INQUINAMENTO E RECUPERO AMBIENTALE

XXI Secolo (2010)

Inquinamento e recupero ambientale

Piero Sirini

Le sostanze responsabili di inquinamento, cioè dell’alterazione delle condizioni naturali di uno o più comparti ambientali, possono essere distinte in due tipologie principali: sostanze organiche e inorganiche. La determinazione della concentrazione di tali sostanze viene effettuata attraverso misura diretta, adottando procedure analitiche e apparecchiature standard scelte in relazione al tipo di sostanza e di matrice nella quale il contaminante è presente.

La caratterizzazione quantitativa dei diversi inquinanti viene di solito riferita allo specifico comparto ambientale (acqua, aria e suolo), in quanto sia le procedure di campionamento sia le metodiche di analisi differiscono generalmente in modo rilevante. Questa distinzione è a volte puramente formale, poiché le naturali interazioni tra comparti ambientali spesso impongono di considerare le trasformazioni da una forma di inquinamento a un’altra. La distinzione in comparti ambientali ha utilità in relazione a questioni di carattere normativo, in quanto spesso i limiti di legge vengono fissati al fine di ottenere determinati standard di qualità per le acque, per l’aria e per i suoli. Lo sviluppo normativo di settore ha portato peraltro a considerare forme di inquinamento e relativi parametri che di fatto non possono essere classificati secondo il criterio dei comparti ambientali. Tali forme di inquinamento risultano direttamente correlate a condizioni di benessere dell’uomo nelle sue diverse attività (si pensi, per es., all’inquinamento acustico ed elettromagnetico).

Il comparto acque

Le acque possono essere caratterizzate attraverso la determinazione analitica di parametri di tipo fisico, chimico e biologico. Alcuni di questi parametri possono essere utilizzati per la caratterizzazione delle acque di diversa origine, siano esse naturali (di falda, superficiali ecc.) o di rifiuto (reflui urbani o industriali), e sono pertanto da considerare come parametri aspecifici, mentre altri sono impiegati soltanto per la caratterizzazione di acque di particolare natura (parametri specifici). La conoscenza dei parametri di inquinamento e di quelli di caratterizzazione di un’acqua reflua o destinata al consumo umano consente altresì di individuare i trattamenti più idonei per l’ottenimento degli standard qualitativi fissati dalle norme.

Una questione di particolare interesse riguarda poi i criteri con i quali stimare qualità, rappresentatività e riproducibilità dei risultati ottenuti per mezzo delle analisi di laboratorio. Va peraltro considerato come molti dei parametri di inquinamento delle acque risultano tra loro relazionati, nel senso che la determinazione quantitativa di uno di essi dipende dal valore assunto dagli altri.

Parametri fisici

I principali parametri fisici per la caratterizzazione di un’acqua risultano essere: i solidi, la temperatura, la conducibilità elettrica, l’odore, il colore. In particolare, odore, colore, cui si aggiunge il sapore, rappresentano, nelle acque destinate al consumo umano, le cosiddette caratteristiche organolettiche.

Solidi. I solidi presenti in un’acqua possono essere classificati, sulla base di un criterio dimensionale, in solidi totali, che rappresentano il residuo secco ottenuto in seguito all’evaporazione a 105±5 °C di un campione di acqua di volume noto fino a costanza di peso; solidi sedimentabili, ovvero quella parte dei solidi totali che si deposita sul fondo di un cono graduato del volume di un litro (cono Imhoff) dopo un tempo di sedimentazione di due ore; solidi liberamente flottanti, ovvero quelli che durante la prova suddetta si portano naturalmente in superficie. I solidi totali possono essere ulteriormente suddivisi in filtrabili e sospesi eseguendo la filtrazione di un volume noto di campione su filtro, con dimensione dei pori pari a 0,45 μm. I solidi filtrabili rappresentano la frazione dei solidi totali con diametro Φ<0,45 μm (secondo la classificazione italiana; quella anglosassone prevede un diametro Φ<1 μm). Tale frazione comprende i solidi colloidali, ovvero i solidi con 103 μm <Φ< 1 μm, e i solidi disciolti, ovvero quelli caratterizzati da dimensioni Φ<103 μm; questi ultimi comprendono sia le specie propriamente disciolte (ovvero presenti in soluzione in forma ionica) sia quelle di dimensioni talmente minute da poter essere considerate, all’atto pratico, come disciolte. La concentrazione dei solidi colloidali può essere determinata mediante misure torbidimetriche. La frazione dei solidi totali che viene trattenuta dal filtro rappresenta, di contro, i solidi sospesi, di cui fanno parte sicuramente i solidi sedimentabili, più una frazione di cosiddetti solidi non sedimentabili. Per ciascuna delle categorie di solidi fin qui descritte, si può eseguire un’ulteriore distinzione in solidi fissi e volatili. I primi rappresentano la frazione di solidi che costituiscono il residuo dopo che il campione, preventivamente essiccato, è stato portato in muffola a una temperatura di 550 °C fino a costanza di peso, mentre i secondi si ottengono dalla differenza tra il peso iniziale del campione essiccato e i solidi fissi precedentemente determinati. I solidi volatili sono costituiti in prevalenza da sostanze organiche poiché queste, alla temperatura di 550 °C, vengono integralmente ossidate.

Odori. La decomposizione della sostanza organica presente in un’acqua è responsabile della formazione di composti gassosi in grado di sviluppare odori. Con riferimento agli impianti di trattamento delle acque, il controllo degli odori ha assunto un ruolo centrale nel corso degli ultimi decenni, anche se si deve ricordare che gli odori in molti casi non sono responsabili di ef­fetti dannosi sulla salute umana, a causa del basso valore della soglia di percezione. Dei diversi parametri necessari per la completa caratterizzazione di un odore, soltanto la rilevabilità viene generalmente considerata dalla normativa. La rilevabilità degli odori può essere stimata attraverso metodi olfattometrici, mentre la concentrazione di alcuni composti specifici può essere misurata per mezzo di opportuni strumenti di analisi.

Temperatura. La temperatura di un’acqua rappresenta uno dei principali parametri fisici, poiché influenza la solubilità dei gas, la cinetica delle reazioni chimiche e biologiche, nonché le condizioni di vita delle specie biotiche. Si deve inoltre osservare che gli effetti prodotti da una variazione di temperatura agiscono tra loro in modo sinergico.

Colore. Responsabili della colorazione di un’acqua sono le sostanze disciolte e sospese derivanti dall’erosione e dal dilavamento dei suoli, i composti originati dalla decomposizione anaerobica delle sostanze organiche, le sostanze coloranti vere e proprie generalmente presenti, per es., nei reflui industriali. Nel caso delle acque reflue, la colorazione fornisce indicazioni circa l’età del liquame.

Conducibilità elettrica. La conducibilità elettrica di un’acqua fornisce una misura approssimata del suo contenuto di sali (salinità), parametro di estremo interesse sia per lo studio delle correnti saline nei sistemi naturali (cuneo salino, correnti di salinità) sia per l’influenza che la salinità esercita sull’efficienza dei processi di depurazione delle acque reflue. In quest’ultimo caso, infatti, un elevato contenuto di sali nelle acque da trattare può inibire l’attività metabolica o provocare la morte dei microrganismi per alterazione della pressione osmotica in corrispondenza della loro membrana cellulare.

Parametri chimici

Per la caratterizzazione chimica delle acque, con particolare riferimento alle acque reflue, si considerano i seguenti parametri: pH, alcalinità, azoto e fosforo. Nel caso dei reflui civili si devono determinare anche alcuni parametri aggiuntivi, quali la richiesta di ossigeno, il carbonio totale, i tensioattivi, gli oli e i grassi (animali e vegetali). I reflui industriali presentano invece un’estrema eterogeneità rispetto alle caratteristiche chimiche. Queste dipendono in primo luogo dal particolare processo industriale considerato e dalle caratteristiche delle materie prime impiegate nel ciclo di lavorazione. In generale, nella caratterizzazione dei reflui industriali può rendersi necessaria la determinazione della concentrazione di metalli pesanti, di cianuri, di pesticidi, di solfuri e così via.

