CHIZZOLA, Ippolito

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CHIZZOLA, Ippolito

Valerio Marchetti

Nato a Brescia nel 1521 circa da una famiglia gentilizia, fu canonico regolare lateranense in S. Afra. Settimodei nove figli di Giovanni, dottore di legge, e di Chiara (di. cui non sappiamo il casato di provenienza), all'età, di dodici o tredici anni era stato messo nel convento di S. Salvatore dove venne avviato agli studi teologici e dove prese gli ordini sacri (1539). I repertori disponibili sono unanimi nel tramandare la sua specializzazione professionale "nella fonzione apostolica della predicazione".

Un'attività amplificata inoltre dal fatto che alcuni eruditi locali - non tenendo conto dell'avvertenza del Rossi - gli ascrivono anche le Prediche compilate da un omonimo molto impegnato nel lavoro religioso intorno al 1620 e che per molti aspetti si presenta come un erede dell'impostazione che il C. aveva dato al tema della persuasione. Di questo omonimo va segnalato-il terzo libro: Sagri concetti, orditi et intesciuti sopra la gran tela de' vagneli domenicali di tutto l'anno, estratti ... dalli profondi et limpidissimi fonti delle theologie, scolastica et positiva, et dalle scienze recondite et umane, G. B. Bozzola, Brescia 1623 - si tratta infatti di un testo fondamentale sia per la comprensione della svolta secentesca imposta alla storia del genere sermocinale; sia per la definizione della ristrutturazione complessiva della topica teologica dopo la Controriforma. Esso riprende - in modo sistematico - alcune tecniche già adottate dal C. nella sua lotta contro la Riforma.

Se è certamente sbagliato affermare, che lo spazio della predicazione del C. fu quello europeo ("ottenne i più famosi pulpiti d'Europa": Rossi, p. 350) e dire che la sua attività coprì gran parte del territorio italiano ("fu sopra i più famosi pergami d'Italia": Ghilini, p. M), non è però esagerato instaurare un rapporto molto stretto tra la dimensione e l'estensione del suo impegno professionale e le esigenze della politica religiosa degli Stati italiani settentrionali negli anni Cinquanta ("fu caro a molti principi": Rossi, p. 350). Lo testimoniano la sua costante presenza in città chiave dell'azione controriformistica (Pavia, Mantova, Cremona) e la strumentazione con cui sono elaborate le sue prediche, le quali fondono in un nuovo modello di stile gli elementi dei discorso politico e di quello religioso. Non si poteva infatti ornial piùpermettere la loro fluttuanza sociale separata (e meno che mai antagonistica come nell'affioramento ereticale) per la pericolosità che presentava la contrapposizione di politico e religioso. Né, d'altra parte, si poteva ancora proporre la loro brutale giustapposizione in nome della ragion di Stato. Bisognava inventare un nuovo livello di specularità reciproca e le prediche del C. occupano proprio questo spazio produttivo di società che il laboratorio retorico del predicatore, il quale possiede la tecnica di garantire al potere la proprietà della parola.

Da notare che un legame particolare è quello che il C. instaurò con i signori Gonzaga: con Ferrante che durante una predicazione mantovana aveva ripetutamente insistito perché i sermoni recitati al "popolo fossero raccolti" per beneficio commune con Francesco (al quale avrebbe dovuto anche servire quando questi si recò a Padova per compiervi gli studi universitari se non fossero sopraggiunti "accidenti di fortuna") che, dopo la morte del padre, ne aveva cornanda o la pubblicazione, venuta infatti "in luce sotto il suo nome".

È difficile ricostruire, con qualche buon margine di approssimazione, la effettiva implicazione del C. come militante nella storia della Riforma protestante in Italia. Stando ai pochi frammenti che ci restano, possiamo solo dire che "dapprima", cioè nella seconda metà degli anni Quaranta, "si lasciò sedurre dai principi, ereticali". (Santini, p. 43). Noi sappiamo che nel Compendium dei processi celebrati davanti al S. Uffizio romano viene citato tra i dissenzienti religiosi insieme con il card. Federigo Fregoso inquisito "post mortem". Secondo una fonte di parte riformata (P. P. Vergerio), il C. si "scoprì" a Venezia, durante un ciclo di predicazione, e venne sottoposto a un procedimento inquisitoriale dal quale uscì con una ritrattazione. E siccome nelle opere a stampa dei C., tutte successive a questa pubblica denuncia vergeriana, non si trova mai alcuna contestazione del fatto citato, si può agevolmente ammettere che -in linea di massima - esso sia esatto. Secondo una fonte di parte cattolica (G. Muzio) concordante con quella evangelica il C., avendo accettati i principl della Riforma e avendo deciso di propagandarli attraverso lo strumento di comunicazione di massa che possedeva, cominciò a divulgarli dal pulpito veneziano finché l'articolazione periferica del controllo religioso (il S. Uffizio veneziano) non si accorse della deviazione e quindi provvide a far pervenire al centro l'accusa di "malsana dottrina". Chiamato a Roma il C. vi andò, ma non volle riconoscere la colpa "per non si essere egli mai scopertamente lasciato intendere" (Muzio, p. 146). Convinto infine del proprio errore, dichiarò il suo pentimento e tornò a Venezia "dove egli haveva serninato la mala semenza per isterpare quella e per riporvi la buona" (ibid.).

