Iran

Dizionario di Storia (2010)

Iran


Stato dell’Asia sudoccidentale, confinante con l’Armenia, l’Azerbaigian e il Turkmenistan a N (dove il limite è fornito anche dal Mar Caspio), l’Afghanistan e il Pakistan a E, la Turchia e l’Iraq a O, mentre a S si affaccia sul Golfo Persico e sul Golfo di Oman.

Dalle origini alla dominazione arsacidica

La più antica formazione politica nota sul territorio iranico è l’impero dei medi, popolazione iranica che tra l’8° e il 6° sec. a.C. dominò nella zona settentrionale dell’altopiano. Alla supremazia dei medi dapprima si affiancò e poi (metà del 6° sec.) si sostituì quella dei persiani stanziati nella zona meridionale del Paese. Con la famiglia reale degli Achemenidi e il suo capostipite Ciro il Vecchio, dapprima re di Anzan nella Susiana, poi re di Persia, l’impero persiano assunse una posizione di primo piano nella storia non solo dell’Asia ma di tutto il mondo antico. Sotto Ciro, fu abbattuto il regno dei medi (550), poi il regno lidio (546), infine quello babilonese (538). Quando nel 528 Ciro morì combattendo sulla frontiera nordorientale dell’impero, questo si estendeva già dal Caucaso all’Oceano Indiano, dal Mediterraneo all’Asia centrale. Il figlio di Ciro, Cambise, intraprese la conquista dell’Egitto (525), ma morì nel 522, mentre faceva ritorno in Persia. Dai drammatici e oscuri eventi che seguirono (usurpazione del mago Gaumata e congiura dei nobili persiani) emerse il ramo cadetto degli Achemenidi, asceso al trono con Dario I, figlio di Istaspe (522-485), che compì l’opera di Ciro e portò l’impero persiano all’apogeo della potenza. Il regno di Dario ci è noto oltre che per le fonti greche, per le iscrizioni stesse del Gran Re, soprattutto per quelle di Persepoli, capitale dell’impero. L’immenso impero fu diviso in 20 satrapie, collegate da una mirabile rete stradale e governate da una salda ed elastica organizzazione burocratica, facente capo al sovrano: il potere centrale rispettava la libertà religiosa e assicurava la prosperità economica dei singoli popoli sottomessi, traendone a un tempo, con i tributi e le prestazioni in natura, i mezzi per la fastosa vita di corte e per un’imponente attività edilizia (residenze di Susa, Ecbatana, Persepoli). L’espansione persiana portò Dario a guerreggiare contro i popoli del Nord (spedizione scitica, circa 514) e contro i greci (insurrezione ionica: 498-494; spedizione punitiva del 490, battaglia di Maratona). Morto o ritiratosi Dario per abdicazione nel 485, il figlio Serse ne continuò la politica antiellenica (battaglie di Salamina, 480, e di Platea, 479) e la ulteriore storia degli Achemenidi sino alla conquista di Alessandro è nota quasi esclusivamente in funzione della storia greca, e narrata da fonti greche. Gli episodi principali di questa storia sono le contese per il regno tra Artaserse II e Ciro il Giovane, terminate con la disfatta di questo a Cunassa (401) la pace di Antalcida del 386, che ribadiva il dominio persiano sulle colonie greche d’Asia Minore, e le guerre del 4° sec., sotto Artaserse III (358-338), per domare le province ribelli. La riscossa della Grecia, che pose termine al bisecolare duello dell’Europa ellenica contro l’Asia persiana, si compì poi con la spedizione di Alessandro Magno e il crollo dell’antico impero persiano (battaglia di Isso, 333; di Gaugamela, 331; morte dell’ultimo achemenide, Dario III, 330). La morte di Alessandro, nel 323, concluse per la Persia, privata dell’indipendenza e della sovranità, il più antico periodo della sua storia. Per qualche decennio la regione gravitò nell’orbita dell’impero seleucidico, ma tali vincoli diretti di sudditanza si allentarono rapidamente, e alla metà del 3° sec. nuove formazioni politiche, più o meno ellenizzate, si profilarono sul suolo iranico: all’estremo Est, il regno indo-greco di Battriana, sciolto dal vassallaggio dei Seleucidi e rimasto per qualche tempo estremo propugnacolo dell’ellenismo nel cuore dell’Asia; più a Occidente, il regno degli Arsacidi di Partia, il cui eponimo Arsace, assunto il titolo di re nel 250 a.C., fissò la sua capitale prima a Dara (od. Kalat), poi a Ecatompilo. Sorgeva così, con centro nella Mesopotamia e nella Media, lo Stato feudale e militare dei parti, per cinque secoli il più vitale e aggressivo avversario orientale prima dei Seleucidi, poi di Roma. Artabano V (m. 224 d.C.), fu l’ultimo Arsacide (➔ Arsacidi). Infatti, nei primi decenni del 3° sec. la vecchia compagine arsacide fu attaccata, dal Sud, da un movimento interno di rivolta che ebbe il suo focolaio nella Perside e il suo capo in Ardashir, figlio di Papak, di una nobile stirpe meridionale che pretendeva di riconnettersi con gli antichi Achemenidi. Il trionfo di Ardashir, che nel 226 entrava nella capitale partica Ctesifonte, segnò una riaffermazione della tradizione puramente nazionale contro gli ellenizzati parti e inaugurò l’ultimo periodo di potenza della Persia pre-musulmana.