Concentrazione idrogenionica. Tale concentrazione viene determinata con la misura del pH, definito come il cologaritmo decimale della concentrazione (o, più precisamente, dell’attività) degli ioni idrogeno H+. La determinazione del pH riveste un ruolo fondamentale sia nelle acque naturali sia in quelle reflue, dal momento che la vita delle specie acquatiche e dei microrganismi è possibile solo entro intervalli di pH relativamente ristretti e variazioni, anche piccole, sono solitamente poco tollerate.

Alcalinità. Si definisce alcalinità di un’acqua la sua capacità di neutralizzare un acido, grazie alla presenza in essa di carbonati, bicarbonati e idrati. Non sono considerati responsabili della neutralizzazione i sali alcalini come i silicati e i fosfati, comunemente presenti nelle acque in quantità molto piccole. L’alcalinità viene generalmente espressa in mg CaCO3/l, a indicare esclusivamente la conversione degli equivalenti in termini di CaCO3. La determinazione dell’alcalinità totale di un’acqua può essere condotta effettuando una titolazione acido-base; quali indicatori del raggiungimento dei punti di equivalenza si impiegano la fenolftaleina e il metilarancio.

Richiesta di ossigeno. La richiesta di ossigeno di un’acqua è dovuta alle reazioni biochimiche e/o chimiche che in essa possono aver luogo. In particolare, il consumo di ossigeno causato dalle reazioni biochimiche avviene a opera di microrganismi eterotrofi e autotrofi chemosintetici (ovvero quei microrganismi che ricavano l’energia necessaria per le funzioni vitali da reazioni chimiche esotermiche). Questi due gruppi di microrganismi impiegano per il loro metabolismo l’ossigeno molecolare disciolto, ma differiscono per il substrato che utilizzano come fonte di energia: i microrganismi eterotrofi impiegano come substrato il carbonio organico, mentre gli autotrofi chemosintetici l’azoto ammoniacale (microrganismi nitrificanti). Oltre ai composti organici, in un’acqua possono essere presenti specie responsabili del consumo di ossigeno dovuto a reazioni di ossidazione chimica; tali specie sono generalmente costituite da sostanze inorganiche riducenti che vengono ossidate dall’ossigeno molecolare disciolto, quali, per es., solfuri e ioni Fe2+ che vengono convertiti rispettivamente in solfati e ioni Fe3+.

Azoto. L’azoto rappresenta, insieme al fosforo, il nutriente di maggiore importanza per i microrganismi che metabolizzano la sostanza organica, sebbene la sua presenza nelle acque naturali eserciti un effetto negativo legato al consumo di ossigeno. La presenza di quantità eccessive di nutrienti, inoltre, può provocare fenomeni di eutrofizzazione, ovvero di abnorme crescita algale nei corpi idrici. Esso è generalmente presente in diverse forme: azoto ammoniacale, azoto organico (ovvero legato alla sostanza organica), azoto nitroso e azoto nitrico. La somma dell’azoto ammoniacale e di quello organico (che rappresentano le forme di azoto non ossidato) fornisce il cosiddetto azoto totale, noto anche come azoto Kjeldahl (TKN, Total Kjeldahl Nitrogen), mentre la somma di nitriti e nitrati rappresenta l’azoto in forma ossidata. Occorre peraltro far osservare che alcune normative indicano come azoto totale la somma dell’azoto Kjeldahl e delle forme ossidate, ovvero azoto nitroso e nitrico. L’azoto presente in forma ammoniacale e organica dà luogo a richiesta di ossigeno (NOD, Nitrogen Oxygen Demand).

Fosforo. Il fosforo rappresenta, insieme all’azoto, il nutriente presente nelle acque in maggiore quantità. Se da un lato la sua presenza risulta necessaria per l’attività delle specie batteriche e acquatiche, elevati contenuti di fosforo possono anch’essi innescare fenomeni di eutrofizzazione. La sua disponibilità per il metabolismo batterico dipende essenzialmente dalla forma chimica nella quale esso si trova; in particolare, il fosforo può essere presente come ortofosfati (PO43), polifosfati e fosforo organico. Dal punto di vista analitico, per la determinazione del fosforo si applicano metodiche differenti volte alla misura della concentrazione di fosforo delle diverse forme.

Zolfo. Sia nelle acque naturali sia nei reflui, lo zolfo può essere presente in forma di solfato, e può essere utilizzato o rilasciato, rispettivamente, durante la sintesi delle proteine e la demolizione di queste. Per effetto delle reazioni di degradazione biologica in condizioni anaerobiche, il solfato viene ridotto a solfito, che può eventualmente reagire con l’idrogeno e formare solfuro (H2S). La formazione di H2S può provocare danni all’interno delle fognature, poiché per ossidazione biologica esso può dar luogo allo sviluppo di acido solforico, che risulta altamente aggressivo.

Tensioattivi. Sono molecole organiche di grandi dimensioni caratterizzate da una scarsa solubilità in acqua. La presenza di queste sostanze nelle acque naturali o negli impianti per il trattamento delle acque reflue dà origine alla formazione di schiume in superficie, che riducono il trasferimento di ossigeno e la trasmissione della radiazione solare. Essi possono, inoltre, stabilizzare le sospensioni colloidali o emulsionare gli oli, rendendo in tal modo difficoltosa la separazione di tali sostanze dalle acque. Le molecole costituenti i tensioattivi sono composte da una parte idrofila e da una parte idrofoba (idrocarburica). I tensioattivi che possono dissociarsi in acqua sono detti ionici, a loro volta suddivisi in anionici, cationici e anfoteri, mentre quelli che non subiscono dissociazione sono detti non ionici.

Oli e grassi animali, vegetali e minerali. Da un punto di vista chimico, gli oli e i grassi animali e vegetali sono gliceridi, cioè esteri costituiti da glicerina e acidi organici a catena lunga (acidi grassi), quali l’acido laurico, miristico, palmitico, stearico, oleico, ricinoleico, e linoleico. I gliceridi a basso peso molecolare sono liquidi (oli), mentre quelli a elevato peso molecolare sono solidi (grassi). Tutti questi composti sono caratterizzati da una densità inferiore a quella dell’acqua, e tendono pertanto a risalire in superficie (flottazione).

Metalli pesanti. Nelle acque naturali sono presenti, in tracce, molti metalli pesanti, tra i quali occorre menzionare il nichel, il manganese, il piombo, il cromo, il cadmio, lo zinco, il rame, il ferro e il mercurio. Sebbene questi metalli siano presenti nelle acque naturali, e alcuni di essi siano addirittura necessari al metabolismo biologico, concentrazioni elevate possono provocare effetti tossici sul sistema biotico. La determinazione della concentrazione di metalli pesanti nelle acque può essere eseguita mediante spettrometria di emissione a plasma (ICP, Inductively Coupled Plasma) o spettrofotometria ad assorbimento atomico, con fornetto di grafite qualora le concentrazioni risultino essere dell’ordine dei μg/l, previa costruzione di apposite curve di taratura.

Gas disciolti. I principali gas presenti nelle acque derivano dallo scambio tra queste e l’atmosfera e sono costituiti da azoto molecolare, ossigeno molecolare e anidride carbonica. Tuttavia, le reazioni di decomposizione della sostanza organica possono dare origine allo sviluppo, tra gli altri, di ammoniaca (NH3), di metano (CH4) o di solfuro di idrogeno (H2S) e così via.

