Censura, Inquisizione e scienza nell'Italia della Controriforma

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Scienze (2013)

Censura, Inquisizione e scienza nell’Italia della Controriforma

Saverio Ricci

Specificità italiana e contesto europeo

La sorveglianza di censura e Inquisizione sulla scienza, al tempo segnato dal caso Galilei, è tema fra i più caratteristici nella storia del pensiero scientifico in Italia. Riferito alla tesi che la Controriforma abbia non solo impedito nella penisola la riforma religiosa, ma anche ostacolato un’adesione alla modernità filosofica e scientifica comparabile a quella che, secondo alcune correnti culturali e storiografiche, la Riforma protestante avrebbe altrove favorito, il tema costituisce una delle articolazioni del discorso sull’identità italiana.

L’‘oscurantismo’ e l’‘arretratezza’ in Italia, luoghi comuni della polemica prima protestante e poi illuministica, diventarono in alcune filosofie della storia di età romantica categoriale inadeguatezza alla modernità dei Paesi meridionali e cattolici. Lo schema fu rielaborato nella seconda metà del 19° sec. da Bertrando Spaventa nella teoria della ‘circolazione’ europea del pensiero italiano, e da Francesco De Sanctis in quella della ‘decadenza’ italiana. Negli anni del fascismo e del secondo dopoguerra, interpretazioni della Controriforma di diversa ispirazione dimostrarono comunque radicata la tesi che la ‘differenza’ italiana rispetto all’Europa, intesa quale soggetto unitario, nel bene o più spesso nel male, fosse dipesa dall’opposizione della Chiesa alla Riforma, e pertanto alla modernità.

L’orientamento storiografico che da Hubert Jedin (1900-1980) in poi ha riconosciuto nella Chiesa tridentina caratteri moderni continua ad alimentare la riflessione su Chiesa e modernità, ma anche aspri dissensi. La ‘crisi delle ideologie’ di fine Novecento sembra aver tuttavia coinvolto la sequenza Riforma-modernità, con effetti sulla valutazione della Controriforma (cfr. Prosperi 1996, p. XVI). Il contrasto della libertà di coscienza nel mondo riformato è stato messo in luce più che in passato (cfr. Seidel Menchi, Luzzi 2011, p. 84). Si è meglio avvertito il rilievo della censura e della polizia della fede nell’Europa protestante, fondate sulle stesse fonti scritturali invocate dai cattolici, e appoggiate a una collaborazione di poteri secolari e religiosi, benché esercitate con strumenti e obiettivi in parte diversi da quelli cattolici: confessionalizzazione, demagificazione, buon costume; inferiore o indiretto sarebbe stato invece il controllo sulla vita intellettuale (Brambilla 2006; Jostock 2007). L’opera filosofica e scientifica di John Locke (1632-1704) e di Isaac Newton (1642-1727) non incontrò problemi di censura in Inghilterra, ma i due autori dissimularono le loro idee teologico-religiose, eterodosse per l’anglicanesimo religione di Stato. D’altro canto, la censura fu attributo fondamentale dello stesso potere politico, fissato così nella fondazione teorica dell’assolutismo dell’eterodosso Jean Bodin (1529 ca.-1596), come nella sacralizzante apologia delle prerogative della Repubblica di Venezia dell’antipapista Paolo Sarpi (1552-1623). Divieti politici di autori, libri o comportamenti si affiancarono a interdizioni chiesastiche: nel 1624 il Parlamento di Parigi vietò gli attacchi ad Aristotele; nel 1656 gli Stati generali d’Olanda proibirono la discussione di tesi cartesiane nelle università; nel 1691 Cosimo III di Toscana proibì l’atomismo nell’Università di Pisa; e l’Encyclopédie venne vietata in Francia nel 1759.

Non vi furono nell’ambito della Riforma, a causa del suo carattere policentrico, due tipiche creazioni della monarchia papale: un tribunale teologico centrale, sovraordinato all’inquisizione diocesana, la Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, o Santo Uffizio, istituita nel 1542; e una censura preventiva territoriale sulla stampa, a responsabilità episcopale e inquisitoriale, culminante in un meccanismo centrale di revisione e proibizione, l’Indice romano dei libri proibiti, emanato per la prima volta nel 1559 (la relativa Congregazione fu eretta nel 1572). Questi istituti furono creati per combattere l’eresia, ma la loro competenza fu ampliata ai saperi profani; i relativi criteri di sorveglianza furono tuttavia condizionati dall’urgenza antiprotestante. La giurisdizione universale di Santo Uffizio e censura romana fu effettiva quasi solo in Italia, ma doveva peraltro adattarsi ai rapporti della Chiesa con i diversi Stati: l’efficacia giuridica delle loro decisioni nella sfera temporale, obbliganti per il clero e la coscienza dei fedeli, dipendeva, fuori dello Stato della Chiesa, dal recepimento delle magistrature secolari. La spinta clericalizzante e le forme di controllo dei fedeli caratteristiche della Controriforma, fattori certo coadiuvanti anche nel controllo della vita intellettuale, trovarono spesso resistenza nelle giurisdizioni statali. Inquisizioni dipendenti dalle rispettive corone, con competenza sulla censura e poi anche nella compilazione di Indici, avevano fin dal 15° sec. le monarchie iberiche. Anche le università di Parigi e di Lovanio, e altre autorità cattoliche, laiche ed ecclesiastiche, allestirono Indici. Alcuni degli Indici cattolici restarono attivi anche dopo la formazione dell’Indice romano, ma i reciproci rapporti, di emulazione e integrazione, non furono di meccanica convergenza. La compresenza di istituzioni cattoliche di diversa giurisdizione, e di istituti politici o di altra confessione rese la censura (e l’autocensura) un dato riguardante quasi tutta l’Europa, sebbene con diverse modalità ed effetti.

Rinnovamento della ricerca

Lo studio del comportamento di censura romana e Santo Uffizio verso la scienza è stato a lungo concentrato su alcuni celebri casi, come il divieto di Nicola Copernico (1473-1543) nel 1616 e il processo a Galileo Galilei nel 1633. La storiografia più recente ha fornito una rappresentazione complessa di quelle istituzioni, in cui acquistano rilievo le tensioni fra le due Congregazioni e fra queste e altre autorità, e la loro frequente mancanza di efficienza; la prassi della expurgatio (ripulitura) di libri, anche scientifici, vietati solo donec corrigantur (fino a correzione), e la concessione di permessi di lettura per libri proibiti; il non esaurirsi il problema della censura entro quegli uffici, con riferimento agli ordini religiosi e alle università; la non riducibilità del tema dei rapporti tra fede e scienza allo studio di censura e Santo Uffizio (Baldini 2003; Frajese 2006). Non è inoltre secondario che, per quanto divieti e processi producessero un clima intimidante, tutti i libri editi in area cattolica ma proibiti dagli Indici romani erano stati autorizzati dalla censura preventiva, spesso nel quadro di patronage e frequentazione ecclesiastica delle scienze; il che se da un lato denota la permeabilità di quel circuito, dall’altro impone di verificare quanto rigoroso lo stesso sia stato con altri libri, fino a impedirne la stampa. Negli Indici di Sisto V del 1590 e di Clemente VIII del 1596, e nella crisi copernicana del 1616-1633, ma con progressiva accumulazione di inchieste, divieti e processi nei decenni precedenti, si verificò la compatibilità della cultura filosofica e scientifica del tempo con la dottrina cattolica. L’apertura dell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (1998), che raccoglie quanto resta degli archivi del Santo Uffizio e della Congregazione dell’Indice, ha consentito uno studio analitico del comportamento di queste strutture nel 16° sec. (Catholic Church and modern science, 2009). La ricerca continua, e le linee sono state tracciate anche per i secoli successivi (Baldini 2001).

