Invidia

Dizionario di Medicina (2010)

invidia


Sentimento penoso, spesso incontrollabile, di diversa intensità ed espressione, che oscilla dalla semplice ostilità e malevolenza sino all’avversione più violenta e distruttiva verso chi possiede ciò che l’invidioso brama e pensa di non poter mai acquisire. L’i. nasce dal confronto con qualcuno rispetto al quale il soggetto si sente in una posizione svantaggiata. Nella teoria psicoanalitica l’i. è menzionata nel concetto freudiano di i. del pene, ma si devono a Melanie Klein e alla sua scuola un’accurata teorizzazione e un ampliamento del significato e della posizione che l’i. occupa nello sviluppo e nella vita psichica.

L’invidia del pene

L’ i. del pene, secondo Freud, sorge nella bambina in seguito alla scoperta della differenza anatomica dei sessi ed è la manifestazione del complesso di castrazione. Come se fosse stata privata del pene, la bambina si sente menomata rispetto al maschietto e desidera possedere un pene come lui. Durante il complesso di Edipo (➔), il desiderio della bambina verso il padre è originariamente il desiderio di avere da lui il pene di cui la madre non l’ha provvista. La condizione di femminilità si costituisce quando il desiderio del pene è sostituito, come in un’equivalenza simbolica, dal desiderio di avere un bambino e dal desiderio di godere del pene nel rapporto sessuale. Secondo Sigmund Freud, l’i. del pene non sarebbe mai completamente superata, ma persisterebbe nell’inconscio e sarebbe rintracciabile nei sintomi nevrotici della donna. I contributi psicoanalitici successivi e più recenti hanno duramente criticato tali ipotesi circa il processo di sviluppo maschile e femminile, mettendo in luce che la femminilità ha un suo specifico percorso evolutivo e non deriva da una mascolinità primaria delusa, né dall’i. del pene.

L’invidia nella teoria di Melanie Klein

Nel testo Invidia e gratitudine (1969), Klein ritiene l’i. una passione primitiva e basilare, potenzialmente molto distruttiva, tanto che la considera come un’espressione diretta della pulsione di morte (➔ pulsioni), in conflitto fin dalla nascita con la pulsione di vita. Ogni esperienza di separazione, mancanza o frustrazione priva il piccolo della condizione di benessere e sicurezza assicurata dall’unione totale con la madre. Ne deriverebbe il vissuto (nel linguaggio kleiniano «la fantasia inconscia») di qualcuno che possiede un bene prezioso (il seno nutriente) ma lo nega malignamente. Il bambino reagirebbe allora con rabbia, voracità, fantasie di violenza distruttrice: affetti primitivi che incrementano il malessere e – secondo il meccanismo di difesa della scissione e proiezione – fanno temere una rappresaglia da parte dell’oggetto. Così il ‘seno buono’ si trasforma in ‘seno cattivo’, fonte di angosce persecutorie. In questa prima fase della vita il bambino non è in grado di percepire le persone come oggetti (➔ oggetto/ soggetto) interi, ma si relaziona con oggetti ‘parziali’. La parte, il seno che nutre, è tutto ciò che per lui esiste, in relazione alle sue proprie sensazioni corporee ed emotive.

Il seno buono e il seno cattivo

Nel linguaggio kleiniano le espressioni «seno buono» e «seno cattivo» non sono utilizzate per indicare semplicemente la mammella e l’esperienza concreta dell’allattamento, ma per definire metaforicamente le esperienze psicofisiche ed emotive connesse al rapporto primitivo. Il modello teorico kleiniano differisce sostanzialmente da quello freudiano poiché esplora i livelli precoci, preedipici, preverbali del funzionamento della mente. Contrariamente all’ipotesi freudiana dell’i. del pene, di fronte all’i. del seno maschi e femmine sono uguali, entrambi sopraffatti dallo strapotere della madre. L’attacco invidioso mira in fantasia a depredare il seno delle sue prerogative e a impossessarsene; ma anche a danneggiarlo per renderlo meno invidiabile e placare così il proprio sentimento di umiliazione e pochezza. La fantasia di averlo distrutto o trasformato in un seno cattivo inutilizzabile suscita però ulteriori angosce. Secondo Melanie Klein, la diversa intensità dell’i. è un tratto costituzionale solo parzialmente influenzabile dal comportamento dell’ambiente, anche se le esperienze di godimento, di appagamento suscitano la gratitudine, placano l’i. e gli impulsi distruttivi e alimentano la capacità di amare.

L’invidia nell’età adulta

Nella vita adulta, i sentimenti invidiosi si fanno più articolati e complessi, ma comunque ricalcano questo schema relazionale. L’i. è davvero una passione distruttiva, poiché chi ne patisce non solo vorrebbe per sé tutte le cose buone e preziose che immagina di vedere in un’altra persona, ma può arrivare a cercare di distruggere l’altro per difendersi dal vissuto penoso di umiliazione narcisistica e di mancanza. Infatti, nella situazione della terapia psicoanalitica, ma anche nella vita quotidiana, ciascuno ha una fortissima resistenza a riconoscere i propri sentimenti invidiosi; se ne difende con meccanismi come la scissione, la proiezione («non sono io a essere invidioso, ma gli altri invidiano me»), la svalutazione dell’altro, il tentativo di distruggere chi attenta all’immagine narcisistica di sé. L’i. va distinta dalla gelosia, che è un sentimento più evoluto, in una dimensione triangolare di rivalità e confronto.

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