L’impero sasanide

Il nome deriva da quello di Sasan, avo di Ardashir. L’impero durò quattro secoli e in politica estera continuò la tradizione partica, in una cronica guerra contro Roma prima, e poi, dal 5° sec., contro Bisanzio. Per quanto riguarda l’organizzazione dello Stato e le vicende interne, questo periodo è meglio noto di quello arsacidico, attraverso fonti greche, sire, armene e arabe, oltre che per i resti della letteratura nazionale mediopersiana e i documenti epigrafici. Nel 613-616, eserciti sasanidi giunsero fino a Damasco, a Gerusalemme e in Egitto, come già prima (570) erano giunti in Yemen; ma, tra flussi e riflussi, il sostanziale equilibrio fra i due avversari fu mantenuto sino alla fine e nessuno riuscì a vibrare all’altro il colpo mortale. A Oriente i Sasanidi lottarono per arginare l’infiltrazione e l’offensiva dei turchi, comparsi nel 6° sec. nell’Asia centrale. All’interno, si compì sotto di essi la piena restaurazione della tradizione religiosa zoroastriana, col mazdeismo eretto per la prima volta a religione di Stato, la fissazione del canone sacro e una potente organizzazione del clero, ora alleata ora avversa ai re, persecutrice del cristianesimo e delle nuove eresie dualistiche (manicheismo, mazdachismo). La maggior figura della dinastia sasanide è Cosroe (Khusraw) I Anushirwan (531-579), il contemporaneo e rivale di Giustiniano: despota magnifico e illuminato, il cui ricordo rimase vivissimo nella tradizione posteriore, anche in epoca musulmana. Dopo aver con lui conosciuto il più alto grado di potenza politica e di splendore culturale (influssi dall’India e dalla Cina da un lato, e in minor grado della filosofia e della scienza ellenistiche), l’impero sasanide cadde nei decenni seguenti in una serie di crisi dinastiche, economiche e sociali, da cui non si sollevò più.