È stata inoltre rappresentata l’asimmetria fra quel che oggi si intende per scienza e la letteratura naturalistica che fra 16° e 17° sec. censura e Inquisizione passarono al vaglio (Baldini 2003). Nella cultura scolastica degli apparati, che era gran parte di quella dell’epoca, per scienza si intendeva un complesso gerarchico di saperi teologici, metafisici, fisici che solo il pensiero moderno avrebbe disarticolato. Le ricerche naturalistiche non apparivano autonome dal quadro metafisico stabilito dalla tradizione aristotelica e dalla teologia. Non mancava la consapevolezza della discutibilità o caducità di dottrine, e dei limiti e dissonanze delle auctoritates, sia in filosofia sia in teologia. Ma generalmente le scienze naturali non erano considerate progressive e insindacabili. Anche nei settori antiaristotelici la ricerca naturalistica si slegò solo lentamente da visioni metafisiche e dall’appello alle Scritture. L’aristotelismo di matrice averroistica, che certo non rinunciava a quadri metafisici, riservava invece alle indagini naturali un piano sul quale l’autorità della teologia si dava per formalmente ossequiata, ma concettualmente inoperante (per cui i suoi fautori furono accusati di sostenere una ‘doppia verità’). Nella cultura italiana, l’istanza della philosophandi libertas in naturalibus (libertà della filosofia negli argomenti naturali) fu avanzata nel primo Seicento. Nello stesso ambito ecclesiastico (si pensi ai gesuiti), una pur contrastata revisione della scienza aristotelica e una cauta libertà di innovazione trovarono del pari sostenitori. Il primato della teologia fu posto dalla Chiesa a garanzia della stessa ortodossia filosofica, non riducibile alla difesa dell’aristotelismo (cfr. M.P. Donato, Scienza della natura, in Dizionario storico dell’Inquisizione, 3° vol., 2010, p. 1394), che infatti aveva spesso suscitato eterodossia. Le novità filosofico-naturali dovevano essere collocate nell’alveo della uniformitas teologica, pur essa problematica, come emerse nel dibattito interno alla Compagnia di Gesù. Nel 1570 la teologia di Tommaso d’Aquino (1225 o 1226-1274) fu elevata a teologia più sicura, ma non esclusiva, da Pio V. Il Concilio di Trento non aveva tuttavia offerto una risistemazione complessiva della teologia, né una riconsiderazione specifica dei suoi rapporti con filosofia e scienze. In alcune posizioni autorevoli, come quelle del cardinale Agostino Valier (1531-1606) e del gesuita Antonio Possevino (1533-1611), il canone filosofico della Controriforma contempera fedeltà tomista ed eclettismo, ma sottomette quest’ultimo al rispetto di norme fissate per la didattica della filosofia, rese universali dalla bolla Apostolici regiminis del 1513.

Eresia a matrice filosofica e controllo della filosofia naturale

Sul piano dottrinale appare fondante la teoria tomista dell’eresia come errore dell’intelletto, cui la volontà può aderire con pertinacia, procurando l’eresia vera e propria: l’errore mentale è la materia o soggetto cui la volontà conferisce la forma. Tommaso vi comprendeva la distinzione tra eresia diretta ed eresia indiretta, che avrebbe permesso di includere nella fattispecie ereticale teorie contrastanti non solo con affermazioni de fide delle Scritture o con decreti della Chiesa (eresia diretta), ma anche con affermazioni scritturali secondarie: eresia indiretta, questa, poiché indurrebbe a dubitare dell’inerranza delle Scritture. Questo comporta che l’interpretazione di luoghi scritturali relativi alla natura può dare occasione di eresia. Tommaso ammise che non spettava alla teologia fondare le altre scienze, ma riservò a essa di giudicare se vi si trovassero tesi da respingere come false poiché contrarie alla fede. Egli escludeva dal rischio le scienze matematiche.

Il Directorium inquisitorum di Nicolas Eymerich (1320-1399) del 1376, pubblicato nel 1503, ma riedito più volte, a partire dal 1578, e base della procedura inquisitoriale per lungo tempo, presentò alcune teorie filosofiche antiche e islamiche come possibili matrici di eresie, e recepì la dottrina tomista dell’eresia. Questa era stata ribadita da Alfonso de Castro (1495-1558) nel De iusta haereticorum punitione (1547), dove è ricavata la categoria di error in fide. Se l’eresia verte su enunciati cui il cristiano dovrebbe assentire oltre le sue capacità razionali, l’error in fide concerne enunciati dimostrabili anche dalla ragione. Ciò consentiva di censurare una tesi eretica anche come ‘stolta’ o ‘erronea’. La bolla Apostolici regiminis, emanata da Leone X nel V Concilio Lateranense per contrastare l’averroismo e rendere più rigorosa la formazione del clero, proclamò un criterio nella forma più solenne (papa cum concilio). La filosofia non può sostenere come vere nel suo ambito posizioni che riconosce come false per la teologia, e deve essere confutata ogni volta che appaia in contrasto con questa, come su quei punti (durata o eternità del mondo e natura dell’anima) che interpreti del testo aristotelico volgevano in termini incompatibili con la dottrina della Chiesa. La bolla obbligava i soli docenti universitari, pena l’accusa di eresia; ma fu adoperata per condannare qualunque autore e censurare libri.

Durante la Controriforma, eresiologia tomistica e Apostolici regiminis resero possibile nella prassi inquisitoriale e censoria il richiamo a un’ortodossia filosofica cattolica (Beretta 2005). Il Concilio di Trento, con il decreto De canonicis scripturis (IV sessione, 8 aprile 1546), vietò interpretazioni delle Scritture su punti di fede e di morale difformi dal comune consenso dei Padri. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, il divieto, sulla base della formula dell’eresia indiretta, fu esteso di fatto anche a punti delle Scritture che riguardassero argomenti naturali. Inoltre, in alcuni ambienti ecclesiastici si consolidò la tendenza a dirimere questioni scientifiche nell’esegesi letterale della Bibbia. Questo atteggiamento, intrecciato a posizioni scettico-fideistiche che riducevano l’autonomia della natura e la validità delle conoscenze umane, debilitò la stessa concezione aristotelico-tomistica del sapere, e improntò il confronto con vecchie e nuove forme di naturalismo e con la nuova scienza.

Scienze ‘occulte’

Oltre che la saldatura verticale tra scienze naturali, metafisica e teologia, fu rilevante anche la tangenza delle prime con pratiche magico-astrologiche, ritenute almeno in parte naturali e lecite anche dalla cultura accademica. L’ortodossia dell’astrologia restò esposta, fin dal Medioevo, a esitazioni, oscillando la cultura cristiana fra l’orrore patristico per il demonismo dei pagani, armonico con il divieto veterotestamentario di divinazione e sortilegio, e il tema del governo divino dei cieli. Questo avrebbe indotto al compromesso tomistico della inclinatio che i corpi sublunari, inclusi gli umani, subirebbero dai coelestia, senza che le anime intellettive, illuminabili solo dagli angeli e influenzabili solo da Dio, vengano privati della loro libertà di scelta. Il compromesso legittimava l’astrologia, finché non pretendesse di emettere ‘giudizi’ certi su eventi futuri personali o collettivi, pretesa contestata anche dall’astrologia umanistica, come disciplina universitaria a base astronomica, utile a medicina, navigazione e agricoltura. La prima volta in cui Galilei, professore di astronomia a Padova, fu denunciato all’Inquisizione (1604), accadde anche per le modalità della sua marginale, ma nondimeno istituzionale, attività di pronosticante.