Se fosse giusta l'identificazione, proposta superficialmente dal Church e accettata acriticamente dal Paschini, di "quell'eretico" di Brescia (cui fa riferimento la lettera inviata il 22 nov. 1550 dal Senato veneziano al proprio ambasciatore presso il papa) con il C., il processo e la condanna sarebbero avvenuti a Venezia nell'estate-autunno del 1550. In realtà il personaggio di cui si parla nell'epistola è senza alcun dubbio il prete bresciano Francesco Calcagno, che venne appunto spretato a Venezia e quindi condannato alla pena capitale da eseguirsi nella sua città natale. La ricerca condotta dal Rivoire sulla storia della Riforma a Brescia ha provveduto a fare molta chiarezza sull'intera vicenda attraverso il ritrovamento e l'esibizione di nuovi documenti ancora inediti (le copie dei costituti inquisitoriali romani conservati in sede locale) che ci permettono di riassumere il percorso del C. tra i dissenzienti e il modo nel quale ne uscì per diventare uno dei maggiori esponenti della Controriforma in senso stretto.

Il primo tentativo di fare un uso riformato della predicazione cattolica (la quale si stava appunto ristrutturando sulla base dell'innovazione protestante della "parola") il C. lo attuò nel marzo del 1548 nella città di Cremona dove era stato inviato a curare il ciclo quaresimale. Nel sermone dei martedì . santo fu infatti avvertita una dissonanza e al giovane canonico venne inflitta una censura per l'enunciazione di idee religiose troppo "audaci". Il secondo tentativo, organizzato forse con maggiore determinazione e raggio d'azione, qbbe luogo l'anno successivo in occasione della predicazione quaresimale a Venezia. Le tre chiese nelle quali il C. tenne i suoi sermoni (che lasciarono "alcuni predicatori vechi senza auditori" secondo la testimonianza già raccolta dal Buschbell) furono: S. Maria della Carità, S. Daniele, Ognissanti (i costituti ne danno il calendario). Il prelievo della predicazione, a c. dei teologi preposti al controllo degli strumenti di comunicazione orale, indicò tendenze non allineate alla dottrina cattolica in materia di purgatorio, confessione, intercessione. Il risultato dell'inchiesta venne reso noto quando ormai il C. aveva lasciato Venezia per Imola, dove appunto G. Seripando lo informò della situazione. Il C. decise di organizzare la propria difesa partendo immediatamente alla volta di Roma (dove era alla fine di giugno) per dare personalmente conto agli inquisitori della propria posizione. Il processo cominciò in luglio e occupò anche la prima metà del mese di agosto nel palazzo del procuratore fiscale Niccolò Farfani sotto la direzione di padre Teofilo, esperto di teologia e commissario inquisitoriale delegato a trattare il caso. La linea di difesa del C. restò immutata per quasi due anni e venne modificata solo dopo la comunicazione della clamorosa fuga all'estero del suo confratello Celso Martinengo. Alla fine del 1551 riconobbe i propri errori, si dichiarò pentitò di quanto aveva affermato, chiese di essere reintegrato nella sua funzione dopo essere stato riammesso nella Chiesa.

La seconda fase della vita del C., interamente dedicata alla lotta contro le idee alle quali aveva aderito e che aveva ritrattato, ebbe inizio a Venezia, "dove aveva sparso il veleno", nel febbraio del 1552 e cominciò con un gesto clamoroso alla presenza del"nunzio apostolico contornato da quattro vescovi e alti prelati: "pubblicò spontaneamente in più predicazioni dal pergamo l'abiurazione da sé fatta privatamente in Roma" come scrive il Fontanini nel suo ritratto.

