Islamismo

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Islamismo

Mohammed Arkoun

sommario: 1. L'Islam nella storia dei nostri giorni. 2. Islam, politica e società. a) La questione dello Stato e l'edificazione nazionale. b) L'economia e la società. c) La questione culturale. d) Il fatto religioso. 3. Lasciar parlare le società. Bibliografia.

1. L'Islam nella storia dei nostri giorni

A metà degli anni ottanta si è resa evidente l'esigenza di applicare allo studio dell'Islam i metodi e gli interrogativi delle scienze umane e sociali, sia per i continui progressi compiuti da queste scienze, sia per l'ampiezza delle manipolazioni ideologiche di cui l'Islam è stato fatto oggetto. I politologi, più ancora che i sociologi - una vera sociologia dell'Islam è ancora da sviluppare e stimolare -, si sono lanciati avidamente nello studio dei movimenti di contestazione che, un po' dovunque nel mondo musulmano, minacciano i regimi al potere, mentre questi ultimi, per garantirsi la sopravvivenza, sono costretti a una continua rincorsa ideologica per la migliore applicazione del modello islamico. Se gli studi dedicati ai cosiddetti movimenti islamici non sono tutti di scarso rilievo, va però notato che accanto ad alcune rare opere riuscite (v. Kepel, 1984; v. Sivan, 1985) c'è tutto un coacervo di scritti, che vanno dal saggio giornalistico alle descrizioni convenzionali appesantite da un'inutile erudizione, o agli scritti apologetici che celebrano i valori incomparabili di una religione capace di infliggere brucianti smentite ai migliori strateghi politici come alle teorie scientifiche più accreditate (si pensi, in particolare, ai colpi subiti dalla teoria marxista ad opera della rivoluzione iraniana).

Il tratto comune a tutta la letteratura sull'Islam moderno o contemporaneo è che essa crede di poter racchiudere in una breve cronologia e ridurre alla sfera sociale, politica, culturale e ideologica un fenomeno complesso, che invece richiede di essere analizzato storicamente in una prospettiva di lunga durata e rimanda all'archeologia dell'universo simbolico, alle strutture antropologiche dell'immaginario, alle trasformazioni concettuali che il discorso teologico opera su quello religioso e che a sua volta il discorso ideologico opera sui frammenti di un discorso teologico popolare (v. Arkoun, 1984).

Problemi immensi, sfiorati da discipline isolate l'una dall'altra, mai messi insieme nella pratica conoscitiva degli specialisti, come lo sono invece, implicitamente ma inestricabilmente, nell'atto di fede che trascina il militante, esalta il credente, nutre la speranza delle collettività oppresse, diseredate, abbandonate, sempre pronte al sacrificio supremo.

Non è certo solo l'islamismo a richiamare tutti questi problemi contemporaneamente: quel che occorre è riconsiderare tutto il fenomeno religioso alla luce delle esperienze recenti sui limiti e gli eccessi della secolarizzazione, delle riduzioni intellettualistiche e positivistiche imposte alle religioni dal XIX secolo in poi, e delle possibilità di mistificazione che tutte le religioni offrono agli strateghi della vita politica e ai gestori del sacro. Raccogliere tutti questi aspetti sotto uno stesso sguardo analitico e critico esige a un tempo una grande mobilità intellettuale, una cultura scientifica aperta a tutte le audacie interdisciplinari e un'applicazione sistematica della filosofia del dubbio a ogni atto interpretativo.

Dovunque sia presente il fenomeno islamico, non si potrà parlare della società senza incontrare la dimensione religiosa: all'inverso, non si potrà dire niente di appropriato su tale fenomeno senza ricondurlo alla società in cui agisce, in cui si radica ed evolve. Queste due asserzioni, che possono sembrare banali, suscitano tuttavia delle difficoltà teoriche, trattate con grande disinvoltura intellettuale sia dai musulmani stessi che dagli islamisti. Si afferma che l'islamismo ha la ‛specificità' di confondere lo spirituale e il temporale, la religione e lo Stato, al punto di aver impedito alle società islamiche di distinguere tra istanze che sono proprie di differenti statuti conoscitivi e funzionali; oppure si prende atto che le società in questione non hanno prodotto al loro interno spinte secolarizzatrici tanto efficaci e durature da ridurre a fatto privato, emarginare e svalutare, come è accaduto in Occidente, la religione. Come si vede, in entrambi i casi emerge, in modo esplicito, il riconoscimento da una parte della superiorità della soluzione islamica, che ha mantenuto il primato del fatto religioso, dall'altra dell'efficacia emancipatrice e della modernità della lotta che in Occidente ha portato alla separazione delle due istanze. Il carattere progressista di quest'ultima soluzione è tanto generalmente riconosciuto in Occidente, che il cristianesimo ha fatto propria la secolarizzazione - cioè la propria riduzione a fatto privato - invocando la parola stessa di Gesù, che già aveva dato a Cesare quel che era di Cesare.