Particolare importanza assume la concentrazione di ossigeno molecolare disciolto (DO, Dissolved Oxygen), in quanto fondamentale per la vita sia degli organismi sia dei microrganismi aerobici. La quantità di ossigeno molecolare disciolto in acqua dipende, così come per altri gas, da diversi fattori, quali la solubilità propria (l’ossigeno è un gas debolmente solubile in acqua), la sua pressione parziale in atmosfera, la temperatura, l’eventuale presenza di sostanze sospese o disciolte.

Parametri biologici

La caratterizzazione biologica delle acque superficiali e di rifiuto è volta all’individuazione dei principali gruppi di microrganismi responsabili della degradazione biologica dei contaminanti negli impianti di trattamento delle acque reflue, dei patogeni e dei mi­crorganismi che possono essere considerati indicatori del livello di inquinamento dei corsi d’acqua.

I microrganismi possono essere classificati, sulla base della struttura cellulare e delle principali attività funzionali, in tre regni: eucarioti, eubatteri e archeobatteri. Gli ultimi due regni comprendono organismi che hanno cellula procariotica; sono strutturalmente diversi dagli eucarioti, la cui organizzazione cellulare è più differenziata, e presentano abbondanza di forme e una notevole variabilità biologica. Le principali fonti di nutrimento per i microrganismi sono rappresentate dalla sostanza organica e dall’anidride carbonica. Oltre a essere classificati in eterotrofi e autotrofi (denominando in tal modo rispettivamente quelli che utilizzano per la crescita del tessuto cellulare carbonio organico e quelli che utilizzano anidride carbonica), i microrganismi sono tra loro distinti anche in relazione al tipo di fonte dalla quale ricavano l’energia necessaria per la sintesi cellulare. In particolare, sono detti fotosintetici i microrganismi che utilizzano l’energia luminosa e chemosintetici quelli che derivano l’energia necessaria alla crescita da reazioni chimiche.

Il comparto suolo

La conoscenza delle caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche del suolo è finalizzata alla corretta comprensione delle eventuali condizioni di inquinamento, dei meccanismi di autodepurazione, nonché all’individuazione degli interventi più idonei di risanamento.

Il suolo può essere considerato anche come un sistema multifase, costituito da una fase solida (sostanza minerale, sostanza organica), una fase liquida (acqua) e una fase gassosa (aria). La sua origine può essere ricondotta a un insieme complesso di fenomeni di natura chimica, fisica e biologica che inducono alterazioni nelle rocce. In particolare, l’alterazione fisica si manifesta a seguito di azioni di fessurazione e deformazione degli strati superficiali, mentre l’alterazione chimica è dovuta a reazioni tra alcuni minerali chimicamente reattivi (quali le argille) e ossigeno, anidride carbonica o acidi organici; l’alterazione biologica è invece riconducibile ai composti prodotti dal metabolismo delle specie batteriche presenti nel suolo, che possono reagire con i minerali reattivi di questo. I frammenti di roccia prodotti a seguito dei meccanismi descritti in precedenza possono essere ulteriormente alterati per effetto delle azioni abrasive esercitate su di essi dagli agenti atmosferici.

Parametri fisici

Le caratteristiche del suolo dipendono sia dalla percentuale relativa di ciascuna componente sia dalla natura delle particelle organiche e inorganiche in esso presenti.

Granulometria e tessitura. La granulometria di un suolo rappresenta la distribuzione percentuale in peso delle diverse particelle su base dimensionale. La determinazione della distribuzione dimensionale (o curva granulometrica) si esegue per mezzo di vagliatura meccanica riservata a terre con dimensioni dei grani superiori a 0,075 mm e per mezzo di analisi per sedimentazione (aerometria) per frazioni con dimensioni dei grani inferiori a 0,075 mm (passanti al setaccio UNI 0,075 o ASTM 200).

Con l’espressione tessitura di un suolo viene indicato il rapporto percentuale in peso delle frazioni di particelle con diametro inferiore a 2 mm. In particolare, è definita sabbia la frazione con diametro compreso tra 50 e 2000 μm, limo la frazione con diametro compreso tra 2 e 50 μm e argilla la frazione con diametro minore di 2 μm. Prendendo come riferimento queste tre frazioni si possono rappresentare le classi tessiturali per mezzo di diagrammi triangolari. La frazione grossolana (50÷2000 μm) è caratterizzata da una modesta capacità di ritenzione dell’acqua, da proprietà drenanti, da una elevata permeabilità e da una scarsa reattività chimica. La frazione argillosa presenta un’elevata superficie specifica, che risulta responsabile di alcune proprietà di estrema importanza, quali la coesione, la plasticità, l’elevata capacità di ritenzione d’acqua, la modesta permeabilità e la capacità di scambio cationico.

Struttura. La struttura di un suolo è il risultato del modo in cui si dispongono le particelle di cui esso è composto. In particolare, le particelle possono dare luogo alla formazione di aggregati di dimensioni maggiori a seguito dell’azione cementante esercitata dalle particelle colloidali di natura organica e inorganica. L’aggregazione delle particelle risulta inoltre favorita dalla presenza di coltivazioni, dai cicli di imbibizione/essiccamento e di gelo/disgelo e dall’attività dei microrganismi presenti nel suolo. L’azione cementante della sostanza organica è particolarmente efficace nei confronti delle particelle sabbiose.

Porosità. La porosità n di un terreno viene definita come il rapporto tra il volume degli spazi vuoti (Vv) e il volume totale del terreno (V). I vuoti, o pori, di un terreno possono essere distinti, sulla base delle loro dimensioni, in macropori e micropori. I macropori sono in generale occupati da aria, in quanto l’acqua in essi presente tende a migrare velocemente, mentre i micropori sono caratterizzati da una elevata capacità di trattenere acqua al loro interno.

Densità reale e densità apparente. Nei terreni è utile distinguere tra questi due parametri. La densità apparente, o densità secca (γd), è definita come il rapporto tra il peso del solido (Ps) e il volume totale occupato (V) compresi i vuoti. La densità reale, o peso specifico del solido di un terreno (γs), è definita come il rapporto tra il peso del solido (Ps) e il volume occupato da questo (Vs).

Rapporti acqua-terreno. L’acqua è presente nel terreno in tre frazioni distinte. L’acqua igroscopica rappresenta la frazione di acqua che si dispone sulla superficie delle particelle del terreno e viene da queste trattenuta per adesione superficiale. Tale frazione rimane saldamente legata alle particelle e non risulta disponibile per l’apparato radicale delle piante, in quanto la capacità assorbente delle radici non è sufficiente a vincere le forze di adesione. L’acqua capillare rappresenta la frazione di acqua che occupa i micropori, e rimane trattenuta per effetto della tensione capillare. Tale frazione rappresenta la riserva idrica a disposizione delle piante. L’acqua gravitazionale rappresenta la frazione che occupa i macropori, e che può migrare nel suolo sotto l’azione della forza di gravità.

La capacità di ritenzione idrica è una misura della quantità di acqua che può essere trattenuta da un suolo grazie alla capillarità ed è espressa come la quantità percentuale in peso di acqua in esso contenuta.

Parametri chimici

In un suolo possono aver luogo un numero molto elevato di reazioni e di trasformazioni chimiche, quali reazioni di scambio ionico, di assorbimento, di precipitazione e di complessazione. La comprensione del comportamento chimico del suolo e dei suoi componenti risulta fondamentale ai fini dello studio del destino dei contaminanti in esso presenti ed è argomento assai complesso. Vengono dunque per tale ragione qui richiamati solo alcuni dei parametri di interesse.