Il punto di partenza dell'azione controversistica del C. attraverso la parola scritta, attività che contrassegna la terza fase della sua vita, va collocato nella divulgazione del secondo Catalogo del Vergerio (1539). Il C. infatti viene citato - insieme con G. B. Scoto bolognese - tra coloro i quali erano stati non solo "rinnegatori" della verità che avevano conosciuto ed accettato, ma anche e soprattutto "persecutori" dei loro vecchi compagni di fede una volta ritornati tra i "papisti".

Il primo libro pubblicato dal C. è Discorsi per confutar le particolari heresie, edito a Venezia nel 1562 per i tipi di A. Arrivabene.

È diviso in due parti. Nella prima trovano posto centoquarantadue discorsi che, rispondendo al programma indicato dal titolo del libro, cercano di dare una sistemazione dottrinile, dal punto di vista cattolico, all'emergenza riformata nell'Europa cinquecentesca, senza però conseguire risultati degni di particolare rilievo. Nella seconda parte vengono invece collocati sette discorsi propositivi provenienti direttamente dalla predicazione o che comunque meno risentono della (precedente o conseguente) elaborazione scritta. I primi tre affrontano i seguenti temi classici della controversia: la giustificazione dell'uorno e il rapporto tra fede e opere; i meriti di Cristo "per rispetto della vita eterna"; la predestinazione e il libero arbitrio in relazione alla salvezza. Particolare spazio e rilevanza hanno i soggetti dedicatì ai santi nel quadro dell'ideologia cattolica della mediazione tra l'uomo e Dio. Gli altri tre discorsi seguenti trattano infatti: del culto dei santi e dell'invocazione del loro nome nella economia della salvezza; del posto delle reliquie dei testimoni e dei martiri nella pietà dei credente; della funzione della figurazione nella formazione di un immaginario religioso. Conclude il libro il discorso settimo che contiene un'apologia dei purgatorio. La dedicatoria a Francesco Gonzaga, al di là della scontata proliferazione dei luoghi comuni che caratterizzano la struttura del "dedicare" (topoi che però acquistano spessore se vengono collocati nel disegno strategico cattolico di "adornamento" della verità cristiana con gli "splendori" del potere politico-religioso per più facilmente "illuminar le menti"), presenta alcuni frammenti di un "discorso" di qualche interesse per impostare il problema del rispecchiamento del politico nel teologico durante Petà della Riforma e della Controriforma. Basta segnalare quello che si riferisce al rapporto tra l'uso delle "armi" nella lotta contro gli Stati protestanti, la e riduzione "di" quelle nazioni straniere le quali son accecate nelle loro false opinioni s, la "recuperatione" delle e anime eretiche, al fine di dare loro la possibilità della "salvezza eterna".

Tra l'agosto del 1561 e i primi mesi del 1562 erano usciti, entrando rapidamente in circolazione nei territori grigioni e quindi dilagando in quelli italiani, tre opuscoli polemici del Vergerio che avevano per oggetto il problema dell'autorità dei papa e quello della legittimità della convocazione pontificia del concilio. I tre opuscoli sono redatti sotto forma di epistole: All'illustrissimo ... signor Ercole Gonzaga, [Tubinga] 1561; All'illustrissimo cardinale di Trento, [Tubinga 1562]; Ai reverendissimi vescovi congregati a Trento, [Tubinga 1562]. L'attacco vergeriano era di estrema violenza e imponeva l'organizzazione di una controffensiva cattolica. Che venne infatti data immediatamente per iscritto dal C. nella Risposta ... alle bestemmie et maldicenze contenute in tre scritti di Paolo Vergerio contra l'indittione del concilio pubblicata da papa Pio'quarto. Venezia, A. Arrivabene, 1562.

L'obbiettivo dell'intervento era quello di dimostrare, "con l'autorità della scrittura sacra, del concili et del dottori" della Chiesa, che non aveva alcuna consistenza la "moderna eresia" che si era levata contro la tradizione cattolica e che i suoi fautori non avevano alcuna ragione di contestare "l'ordine osservato" nella convocazione e andamento dell'"ecumenico tridentino concilio". La dedicatoria, datata Venezia il 10 luglio del 1562, è per il cardinale Carlo Borromeo, sintomo evidente dell'area nella quale collocare l'intervento del predicatore. Il C. vi traccia il seguente schema sulla causa e l'origine del suo scritto: di fronte all'offesa della "maestà" divina, che facevano le "perverse opinioni" contenute negli opuscoli vergeriani, aveva reputato necessario l'esercizio della "forza" teologica e dell'"ingegno" letterario per impedire l'"infezione" di quelle anime che si conservano "nella bontà et purità loro et nel candor della fede". Dunque, aveva realisticamente preso "animo di rispondere" non perché avesse la presunzione di recuperare il Vergerio, ma perché sentiva il dovere inerente alla propria "professione" nella Chiesa di "giovare al gregge". Con questo proposito era giunto alla decisione di pubblicare la sua Risposta appoggiandola alla "virtù et autorità" del Borromeo.