Il dibattito sulla secolarizzazione è tuttavia ancora aperto in Occidente; da una decina d'anni, il peso storico dell'islamismo gli ha restituito maggiore attualità e intensità, ma non la pertinenza scientifica che esso merita. Tra musulmani e cristiani gli scambi restano polemici, dominati come sono da tutte e due le parti da una preoccupazione apologetica difensivo-offensiva; tra musulmani e occidentali ‛laicizzati' non si potrà avviare nessuna riflessione seria finché le posizioni resteranno ancorate a degli a priori teologici da una parte e ideologici dall'altra.

Questo vuol dire, in ogni caso, che il problema della secolarizzazione resta il problema chiave di tutto un campo della conoscenza che non riguarda unicamente l'islamismo; tutta la storia di quelle che in altra sede ho chiamato le ‟società del Libro" deve essere ripresa in una prospettiva critica, che dovrebbe cominciare col sospendere ogni riferimento tanto alla terminologia tradizionale, carica di valori teologici dogmatici, quanto ai pregiudizi ideologici del laicismo (o secolarismo) militante. Solo una simile revisione permetterebbe di elaborare un apparato concettuale adeguato alle situazioni c o m u n i prodotte dal fenomeno del Libro rivelato e dalla sfida sempre più orgogliosa lanciata dalla conoscenza scientifica positivistica a partire dal XVI secolo.

I percorsi storici divergenti e diseguali, compiuti da un lato dalle società cristiane, poi occidentali secolarizzate, dall'altro dalle società musulmane, rendono molto problematica e discutibile non solo la percezione reciproca tra le une e le altre, ma anche le interpretazioni sempre più numerose dell'islam che fioriscono in Occidente.

Come superare i fantasmi dell'apologia difensivo-offensiva e nello stesso tempo le semplificazioni sterili del neopositivismo delle scienze politiche e sociali, applicate a un islamismo reificato, svuotato dei suoi contenuti schiettamente religiosi?

La nuova conoscenza che qui si auspica non consiste né nell'alimentare la nostalgia per una trascendenza perduta né nel fare l'elogio di una storia umana finalmente liberata da ogni ‛illusione' di civilizzazione. Si tratta di affrontare problemi molto antichi e altri più recenti, integrando per la prima volta nell'analisi il giudaismo, il cristianesimo e l'islamismo, non più come versioni concorrenti, contrapposte o sorpassate della ‛verità' di cui ogni tradizione vuol conservare il monopolio, ma come delle vie, t r a l e a l t r e, per appagare i due desideri che hanno infiammato e infiammeranno sempre il cuore dell'uomo: la nostalgia dell'Essere e il desiderio di eternità.

Può sembrare fuori luogo che si pensi di attribuire un simile programma a una rapida esposizione dei più recenti sviluppi dell'islamismo. Ma chi non avverte oggi che la rinascita inattesa di questa religione, come forza storica a livello mondiale, costringe appunto a riaffrontare problemi che l'Occidente secolarizzato credeva di aver sufficientemente approfondito e risolto? L'Occidente ha avuto il privilegio, soprattutto a partire dal XIX secolo, di scatenare movimenti storici che hanno toccato sempre più da vicino tutti i continenti; ma è un fatto che esso è rimasto ancorato a modi di pensiero, a categorie concettuali di carattere troppo nazionale, e persino provinciale, per portare questi movimenti al livello di universalità concreta cui punta oggi l'antropologia (v. Blumenberg, 19772; v. Augé, 1979).