Dall’invasione araba alle dinastie turcomanne

L’invasione araba, cominciata quasi subito dopo la morte di Maometto (632), spazzò via in pochi anni l’impero sasanide e inaugurò per la Persia un nuovo periodo della sua storia; lo zoroastrismo decadde rapidamente di fronte a un’intensiva islamizzazione. Verso il 650 può dirsi terminata la conquista araba, salvo che per alcune zone impervie del litorale caspico. La Persia propria fu per quasi due secoli una provincia dell’impero dei califfi, marca di frontiera per l’ulteriore espansione verso E. Ma rivalità tribali arabe e fermenti nazionali e sociali iranici fecero esplodere, nell’8° sec., quella rivoluzione che abbatté il califfato degli Omayyadi (661-750) e vi sostituì quello degli Abbasidi (750-1258), arabi anch’essi ma sostenuti da forze militari e civili iraniche. Pochi decenni dopo, si cominciarono a formare nella Persia di Nord-Est quelle autonome dinastie periferiche con cui iniziò lo sfaldamento del califfato islamico unitario. La dinastia dei Samanidi (10° sec.), iranica, svolse una parte primaria per la risurrezione della coscienza nazionale e culturale persiana, sia pure entro il quadro ormai immutabile della civiltà musulmana. Ai Samanidi successero i Ghaznavidi (10°-11° sec.), turchi di stirpe ma culturalmente iranizzati. L’avvento (11° sec.) dei Selgiuchidi, turchi iranizzati, ricreò un grande Stato unitario nelle province orientali del califfato. Lo Stato selgiuchide cadde verso la metà del 12° sec. per i colpi della rivale potenza dei Khwarizmshah, sultani di Transoxiana, ma anche questi furono travolti dalla turbinosa conquista dei Mongoli di Genghiz Khan (1220), che causò perdite incalcolabili di vite e beni nelle province iraniche. Questi stessi nomadi furono assimilati dalla civiltà islamica e tanto lo Stato mongolo degli Ilkhan (1256-1349), quanto quello dei Timuridi (1369-1494) segnarono per la Persia periodi di rinnovato splendore economico e culturale. All’inizio del 16° sec. il regno dei Safavidi (1502-1736) inaugurò la storia moderna della nazione persiana.

Dai Safavidi alla dinastia Qagiar

Sotto i Safavidi fu adottato, come religione nazionale, l’islam sciita, per lo più avversato dalle dinastie locali. L’unità territoriale del Paese fu ricostituita all’incirca negli stessi confini dell’impero sasanide. A O fu contenuta la spinta ottomana, mentre si rafforzavano i contatti diplomatici con l’Europa fino a raggiungere, tra 16° e 17° sec., un periodo di floridezza economica e solidità amministrativa. Nel 1722 la nazione fu travolta da un’invasione afghana, cui si accompagnarono incursioni turche e russe. Il regno risorse per opera dell’avventuriero sunnita del Khurasan, Nadir Shah, che ricacciò gli afghani e ne conquistò il Paese (1738), ma, alla sua scomparsa, la Persia ripiombò nel caos. Seguì un periodo di sanguinose guerre civili, terminate con l’insediamento della dinastia turca dei Qagiar (1794-1925). Questa non fu sempre riconosciuta dai poteri locali e si caratterizzò come un regime di oppressione politica mentre, sul terreno economico, cedette al controllo europeo parti cospicue del territorio nazionale e lo sfruttamento delle più importanti risorse del Paese. Con i trattati di Gulistan (1813) e Turkmanciai (1828), la Russia si annetté le province transcaucasiche e buona parte dell’Azerbaigian, mentre alla Gran Bretagna andarono importanti concessioni economiche. Il lungo regno (1848-96) di Nasir al-Din Shah segnò la maggiore decadenza del Paese, ma vide anche i primi accenni di risveglio nazionale grazie all’opera di una élite di intellettuali che cercò di ottenere la Costituzione (1905-09) e di mantenere intatti i beni del Paese.

