IPERTENSIONE ARTERIOSA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

IPERTENSIONE ARTERIOSA (XIX, p. 480; App. II, 11, p. 61)

Mario COPPO

In tema di patogenesi e di nosografia dell'i. arteriale non vi sono molte cose da aggiungere a quanto era noto dieci anni fa. Nel capitolo della i. a. secondaria, è opportuno precisare che alcune situazioni identificate dapprima quali meccanismi patogenetici dell'i. primaria o essenziale, sono oggi classificate nella casistica dell'ipertensione sintomatica o secondaria. Questo è il caso della i. a. da rene ischemico funzionante, con aspetti simili all'i. sperimentale secondo il Goldblatt, per es. per trombosi dell'arteria renale in reni variamente lesi (rene malformato, rene tubercolare a mastice, ecc.). É questo il caso della i. a. da feocromocitoma nonadrenalinico, in rapporto con l'interpretazione non-adrenalinica della patogenesi dell'ipertensione essenziale.

Nel capitolo dell'i. a. primaria o primitiva o essenziale, tengono il campo le due sue forme cliniche: la benigna o i. a. essenziale o semplice e la maligna o malattia vascolare ipertensiva o ipertensione primitiva arteriolopatica. È grave e non risolto problema, la definizione della loro particolare natura e delle possibilità e delle cause del trasformarsi della i. a. benigna in maligna ed eventualmente del recedere, spontaneo o artificialmente indotto, della i. a. maligna in benigna. Su questo argomento, di grande importanza dottrinale e terapeutica, non sembra accettabile il semplice asserto, che la sola quantità dell'i., intesa come somma della sua durata e del suo grado (specialmente della tensione "minima" o diastolica) determini il carattere benigno o maligno dell'evoluzione clinica. Se è vero che l'iperteso essenziale "benigno" può essere definito un soggetto normale, salvo i valori manometrici della sua tensione arteriosa, può ben dirsi che l'iperteso "maligno" è un arteriolopatico con lesioni tessutali evolutive, qualunque valore di tensione arteriosa il soggetto presenti al manometro.

La diagnosi diffenziale fra queste forme, si pone infatti in base al valore della tensione "minima" (oltre 150 mm Hg, l'i. è pericolosa), ma soprattutto si fonda sui segni urologici, neurologici, oftalmici, elettrocardiografici, ecc., di lesione arteriolo-tessutale. Non è facile però, di fronte ai casi particolari d'i. a., porre un giudizio tassativo sul loro destino, nel senso dell'affermazione o dell'esclusione della loro definitiva benignità.

La diagnosi patogenetica individuale, si giova di molti tests sia di base, sia di funzione e reazione. Accenniamo al dosaggio delle catecolamine nel sangue e nell'urina; alla pielografia e alle prove funzionali per il rene; alle prove farmacodinamiche e funzionali, che si eseguono sperimentando nel singolo caso l'effetto pressorio dell'immersione del gomito nell'acqua fredda, dell'emozione, dell'ortostatismo, del fumare, della febbre, del serpasil, del regitin, dell'istamina, dell'idergina, dei ganglioplegici, ecc. È evidente come da tale complesso di risultati, dopo prove scelte con criterio clinico individualizzatore, sia possibile costruire una interpretazione patogenetica soddisfacente, che è la premessa per un programma di cure individualizzato al massimo e perciò offerente le maggiori probabilità di buon esito.

Quanto alla terapia, ai primi successi della cura chirurgica secondo lo Smithwick, non è seguita un'estensione del metodo, ma una sua progressiva limitazione, sia per l'incostanza del risultato emodinamico, sia per gli effetti collaterali sfavorevoli dell'intervento, sia per l'evoluzione maligna di alcuni casi, non ostante la caduta dei valori della tensione arteriosa, prodotta dall'intervento, sia, infine per la possibilità di ottenere risultati corrispondenti con la farmacoterapia oggi in uso. Questa infatti si è molto arricchita. Le norme igieniche e soprattutto la difesa dall'ansietà conservano però immodificato il loro grande valore. La dieta serve ad escludere l'obesità e dev'essere asodica o iposodica, secondo le esigenze del caso. La desodificazione può essere completata con l'uso di idroclortiazide, che è entrato nella terapia dell'i. a., e concede all'iperteso l'uso di una dieta meno sgradevole di quella originale stabilita dal Kempner (riso, frutta, zucchero), inadatta ad una osservanza perdurante indefinitamente.