Si cercherà quindi di applicare questo programma ambizioso, seguendo i più recenti sviluppi delle società musulmane. In primo luogo verranno raggruppati i fattori comuni, che hanno determinato l'evoluzione dei paesi musulmani durante il periodo in esame; quindi verrà analizzata e spiegata la necessità assoluta di tornare allo studio individualizzato di ciascuna società, per riportare l'islamismo alle sue vere dimensioni e al suo vero ruolo, come fattore tra gli altri che agisce sulla società e ne viene, nel contempo, modificato nel suo statuto e nella sua portata.

2. Islam, politica e società

Questi tre termini si riferiscono a quelle che ho chiamato le tre grandi D del pensiero islamico, dalla fase classica in poi: dīn - dawla - dunyā cioè religione, Stato, mondo secolare (v. Arkoun, 1982, pp. 145-156). I giuristi-teologi (fuqahā) e i moralisti hanno sempre collegato queste tre componenti del pensiero e dell'azione; oggi, tuttavia, bisogna interrogarsi di nuovo sulla legittimità teorica e pratica di quella che - almeno nell'intenzione dei migliori autori - è stata più un'articolazione che una fusione. Questo, appunto, si tenterà di fare nel presente lavoro, indicando i fattori comuni di evoluzione delle società musulmane contemporanee e mostrando come dev'essere studiata ciascuna società, anche quando si richiami con forza a un modello rigorosamente ‛islamico'.

Sembra piuttosto illusorio pensare di poter distingnere fattori interni ed esterni; in effetti, tutte le società qui considerate hanno perduto ogni reale iniziativa nella loro storia perlomeno a partire dal XIX secolo: la loro dipendenza nei confronti delle grandi potenze è diventata addirittura più ‛vitale' - nel senso proprio della parola (si pensi alla dipendenza alimentare) - dopo la conquista dell'indipendenza. E noto che, dal 1973 in poi, l'interdipendenza finanziaria ed economica tra i paesi produttori di gas e di petrolio e le potenze industriali si è accresciuta. Ed è appena necessario ricordare l'incidenza considerevole con cui Israele ha pesato, dal 1948 in poi, su tutta l'evoluzione politica ed economica del mondo arabo. In un certo senso, Israele si può considerare il risultato finale di una rivalità secolare tra l'Oriente musulmano e l'Occidente cristiano per il controllo del mondo mediterraneo, a partire dalle conquiste arabe e dalle crociate fino alla ben nota disgregazione dell'Impero ottomano. Questa prospettiva, anche se storicamente discutibile, costituisce uno dei temi ossessivi delle ideologie di lotta sviluppate nelle società musulmane. È a questo titolo che se ne deve tener conto nell'analisi.

Si vedrà che i fattori determinanti dell'evoluzione in corso sono collegati inseparabilmente ai dati interni di ciascuna società e alle forze esterne che non mancano mai di manipolarli, in un gioco complesso di rivalità internazionali. Il controllo di questi fattori sfugge sia ai nuovi Stati sorti dopo la conquista dell'indipendenza, sia ai grandi centri occidentali di iniziativa politica, economica e tecnologica (v. Amin, 1973).

L'Occidente, in realtà, non si è mai curato di prevenire, o almeno di mitigare, i problemi lasciati in eredità dall'epoca coloniale e quelli nuovi suscitati dall'ideologia dello sviluppo, lanciata negli anni sessanta per perpetuare di fatto, sotto la nuova forma della cooperazione, vantaggi economici o addirittura posizioni palesemente strategiche. Dagli anni settanta in poi, la crisi energetica di cui ci si è tanto serviti per dissimulare una crisi più profonda e duratura, in particolare in Europa, si è alla fine tradotta in una maggiore pressione sull'economia delle società musulmane.

È in questo contesto di scambio sempre più ineguale che va inserita l'analisi dei seguenti quattro grandi fattori di evoluzione: la questione dello Stato e l'edificazione nazionale; l'economia e la società; la questione culturale; il fattore religioso.