Capacità di scambio cationico. Questo parametro (CEC, Cation Exchange Capacity) è definito come la quantità massima di cationi che il suolo può adsorbire, ed è misurato in meq/(100 g di suolo). I cationi possono essere legati ai siti attivi del suolo per mezzo di legami di natura elettrostatica. Tra i cationi che possono essere prontamente scambiati rientrano il calcio, il potassio, il sodio, l’alluminio, il ferro, nonché molti metalli pesanti. La capacità di scambio cationico dipende dalla quantità di minerali argillosi presenti nel suolo, dalla quantità e dalle caratteristiche chimiche della frazione organica e dal pH del suolo. Nel suolo le reazioni di scambio cationico avvengono molto rapidamente e in maniera reversibile.

Nutrienti. I principali nutrienti essenziali per la crescita delle piante sono il carbonio, l’ossigeno, l’idrogeno, l’azoto, il fosforo, il potassio, il calcio, il magnesio e lo zolfo. In particolare, l’azoto, il fosforo e il potassio sono definiti nutrienti primari, mentre il calcio, il magnesio e lo zolfo rappresentano i nutrienti secondari. Qualora la quantità di azoto risulti superiore a quella necessaria alla crescita delle piante e al metabolismo dei batteri, l’eccesso viene rapidamente convertito in nitrato che, essendo molto mobile, può essere facilmente lisciviato e trasportato verso le acque di falda. Il fosforo è invece normalmente presente in quantità molto modeste ed è adsorbito in via preferenziale dai solidi colloidali.

Per la crescita delle piante è necessario che siano presenti, in tracce, anche ferro, manganese, boro, molibdeno, rame, zinco e cloruri; la concentrazione di questi vari elementi nel suolo dev’essere in ogni caso controllata poiché un eccesso può dare origine a effetti di fitotossicità.

Parametri biologici

Il suolo rappresenta l’habitat ideale per un numero elevato di organismi, i quali contribuiscono attivamente alle reazioni che in esso possono avere luogo. Il tipo e il numero di organismi presenti in un suolo dipendono dal contenuto di umidità, dalla presenza di ossigeno e dalla disponibilità di nutrienti.

Batteri. Il suolo contiene diverse specie di batteri, sia autotrofi sia eterotrofi, che rappresentano il principale gruppo di microrganismi in esso presenti. I generi che compaiono più comunemente sono: Arthrobacter, Bacillus, Pseudomonas, Agrobacterium, Alcaligenes e Flavobacterium.

La crescita batterica risulta influenzata dal contenuto di umidità, dalla disponibilità di ossigeno, dalla temperatura, dal pH, dalla sostanza organica, dalla disponibilità di nutrienti inorganici. Nelle zone temperate, la popolazione batterica è molto abbondante negli strati superficiali del suolo, sebbene le pratiche agricole possano provocarne una diminuzione.

Attinomiceti, funghi e alghe. Gli attinomiceti sono microrganismi eterotrofi in grado di degradare, nel loro metabolismo, gli acidi organici, i lipidi, le proteine e gli idrocarburi alifatici eventualmente presenti nel suolo in forme difficilmente utilizzabili da altre specie batteriche. Per tale ragione, la loro attività nel suolo diviene fondamentale nel caso in cui i nutrienti inorganici siano presenti in concentrazione limitante per la crescita batterica. Alla stregua di quanto avviene per le altre specie di microrganismi, l’attività degli attinomiceti nel suolo è influenzata dalle condizioni di pH, umidità e temperatura, nonché dalla disponibilità di sostanza organica biodegradabile. La loro crescita risulta di tipo accelerato soltanto dopo che le sostanze prontamente biodegradabili sono state consumate dalle altre specie batteriche presenti nel terreno.

La presenza di funghi, un altro gruppo di organismi eterotrofi, dipende dalla disponibilità di sostanza organica biodegradabile. I funghi si adattano piuttosto bene a variazioni di pH e di temperatura, e possono sopravvivere anche durante i periodi nei quali le condizioni ambientali non risultano adeguate per la loro attività metabolica. Essi rappresentano la parte principale della biomassa presente all’interno del suolo, e svolgono un ruolo dominante nella demolizione delle molecole complesse in esso presenti.

Il comparto aria

Per valutare in modo corretto la natura e l’entità dell’inquinamento dell’atmosfera, inteso come alterazione delle sue caratteristiche qualitative in grado di produrre effetti negativi sulle specie animali e vegetali e, più in generale, sugli ambienti biotici e abiotici, si deve considerare che l’atmosfera risulta un sistema in equilibrio dinamico e in continua evoluzione. In tal senso, le caratteristiche atmosferiche si devono intendere come il risultato di un continuo scambio di energia, nonché di elementi e composti chimici tra l’atmosfera stessa e gli altri sistemi naturali (idrosfera, biosfera e litosfera).

All’interno dell’atmosfera, inoltre, molte sostanze immesse per effetto di attività naturali (eruzioni vulcaniche, erosione delle rocce, trasporto eolico, incendi) o antropiche, sono soggette a trasformazioni chimiche e fisiche che possono portare da un lato alla formazione di composti con caratteristiche più inquinanti di quelli da cui originano (inquinanti secondari), dall’altro alla rimozione di questi a seguito di processi di autodepurazione. I meccanismi di autodepurazione o di formazione di inquinanti secondari che hanno luogo nell’atmosfera possono essere di natura chimica (reazioni di ossido-riduzione, precipitazione chimica, adsorbimento ecc.), fisica (trasporto e diluizione a opera del vento, deposizione secca e umida ecc.) e biologica (per es., fissazione da parte di batteri).

Parametri chimici

L’inquinamento atmosferico è dovuto alla presenza nell’aria di gas, materiale particolato e sostanze in concentrazioni tali da alterarne i requisiti di qualità e produrre effetti dannosi sui diversi comparti ambientali e sugli organismi viventi.

Le specie principali ai fini dell’inquinamento atmosferico (macroinquinanti), in genere denominate big five, sono rappresentate da: monossido di carbonio (CO), ossidi di azoto (NOx), ossidi di zolfo (SOx), particolato solido totale (TSP, Total Suspended Particulate), ozono e composti organici volatili (VOC, Volatile Organic Compounds).

Della classe dei microinquinanti atmosferici, i cui effetti sugli ecosistemi si manifestano per bassi valori di concentrazione e anche a causa di fenomeni di accumulo, fanno invece parte specie di natura sia organica sia inorganica; tra i microinquinanti organici possono annoverarsi i cosiddetti BTX (benzene, toluene e xilene), gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e i microinquinanti organoclorurati, policlorobifenili (PCB), policlorodibenzodiossine (PCDD) e policlorodibenzofurani (PCDF), mentre tra i microinquinanti inorganici vanno citati i metalli pesanti (As, Cd, Cr, Cu, Hg, Ni, Mo, Sb, Tl).

La formazione di inquinanti secondari può peraltro avvenire, nelle normali condizioni di temperatura presenti in atmosfera, eventualmente a seguito di attivazione fotochimica.

Fonti di inquinamento

Come è stato detto, l’inquinamento può essere dovuto a fenomeni naturali o antropici. Nel primo caso, si ricorda il rilascio di particolato in atmosfera dovuto a incendi di foreste o eruzioni vulcaniche, la conseguente deposizione secca o umida di tali inquinanti atmosferici, la lisciviazione da parte delle acque dei metalli costituenti il suolo e sottosuolo, la radioattività. L’entità di tali fenomeni viene spesso considerata in ciò che è definito fondo naturale, e in molte situazioni risulta difficilmente contrastabile da parte dell’uomo. Le attività antropiche hanno sempre alterato in maniera più o meno sensibile lo stato naturale dell’ambiente attraverso la creazione di fonti estremamente diversificate di contaminazione. L’impiego di beni e prodotti, le attività industriali e manifatturiere, il trattamento e smaltimento dei rifiuti sono solo alcune delle fonti di inquinamento di origine antropica. La formulazione di un numero sempre più ampio di composti di sintesi ha aggravato ulteriormente i fenomeni di inquinamento, causando l’immissione nell’ambiente di sostanze e residui che risultano persistenti e non biodegradabili, e quindi particolarmente difficili da rimuovere e/o trattare. In relazione alla configurazione geometrica, le sorgenti di inquinamento si distinguono in: puntuali (camino di un’industria, sversamento da un collettore fognario ecc.), lineari (traffico veicolare lungo un’arteria stradale ecc.), areali (aerosol batterico, emissione di composti organici da una discarica), volumetriche (emissioni volatili e particolate da ambienti confinati). I caratteri geometrici della sorgente condizionano le scelte in merito alle tecnologie di intervento applicabili per la rimozione del fenomeno di inquinamento. Essi inoltre hanno rilevanza ai fini dello sviluppo dei modelli numerici predittivi che consentono di valutare la diffusione e il destino degli inquinanti rilasciati nell’ambiente. Infatti, una volta rilasciati in un determinato comparto, i contaminanti possono essere mobilizzati e quindi trasferiti nella loro forma originaria o modificata ad altri comparti, determinando conseguentemente la propagazione della contaminazione e quindi l’estensione dell’entità del fenomeno, e inoltre possono raggiungere più o meno rapidamente i recettori finali e gli organismi viventi.

