide la fede del poeta che studia, si riconosce un calore speciale nella sua critica. Tale fu Edmund Gardner (1809 - 1935) che per molti anni fu riconosciuto il primo fra i dantisti inglesi. Dalle cattedre di Manchester e Londra (University College) e nei molti suoi libri, egli espresse caldamente il suo amore per D.; l'entusiasmo però era sempre basato su una profonda preparazione.

Dopo Cary, molti traduttori hanno continuato a fornire versioni della Commedia; fra gli altri Lawrence Binyon (1943) e G.L. Bickersteth (1955), che adottarono ambedue la terza rima con squisita sensibilità; e Dorothy L. Sayers, che con minore rispondenza poetica ma con molta originalità pubblicò la sua versione (1949-1962), anch'essa in terza rima.

Benché il poeta T.S. Eliot abbia pubblicato poco su D., il suo breve saggio del 1929 ebbe un'influenza sul gusto dei moderni che va molto oltre la piccola mole dell'opera. Qui un poeta modernissimo ammette e spiega il suo debito verso il poeta medievale. Il suo D., non più materia di studio accademico, è apprezzato in primo luogo come poeta. Anche Ezra Pound, altro poeta moderno, ammise il suo debito verso D. e fino a un certo punto fu il maestro in materia dell'Eliot. Tutte e due le antiche università di Oxford e Cambridge hanno pubblicato un volume in celebrazione del settimo anniversario della nascita del poeta (Centenari Essays on D. by members of the Oxford Dante Society, a c. di C. Hardie, Oxford 1965; e The Mind of D., a c. di U. Limentani, Cambridge 1965).

Così dal Chaucer all'Eliot, a dispetto dei diversissimi gusti di certe epoche e dei pregiudizi religiosi, la fama di D. è rimasta intatta fra i poeti inglesi. Nell'Ottocento, studiosi come Moore, Toynbee, e Gardner hanno dato il loro valido contributo nel largo ambito dell'erudizione europea. Oggi si sono stabiliti stretti legami fra i dantisti di tutte le nazioni ed è più difficile parlare di nazionalismo fra gli eruditi e i letterati. D. è ora accettato in ogni paese come figura universale.

Bibl. - L.O. Kuhns, D. and the English Poets, New York 1904; P. Toynbee, D. in English Literature, Londra 1909; ID., Britain's tribute to D., ibid. [1921]; W.P. Friederich, Dante's Fame Abroad, Roma 1950, 181-339; C. Dédéyan, D. en Angleterre, I, Parigi 1961 (Moyen Age - Renaissance); II, ibid. 1966 (Classicisme); M. Praz, D. in I. (e in America), in Maestro D., Milano 1962, 63-94; W.I. De Sua, D. into English. A Study of the translation of the D.C. in Britain and America, Chapel Hill, North Carolina 1964; C.P. Brand, D. and the English Poets, in The Mind of D., a c. di U. Limentani, Cambridge 1965; K. Foster, D. Studies in England, 1921-1964, in " Italian Studies " XX (1965); G.F. Cunningham, The D.C. in English. A critical bibliography 1901-1966, Edimburgo-Londra 1966.

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