L'ordine di questa elencazione vuole esprimere, nello stesso tempo, la gerarchia effettiva che intercorre tra le diverse forze dello sviluppo storico attuale, e una strategia conoscitiva. Apparentemente, il fattore religioso - nella fattispecie l'Islam - dovrebbe essere esaminato per primo; in realtà, se il discorso sociale prevalente suggerisce questa priorità, quel che bisogna mettere in evidenza è il modo in cui la religione è manipolata sotto la pressione crescente di mire politiche, di realtà economiche e sociali e della disgregazione della cultura.

a) La questione dello Stato e l'edificazione nazionale

Tutti i tentativi fatti per fissare una tipologia degli Stati contemporanei nei paesi islamici si scontrano con difficoltà insormontabili. Non si può parlare nè di monarchie puramente tradizionali o modernizzatrici, nè di repubbliche effettivamente rivoluzionarie, nè di repubbliche liberali, nè di Stati totalitari, nè di Stati-nazione, Stati-gestori, Statipartito, Stati-filosofi, ecc. Il problema sta nel fatto che ciascuno Stato presenta caratteristiche riconducibili a più di uno di questi tipi che, senza dubbio, esistono solo nelle tassonomie dei teorici. Le monarchie dell'Arabia Saudita, della Giordania e del Marocco hanno innegabili caratteri tradizionali, ma sono anche compenetrate da pratiche, preoccupazioni e strutture del tutto moderne. Allo stesso modo, gli Stati algerino, libico, iracheno e iraniano hanno coltivato intenti rivoluzionari, ma la forza delle cose li ha ricondotti a concezioni e pratiche tutt'al più riformiste. La presenza o l'assenza di precedenti storici hanno pure la loro importanza: il Marocco conosce una continuità statale fin dalla sua fondazione, all'inizio del IX secolo, improntata a un modello islamico (dinastia degli Idrisidi); lo stesso vale per l'Egitto, l'Iran e la Turchia. In Algeria invece c'è una discontinuità nell'esperienza statale che costituisce il dato di maggior rilievo fino all'indipendenza; il Pākistan e il Bangla Desh, infine, rappresentano un caso estremo d'improvvisazione di un apparato statale partendo da un'impostazione puramente islamica.

L'improvvisazione è la caratteristica comune di tutte le esperienze statali in corso dagli anni cinquanta-sessanta in poi. I richiami alle democrazie cosiddette liberali o popolari sono sempre frammentari e ingannevoli; si danno attributi formali di modernità a una pratica del potere che, in effetti, ha le sue radici nella più antica psicologia sociale. Seguendo le indicazioni degli antropologi, va richiamata l'attenzione sull'autoritarismo del capo unico - re o presidente - che riproduce la figura dell'autorità quale si fissa nei processi di socializzazione tradizionali, come le relazioni padre-figlio, madre-figlia, marito-moglie, maestro-allievo (nel rapporto pedagogico), maestro spirituale-aspirante discepolo (nel rapporto d'iniziazione mistica), padrone-cliente (nei rapporti patrimoniali), padrone-apprendista (nelle corporazioni artigiane), datore di lavoro-impiegato, caposubordinato (nella burocrazia attuale). Tutte queste relazioni continuano ad agire con forza, anche quando sono mascherate - come avviene a livello statale - con qualche tratto di ‛modernità'.

In queste condizioni, la questione delle legittimità - di così capitale importanza per i regimi nati da colpi di Stato, ma ugualmente presente nelle monarchie tradizionali che rifiutano qualunque concessione democratica ai loro popoli - può essere affrontata solo facendo ricorso alla religione. Infatti, è appunto l'islamismo che, nell'immaginario collettivo, f o n d a tutte le relazioni di autorità attraverso cui si opera la socializzazione e si perpetua un ‛ordine': il termine mawla per esempio, si riferisce, secondo i contesti, al Signore-Dio, al signore-sultano, al re o emiro, al padrone-proprietario terriero, al maestro-santone e, più in generale, a ogni superiore gerarchico.

La definizione classica della Legge religiosa nell'Islam è stata assimilata dall'immaginario collettivo sia attraverso l'insegnamento teorico (teologia e uṣūl-al-fiqh), sia attraverso la pratica del potere nei califfati, emirati o sultanati. Nei suoi studi sui movimenti popolari urbani durante il medioevo Cl. Cahen ha descritto una situazione che resta valida per tutti gli Stati che - al di là della frattura aperta dal periodo coloniale - vogliono oggi trarre la loro legittimità dal ritorno alla Legge religiosa: ‟In una società in cui la Legge, data da Dio, è sotto la tutela della comunità e in cui il sovrano, che deve organizzarne l'applicazione, non ne è la fonte nè il garante, lo Stato non può essere concepito che come una sovrastruttura verso cui il popolo non sente alcuna solidarietà, una sovrastruttura che è tanto più estranea in quanto nei fatti i principi sono chiamati a prendere delle misure che non rientrano nella Legge. Tanto più essenziale è, allora, in tutti gli ambienti, la ricerca di forme di solidarietà (e nello stesso tempo di protezione) puramente privata" (cfr. Cl. Cahen, Mouvements populaires et autonomisme urbain dans l'Asie musulmane du Moyen-Age, in ‟Arabica", 1958, V, pp. 225-250 e 1959, VI, pp. 25-56).