Nell’analisi della natura delle sorgenti è pertanto importante valutare non solo le caratteristiche dell’inquinante rilasciato, ma anche il percorso di questo e i fenomeni di attenuazione o esaltazione e modificazione indotti dall’ambiente nella sua migrazione. Sono disponibili modelli numerici di complessità diversa in grado di fornire una previsione più o meno accurata del destino degli inquinanti nell’ambiente, tenendo conto dei processi fisici, chimici e biologici che intervengono a carico di questi. Tali modelli, anche quando molto sofisticati, forniscono sempre una rappresentazione semplificata della realtà, e ciò sia per la mancanza di conoscenze dettagliate dell’ambiente investigato (stratigrafia dei terreni, fenomeni di attenuazione ecc.), sia per la limitatezza del complesso dei dati di caratterizzazione della sorgente disponibili e dei vettori di inquinamento (precipitazioni, portate ecc.), sia, ancora, per la non stazionarietà dei fenomeni coinvolti che richiedono la predisposizione di più complessi algoritmi di calcolo nonché tempi e potenze di elaborazione estremamente rilevanti. Allo scopo può essere di aiuto lo sviluppo di modelli fisici che, in opportuna scala, consentano specifiche valutazioni sui fenomeni oggetto di studio.

In alternativa, possono essere utilizzati modelli stocastici basati sulla determinazione delle funzioni di probabilità di accadimento associate ai singoli eventi che si ipotizza concorrano al fenomeno in esame. Questa tecnica di simulazione viene utilizzata dunque nel caso in cui si abbia a che fare con variabili casuali. La procedura consiste nel generare differenti set di valori di una variabile, in accordo a specificate distribuzioni di probabilità. In tal modo si ottiene una serie di soluzioni corrispondenti al set di valori delle variabili casuali selezionate. Si può quindi ritenere che i valori sintetici ottenuti abbiano le stesse caratteristiche statistiche di valori sperimentali realmente osservati, applicando successivamente a questi i metodi dell’inferenza statistica per l’analisi dei dati generati. Per eseguire una simulazione, è dunque necessario specificare le distribuzioni di probabilità delle variabili coinvolte nel problema in esame; queste distribuzioni di probabilità dovranno essere note ovvero, in alternativa, essere assunte in funzione degli scenari che si intende indagare. Il processo di generazione di dati di sintesi risulta essere un passo fondamentale in questo tipo di approccio. In altre parole, dunque, sulla base di reali o ipotetiche distribuzioni di probabilità delle variabili considerate, si sviluppano valutazioni che, per un assegnato set di valori generati, possono considerarsi deterministiche. L’elevato numero di eventi di sintesi in tale maniera generato può essere trattato per via statistica al fine di determinare la soluzione più prossima a quella reale.

Recupero ambientale

Una volta note le caratteristiche della sorgente di contaminazione e l’estensione del fenomeno, si pongono alcune questioni fondamentali ai fini dell’analisi delle alternative di intervento volte al recupero ambientale. È innanzitutto necessario stabilire il livello di decontaminazione che si intende raggiungere per garantire al contempo la protezione della salute dell’uomo e idonei livelli di salvaguardia ambientale. Una volta stabilito tale livello, si devono selezionare una o più tecnologie in grado di ottenere gli obiettivi richiesti entro periodi di tempo prestabiliti e a costi accettabili. La scelta degli interventi e delle tecnologie più idonee non può considerarsi automatica e deve sempre soggiacere a criteri di diversa natura, in grado di concorrere nell’insieme allo sviluppo di un processo decisionale molto articolato e complesso che, dal punto di vista operativo, vede necessariamente coinvolti molteplici attori quali le comunità locali, gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni, le associazioni e così via. Diverse saranno anche le competenze richieste dal punto di vista tecnico-operativo. Secondo un’ottica tecnico-ingegneristica, con riferimento a un sito di intervento, alcuni elementi concorrono a rendere complesso il processo decisionale di scelta: le condizioni del contesto operativo, la durata temporale e la sequenzialità delle singole attività relative agli interventi di decontaminazione, il numero di tecnologie disponibili (ciascuna caratterizzata da specifici vantaggi e svantaggi di applicazione) e il livello di affidabilità delle tecniche di intervento. La scelta dell’insieme degli interventi di recupero assume dunque le caratteristiche di un processo decisionale iterativo che, per approssimazioni successive, consente l’identificazione della soluzione più idonea. Tale approccio è riscontrabile in diverse normative e in molti programmi di recupero ambientale applicati in differenti Paesi. Poiché si è avuto un notevole sviluppo della normativa di settore e delle tecnologie applicabili, nelle considerazioni esposte in questo saggio si fa riferimento a un approccio concettuale del processo decisionale che si può ritenere invariante rispetto a sviluppi e aggiornamenti della tematica trattata.

Il primo passo del processo decisionale è rappresentato dalla definizione del problema, ovvero del pericolo associato alla presenza di contaminanti in un dato sito di interesse. La presenza di inquinanti comporta un rischio solo nel caso in cui vi siano le condizioni di una potenziale esposizione, presente o futura, al contaminante da parte di un bersaglio. Per la valutazione del processo di esposizione occorre in generale definire la sorgente inquinante, il percorso degli inquinanti attraverso le diverse matrici ambientali e i potenziali ricettori.

Obiettivi di recupero

In senso generale, il principale obiettivo da raggiungere tramite gli interventi di recupero ambientale è quello di garantire la protezione della salute umana e la salvaguardia dell’ambiente. Per fissare gli obiettivi di tale recupero, si possono seguire diversi approcci: si può fare riferimento a prescrizioni normative, alla valutazione di rischio sito-specifica, ai valori di fondo originari e ai vincoli connessi all’applicazione delle tecnologie di recupero. Al fine di garantire la protezione della salute dell’uomo e la salvaguardia dell’ambiente, la potenziale contaminazione di un comparto e gli in­terventi da porre in essere vengono normalmente correlati alla presenza di una o più sostanze inquinanti in concentrazione superiore a valori soglia.

Nel caso in cui la contaminazione riguardi un sito, la presenza di sostanze inquinanti al di sopra di una concentrazione soglia di contaminazione (CSC) rende necessaria l’elaborazione di un piano di caratterizzazione e l’esecuzione dell’analisi di rischio sito-specifica. In taluni casi, si riscontrano valori di fondo superiori a dette CSC a causa di fenomeni di tipo antropico o naturale che hanno interessato nel tempo il sito in esame. In questi casi, le CSC possono essere considerate pari ai valori di fondo. È necessario, tuttavia, che l’attività relativa alla definizione di tali valori sia espletata da soggetti istituzionali, attraverso protocolli che definiscano sia i criteri metodologici da utilizzare sia le procedure di campionamento, di analisi e di elaborazione statistica dei risultati.