La distinzione filosofica tra magia naturale e magia demoniaca, dibattuta nel 15° sec., fu fondante nella Magia naturalis di Giovan Battista Della Porta (1535-1615), inquisito tra il 1574 e il 1578 per negromanzia, e infine condannato alla sola purgazione canonica. La Magia, opera di grande risonanza in Europa, fu vietata donec repurgetur dall’Inquisizione spagnola nell’edizione del 1558; la seconda edizione espurgata del 1589, nella cui difesa l’autore spese a Roma autorevoli protezioni, non fu menzionata nell’Indice del 1596. Censori e inquisitori contemplavano la distinzione tra magia naturale e magia demoniaca, ma essa fondava, non risparmiava il controllo di ortodossia. Nel 1559 l’Indice di Paolo IV vietò i libri trattanti molte arti esoteriche, ma non quelli di astrologia non ‘giudiziaria’. L’Indice del 1564 proibì solo i testi che annunciassero previsioni certe, e rinnovò l’interdizione dei libri delle altre magie, non facendo però riferimento alla fisiognomica e all’alchimia. Questa, vietata nel 14° sec., era molto diffusa in età moderna, e i suoi testi furono spesso tollerati, eccetto se intreccianti altre pratiche magiche e teologie eterodosse, come nel caso di Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelsus (1493-1541). Le opere a questi attribuite non furono vietate fuori d’Italia prima del 1583, né mai in Francia né altrove nell’Europa settentrionale. La definizione dell’autore come eretico apparve nell’Indice romano del 1596.

Fra Sisto V e Urbano VIII, che dedicarono all’astrologia, rispettivamente, le bolle Coeli et terrae (1586) e Inscrutabilis (1631), la vigilanza si configurò elevata ma critica, coinvolgendo ambienti curiali, come documentano nel 1629 lo scandalo del De siderali fato vitando di Tommaso Campanella (1568-1639) e nel 1630 il processo contro l’abate Orazio Morandi (1570 ca.-1630). La materia fu sottoposta in linea di principio a una severità tale da provocare contrasti negli organi di censura. Benché alcuni astronomi espungessero trattazioni ‘giudiziarie’ dai loro libri, la circolazione di pronostici si mantenne larga, e l’expurgatio di opere astrologiche si rivelò fallimentare. Si rileva che il contrasto ecclesiastico dell’astrologia abbia contribuito al suo discredito e alla sua separazione dall’astronomia in età moderna (Baldini 2001).

Naturalisti, e nuovo naturalismo

L’Indice romano del 1564 non dettò regole specifiche per filosofia e scienza. La regola VIII previde tuttavia l’expurgatio e quindi la riabilitazione al commercio per i libri di materia non religiosa il cui argomento principale fosse innocuo per la fede, ma che marginalmente potesse suscitare qualche sospetto di eresia, empietà, divinazione o superstizione. Erano inoltre da vietare ma correggibili i libri di tema profano di autori eretici, e quelli di autori cattolici e approvati, che provenissero da editori o curatori eretici. I libri rivedibili erano inclusi nella seconda classe dell’Indice, che proibiva singoli testi, con la formula donec corrigantur. Talvolta anche opere di eretici nominati nella prima classe, che vietava autori in modo assoluto, furono soggette a correzione. La censura fu consapevole del fatto che libri di autori eretici utili o necessari alle scienze dovessero essere rimessi rapidamente in circolazione, una volta espurgati. La documentazione della Congregazione dell’Indice relativa alla riforma promossa da Sisto V nel 1587, e quella preliminare all’Indice di Clemente VIII, restituiscono tuttavia le difficoltà della procedura, che oscillò tra l’accentramento presso commissioni romane e il decentramento presso curie e inquisizioni locali, con la consulenza delle università (per filosofia e scienze, soprattutto Padova). Il progetto di un Indice espurgatorio produsse un primo volume (1607), non seguito da altri, pur proseguendosi nella farraginosa prassi espurgatoria.

Su oltre cento naturalisti e filosofi il cui nome ricorre nei documenti di Santo Uffizio e Indice per il 16° sec., dieci furono processati dal primo; su pochi altri questo non condusse che accertamenti. Gli autori che non subirono un processo appaiono nelle carte dell’Indice per indagini sull’opportunità di vietare le loro opere. Sul lungo periodo 1559-1808, i circa 120 divieti di libri di carattere scientifico irrogati a Roma sono parsi costituire cifra modesta, se comparata al mercato librario e al numero di opere che in astratto le regole della censura avrebbero permesso di vietare (Baldini 2001, 20032). Divieti ed expurgationes non toccarono in genere teorie scientifiche, ma la confessione religiosa dell’autore, riferimenti a eresiarchi, eretici e tesi eretiche, attacchi a istituzioni o pratiche cattoliche, credenze astrologiche oppure magiche, conseguenze sul piano delle Scritture o della teologia cattolica. Fu assiduo il problema della letteratura di autori o curatori protestanti, reclamata dagli specialisti, ma il cui vaglio non riuscì mai a essere sistematico ed efficace.

Nel 16° sec. incapparono nel divieto riformabile numerosi scienziati protestanti; fra gli altri, botanici e medici come Otto Brunfels (1488-1534), Leonhart Fuchs (1501-1566), Johann Lonitzer (1499-1569), Amato Lusitano (1511-1568); il mineralologo Georg Agricola (1494-1555); l’enciclopedista Konrad von Gessner (1516-1565); l’umanista, medico e matematico Kaspar Peucer (1525-1602); il logico Pierre de la Ramée (1515-1572); e in cosmografia, geografia e cronologia, Sebastian Münster (1489-1552), Gerardus Mercator (1512-1594), Abraham Ortelius (1527-1598). Spesso le expurgationes comportarono correzioni molto marginali, ma tempi lunghi. Lo studio della concessione dei permessi di lettura lascia calcolare per il secondo Cinquecento, in Italia, qualche migliaio di lettori abilitati a possedere libri in via di correzione; una prassi che consentì il pur condizionato accesso alla letteratura scientifica vietata (Catholic Church and modern science, 1° vol., t. 3, 2009).

Per quanto riguarda i processi di Santo Uffizio, non vi compaiono imputazioni su materie scientifiche, o sembrano poco rilevanti. Il più celebre è quello a Giordano Bruno (1548-1600), accanto a quelli a Della Porta, Girolamo Cardano, Campanella, Nicola Antonio Stigliola (1546-1623), Ulisse Aldrovandi, e a Girolamo Borri (1512-1592), maestro di Galilei a Pisa. La lacunosità dei documenti del processo a Bruno non consente di accertare il ruolo svolto dalle accuse in materia cosmologica, ma si ritiene che esso non dovette essere tanto significativo quanto quello esercitato dai capi d’imputazione metafisico-teologici, con i quali pure erano intrecciate. Aldrovandi fu processato nel 1549-50 per simpatie anabattistiche, ma lasciato indisturbato nell’attività di naturalista. Nei procedimenti intestati a Borri (tra il 1551 e il 1583), pesò l’accusa di appartenenza a circoli riformati. Le sue vicende non gli alienarono la cattedra pisana e il favore di Gregorio XIII. Nel caso di Stigliola (1595), il suo insegnamento scientifico, pur contrastato dai gesuiti, non fu però esaminato.