Nella misura in cui la coscienza collettiva musulmana percepisce oggi chiaramente la differenza di status ontologico tra Legge divina e legislazione umana, essa non può che distaccarsi da poteri che, palesemente, sono piuttosto orientati nel senso della secolarizzazione di fatto. Dappertutto lo Stato prende misure che non rientrano nella Legge religiosa, pur favorendo iniziative internazionali che tendono a rafforzare la solidarietà islamica (si pensi alla Banca islamica di sviluppo, alla Camera islamica per il commercio e l'industria, all'Associazione delle capitali islamiche, all'Agenzia islamica internazionale di stampa, alla Federazione islamica internazionale delle organizzazioni studentesche, all'Assemblea mondiale della gioventù musulmana, ecc.).

La maggior parte degli Stati gioca, con maggiore o minore abilità, sull'ambiguità di una preminenza di fatto riconosciuta agli ingranaggi, alle istituzioni, alle tecnocrazie ‛moderne', accompagnate dalla proclamazione dell'Islam come religione ufficiale. Là dove lo Stato è più decisamente laico, come in Tunisia o in Turchia, la virulenza dei movimenti cosiddetti islamici è sensibilmente più marcata. In altri casi, come per esempio in Indonesia, dove il principio di uno Stato islamico non è riuscito a imporsi, la richiesta delle masse sta diventando pressante. Tuttavia, nè gli apparati dello Stato, nè i loro contestatori, sia integralisti che modernisti, pensano a porre in modo nuovo la questione dello Stato alla luce delle esperienze in corso non solo nelle giovani nazioni musulmane, ma anche nelle democrazie occidentali. Ci si accontenta di riprendere le idee dei teorici medievali come Mawardi, Ibn Taimiyyah, Ibn Khaldūn, senza rendersi conto che questi autori ancora non sono stati oggetto di analisi moderne che mettano in luce la radicale discontinuità che vi è tra le concezioni e le pratiche medievali e quelle che tendono a imporsi nel contesto di società fortemente urbanizzate e industrializzate. In questo modo la persistenza di sensibilità e di processi di socializzazione arcaici, di credenze e rappresentazioni sbrigativamente qualificate come ‛islamiche', si combina con il vuoto teorico in cui navigano gli intellettuali, per favorire il trionfo di Stati formalmente ‛moderni', socioculturalmente funzionali, ma politicamente e giuridicamente anacronistici (cfr. M. Carnoy, The state and political theory, Philadelphia 1984; cfr. F. Chàtelet ed É. Pisier-Couchner, Les conceptions politiques du XXe siecle, Paris 1981).

Di conseguenza, si capisce come l'improvvisazione costituisca la regola generale nelle pratiche di governo. Ogni forma di esercizio del potere, a livello statale, poggia su un fondo di principi etnici, politici e culturali, a cui si riferiscono implicitamente quelli che decidono; la pertinenza delle improvvisazioni dipende dal grado di coerenza realizzato nel combinare i principî di origine occidentale cioè la filosofia illuministica più o meno mescolata con frammenti di ideologia marxista - e i ‛valori' nazionali: Pancadila Sakti o i cinque principî fondamentali in Indonesia, valori ‛arabi', modello islamico. Si parla del carisma di alcuni capi, come Burghiba e Nasser, quando le loro intuizioni coincidono esattamente con le grandi emozioni collettive.

Quali che siano l'orientamento dei regimi e la qualità dei leaders, dappertutto si coglie uno scopo costante: costruire la nazione, consolidare la sua unità al di là delle etnie, confessioni, gruppi d'interesse, classi che tendono ad affermare dei punti di convergenza oppure delle autonomie regionali.