La dinastia Pahlavi

La vittoria sulle resistenze assolutistiche fu frustrata dallo scoppio della Prima guerra mondiale, durante la quale la neutralità del Paese fu violata da entrambe le parti belligeranti. Nel dopoguerra emerse Reza Pahlavi, militare nazionalista noto come Reza Khan che, con l’aiuto soprattutto britannico, espulsi i Qagiar, assunse il titolo di scià e fondò una dinastia (1925). Il suo governo dispotico fu al contempo teso a un grande sforzo di modernizzazione dello Stato persiano, che nel 1935 prese ufficialmente il nome di Iran. Nella Seconda guerra mondiale, sovietici e britannici, preoccupati della germanofilia del regime iraniano, occuparono il Paese (1941), assicurando così alla causa alleata il controllo del petrolio e le vie di comunicazione del Medio Oriente. Reza Shah fu costretto ad abdicare in favore del figlio Muhammad Reza. Cessata l’occupazione nel 1946, dopo difficili negoziati, nel 1947 il Paese, rifiutando l’opzione sovietica per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi, compì una scelta di campo filoccidentale, che si accompagnò al bando del filosovietico partito comunista Tudeh. Il rifiuto dell’Anglo-Iranian oil company controllata dai britannici di rinegoziare la ripartizione dei proventi del petrolio (agli inglesi ne andava l’85%) riacutizzò il problema dell’indipendenza economica dando nel contempo nuovo vigore al nazionalismo. Nel 1951, alla vittoria ottenuta dal nuovo primo ministro M.H. Mossadeq con la nazionalizzazione del settore petrolifero, la Gran Bretagna reagì con l’embargo economico. Il contrasto tra lo scià, contrario alla nazionalizzazione, e il primo ministro aprì una grave crisi politica che vide prima lo scià costretto ad abbandonare il Paese, poi l’estromissione nel 1953, con l’appoggio statunitense e britannico, di Mossadeq e l’assunzione di un ruolo di controllo sempre più attivo nell’amministrazione dello Stato da parte dello scià. Grazie al cospicuo aiuto finanziario degli Stati Uniti (compagnie statunitensi erano subentrate nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi), l’I. fu posto in condizioni di superare le difficoltà finanziarie, fino al momento in cui cominciò a ricevere i redditi derivanti dalle royalties petrolifere. I primi anni Sessanta furono caratterizzati dalla cosiddetta «rivoluzione bianca», consistente in una serie di riforme volte a modernizzare e occidentalizzare il Paese, di cui momento centrale fu la riforma agraria. Le riforme furono avversate dalla gerarchia religiosa sciita, colpita dalle espropriazioni delle terre di sua proprietà e ostile alle innovazioni politiche estranee al dettato islamico. Quale segno dei progressi del Paese, lo scià nel 1967 cinse con una fastosa cerimonia la corona imperiale. Sul piano internazionale, alle intense relazioni con gli USA e con l’Europa occidentale si affiancarono la collaborazione con l’URSS e il ristabilimento dei rapporti con la Cina (1971), mentre nei confronti degli Stati arabi le uniche tensioni erano quelle con l’Iraq, rispetto al quale l’I. rivendicava la sovranità sulla riva sinistra dello Shatt al-Arab, accolta poi dall’Iraq nel 1975 (accordi di Algeri) in cambio della cessazione degli aiuti iraniani ai curdi. Sul piano economico, il Paese viveva un notevole processo di espansione, determinato soprattutto dagli elevatissimi proventi dell’estrazione del petrolio (di cui l’I. era il secondo produttore del Vicino e Medio Oriente, dopo l’Arabia Saudita). Tuttavia i riflessi di tale crescita economica nella società erano insoddisfacenti: somme ingenti erano assorbite dalle spese militari e la sperequazione sociale era aumentata, coinvolgendo non solo gli strati popolari, ma anche i ceti medi. Solo una durissima repressione del dissenso interno (migliaia i detenuti politici), esercitata dalla SAVAK, la polizia segreta, consentiva allo scià, che nel 1975 abbandonò anche la finzione del sistema bipartitico e impose un partito unico (Rastakhiz), di restare sul trono. Dal 1977 l’opposizione al regime si acuì, rapidamente conquistata dai religiosi sciiti dell’ayatollah Khomeini, in esilio a Parigi dal 1963, e nel gennaio 1979 lo scià fu costretto a lasciare l’I., paralizzato da scioperi e manifestazioni, mentre l’esercito (il più potente del Medio Oriente, dopo Israele), si disgregava. Khomeini, tornato in patria, assunse la direzione del Paese.