La prefazione al lettore ha invece un'altra rilevanza. Essa ha il compito di "giustificare" l'uso della lingua italiana in una materia sacra che tradizionalmente comporta l'espressione latina, anche per il luogo ristretto della sua circolazione. Mettendosi "quasi in forma di dialogo" (un'espressione di estremo interesse) il C. esibisce un argomento di questo tipo: "Volendo rispondere ad huomo italiano, che ha scritto nella sua lingua ad altri italiani, son stato spinto anchio a servare il medesimo idioma". L'argomento portato spiega solo limitatamente la decisione presa. Il fatto è piuttosto che il C. aveva ormai adottato strategicamente la lingua italiana nella comunicazione orale e scritta roveseiando a favore del cattolicesimo una lezione dei protestantesimo. La sua Risposta infatti non è né pensata in latino, al modo che facevano alcuni detentori della scienza intorno a Dio che non avevano ancora affrontato il problema del nuovo stile da dare alla controversia di massa e che si attardavano su modelli di comunicazione ormai arretrati e perdenti, né organizzata seguendo le regole tradizionali della composizione del testo teologico. Essa è costruita interamente utilizzando lo schema dei "pulpito": e come gesto e come parola. Gesti e parole che procedono per accumulazioni di reperti altamente convincenti e persuasivi indipendentemente dalle "fonti" (Scrittura, Padri, concili), le cui citazioni non si presentano solo sotto la formsi di astratte "autorità" ma sono esse stesse rese "autoritarie" per come sono inserite e fuse nel procedimento stilistico, che si autonomizza dal contenuto di "verità" per divenire esso stesso strumento di produzione di "verità". Interessante è l'analisi della preoccupazione di "parzialità" che il lettore potrebbe muovere all'autore: qualcuno potrebbe infatti sempre pensare (non conoscendo il testo a fronte) che il "cattolico" abbia risposto solo a quegli argomenti che gli tornavano più comodi e "non a quello che più importa e che esso dice". Per questo motivo il C. dichiara di aver sempre citato alla lettera le parole dell'avversario mettendo i suoi passi come preliminari ad ogni trattazione particolare e di aver quindi aggiunto la sua risposta. Il risultato grafico del libro non si discosta certamente per questo da una prassi ancora corrente tra i teologi di riportare integralmente il passaggio da sottoporre a confutazione come garanzia di obbiettività e di aggiustarvi di seguito la propria risposta. Quello che importa, è la conoscenza retorica che di questa impostazione metodologica ha il Chizzola. Egli infàtti crede.di intravvedere, nel rapporto tra il testo da confutare (sistemato come domanda) e il testo della confutazione (organizzato come risposta), un andamento letterario a "dialogo", che egli sa augura, possa indurre il lettore ad avere i seguenti vantaggi: più "satisfattione" per la conoscenza ("assicurandosi ch'io, non lascio cosa alla quale non dia risposta"); più "vaghezza" per la lettura ("non si straccando tanto ma prendendo diletto passo in passo della varietà di chi ragiona").

La consacrazione del C. tra i "classici" della predicazione cattolica avvenne post mortem, cioèquando nel 1566 T. Porcacchi raccolse uno dei suoi Sermoni recitati in pubblico (e quindi messo in forma scritta) tra le Prediche di diversi illustri theologi et catholici predicatori della parola di Dio, edite a Venezia, per i tipi di G. Cavalli, nel 1566. Si tratta del testo Del culto e invocation de' santi, cavato da una predica tenuta dal C. nella cattedrale di Mantova senza alcuna indicazione della data.

Per capire bene il rapporto tra la collocazione della predica del C. (pp. 62-104) e la sistemazione degli altri testi presenti che hanno lo scopo di elaborare un "manuale" di formazione professionale dell'"orator cristiano" attraverso un corpus di sermoni esemplari è opportuno esaminare lo schema proposto dal curatore dell'antologia nella sua epistola dedicatoria e nella prefazione "a gli studiosi delle sacre lettere". Questa lettura fa comprendere che si tratta di un testo della massima importanza per la storia del processo di produzione della pietà cinquecentesca. Esso riassume infatti, in termini consonanti alla strategia cattolica per la comunicazione, il nuovo rapporto tra teologia e predicazione. Il risultato auspicato è un modello di ministro che sia insieme detentore del sapere intorno a Dio (il prete teologo) e curatore. della sua parola nella sfera della circolazione (il prete predicatore). Va detto inoltre che l'antologia del Porcacchi sintetizza quel rapporto tra politico e religioso che era già affiorato nella dedicatoria al Gonzaga presentando un testo esemplare di allocuzione religiosa ai politici: il trattato di Sisto da Siena intitolato Del modo per comervare la repubblica (la predica genovese risale al 1556).