Il piano di caratterizzazione contiene il programma di indagini da eseguire per definire in modo esaustivo lo stato di contaminazione delle matrici ambientali interessate. Attraverso l’attuazione di tale piano si rendono disponibili i dati necessari a definire il tipo di intervento da attuare ai fini del recupero ambientale.

A questa procedura si affianca poi l’analisi di rischio sito-specifica (ARSS) che ha lo scopo di determinare, per i parametri di inquinamento di interesse, le concentrazioni soglia di rischio (CSR); le CSR, vengono dunque a rappresentare i valori di concentrazione accettabili, il superamento dei quali determina nello specifico la necessità di interventi atti a porre in sicurezza e/o bonificare il sito contaminato, sino ai livelli dettati dalle CSR stesse. In sostanza, dunque, il superamento dei valori di CSC sta a indicare la potenziale contaminazione di un’area e richiede l’esecuzione dell’ARSS che individui le sorgenti di inquinamento, i percorsi degli inquinanti, l’esposizione a questi e i possibili bersagli. Il superamento delle CSR, dedotte a mezzo dell’ARSS, consente di stabilire se l’area risulta effettivamente contaminata e, quindi, se è necessario eseguire gli interventi di messa in sicurezza e/o bonifica fino ai livelli corrispondenti a tali valori di soglia. In altre parole, dunque, le CSR vengono a rappresentare non solo i livelli di contaminazione accettabile, ma anche i valori obiettivo degli interventi di bonifica da realizzare. Tali obiettivi fanno comunque sempre riferimento alla specifica destinazione d’uso del sito.

Le considerazioni sopra riportate possono essere estese, in senso generale, anche alla contaminazione degli altri comparti ambientali, tenendo presente che potranno essere differenti numericamente non solo i valori soglia di riferimento, ma anche i criteri di caratterizzazione e pianificazione degli interventi in relazione agli obiettivi di fruizione che si intendono assicurare.

Interventi di recupero ambientale

Come è stato detto in precedenza, la tipologia di intervento da attuare viene definita in relazione alla specifica destinazione d’uso del comparto e più in generale per assicurare la protezione della salute dell’uomo e la salvaguardia dell’ambiente. Al contempo la scelta non può prescindere dai tempi di esecuzione dell’intervento caratteristici della tecnologia adottata e dai relativi costi. In relazione al tipo di comparto interessato, potranno risultare preferibili interventi di decontaminazione propriamente detti che prevedono il trattamento della matrice contaminata o, in alternativa, strategie di riduzione progressiva degli apporti dovuti a sorgenti concentrate o diffuse da combinare con il contenimento temporaneo o permanente degli effetti della contaminazione. La complessità delle situazioni di contaminazione di un dato comparto ambientale spesso non consente di raggiungere gli obiettivi di risanamento prefissati con l’adozione di una singola tecnologia. Si pone pertanto la necessità di ricorrere a sequenze più o meno articolate di processi, assegnando a ciascuno di questi un ottimale campo di applicabilità al fine di ottenere l’efficienza complessiva desiderata a fronte di una minimizzazione dei costi di esecuzione. Un elemento condizionante la scelta deriva dalla possibilità, ovvero dalla necessità, di operare localmente sul comparto oppure di estrarre la matrice contaminata e avviarla a impianto dedicato, realizzato sul sito o localizzato esternamente a questo (trattamenti rispettivamente in situ, on site e off site).

Nel caso in cui si possa realizzare la rimozione del materiale contaminato, la prima soluzione da considerare sotto il profilo tecnico-economico è quella dell’asportazione totale dei residui ed eventualmente dei terreni inquinati costituenti il substrato, poiché in tal caso il rischio residuo associato alla situazione di studio risulta nullo; in questo modo i costi associati al monitoraggio e controllo del sito a seguito degli interventi di bonifica possono risultare estremamente modesti così come la loro incidenza sugli oneri complessivi dell’intervento di recupero. L’esecuzione di un intervento di asporto deve in ogni caso prevedere un’accurata progettazione delle diverse fasi di lavorazione che tenga in massima considerazione gli aspetti legati alla sicurezza degli operatori e alla prevenzione dell’inquinamento ambientale.

Le tecnologie di disinquinamento e di recupero ambientale possono essere classificate in quattro principali categorie: processi di separazione di fase (sedimentazione, desorbimento, adsorbimento ecc.); processi di separazione dei componenti (scambio ionico, elettrodialisi); processi di trasformazione chimici (ossidazione chimica, combustione, stabilizzazione-solidificazione); processi di trasformazione biologici (fanghi attivati, digestione anaerobica ecc.).

La scelta tra le diverse alternative può essere eseguita in via del tutto preliminare sulla base di tre parametri globali: il contenuto di sostanza organica, la quantità di solidi totali e il contenuto d’acqua della matrice considerata. In linea generale, per contenuti d’acqua estremamente modesti ed elevate concentrazioni di sostanza organica risulta più conveniente operare per mezzo di trattamenti termici. Al crescere del contenuto di acqua e per valori non elevati della frazione organica divengono più vantaggiosi i trattamenti di tipo biologico. Infine, i processi di ossidazione chimica, così come quelli di separazione di fase, diventano applicabili per elevati valori del contenuto d’acqua, bassa concentrazione di sostanza organica e di solidi totali.

In altre situazioni gli interventi di recupero ambientale focalizzano l’attenzione non in operazioni e processi di trattamento delle matrici, ma piuttosto su procedure e opere di ingegneria in grado di assicurare la messa in sicurezza temporanea o permanente di un sito ovvero il suo macroincapsulamento parziale o totale (barriere verticali perimetrali realizzate con diaframmi plastici a bassissima permeabilità, barriere multistrato per sistemi di copertura). In alcuni casi, inoltre, vengono realizzati sistemi di intercettazione perimetrale verticale, per es. di un flusso di falda contaminato, che non svolgono azioni idrauliche di confinamento ma piuttosto affidano l’efficacia dell’intervento alla reattività dei materiali di costruzione utilizzati (barriere permeabili reattive).

La varietà delle soluzioni attualmente disponibili per l’esecuzione degli interventi di recupero ambientale, tanto più se estese ai diversi comparti di interesse, rende conto della complessità del tema. Di seguito si riporta una sintesi delle tecnologie e dei principali processi utilizzati negli interventi di recupero ambientale, rimandando per maggiori approfondimenti alla letteratura tecnica di settore.

Processi di separazione di fase. Tali processi consentono la rimozione del contaminante per estrazione e trasferimento di questo a una fase diversa da quella in cui era inizialmente presente. In tal modo il contaminante non viene trasformato nella sua forma chimica, ma esclusivamente trasferito a un altro mezzo.

Uno di tali processi è il desorbimento con aria, in cui il contaminante viene trasferito in massa da una fase a un’altra, per es. da una corrente liquida a una gassosa. Il desorbimento viene applicato per il recupero di acque di falda contaminate da VOC, quali per es. i solventi; trova ancora utilizzo nel trattamento di acque reflue contaminate da azoto ammoniacale. La sua applicazione richiede spesso il preliminare condizionamento del fluido da trattare al fine di ottenere condizioni ottimali di pH, temperatura e pressione che favoriscano il trasferimento della specie di interesse. Esso è adottato preferibilmente in presenza di basse concentrazioni di contaminante, e impiega torri con corpi di riempimento che, incrementando la superficie di contatto utile, aumentano l’efficienza di trasferimento del contaminante. Le due fasi possono essere poste in contatto in equicorrente, in controcorrente oppure con flusso trasversale. In alternativa all’aria, è possibile produrre il desorbimento in corrente di vapore, al fine di rimuovere VOC e composti semivolatili (SOC, Semivolatile Organic Compounds) fino a concentrazioni estremamente basse. Nel desorbimento a vapore, la maggiore temperatura operativa incrementa il tasso di trasferimento; inoltre i contaminanti separati possono essere agevolmente recuperati dalla fase liquida effluente, prodotta dalla condensazione del vapore. Nella decontaminazione dei siti inquinati da composti volatili, il desorbimento trova innumerevoli applicazioni anche nei trattamenti in situ; una delle tecniche più ampiamente utilizzate è quella dell’estrazione con vapore (SVE, Soil Vapor Extraction) che, attraverso la realizzazione di una rete di tubazioni per l’immissione del fluido direttamente nel terreno da trattare e la sua continua estrazione controllata, consente la progressiva riduzione dei livelli di contaminazione. Tale tecnologia è particolarmente idonea per la rimozione di VOC presenti nella zona insatura (zona vadosa) dei suoli.