La Repubblica islamica

Il 1° aprile 1979 fu proclamata la Repubblica islamica dell’I. e una nuova Costituzione conferì a vita a Khomeini il ruolo di guida religiosa (Guida suprema) del Paese, rendendo i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario soggetti all’autorità religiosa, la quale acquisì il diritto di sfiduciare il presidente della Repubblica. Il potere legislativo era demandato all’Assemblea consultiva islamica (eletta a suffragio universale con mandato quadriennale); il presidente della Repubblica era anche capo del governo, e pure veniva eletto ogni quattro anni. Infine un Consiglio dei guardiani, formato da dodici membri (sei dei quali nominati dalla guida religiosa), era incaricato di verificare la rispondenza dell’attività legislativa alla Costituzione e alla legge islamica. Il timore del propagarsi della rivoluzione islamica crebbe, sia a livello regionale (i Paesi arabi del Golfo) sia a livello internazionale, specie dopo che, nel 1979, cinquanta funzionari dell’ambasciata statunitense a Teheran furono presi in ostaggio e rilasciati solo nel 1981 in cambio della sospensione delle misure di congelamento dei depositi iraniani negli USA. Nel 1980 l’Iraq, contando sul favore sia delle potenze occidentali sia dei Paesi arabi, preoccupati di una diffusione della rivoluzione islamica, e approfittando dell’indebolimento dell’I., denunciò gli accordi del 1975 per lo Shatt al-Arab e invase l’Iran. L’attacco diede inizio a una guerra lunga e dolorosa (1980-88), che inizialmente vide prevalere l’Iraq, anche per il sostegno fornito a Saddam Husain da vari Paesi arabi, dall’URSS, ma anche dagli USA e da altri Paesi occidentali quali Francia, Germania e Gran Bretagna, mentre l’I. era appoggiato da Libia e Siria. Il conflitto risvegliò i sentimenti patriottici e nazionalisti, ma rese anche più aperta la lotta di potere tra il clero sciita e le forze laiche: esautorato nel 1981 da Khomeini il presidente della Repubblica Abu al-Hasan Bani Sadr, portavoce della corrente riformista, si scatenò una sorta di guerriglia urbana che vide in prima fila l’organizzazione islamica dei del popolo, inizialmente sostenuta dalle simpatie popolari. La fazione integralista consolidò definitivamente il controllo dello Stato, soffocando con migliaia di arresti ed esecuzioni ogni opposizione a un governo teocratico e le istanze delle minoranze etniche. Nel 1983 anche il partito Tudeh, inizialmente alleato del nuovo regime, fu sciolto e molti suoi dirigenti e militanti furono condannati a morte. Le elezioni presidenziali del 1985 confermarono capo dello Stato il riformatore ‛A. Khamanei, già eletto nel 1981. La guerra contro l’Iraq si concludeva solo nel 1988 (nel 1990, durante la guerra del Golfo, Baghdad accettò il ristabilimento delle frontiere pattuito nel 1975). Nel giugno 1989 la morte di Khomeini segnava anche simbolicamente il chiudersi della prima fase della Repubblica islamica.