Nondimeno, l’incompatibilità tra varie forme di naturalismo e dottrina della Chiesa si registra da un certo punto con tutta evidenza. Alcuni dei casi più eclatanti maturarono entro il patronage ecclesiastico della filosofia e delle scienze, dal quale Santo Uffizio e censura provvidero a reciderne le manifestazioni. Lo dimostrano il processo per numerose tesi ‘superstiziose’ ed eterodosse (1572) al medico e matematico Cardano, anch’egli un protetto di Gregorio XIII, e i divieti donec corrigantur delle sue opere, la cui expurgatio si protrasse a lungo; la vicenda di Bernardino Telesio (1509-1588), candidato alla cattedra episcopale di Cosenza e amico di importanti gesuiti, autore, all’ombra della curia romana, della prima decostruzione moderna della filosofia aristotelica, il De rerum natura iuxta propria principia (1565, nuova ed. 1570, ed. definitiva in nove libri 1586), vietato anch’esso donec corrigatur nel 1596; e il caso del neoplatonico Francesco Patrizi (1529-1597), che imbarazzò la corte del suo patron Clemente VIII. La tormentosa storia di Campanella, dei suoi processi, della congiura in Calabria, delle sue complesse relazioni con ordine domenicano, censura e curia romana, indica dal canto suo, insieme al caso Bruno, come le maggiori spinte rivoluzionarie in metafisica sortissero dall’ordine dei predicatori, custode della tradizione tomistica e dell’intransigenza inquisitoriale, ma anche memore di radicali esperienze speculative, mistiche e politiche.

Nella Roma di Urbano VIII, che dopo il carcere spagnolo di Napoli lo aveva riaccolto e fatto segno di una protezione pur densa di insidie, il suo caso fu contiguo al caso Galilei, del quale fu generoso apologeta, e con cui condivise, su diverso ma collegato testo, scenari e attori. La sua ricerca di esiti non autoritari alla questione cosmologica si misurò con una teologia peraltro divisa su problemi, come quello della grazia divina, di maggiore gravità: su entrambi i fronti, costituzione della natura e grazia soprannaturale, entrambi affrontati da Campanella, il rinvio di pronunce papali definitive e la sospensione autoritaria dei dibattiti permisero compromessi, ma non risparmiarono vittime. L’istanza di innovazione della filosofia delle scuole e del rapporto fra teologia e filosofia, la cui normazione nell’Apostolici regiminis Campanella contestò, denunciando l’ipocrita abbraccio fra aristotelismo ateo, formalmente ‘devoto’, e circoli ‘machiavellici’ della curia, fu respinta dalla ragion di Chiesa. Ma il caso dell’aristotelico Cesare Cremonini (1550-1631), denunciato a Padova nel 1598 e nel 1604 per il suo insegnamento sull’anima, indagato da Roma ma protetto fino alla fine da Venezia, con esito nel divieto del 1622-23 della Disputatio de coelo (1613) e nella dichiarazione di eresia delle sue tesi sull’anima (1632), completa il quadro di questa fase. Nella chiusura del pur fluido papato Barberini a queste linee, come alla proposta copernicana di Galilei, si consolidarono orientamenti che avrebbero influito a lungo nella Chiesa.

La circolazione di Copernico

Nella Narratio prima del sistema copernicano di Georg Joachim Rheticus (1514-1574) del 1540, finita a Roma tra i libri da espurgare nella seconda metà del Cinquecento in quanto di autore protestante, non fu rilevata dai censori la difficoltà teologica che quella teoria poteva comportare. Nel 1543 Copernico aveva pubblicato a Norimberga il De revolutionibus orbium coelestium per insistenza di un cardinale, di un vescovo e dello stesso Rheticus. Questo interesse interconfessionale per la nuova teoria non aveva rimosso la preoccupazione per le sue conseguenze. Il teologo riformato Andreas Osiander (1498-1552) premise al libro un anonimo avviso, generalmente attribuito allo stesso Copernico, nel quale presentava la teoria eliocentrica quale convenzione matematica destinata, secondo la concezione corrente dell’astronomia, a salvare i fenomeni e a consentire le applicazioni pratiche, senza pretesa di verità fisica. Copernico, d’altro canto, aveva temuto le reazioni dei teologi, e nella dedica a Paolo III esortò il pontefice a difendere la sua teoria dai prevedibili attacchi di incompetenti che le opponessero un’interpretazione distorta delle Scritture. Cominciarono i protestanti. Copernico fu riprovato da Giovanni Calvino (1509-1564), e moto della Terra ed eliocentrismo furono respinti da Filippo Melantone (1497-1560), poiché contrastanti con le Scritture. Ma nell’Università di Wittenberg come in altri centri protestanti, nel quadro del particolare aristotelismo melantoniano, fu consentito l’uso dei calcoli copernicani, nei termini della consueta pratica astronomica.

In Italia la nuova teoria, sottoposta a un assorbimento tecnico compatibile con il quadro cosmologico tradizionale, e a discussioni di attendibilità e coerenza matematica, non fu intralciata. Intorno al 1546 il maestro del Sacro palazzo Bartolomeo Spina (1475-1546) pensò a un divieto, ma morì prima di avervi posto mano; le ragioni di quel disegno possono ritrovarsi nella coeva refutazione del De revolutionibus su basi bibliche e aristoteliche stesa dal domenicano Giovanni Maria Tolosani (1471-1549), rimasta inedita, ma che avrebbe esercitato sotterranea influenza nell’ambiente fiorentino da dove sarebbe partita nel 1615 l’offensiva contro Galilei. Nel 1581 la stampa a Basilea motivò la confisca della seconda edizione del De revolutionibus (1566), permessa tuttavia una volta cancellati l’editore e il luogo di stampa, senza che si entrasse nel merito del libro. Ancora nel 1581 il maggior matematico della Compagnia di Gesù, Cristoforo Clavio, avvertì che la teoria copernicana contrastava con le Scritture, ma non l’accusò di eresia, e nel 1584 Diego de Zúñiga poté pubblicare in Spagna un commento al libro di Giobbe nel quale sosteneva la conciliabilità dell’eliocentrismo con le Scritture. Del resto le Tabulae prutenicae del luterano Erasmus Reinhold (1511-1553) del 1551, fondate sui calcoli di Copernico e mai vietate, servirono di base per la riforma del calendario decisa nel 1582 da Gregorio XIII. Il moto della Terra fu sostenuto da Patrizi nella Nova de universis philosophia (1591), nel quadro di una riproposta della tradizione ermetica, pitagorica e platonica. Il suo protettore, Ippolito Aldobrandini, papa Clemente VIII dal 1592, gradì l’opera, e ne chiamò l’autore all’Università di Roma; nel 1596 quella fu nondimeno vietata, ma per altre ragioni. L’opinabilità del tema copernicano era tale che, mentre il censore domenicano accusò di falsità la teoria del moto della Terra poiché smentita dalle Scritture, quello gesuita definì la materia da filosofi, e rivedibile l’interpretazione di certi luoghi scritturali. In quello stesso 1596, il luterano Johannes Kepler (1571-1630) fu dissuaso dal suo maestro di teologia dal trattare la conciliabilità tra eliocentrismo e Scritture (cfr. Bucciantini 2003, p. 7 nota). L’evoluzione in senso cosmologico del dibattito aperto da Copernico aveva infatti preso consistenza. L’alternativo sistema geoeliocentrico di Tycho Brahe (1546-1601) non comprometteva la Bibbia, ma i suoi studi di novae e comete incrinavano per altri versi la cosmologia tradizionale; questa fu radicalmente rovesciata, con una lettura di Copernico fondata nella sua propria visione metafisico-teologica, da Kepler, al quale nel 1597 Galilei confidò di essere anch’egli copernicano.