Il ricorso all'islamismo rafforza la politica di centralizzazione, condotta con energia e senza concessioni da tutti gli Stati; c'è convergenza tra l'appello dell'islamismo all'unità nella comunità e l'appello dello Stato a formare la nazione: la parola umma in arabo esprime entrambi questi concetti, la cui genesi culturale e storica è tuttavia molto differente. Riemerge qui l'ambiguità di fondo dei rapporti dello Stato con la religione e con la nazione, che si rafforza in quanto è favorita dall'ambiguità dei principi nella coscienza dei credenti-cittadini.

L'ideologia nasseriana aveva abbozzato una separazione tra istanze della ‛Nazione araba' e delle diverse nazioni arabe da un lato, e dell'umma musulmana dall'altro; essa però non poteva rinunciare a un'ambiguità che sola poteva consentire di mobilitare, nello stesso tempo, l'intellighenzia laica e le masse, sensibili unicamente al richiamo religioso. La sua sconfitta - legata certamente a ragioni complesse - spiega il fatto che oggi solo il Ba'th continui a parlare di Nazione araba, pur senza trascurare - soprattutto nell' ‛Irāq in guerra contro l'Iran - la ribadita fedeltà all'Islam e all'umma. Si vedrà più avanti come la labilità dei confini sociali e l'assenza di una classe sufficientemente omogenea e protetta dall'autoritarismo statale spieghino l'ambiguità costante che si coltiva nel linguaggio ufficiale.

Gli Stati vogliono essenzialmente essere Stati-nazione, anziché semplici Stati-gestori; tuttavia, malgrado sforzi spesso meritori e successi variabili secondo i paesi, le congiunture e i settori della vita nazionale, si deve riconoscere che essi rimangono innanzitutto Stati-partito, nei quali il partito stesso è soggetto alla volontà del capo che, a sua volta, deve saper utilizzare le tre forze che si sono rivelate fondamentali per tutti i sistemi statali dagli anni sessanta in poi: la polizia, le forze armate e l'informazione (che si dovrebbe chiamare piuttosto ‛orientamento nazionale').

b) L'economia e la società

L'evoluzione economica delle società musulmane, da una trentina d'anni, è determinata a un tempo dal volontarismo politico degli Stati ricchi, che puntavano a un decollo immediato; dalla realtà ineluttabile dello ‛scambio ineguale' tra ‛centro' e ‛periferia' (per questa terminologia v. Amin, 1973; v. Sid Ahmed, 1983); dal ritardo culturale, che aggrava la dipendenza tecnologica e spiega gli effetti perversi di ogni tentativo d'industrializzazione; dall'esodo della popolazione rurale verso città pletoriche, con conseguenze drammatiche per l'agricoltura; dall'evoluzione demografica.

Tutti questi fattori continuano a essere oggetto di studi ridondanti e rapidamente superati. Oli economisti insistono più su dati statistici effimeri che sulle difficoltà strutturali, difficili da analizzare, come l'inadeguatezza delle culture tradizionali nei confronti degli imperativi tecnologici.

Se si tiene conto delle risorse naturali e umane dei paesi musulmani, essi si possono suddividere in 3 categorie: 1) paesi produttori di petrolio, come Algeria, Arabia Saudita, Libia, Indonesia, ecc. (le possibilità di utilizzazione della rendita petrolifera differiscono secondo le potenzialità umane e gli atouts economici di ciascun paese: per esempio, la scarsa popolazione della Libia contrasta con il peso demografico che hanno l'Algeria e l'Indonesia); 2) paesi finanziariamente meno prosperi, ma caratterizzati da una relativa modernità sul piano materiale e anche intellettuale, come il Marocco, la Tunisia, l'Egitto, la Siria, la Turchia, ecc.; 3) paesi molto poveri, come il Sudan, la Somalia, i due Yemen, la Mauritania, ecc.