Gli anni Novanta e Duemila

Alla morte di Khomeini, Khamanei gli successe quale guida religiosa del Paese. Alla presidenza della Repubblica fu invece eletto il conservatore moderato e pragmatico ‛A.A. Rafsangiani, che favorì una cauta apertura del regime nei confronti dei Paesi occidentali e sostenne l’avvio di una politica di liberalizzazione economica, restando in fatto di morale e d’interpretazione della legge canonica sulla linea di rigore (velo alle donne, proibizione di alcolici ecc.) che era stata di Khomeini. Intanto l’economia iraniana, risentendo delle complesse vicende politiche e militari che avevano interessato il Paese, dopo la crescita degli anni precedenti subiva una brusca battuta d’arresto; pesavano negativamente anche le forti fluttuazioni del prezzo del greggio sui mercati internazionali e le continue conseguenti oscillazioni del volume produttivo. La crisi economica (crescita del debito estero e della disoccupazione, deprezzamento del riyal) fu particolarmente sentita dalle fasce più povere della popolazione urbana, il cui tenore di vita si ridusse drasticamente. Il timore di perdere il sostegno della base tradizionale del regime indusse il governo, nella primavera del 1994, a rivedere parzialmente la politica di liberalizzazione economica (in particolare per quanto riguardava la riduzione dei sussidi per i generi di prima necessità). Ciò nonostante, nell’estate dello stesso anno in numerose città si verificarono proteste e disordini, mentre una vera e propria rivolta contro il carovita scoppiò alla periferia di Teheran nell’aprile 1995. La crisi si aggravava alla fine di quello stesso mese, allorché il presidente degli USA B. Clinton annunciò un blocco totale del commercio e degli investimenti nei confronti dell’I., accusato di essere il mandante e il principale organizzatore del terrorismo islamico internazionale, nonché di perseguire un programma per dotarsi di armamenti nucleari con l’aiuto di Russia e Cina. Il governo iraniano, dal canto suo, decise di puntare su una maggiore diversificazione delle attività produttive, al fine di spezzare la dipendenza dell’economia nazionale dagli idrocarburi. Nel tentativo di superare l’emergenza economica, il governo lanciò, con il Secondo piano quinquennale (1995-2000), un programma di austerità e di riforme, perseguendo il risanamento economico del Paese anche attraverso drastici tagli delle importazioni. Un recupero economico e finanziario dell’I. fu favorito, alla fine degli anni Novanta, dalla crescita dei prezzi del petrolio, che fece salire notevolmente la rendita petrolifera; tuttavia rimanevano irrisolti alcuni problemi fondamentali, come l’inflazione, ancora molto alta, e il prosperare di un’economia sommersa, che privava lo Stato di un gettito fiscale non indifferente. Sul piano politico, inoltre, gli otto anni del mandato presidenziale di Rafsangiani delusero le aspettative di quanti speravano nella normalizzazione del regime. I rapporti con i Paesi vicini rimanevano difficili: con l’Iraq si aprì un lungo contenzioso per le riparazioni, che si aggiunse alle tensioni determinate dal trattamento riservato dalle autorità di Baghdad alle popolazioni sciite presenti nelle regioni meridionali irachene e dall’appoggio iraniano ai curdi stanziati nell’Iraq settentrionale. La questione curda condizionò anche le relazioni con la Turchia, migliorate solo alla fine del 1997. Inoltre, dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991, l’I. cercava di estendere la propria influenza anche nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, cui era accomunato da affinità religiose, culturali e linguistiche (nel caso del Tagikistan), mentre nella guerra civile afghana, seguita al ritiro delle forze sovietiche nel 1989, manteneva il sostegno delle formazioni sciite. Il persistere di una situazione critica in Afghanistan, anche dopo la proclamazione della Repubblica islamica a Kabul (apr. 1992), continuò poi a ostacolare il rientro dei quasi tre milioni di profughi, per lo più sciiti, affluiti in I. negli anni Ottanta, con riflessi negativi sulle condizioni economiche e sociali del Paese. Intanto l’embargo statunitense, sebbene disatteso dal Giappone e da alcuni Paesi europei, accentuava l’isolamento dell’I., impedendogli di accedere ai finanziamenti a lungo termine presso gli istituti internazionali di credito. Il Paese usciva quindi dall’era Rafsangiani complessivamente più povero, meno libero (soprattutto rispetto alle esigenze maturate tra le nuove generazioni) e vittima di un isolamento apparentemente senza via d’uscita. Era evidente la contraddizione tra l’effettiva modernizzazione avviata (alfabetizzazione, allacciamento di luce elettrica e acqua corrente nei villaggi, innalzamento delle aspettative di vita, partecipazione femminile alla vita sociale e alta percentuale di studentesse nei gradi di istruzione superiore) e il crescente impoverimento del Paese. Intanto la partecipazione delle donne alla vita politica e sociale era cresciuta significativamente rispetto ai tempi della dinastia Pahlavi, lasciando