La correzione di Copernico

Dopo il successo del Sidereus nuncius (1610), Galilei lasciò l’aristotelica Università di Padova e il patronage antiromano della Repubblica di Venezia per abbracciare quello di Cosimo II de’ Medici (1590-1621), alla cui dinastia dedicò i satelliti di Giove da lui scoperti. Questo avrebbe dovuto consentirgli di proseguire nella ricerca di una prova fisica della teoria di Copernico, nel confronto con i matematici gesuiti del Collegio romano, che coltivavano nuovi studi astronomici anche sulla base di una non pacifica revisione della scienza aristotelica. Le sue osservazioni, condotte con il telescopio, collegavano l’eliocentrismo con altre tesi dissolutrici della cosmologia tradizionale. Galilei rovesciava inoltre la gerarchia dei saperi, rivendicando all’astronomia capacità di definizione della realtà fisica. Nel 1611 il consenso di Kepler, la celebrazione delle sue scoperte nel Collegio romano, e la cooptazione all’Accademia dei Lincei di Federico Cesi, ma sullo sfondo di inquietudini di teologi e inquisitori, confusero gli avversari aristotelici. Fu il punto più alto della convergenza tra Galilei e i gesuiti, sì che il poeta inglese John Donne, turbato dalle nuove scoperte, presentò Galilei, nella satira Conclave Ignatii (1611), quale inconsapevole strumento del complotto della Compagnia contro la pace europea.

Un fronte di professori aristotelici e di ambienti domenicani, cortigiani e curiali toscani si pose l’obiettivo di fermare Galilei, inducendo il Santo Uffizio a dichiarare eretico l’eliocentrismo. Le azioni intraprese dai frati Niccolò Lorini e Tommaso Caccini nel febbraio-marzo 1615 presso l’Indice e il Santo Uffizio generarono un’inchiesta di quest’ultimo su Galilei, accusato non solo di sostenere teoria contraria alle Scritture, ma di interpretare queste a suo senso, e di seminare fra i seguaci empie dottrine. Ma il Santo Uffizio non convocò Galilei a Roma, e uscirono indenni da esame sia la lettera che il 21 dic. 1613 egli aveva scritto a Benedetto Castelli intorno al rapporto tra eliocentrismo e Scritture, sia la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (già autorizzata e pubblicata nel 1613).

La Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico (1615) del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini, che tentava di individuare nelle Scritture il fondamento ultimo della teoria copernicana, rese però il tema più scivoloso. Segno dei tempi, finanche l’allucinato don Chisciotte faceva professione di ‘concordismo’, rammentando che le Scritture «non possono venir meno d’un capello alla verità», ma che «la geometria toglie ogni dubbio a questa verità» (cfr. M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di V. Bodini, 2° vol., 1994, pp. 602-603).

In una lettera a Foscarini del 12 aprile 1615, nota anche a Galilei, il cardinale Roberto Bellarmino estese ai luoghi di interesse naturale il divieto tridentino di interpretazioni personali delle Scritture, poiché, in difetto, si sarebbe dubitato della inerranza delle Scritture, e vi sarebbe stato rischio di eresia indiretta; e invitò ad attenersi alla corrente lettura convenzionalistica della teoria copernicana, non ritenendone del resto probabile una dimostrazione fisica. Ove questa fosse intervenuta, si sarebbe comunque dovuta usare molta prudenza nell’esegesi dei testi sacri, che la comune interpretazione cattolica esponeva in senso geocentrista. Il cardinale definiva de fide ex parte dicentis, ovvero dal punto di vista dell’ispirazione divina delle Scritture, anche i luoghi relativi al funzionamento dei cieli, che pure non erano suscettibili di eresia ex parte obiecti, ovvero quanto al tema in sé. Questa risposta era coerente, oltre che con la eresiologia tomistica, con le personali tesi cosmologiche di Bellarmino, fondate sui Padri e le Scritture, da lui ritenute uniche fonti certe, rispetto alla natura convenzionale delle teorie astronomiche, e a quella contingente delle teorie fisiche.

Galilei, sostenuto dalla diplomazia toscana, scese invece a Roma per scongiurare l’eventuale condanna o una pronuncia che obbligasse alla lettura strumentalistica dell’eliocentrismo, giovandosi delle relazioni curiali sue e del governo mediceo. Il cardinale toscano Maffeo Barberini, e Bellarmino, edotto delle posizioni su teologia e scienza che egli aveva illustrate nella lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615, e in quella a Cristina di Lorena dello stesso anno, gli consigliarono di mantenersi sul piano delle convenzioni matematiche, e di evitare la materia esegetica. Le voci che volevano tanto papa Paolo V quanto Bellarmino inclini a giudicare eretica la dottrina del moto della Terra prelusero piuttosto a «singolarità» procedurali, dettate da ragioni politiche (le relazioni con Firenze), non prive di «favore» verso lo scienziato, in «un quadro dottrinale fra i meno limpidi della storia della Chiesa moderna» (F. Motta, Copernicanesimo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., 1° vol., pp. 410-11).

Nel voto segreto chiesto dal papa intorno alle due principali tesi attribuite da Caccini a Galilei, pronunciato in Santo Uffizio il 24 febbraio 1616, i qualificatori definirono l’eliocentrismo formalmente eretico poiché del tutto avverso alle Scritture, sia quanto alla lettera, sia quanto alla comune interpretazione dei Padri e dei teologi, e assurdo in filosofia; almeno erroneo per la teologia e assurdo in filosofia il moto della Terra. Ma questo voto non fu adottato in una decisione del papa in merito, né si imputò Galilei di eresia (cfr. Frajese 2010). Paolo V ordinò invece che Bellarmino informasse lo scienziato che si stava per proibire il libro di Copernico, e lo ammonisse ad abbandonarne l’‘erronea’ (non ‘eretica’) teoria; se Galilei si fosse opposto, gli si sarebbe dovuto intimare un precetto inquisitoriale ed eventualmente arrestarlo. Ma il 26 febbraio Bellarmino e il commissario del Santo Uffizio presente all’incontro avrebbero agito secondo modalità fra loro contrastanti, per cui non appare chiarito definitivamente se Galilei ricevette solo un monito privato a non tenere e difendere l’opinione copernicana, o se, come un discusso documento indurrebbe a ritenere, il commissario gli notificò anche un formale precetto a non tenere e insegnare in nessun modo l’‘erronea’ dottrina. Tra l’altro, se davvero il commissario agì in tal senso, commise un eccesso sia rispetto all’ordine papale (poiché non v’è prova che Galilei abbia resistito al monito), sia rispetto al rigore del provvedimento che l’Indice si apprestava ad assumere su Copernico, poiché imponeva a Galilei di non trattare la teoria copernicana neppure come convenzione matematica.