Nel caso dell’adsorbimento, un contaminante viene trasferito da una fase liquida o gassosa a una solida definita adsorbente. In molte applicazioni si utilizzano a tale scopo i carboni attivi, ovvero materiali aventi matrice carboniosa, la cui superficie specifica viene incrementata e attivata attraverso un processo termico. Il trasferimento del contaminante sulla matrice solida determina il progressivo esaurimento dei siti attivi di questa, rendendo pertanto necessaria la sua periodica rigenerazione.

Un’altra tecnica particolarmente promettente, ma ancora non ampiamente consolidata, è rappresentata dall’estrazione con fluidi supercritici (SFE, Supercritical Fluid Extraction); questa sfrutta la maggiore capacità estraente dei fluidi portati a elevati valori di pressione e temperatura, che presentano in tal modo proprietà intermedie tra quelle di un gas e di un liquido. Particolarmente interessante risulta allo scopo l’utilizzo della CO2 supercritica per i modesti valori richiesti di temperatura (≥31,1 °C) e di pressione (≥73,0 atm).

La sedimentazione consente la separazione delle fasi presenti all’interno di un fluido, sfruttando la maggiore densità dei solidi in un liquido o in un gas. La sedimentazione delle particelle presenti può manifestarsi con diverse modalità in relazione alla maggiore o minore densità della sospensione considerata; a tal proposito si identificano normalmente quattro diverse tipologie di sedimentazione: libera, per flocculazione, a zona e per compressione. Le apparecchiature che consentono di realizzare questo trattamento risultano, dal punto di vista geometrico, estremamente diversificate in ragione del fatto che viene sfruttata la sola forza di gravità, ovvero l’azione centrifuga indotta sul fluido dalle condizioni di moto di questo (separatori a flusso longitudinale, tangenziale, cicloni, multicicloni e altri).

Processi di separazione dei componenti. Lo scambio ionico è un’operazione di trasferimento di materia fra un elettrolita in soluzione e un elettrolita insolubile (resina) posto in contatto con essa. Una resina a scambio ionico può essere dunque idealmente considerata come una soluzione concentrata di anioni e cationi in cui una specie ionica è legata a una matrice polimerica insolubile, mentre l’altra specie ionica può essere scambiata con ioni dello stesso segno presenti all’interno della fase liquida. Le resine a scambio ionico possono essere costituite da materiali naturali o artificiali e sono distinte, in luogo del gruppo funzionale che può essere scambiato, in resine cationiche e resine anioniche. A loro volta queste possono essere classificate in ragione del fatto che il gruppo funzionale (rispettivamente acido e basico) risulti forte o debole.

I processi a membrane utilizzano materiali in grado di impedire il passaggio di particolari tipi di molecole. Le membrane sono in genere costituite da materiali altamente porosi, con dimensioni dei pori variabili in funzione del tipo di processo. I meccanismi principali attraverso i quali le membrane consentono di effettuare una separazione selettiva di determinate specie sono rappresentati dalla stacciatura, dalla diffusione molecolare e dalla dissoluzione; alcune membrane risultano inoltre selettive nei confronti di specie in forma ionica in dipendenza dalla loro carica. Rispetto alla dimensione dei pori della membrana e dunque alle dimensioni delle specie rimosse, si distingue in genere tra microfiltrazione, tra 0,1 e 1 μm; ultrafiltrazione, tra circa 10 nm e 0,1 μm; nanofiltrazione, intorno a circa 1 nm; osmosi inversa, per la rimozione di sali e specie inorganiche disciolte.

Processi di trasformazione chimici. Tali processi sfruttano l’effetto di agenti ossidanti e riducenti nei riguardi di sostanze di natura sia organica sia inorganica. Spesso i processi chimici svolgono un’azione di pretrattamento sul refluo, al fine di trasformare le sostanze inquinanti presenti in composti meno pericolosi e/o più agevolmente trattabili, per es. con processi biologici. Particolarmente interessanti risultano i processi di ossidazione avanzata (AOP, Advanced Oxidation Processes) che, utilizzando una combinazione di forti agenti ossidanti (quali, per es., l’ozono e il perossido di idrogeno), catalizzatori (ioni di metalli di transizione o fotocatalizzatori) e radiazioni (UV, fasci elettronici ecc.), consentono di ottenere elevate efficienze di trattamento. Tra gli AOP, particolare rilevanza assumono i processi con reattivo di Fenton che, utilizzando il ferro come catalizzatore unitamente al perossido di idrogeno, permettono il trattamento di una vasta gamma di composti (fenoli, BTEX – benzene, toluene, etilbenzene, xilene –, pesticidi ecc.); spesso tale processo viene utilizzato come pretrattamento di reflui contenenti sostanze organiche refrattarie per migliorarne la biodegradabilità o per ridurne il COD (Chemical Oxygen Demand), ma anche per la rimozione diretta di composti organici, del colore e dell’odore.

Il trattamento termico di sostanze combustibili può essere effettuato con diverse modalità. La più utilizzata è la combustione diretta delle sostanze così come sono, e anche di quelle preventivamente trattate. Sono oggi disponibili nuove tecnologie di trattamento termico, basate su processi di pirolisi e gassificazione, che permettono la conversione del combustibile in un intermedio liquido o gassoso da impiegare poi in normali caldaie, motori alternativi o turbine a gas (combustione indiretta).

In termini energetico-ambientali le tecnologie di gassificazione e pirolisi presentano potenziali aspetti interessanti quali: possibilità di ottenere combustibili gassosi da utilizzare in dispositivi caratterizzati da migliori rendimenti di conversione energetica; riduzione delle portate di effluenti gassosi; miglioramento delle caratteristiche di innocuizzazione e maggiori potenzialità di riutilizzo dei residui solidi prodotti dal processo. I processi di conversione termica possono essere utilizzati anche per il risanamento di discariche incontrollate, utilizzando il rifiuto da escavazione come combustibile (landfill mining).

Il processo di combustione consiste in un’ossidazione degli elementi combustibili presenti in condizioni di forte eccesso di ossigeno, con rilascio di energia termica. I prodotti sono costituiti da fumi di combustione e dal residuo solido inerte. La combustione diretta porta a una forte riduzione della massa (70-80%) e del volume (85-90%) del prodotto originario.

La pirolisi consiste in un riscaldamento indiretto, in atmosfera priva di ossigeno, che conduce alla scissione delle sostanze organiche dando luogo, per reazioni di cracking termico e di condensazione, a frazioni gassose, liquide e solide. Le tre correnti in uscita sono costituite da: gas combustibile (syngas) avente un medio potere calorifico, costituito principalmente da CO, CO2, H2, e idrocarburi leggeri sia saturi sia insaturi in funzione delle caratteristiche iniziali della frazione da trattare e delle condizioni operative applicate; un prodotto liquido a temperatura ambiente (tar, assimilabile a un olio combustibile) costituito da catrami, acqua e composti organici; un prodotto solido (char), costituito essenzialmente da residuo carbonioso, inerti e ceneri.