I farmaci, che s'usano oggi con successo nella cura dell'i. a., sono classificabili secondo il loro punto d'attacco sul meccanismo ipertensiogeno. Il meprobamato di sodio e i promazinici, cioè sostanze ad effetto psicoplegico e tranquillante (anti-ansia), sono utili in molti casi di i. a. essenzialmente psicogena. L'ipnoterapia è efficace: corrisponde ad osservazioni antiche la caduta dell'i. a. durante la narcosi, più per l'effetto distensivo dell'incoscienza, che per quello farmacospecifico della sostanza narcotizzatrice. Un posto di primissimo ordine ha conquistato la reserpina, attualmente usatissima nella terapia dell'i. a., che agirebbe prevalentemente a livello diencefalico. L'idrazinoftalazina svolge la sua azione con attacco centrale, ma con effetto soprattutto di dilatazione arteriolare renale. La protoveratrina agisce sui centri parasimpatici. Sulle vie simpatiche conduttrici di impulsi adrenergici arteriolo-costrittori agisce invece, con effetto simpatico-litico, l'idergina.

Un vasto gruppo di medicamenti è idoneo a bloccare la funzione dei ganglî neurovegetativi periferici e specialmente di quelli che regolano il tono costrittore del circolo arteriale splancnico: tali sono i ganglioplegici, ai quali si deve una gangliectomia "chimica" equivalente sotto molti riguardi alla gangliectomia chirurgica. Tra i ganglioplegi s'usano il pendiomid, il tartrato di pentolinio, la mecamilamina ed altre sostanze, secondo un continuo rinnovamento e perfezionamento di formule, che rendono testimonianza dell'imperfezione dei risultati clinici ottenuti finora. L'uso terapeutico dei ganglioplegici implica la piena conoscenza dei loro effetti sulla tensione arteriosa, sulla sua regolazione, sui moti intestinali ecc. Gli inconvenienti nel loro uso possono essere notevoli, proprio per la consistenza dell'effetto ipotensivo. La tensione arteriosa dev'essere controllata, per giudicare dell'effetto ottenuto e dell'entità delle dosi, col paziente diritto in piedi e fermo. In queste condizioni non è eccezionale constatare una rapida e cospicua caduta dei valori di tensione sanguigna, fino alla lipotimia.

Con la moderna farmacoterapia l'i. può essere abbattuta: da questo fatto sono sorti limiti precisi per il suo uso, per la pericolosità di questo effetto, in tutti i casi nei quali l'aumento pressorio sia giustificato finalisticamente (dall'aumento delle resistenze arteriali periferiche, dalla durezza del filtro renale, ecc.) oppure corrisponda ad un equilibrio ormai annoso, in un soggetto presumibilmente povero di "capacità di adattamento". Sono ben note le conseguenze trombogene della caduta di tensione con rallentamento circolatorio, in soggetti con gravi lesioni atero-arteriosclerotiche.

È pacifico che la modema terapia dell'i. a. ha migliorato la prognosi della malattia, non tanto però nel senso di una sicura prevenzione o della sicura regressione dell'i. maligna, quanto piuttosto in quello dell'eliminazione dei disturbi soggettivi, della riduzione sia dei valori tensivi molto elevati, sia della preoccupazione che essi mantengono nell'iperteso. Le complicazioni sono meno probabili, se il malato osserva stabilmente le norme igieniche e dietetiche e si cura con sufficiente assiduità.

Bibl.: Ciba Foundation Symposium, Hypertension. Humoral and neurogenic factors, Londra 1954; F.H. Smirk, High arterial pressure, Oxford 1957; Symposium on medical treatment of hypertension, in Proc. Staff. Meet. Mayo Clinic, XXXIII (1958), pp. 307-330; A. Beretta, Malattie dell'apparato circolatorio, Torino 1959; Les traitements de l'hypertension artérielle, articolo editoriale in Revue du Praticien, X (1960), pp. 125-189.

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