Il 5 marzo 1616 la Congregazione dell’Indice – in chiusura di un decreto già pronto che proibiva titoli di altra materia –, senza menzionare dichiarazioni papali, ma solo constatato che circolava la ‘falsa’ teoria ‘pitagorica’ della centralità del Sole e del moto della Terra, del tutto contraria alle Scritture, aggiunse che erano proibiti donec corrigantur il De revolutionibus e il commentario di Zúñica a Giobbe, e omnino la Lettera di Foscarini; precisando che si sarebbe dovuto sospendere e correggere qualunque libro che avesse sostenuto la teoria copernicana come teoria fisica, e proibire qualunque libro l’avesse detta conciliabile in quanto tale con le Scritture. La correzione del testo di Copernico fu condotta da Francesco Ingoli (1578-1649), e approvata da scienziati gesuiti, entro il 1620. Un monito ai lettori chiarì che l’opera era stata vietata per aver sostenuto tesi contrarie alle Scritture nella vera interpretazione della Chiesa; ma che, poiché recava anche un prezioso contributo all’astronomia, sarebbe stata leggibile come ipotesi matematica, una volta cancellati alcuni brani che si indicavano. Delle seicento copie note delle due edizioni cinquecentesche del De revolutionibus, solo meno di ottanta presentano le correzioni, quasi tutte conservate in Italia.

Il decreto dell’Indice, che vietava libri e non aveva potestà dottrinale, si era riferito all’eliocentrismo non come a teoria eretica, ma contraria alle Scritture, e quindi suscettibile, come avvenne, di una correzione che lo limitava a strumento di calcolo. Tuttavia, la contrarietà alle Scritture non è un grado meno grave rispetto all’eresia, nella scala dell’errore, ma nota di eresia, modulabile in diretta e indiretta, nella dottrina tomista, a seconda che colpisca affermazioni della rivelazione divina essenziali alla fede e alla salvezza, o affermazioni secondarie la cui negazione possa far dubitare della inerranza delle Scritture. Nel passaggio dal piano teologico ed eresiologico – per cui una tesi contraria alle Scritture è eretica – a quello inquisitoriale e politico, il tema imponeva prudenza. Se il papa avesse dichiarato le tesi attribuite a Galilei eretiche, non solo questi sarebbe stato imputabile di eresia, ma il libro di Copernico si sarebbe dovuto bruciare. La Chiesa si sarebbe esposta in una definizione solenne di eresia per una teoria avversante punti secondari delle Scritture; il romano pontefice, che Bellarmino tendeva a non impegnare neppure su temi di ben altro rilievo teologico, come la questione della grazia, in pronunce definitive e solenni, per la prima volta nella storia avrebbe dichiarato eretica un’ipotesi matematica poiché alcuni la interpretavano come vera teoria fisica.

Nel 1312 Clemente V, nel Concilio di Vienne, aveva definito eretica qualunque teoria dell’anima avversante quella di Tommaso: ma l’anima era oggetto centrale sia nella filosofia naturale sia nella teologia cattolica. Se invece si assumeva la teoria copernicana come per tradizione si assumevano le teorie astronomiche, ossia come convenzione matematica, cancellando nel testo di Copernico le poche righe che avrebbero indotto a interpretarlo come una descrizione realistica dell’assetto dei cieli, la contrarietà alle Scritture sarebbe stata rimossa. Lo slittamento procedurale e lessicale dalla qualificazione di eresia formale proposta in Santo Uffizio, alla contrarietà alle Scritture evocata dall’Indice, il cui merito sarebbe stato attribuito fra gli altri a Barberini, consentì la correzione di Copernico, di fermare Galilei, risparmiandogli tuttavia un processo per eresia, e di salvare le relazioni con il governo di Firenze. Comunicando a questo la soluzione, lo stesso Galilei, che in altra sede l’aveva già paventata, la presentò come minimo compromesso. Non per caso nei decenni successivi da più parti si sarebbero sollevati dubbi sullo status dottrinale del copernicanesimo, affacciandosi interpretazioni secondo le quali la contrarietà di Copernico alle Scritture (secondo la comune interpretazione della Chiesa) non significava eresia, ma solo ‘temerarietà’: così Urbano VIII; o ‘scandalo’: come per il teologo e scienziato Marin Mersenne (1588-1648). Irritò i copernicani Ingoli, che nel De situ et quiete Terrae (1616), con cui polemizzò Kepler, suggerì che l’obbligo di tenere la teoria copernicana come convenzione di calcolo non riposava su ragioni solo teologiche, ma anche scientifiche. Seguì nel 1619 la proibizione dei primi volumi della Epitome astronomiae copernicanae di Kepler (non estesa tuttavia ad altre sue opere), mentre cresceva l’adesione dei gesuiti alla teoria geoeliocentrica del calvinista Brahe. Il paradosso di una sua riduzione al cattolicesimo, in un parere di Bellarmino (1620), permise che la sua opera, non vietata, fosse espurgata di riferimenti confessionali.

Il caso Galilei resta «luogo privilegiato» del confronto tra Chiesa e scienza moderna (P. Galluzzi, Il «caso Galileo», in Il processo a Galileo Galilei, 2010, pp. 3-16, in partic. p. 4). La legittimità teologica e giuridica della condanna del 1633, il ruolo di diversi attori, fra cui soprattutto Urbano VIII, e il manifestarsi nel caso di un atteggiamento verso i saperi profani che si sostiene radicato, continuato e intramontato nella Chiesa, suscitando critiche la stessa riconsiderazione del processo da parte della Santa Sede nel 1984-92, rappresentano ancor oggi le linee centrali del dibattito. Questo registra più che nuove acquisizioni rispetto a una documentazione peraltro lacunosa e controversa, la risistemazione e nuova interrogazione delle fonti note (I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741), 2009; Il processo a Galileo Galilei, 2010). La recente storiografia sul Santo Uffizio conferma la centralità del caso Galilei, ma lo colloca entro una migliorata conoscenza storica di quella istituzione e del suo contesto.

La diffusa impressione che il decreto dell’Indice fosse contingente e provvisorio indusse Galilei, che aveva intanto perso la simpatia dei matematici gesuiti nelle polemiche cometarie del 1618-19, a verificare la possibilità della sua revisione, e al riparo di questa proseguire nella ricerca di una prova fisica della teoria copernicana. La morte di Paolo V e di Bellarmino nel 1621, e il breve regno di Gregorio XV (1621-23), più favorevole alle scienze, lo riattrassero alle relazioni romane, in cui ruolo fondamentale ebbe il cardinale Maffeo Barberini. L’ascesa di questi al soglio papale, nel 1623, come Urbano VIII, e il legame dell’Accademia dei Lincei con il nuovo papa sembrarono agevolare il progetto. La censura approvò per mano di un ammiratore di Galilei, Niccolò Riccardi (1585-1639), la stampa a Roma del Saggiatore (1623), dura diatriba contro il gesuita Orazio Grassi (1583-1654), dedicata dai Lincei a Urbano VIII, che parve apprezzarla. Nel pontefice la vanità di studioso di scienze e di teologo si mescolò al disegno di riscattare la reputazione del papato presso gli scienziati europei. La correzione di Copernico, sempre più accolto in terra di Riforma, fu presentata come un argomento anticattolico, poiché aveva scandalizzato la scienza europea.