intravedere, in un contesto sociale comunque ostile al cambiamento, la possibilità di superare una rigida interpretazione dei testi coranici; e anche l’insofferenza dei giovani verso la politica culturale dei religiosi più oscurantisti contribuiva a far lievitare il peso politico dei riformisti. Già nelle elezioni legislative del marzo-aprile 1996 i conservatori subirono un calo considerevole di consensi a vantaggio dei riformisti filogovernativi, tacitamente appoggiati dal presidente Rafsangiani, ma la svolta più significativa nella vita del Paese fu determinata dai risultati delle elezioni presidenziali del 23 maggio 1997. A sorpresa, S.M. Khatami, già ministro della Cultura nel 1981-92 (e poi dimessosi perché in disaccordo con il governo), accusato da più parti di liberalismo e osteggiato dai leader religiosi, ebbe ragione del candidato più forte, il presidente del Parlamento, e leader dell’ala conservatrice. Il suo successo inatteso confermò la vitalità di una parte della società iraniana, in particolare donne e giovani, che dopo anni di silenzio uscì allo scoperto appoggiando il candidato riformista dalle colonne di alcuni organi di stampa. Subito si aprì un braccio di ferro tra le forze riformiste e quelle più oscurantiste del Paese, che tradizionalmente ricoprono tutte le cariche religiose, giudiziarie e di controllo. Khatami, dopo una dichiarazione di amicizia verso il popolo americano (dic. 1997) e la presa di posizione critica verso la sentenza di condanna a morte emanata contro lo scrittore S. Rushdie, si trovò comunque in difficoltà dinanzi all’evidente dualismo di poteri che dominava la vita politica del Paese. Tra novembre e dicembre 1998, una misteriosa catena di omicidi colpì alcuni dissidenti e intellettuali liberali impegnati nella battaglia per la laicizzazione del regime. Nel febbraio 1999 le elezioni dei consigli comunali, previsti già dalla Costituzione iraniana del 1979 ma mai entrati in funzione, rappresentarono una tappa importante nel processo di radicamento delle riforme nel Paese: l’alto afflusso alla urne premiò i sostenitori del presidente Khatami, che a Teheran conquistarono 13 seggi su 15. Nel luglio 1999 le manifestazioni di protesta degli studenti iraniani in favore della libertà di stampa e contro la chiusura del quotidiano Salam, molto vicino al presidente, sfociarono, dopo il violento assalto al campus universitario di Teheran da parte delle forze di polizia e degli estremisti islamici dell’Ansar-i Hizbullah, in una vera e propria rivolta studentesca nelle piazze e nelle università della capitale, fermamente repressa dal regime. Lo scontro con i conservatori non fu frenato dal successo dello schieramento riformista (2000) in Parlamento né dalla schiacciante conferma di Khatami nel 2001 (9 giugno), con circa il 78% dei voti. Nel 2002, nel nuovo scenario successivo agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, l’inclusione da parte del presidente statunitense G.W. Bush dell’I. fra i Paesi del cosiddetto «asse del male» innescò una reazione nazionalista abilmente sfruttata dai conservatori, che dal 2004 conobbero una netta ripresa politica, vincendo prima le elezioni in Parlamento e successivamente (2005) le presidenziali, con l’elezione di M. Ahmadinejad, premiato da una sapiente miscela di retorica nazionalista, populismo e giustizialismo in nome dell’islam, e forte del sostegno e della mobilitazione delle moschee e dei «guardiani della rivoluzione» (o pasdaran), gli speciali corpi volontari d’assalto istituiti da Khomeini a difesa della Repubblica islamica. Con la sua vittoria un’ondata autoritaria, caratterizzata da pressioni sulla stampa e sui movimenti riformatori della società civile, ha imposto un brusco arresto allo sviluppo della dialettica interna del Paese. Sul fronte internazionale, la strategia aggressiva di Ahmadinejad si è concretizzata in invettive e minacce contro Israele, sostegno alle azioni degli hizbullah libanesi, e grande enfasi posta sul programma nucleare, che hanno esposto il Paese alla condanna della comunità internazionale, alle sanzioni dell’ONU (febbr. 2007) e degli USA (giugno 2010), ma hanno altresì permesso all’I. di guadagnare prestigio nella regione. Le elezioni del 2009 hanno confermato la presidenza di Ahmadinejad, sostenuto soprattutto dai ceti rurali; il risultato è stato contestato da forti manifestazioni di piazza dell’opposizione, egemone invece nella borghesia cittadina, che ha denunciato pesanti brogli, scontrandosi con la milizia islamica dei Basiji. I riflessi e le implicazioni internazionali di questo conflitto interno alla società iraniana sono peraltro notevoli, e non a caso numerose sono state le prese di posizione espresse all’estero sulla controversa vicenda. Forte anche dei suoi 195 milioni di tonnellate di petrolio annui (dati del 2006) e di ingenti quantità di gas naturale (dello stesso 2006 un progetto per commercializzare tali risorse in euro oltre che in dollari), l’I. è infatti un Paese di importanza strategica nello scenario globale.

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