Il processo di gassificazione consiste nella combustione parziale di un materiale in difetto di ossigeno che dà luogo a un gas combustibile ricco in CO e H2. Per la sua applicazione è richiesto l’utilizzo di un materiale abbastanza omogeneo. Nella gassificazione l’energia termica necessaria al processo viene fornita dalle reazioni di ossidazione parziale che riducono le esigenze di apporti termici dall’esterno.

I trattamenti di stabilizzazione-solidificazione, detti anche di inertizzazione, consentono di ottenere l’innocuizzazione di residui o terreni contaminati per mezzo della miscelazione di questi con agenti leganti. I più comuni metodi di inertizzazione sono quelli a base di cemento-silicati, ma sono disponibili anche tecnologie che utilizzano, quali leganti, resine termoplastiche e termoindurenti. Il prodotto ottenuto a mezzo di questi trattamenti presenta le caratteristiche di un solido dotato di buona resistenza meccanica e bassa lisciviabilità.

Tra gli interventi in situ che oggi risultano particolarmente promettenti e utilizzati soprattutto per la decontaminazione di falde inquinate, vi sono le barriere permeabili reattive (PRB, Permeable Reactive Barriers). Queste consistono nella realizzazione per escavazione di un ostacolo fisico alla diffusione degli inquinanti, che ha la proprietà di lasciarsi attraversare dal plume di contaminazione e che presenta – per le caratteristiche proprie dei materiali utilizzati per la realizzazione della barriera – capacità di reagire con i contaminanti. Il plume di contaminazione o la falda possono essere intercettati completamente dalle PRB (barriere continue) o, previa realizzazione di diaframmi impermeabili di contenimento, essere convogliati verso zone di uscita preferenziali (funnel and gate). Materiali reattivi risultano i metalli zero valenti come Fe0, Ni0, Zn0, Cu0 ecc. (particolarmente utilizzati per la rimozione di IPA, PCB e VOC) o materiali quali i carboni attivati, le zeoliti, le resine a scambio e miscele di materiali organici (compost, torba e altri).

Processi di trasformazione biologici. La degradazione della sostanza organica (substrato) contenuta nelle acque reflue di origine civile o industriale, nei percolati di discarica ecc., può essere ottenuta attraverso processi biologici; questi sfruttano l’attività di particolari microrganismi (biomasse), i quali sono in grado di consumare il substrato utilizzandolo come fonte di energia per le funzioni di crescita e vitali, nonché come fonte di carbonio per la produzione di nuove cellule. L’energia necessaria ai microrganismi viene prodotta, nella fase detta di catabolismo, a seguito di reazioni di ossidazione nelle quali la sostanza organica viene convertita in prodotti finali quali CO2, H2O, NH3, CH4 e altri. Come affermato, l’energia prodotta in tale fase viene utilizzata dai microrganismi per le proprie funzioni vitali, nonché nelle reazioni di crescita per la costruzione di nuovo materiale cellulare (anabolismo); in tal caso, la fonte di carbonio è nuovamente rappresentata dalla sostanza organica che costituisce il substrato. Trattamenti di tipo biologico sono anche quelli nei quali l’azoto in forma ammoniacale viene trasformato, mediante un processo di ossidazione operato da particolari specie microbiche – dette nitrificanti – in azoto nitrico (nitrificazione), ovvero quelli nei quali l’azoto nitrico così formatosi viene successivamente ridotto ad azoto elementare (denitrificazione).

I reattori che sfruttano processi di tipo biologico vengono classificati, sulla base delle modalità con le quali i microrganismi si sviluppano all’interno di essi, come reattori a biomassa sospesa (nei quali i microrganismi si sviluppano in forma dispersa all’interno del mezzo liquido) o reattori a biomassa adesa (nei quali i microrganismi crescono aderendo a un supporto solido inerte fisso o mobile). I sistemi a biomassa adesa possono essere a loro volta realizzati mediante filtri percolatori (nei quali il liquido da trattare percola attraverso un supporto fisso), biodischi (nei quali la biomassa cresce aderendo a un serie di dischi parzialmente immersi nel liquido da trattare e montati su un supporto rotante) o letti fluidizzati (nei quali la biomassa si sviluppa su elementi di materiale solido inerte che vengono mantenuti in stato di fluidizzazione all’interno del liquido da trattare).

Una diversa classificazione dei reattori tiene conto invece delle caratteristiche dei ceppi batterici utilizzati; si possono considerare in tal modo in funzione dell’accettore esterno di elettroni i processi aerobici (in cui l’accettore è l’O2), anossici (in cui l’accettore è l’NO3), anaerobici (in cui l’accettore è l’SO24 o la CO2) e fermentativi nel caso in cui non vi sia presenza di un donatore esterno di elettroni. Il vantaggio dei processi biologici è quello di consentire la trasformazione del substrato organico in materiale cellulare, il quale può essere più agevolmente separato dalla fase liquida ricorrendo a processi di separazione di fase quali, per es., la sedimentazione. A tale proposito, è opportuno rilevare che, a meno della quantità di substrato che dà luogo a prodotti finali, un trattamento di tipo biologico comporta un semplice trasferimento degli inquinanti dalla fase disciolta (substrato solubile) a quella particolata (biomassa). Pertanto, un processo completo per la rimozione del substrato organico deve necessariamente prevedere il trattamento della biomassa prodotta.

Allo stato attuale esistono un gran numero di tecnologie consolidate e molti processi di trattamento innovativi, tra i quali si ricordano quelli che utilizzano i reattori sequenziali discontinui (SBR, Sequencing Batch Reactors) e i reattori biologici a membrana (MBR, Membrane BioReactors). I processi biologici possono essere applicati anche per trattamenti in situ e on site per la decontaminazione di terreni inquinati dalla presenza di sostanze organiche, come nel caso della bioremediation.

Interventi di macroincapsulamento parziale o totale. Gli interventi di macroincapsulamento consentono di isolare il sito inquinato rispetto all’ambiente circostante; tale isolamento può essere totale e configurarsi come un vero e proprio involucro artificiale del sito, o parziale e riguardare dunque le pareti perimetrali profonde del sito, il fondo ovvero la sua superficie. Gli interventi di confinamento superficiale consistono in sistemi a barriera multistrato in grado di ridurre drasticamente i fenomeni di infiltrazione delle acque zenitali gravanti sull’area; gli strati costituenti la barriera, realizzati con materiali naturali o artificiali, svolgono funzioni diverse in relazione alle caratteristiche del sito di interesse. La funzione di contenimento idraulico è normalmente assegnata a materiali naturali dotati di bassa permeabilità, come quelli di natura argillosa, unitamente a materiali artificiali (geomembrane in polietilene ad alta densità, HDPE, High Density PolyEthylene o geocompositi bentonitici). Gli ulteriori strati svolgono funzioni diverse e consentono di controllare in modo attivo o passivo la migrazione di eventuali fluidi inquinanti emessi quali, per es., il biogas. Le barriere perimetrali di confinamento vengono realizzate per escavazione e successivo riempimento con malte plastiche o a infissione per battitura di elementi rigidi di materiali diversi (palancolate). I diaframmi plastici, realizzati per escavazione e riempimento con malte a base di acqua, cemento e bentonite, rappresentano la tecnica oggi più largamente utilizzata; spesso, peraltro, all’interno del diaframma plastico viene inserita in modo continuo una geomembrana in HDPE quale ulteriore garanzia di impermeabilità del sistema. Le tecniche che consentono l’impermeabilizzazione del fondo di un sito inquinato risultano in generale piuttosto complesse e costose, e dunque applicate in situazioni del tutto particolari. In tal caso sono utilizzabili applicazioni consistenti nell’impermeabilizzazione dei substrati fessurati mediante l’immissione diretta di fluidi sigillanti o nella realizzazione di elementi compenetranti impermeabili a profondità fissate.

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