Nel 1624 Urbano dichiarò al cardinale Friedrich von Zollern che la teoria copernicana non era eretica, ma solo temeraria. Nel 1630 il papa avrebbe addirittura confidato a Campanella che se la decisione fosse dipesa interamente da lui, il decreto dell’Indice nel 1616 non si sarebbe fatto. Negli stessi anni la corte barberiniana salvò il Saggiatore da tentativi di deferire il libro al Santo Uffizio. Questi segnali incoraggiarono Galilei a riprendere la questione copernicana nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632), benché non vi fosse alcuna revisione dottrinale in corso, ma un’ambiguità di fondo. Secondo il papa il libro avrebbe dovuto costituire occasione apologetica della Santa Sede, offrendo una comparazione del sistema geocentrico e del copernicano e delle ragioni di entrambi. Qualunque ricerca della maggior validità di uno di quei sistemi sarebbe stata infine risolta da un argomento della teologia medievale fatto proprio dal papa e passato come ‘argomento di Urbano VIII’: la provvidenza divina può ottenere gli stessi effetti osservati, disponendo i corpi celesti in modo diverso da come è congetturato dall’uomo. A questi non è dato di attingere alcuna scienza definitiva del mondo, e quindi nessuna possibilità di articolare una teoria necessariamente vera. Si sarebbe pertanto dimostrato che da Roma non provenivano solo decreti per la salute dell’anima, ma anche competenti scienziati. Il papa avrebbe permesso a Galilei di trattare la teoria copernicana sempre come ipotesi di calcolo, e a condizione di dar risalto al ‘suo’ argomento, e al papato come promotore di scienza. Secondo Galilei il Dialogo avrebbe dovuto rappresentare invece un’occasione di apologia per la scienza cattolica, dimostrando che non per le ragioni accampate da Ingoli la Chiesa aveva ‘purgato’ Copernico, ma solo per fede nelle Scritture; decisione cui egli si inchinava, consapevole tuttavia del carattere di ipotesi fisica della teoria copernicana, suscettibile di una prova certa e necessaria, che individuava nel fenomeno delle maree.

Nelle procedure per la stampa del Dialogo a Roma si mobilitarono la diplomazia medicea, l’ambiente linceo e il circolo astrologico dell’abate Morandi, nel quale fu scelto il primo censore del manoscritto. Ma lo scandalo Morandi (diffusione di pronostici astrologici sulla morte del papa), nel quale rischiarono di restare impigliati anche Galilei e Campanella, la morte repentina di Cesi (1630), che avrebbe dovuto seguire la pubblicazione, e l’infuriare della peste indussero Galilei a trasferire la stampa a Firenze, dove all’imprimatur romano aggiunse quello della locale inquisizione. Benché il manoscritto avesse subito plurime letture, forse anche da parte del papa, e che il maestro del Sacro palazzo Riccardi, responsabile della censura a Roma, che mostrò alcune esitazioni, avesse trattato con l’inquisizione fiorentina, a stampa avvenuta i dettati di Urbano parvero disattesi o distorti. Il Dialogo fu sospeso e riesaminato, e si passò presto dalla contestazione dell’infrazione al decreto del 1616, per aver Galilei discorso del copernicanesimo come teoria fisica, alla riapertura del processo interrotto in quell’anno, poiché in Santo Uffizio si esibì il ritrovamento non solo del monito di Bellarmino del 26 febbraio 1616, ma anche, sullo stesso foglio, di una registrazione del precetto inquisitoriale, che si sostenne inflitto a Galilei nella stessa circostanza, a non trattare in nessun modo la teoria copernicana.

A Galilei fu imputato veemente sospetto di eresia per non aver notificato a Riccardi il monito e il precetto, e per aver infranto tanto il precetto, quanto il decreto dell’Indice, poiché il Dialogo era apparso difendere e sostenere come probabile l’ipotesi copernicana. Facendo intimare a Galilei di abiurare, e di mai più rinnovare la posizione copernicana a pena di essere ritenuto recidivo, Urbano VIII avrebbe infine definito implicitamente l’eliocentrismo eretico, dando forza giuridica al voto che i qualificatori del Santo Uffizio avevano formulato nel 1616 (cfr. F. Beretta, Galilei, Galileo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., 2° vol., p. 639). Del processo, in cui a Galilei fu minacciata ma risparmiata la tortura, e della sentenza che lo condannò all’abiura e alla prigione ad arbitrio del tribunale, una recente indagine (Frajese 2010) illumina come decisivo un elemento addotto dallo stesso Galilei, e che avrebbe fornito al tribunale, in mancanza di una definizione papale del copernicanesimo come eresia, il fondamento, o quanto meno l’aggravamento, del sospetto di eresia. Nel 1616, per fugare le voci che lo dicevano costretto ad abiura davanti a Bellarmino, egli aveva ottenuto dal cardinale l’attestazione di essere stato solo ammonito nei termini del decreto che l’Indice avrebbe di lì a poco emesso. Nel processo Galilei produsse il documento per convincere i giudici di non aver memoria di un precetto inquisitoriale, e di non aver comunicato a Riccardi il monito di Bellarmino, poiché esso non si discostava dal decreto dell’Indice. Ma il certificato di Bellarmino conteneva un passaggio nel quale si faceva riferimento a una dichiarazione di contrarietà dell’eliocentrismo alle Scritture pronunciata da Paolo V e pubblicata nel decreto dell’Indice. Il Santo Uffizio contestava a Galilei sospetto di eresia per aver trattato come teoria fisica una teoria che nel certificato (e solo in esso, poiché nel decreto dell’Indice non si menzionano dichiarazioni del papa) risultava definita da Paolo V come contraria alle Scritture; definizione, peraltro mancata, che veniva intesa come nota d’eresia. Lo slittamento lessicale che nel 1616 aveva permesso di salvare Galilei era ora riprodotto all’inverso, per perderlo. Nella sentenza fu inserito il voto dei qualificatori del 24 febbraio 1616, che al tempo era stato come insabbiato nella procedura riservata a Galilei per evitargli un processo.

Il papa volle che sentenza e abiura dello scienziato fossero notificati in tutta Europa. René Descartes rinviò per questo la pubblicazione del suo Du monde. Vietato dall’Indice il Dialogo, non fu tuttavia proibita l’edizione latina del 1635, e il divieto di quella del 1641 da parte del Santo Uffizio non fu pubblicato in nessun Indice. L’edizione bolognese del 1656 delle opere galileiane fu approvata, ma non incluse il Dialogo.

Dopo il caso Galilei

La politica inquisitoriale e censoria verso la scienza fra Sei e Settecento non fu ispirata da una valutazione teologica rinnovata del rapporto con la scienza, né le decisioni del 1616 e del 1633 fondarono una linea di pronunce solenni su teorie scientifiche. La cultura teologica e inquisitoriale che aveva reso possibili quelle decisioni continuò a motivare una sorveglianza in cui Santo Uffizio e censura ebbero spesso collaborazione con autorità secolari e universitarie, neppur mancando tuttavia, come nel caso del Regno di Napoli, resistenze politico-culturali e scontri giurisdizionali. La condanna di Galilei provocò l’immediata compressione delle tematiche cosmologiche, neppur solo in Italia, e inibì ai cattolici la riflessione personale sui rapporti tra scienza, teologia ed esegesi. Nelle discipline matematiche e naturalistico-sperimentali, anche all’interno di strutture pubbliche e di accademie a patronage politico o ecclesiastico, o degli Stati della Chiesa, che continuò a promuovere gli studi scientifici, quando non investivano questioni teologico-metafisiche di fondo, dalla fiorentina Accademia del Cimento all’Istituto delle scienze di Bologna, la scienza degli Stati italiani e il suo rapporto con la scienza europea restarono vitali; e fondamentale si mantenne il contributo alle scienze di alcuni ordini religiosi. Una carriera come quella di Giovanni Domenico Cassini, fra i massimi astronomi del tempo, professore a Bologna e poi direttore dell’Osservatorio di Parigi, ma celebrato anche in patria, può simboleggiare il carattere della scienza nella penisola, che pur conservandosi autorevole e vivace, non conobbe lo sviluppo anche politico-sociale e le conseguenze tecnologiche che altri Paesi europei, protestanti e non, per ragioni storiche non riducibili al contesto religioso, dimostrarono fra il tardo Seicento e gli inizi del 19° secolo. La tradizione galileiana, ricca di personalità e di progressi, si perpetuò nonostante condizionamenti spesso deplorati, che indussero a compromessi, dissimulazione, autocensura, tendenti a evitare impegnative prese di posizione soprattutto sul piano cosmologico e sulla concezione della materia.