Il premio per la sua attività religiosa contro la Riforma in Italia e l'affermazione della Controriforma cattolica il C. lo ricevette, da Pio IV, che lo nominò successore al vescovado di Termoli (dopo che il suo nome era stato fatto in Curia tra i probabili uomini di Chiesa da destinare a missione diplomatica in Boemia). Ma la elevazione del C. al grado di vescovo non poté avvenire per la sua morte improvvisa, avvenuta a Padova nel 1565 (trovò sepoltura nella chiesa di S. Giovanni Verdara).

Il Rossi tramanda la notizia di un ritratto dei C., fatto dalla pittrice cremonese Sofonisba Anguissola, che lo "cavò mentrIegli predicava", cioè nell'esercizio della sua funzione primaria. Dall'osservazione dei quadro il produttore bresciano di "elogi storici" vuole concludere, sulla base della considerazione che il personaggio da lui esaltato (offrendo uno specimen ideale al Rosini) "fu uno dei maggiori lumi che risplendessero su l'immortal candeliero di Santa Chiesa" al tempo della lotta contro le penetrazioni protestanti, ad una figura-modello del predicatore di tipo tridentino, le cui "apologie e invettive" egli aveva già giudicato "ripiene d'una compiuta venustà cristiana" (una formula che incomincia a essere usuale nella definizione dello stile dei "genere sermocinale" a partire dal tardo Cinquecento). L'icona proposta dal Rossi guardando il quadro dipinto dall'Anguissola è la seguente: la "grazia" naturale, che risplendeva nella sua persona come simbolo vivente della "nobiltà patema", viene a congiungersi e ad iscriversi nella "grazia" spirituale conseguita per mezzo della "bellezza dei costumi". Con l'emblema di "grazia e bellezza" (grazia del corpo e bellezza dell'anima) egli si rendeva accetto a "tutti gli uomini" e si preseritava conforme ai gusti morali della gente.

Fonti e Bibl.: P. P. Vergerio, A gl'inquis. che sono per l'Italia. Dal catal. di libri eretici, Tubinga 1559, p. E4v; G. Muzio, Lettere cattoliche, Venezia 1571, p. 146; O. Rossi, Elogi historici di bresciani illustri. Brescia 1620, pp. 350 s.; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati. II, Venezia 1647, pp. 171 s.; G. Rosini, Lyceum Lateranense, I, Cesenae 1649, pp. 411-413; L. Cozzando. Vago e curioso ristretto profano e sagro dell'historia bresciana, Brescia 1694, pp. 710, 216, 236; Id., Libraria bresciana, Brescia 1694, p. 147; G. Fontanini, Della eloquenza ital., Venezia 1737, pp. 684 s.; D. D. Rosius De Porta, Hist. reformationis Ecclesiarum Raeticarum, Curiae Raetoru- 1771-77, I, 2, p. 179; V. Peroni, Bibl. bresciana, I, Brescia 1818, p. 263; C. Cantù, Gli eretici d'Italia, II, Torino 1869, pp. 142 s.; B. Amante, Giulia Gonzaga, Bologna 1896, p. 243; E. Comba, Inostri protestanti, II, Firenze 1897, pp. 427, 476; P. Tacchi Venturi, Storia della compagnia di Gesù in Italia, I, Roma 1910, p. 80; G. Buschbell, Reform. und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrh., Paderborn 1910, pp. 95 s.; L. Carcereri, Riforma e inquisizione nel ducato di Urbino verso la metà del secolo XVI, Verona 1911, pp. 19 s.; E. Santini, L'eloquenza ital. dal concilio tridentino ai nostri giorni. Gli oratori sacri, Milano Firenze 1923, p. 425; F. C. Church, I riform. ital., I, Firenze 1935, p. 281; E. A. Rivoire, Eresia e riforma a Brescia, in Boll. della Soc. di studi valdesi. LXXVIII(1959), 105, pp. 62 s., 84 s. (con indicaz. delle fonti manoscritte conservate nella Biblioteca civica Queriniana di Brescia); P. Paschini, Venezia e l'Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padova 1959, p. 59; V. Marchetti, Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze 1975, p. 210; A. Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio: the making of an Italian reformer, Genève 1977, p. 93.

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