Nella mediazione con le gerarchie ecclesiastiche si resero interpreti anche esponenti di rilievo di quella scuola. Si pensi al convergere di valore matematico, perizia teologica e lavoro di censore in Michelangelo Ricci (1619-1682), scolaro di Evangelista Torricelli, consultore dell’Indice, creato cardinale nel 1681, e protagonista del tentativo, nella Roma del tardo Seicento, di una promozione dell’atomismo contrastata dal Santo Uffizio. Benché sullo sfondo di una generale crisi organizzativa della censura, si infittirono i divieti di libri filosofici; talvolta tardivi e parziali, spesso decisi in Santo Uffizio, invece che dall’Indice, e non di rado successivi a proibizioni di parte protestante, e che riguardarono, fra le altre, opere di Francis Bacon, Descartes, Hobbes, Baruch Spinoza (1632-1677), Locke, ma non Pierre Gassendi (1592-1655), né Gottfried W. von Leibniz (1646-1716). Quei divieti non rispondevano a un’aggiornata strategia, nella perdurante vigenza della Apostolici regiminis, ma a cause e contesti di volta in volta diversi. Il divieto di Spinoza, per es., fu provocato nel 1677 dalla denuncia del suo ex allievo danese, convertitosi al cattolicesimo, Niels Steensen (1638-1686), poi vescovo, e dal 1988 beato della Chiesa cattolica, uno dei maggiori scienziati stranieri operanti in Italia, e tra i fondatori della moderna geologia.

Ma né quei divieti né altri fermarono il declino dell’egemonia aristotelica in campo scientifico. Questo contribuì al lento processo di depenalizzazione dell’eliocentrismo, correlativo alla comunque inarrestabile, progressiva affermazione dello stesso anche fra gli scienziati ecclesiastici: nel 1695 a un monaco belga che lo professava a Roma, non fu inflitta l’abiura, ma un monito inquisitoriale. L’edizione del Dialogo di Galilei stampata clandestinamente a Napoli nel 1710 con il falso luogo di Firenze, che riportava sentenza e abiura, non fu esplicitamente proibita. Nel 1744 padre Giuseppe Toaldo (1719-1797) poté infine rieditare le opere dello scienziato, sempre ripubblicando sentenza e abiura. Anche a prezzo di contrasti in curia, dove pure si discusse sulla riabilitazione, previa expurgatio, di testi moderni fin lì proibiti, nel 1758 fu abrogato il divieto dei libri trattanti l’eliocentrismo come teoria fisica. Solo nel 1835 si cancellarono dall’Indice le opere di Copernico, Galilei e Kepler che erano state vietate.

La cosmologia di Newton, le cui opere, al pari di quelle di seguaci e illustratori, non furono proibite, fu colpita nel divulgatore Francesco Algarotti nel 1739, poiché l’associava a quel sensismo che la censura aveva già condannato in Locke. Più in generale, la cultura scientifica inglese fu perseguita in autori che ne sviluppavano tesi deistiche o libertine, del resto contrastate anche nel loro Paese d’origine. Newton eliminava la problematica del centro dell’universo e delle sue conseguenze rispetto alle Scritture, il che favorì, soprattutto attraverso importanti personalità del clero e di alcuni ordini religiosi, il successo del newtonismo in Italia, con simmetrico declino del cartesianismo. Quest’ultimo era stato combattuto dall’Inquisizione, per es. nella Napoli dell’Accademia degli Investiganti, non perché il pensiero cartesiano fosse accusato in sé di eresia, ma perché contrastante con la teologia e la filosofica scolastica, pericoloso rispetto alla sistemazione tridentina del mistero eucaristico, e per gli intrecci che nella sua ricezione in Italia se ne avvertivano con la cultura regalistica, materialistica e libertina. Fra 17° e 18° sec., le misure censorie su temi e libri cosmologici appaiono, tuttavia, sempre più rare rispetto all’ampia diffusione di opere dedicate alla dimostrazione fisica della struttura eliocentrica e allo studio del sistema solare.

Per altro verso, l’affermazione del corpuscolarismo ispirò iniziative inquisitoriali di contenimento, con riguardo in primo luogo alle conseguenze di quella teoria rispetto alla dottrina tridentina dell’eucarestia, ritenuta peraltro opinabile nel suo legame con la metafisica aristotelica proprio in ambienti ecclesiastici, ma con attenzione anche ai circoli professionali, alle università e ad ambienti come la Napoli del processo agli ‘ateisti’ (1688-1697), percorsa dal pensiero libertino e da tensioni anticuriali. Il decreto copernicano del 1616 si mantenne un’eccezione, nel senso che Roma non adottò pronunce solenni per l’atomismo, né per altre teorie. Alla proibizione nel 1718 della traduzione italiana del De rerum natura di Lucrezio fece riscontro il fallimento di quanti si opposero alla pubblicazione a Firenze, nel 1727, degli Opera omnia di Gassendi, che d’altra parte presentava una versione cristianizzata dell’atomismo. Non sono poi apparsi più che sporadici e tardivi i divieti di libri trattanti altri temi o indirizzi della ricerca, dal vitalismo paracelsista sanzionato in Sebastiano Bartoli nel secondo Seicento, alla geologia storica, come nel caso di Thomas Burnet, vietato con molto ritardo nel 1737, al meccanicismo biologico e fisiologico, interessato dai divieti per Julien Offray de La Mettrie e Paul Henri Dietrich barone d’Holbach nel 1770 (Baldini 2001, 20032).

Studi di storia della Terra e della natura, cosmogonia, cronologia, paleontologia, contrastavano la lettera biblica e le visioni su questa fondate, ma la reazione ecclesiastica fu limitata, né ispirò prese di posizione generali. Censura e Inquisizione, misurandosi con l’accentuato declino della loro efficacia, che indusse Benedetto XIV a una riforma della censura (1753), condussero battaglie, nel ‘secolo dei lumi’, anche su fronti di indiretto legame con le scienze, a contrasto, entro lo stesso clero, della libertà filosofica, della revisione della teologia ed esegesi tridentine, di studi biblici innovativi, di teologie e metodi di provenienza riformata, perseguiti, per es., nei casi del giovane Celestino Galiani, futuro rettore dell’Università di Napoli, e del suo protetto l’abate Antonio Genovesi, che peraltro riuscirono a ravvivare la memoria del galileismo e a favorire la fortuna di lockismo e newtonismo. Del pari elevata ma assai modesta nei risultati fu la reazione all’Illuminismo, fenomeno culturale fondamentale nella promozione della scienza, con divieti rivolti tuttavia prevalentemente a testi di materialismo e naturalismo religioso ed etico-politico, e della letteratura anticuriale; reazione culminata, nel 1759, nel divieto, in un contesto culturale e politico ormai profondamente mutato, dell’Encyclopédie.

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