I paesi produttori di petrolio sono i più integrati, sia pure come entità a sé stanti, nel sistema capitalistico mondiale. Essi hanno acquistato un'importanza via via crescente dopo il 1973, quando l'Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (OPEC) decise un forte aumento dei prezzi. Fino ad allora i maggiori profitti erano andati alle grandi compagnie, che si erano assicurate il monopolio della ricerca e dello sfruttamento. Non bisogna dimenticare che in alcuni paesi lo sfruttamento è iniziato da non molti anni: nel 1953 negli Emirati Arabi, nel 1957 in Algeria, nel 1959 in Libia, nel 1966 in Tunisia. Nel 1951 Mossaddeq fallì nel suo tentativo di nazionalizzazione; l'Algeria vi riuscì nel 1967 e nel 1971. L'OPEC è stata creata soltanto nel 1968.

Queste date sono indicative della rapidità dei processi evolutivi nelle economie petrolifere. In meno di 20 anni, il paesaggio urbano e il tessuto socioeconomico di paesi come l'Arabia Saudita, l'‛Irāq, l'Iran e l'Algeria sono profondamente mutati. La prova drammatica che vive l'Iran dopo il 1978-1979 testimonia gli squilibri causati da una politica di sviluppo volontaristica e arbitraria. Anche se altrove non si sono avuti rivolgimenti della stessa portata, non sono rare però le manifestazioni violente, come quelle del gennaio 1984 in Tunisia e in Marocco. La rapidità dei cambiamenti è vissuta dappertutto in modo doloroso da parte di popolazioni fortemente radicate nelle vecchie culture delle popolazioni contadine, montanare o che praticano la pastorizia. Tra il 1960 e il 1980 la popolazione attiva nell'agricoltura è passata dal 67 al 25% in Algeria, dal 53 al 42% in ‛Irāq, dal 44 al 2o% in Giordania, dal 56 al 34% in Tunisia. Città che erano state concepite per la borghesia tradizionale, gli artigiani o i funzionari coloniali sono esplose sotto la duplice pressione delle masse rurali e della crescita demografica. Riforme agrarie improvvisate hanno seguito da vicino gli sconvolgimenti politici, come in Egitto (1952), in ‛Irāq (1958), in Libia (1968), in Siria (1958-1960), in Algeria (1962-1966 e 1972-1973), in Iran (1975). Nel 1970 l'Iran esportava grano, riso, tè, zucchero, cotone; una riforma di tipo burocratico, basata su grandi investimenti concentrati in 20 poli di sviluppo, ha svuotato le campagne e portato al fallimento parecchi complessi agroindustriali. Oggi, la maggior parte dei paesi produttori di petrolio è costretta a importare quantità sempre maggiori di prodotti agricoli: al calo della produzione nazionale si è aggiunta, infatti, l'espansione dei consumi secondo il modello urbano dei paesi industrializzati (v. Sid Ahmed, 1983).

Siano essi ricchi, relativamente agiati o molto poveri, tutti i paesi musulmani affrontano difficoltà analoghe, che qui ci si limiterà a riassumere sommariamente.

1. Il concetto di sviluppo non cessa di essere dibattuto e continuamente rimesso in discussione dagli economisti, ma gli esecutori politici e i loro consiglieri hanno fatto prevalere soluzioni improvvisate trascurando generalmente i costi umani e culturali. Gli slogan ideologici del socialismo scientifico o le tranquille ‛certezze' del capitalismo liberale non hanno lasciato nessuna possibilità di espressione agli operatori economici nazionali e ai lavoratori. Sono stati ignorati i processi di sottosviluppo che, storicamente, in molti paesi risalgono al XVII e al XVIII secolo (in realtà la storia economica e sociale dei paesi musulmani dal XVI secolo in poi è ancora tutta da scrivere).

2. Per i paesi industrializzati, in primo luogo le ex potenze coloniali, era cosi difficile accettare l'idea di uno sviluppo delle loro ex colonie che hanno cercato, al contrario, di conservare, sotto la copertura della cooperazione, i vantaggi acquisiti durante il periodo della colonizzazione, o persino di conquistarne di nuovi.

3. I livelli di cultura dei differenti gruppi sociali restano assai lontani dal grado di formazione scientifica e tecnica richiesto dall'attività industriale moderna. Si assiste addirittura a un processo opposto, che si potrebbe definire di ritorno alla tradizione: gli operatori sociali si rifugiano nei valori religiosi tradizionali per resistere all'aggressione di un sistema di produzione e di scambio instaurato con brutalità (si veda il caso dell'industrializzazione in Algeria e in Iran).

4. La formazione dei quadri ingegneri, operai specializzati, alti funzionari - richiede più tempo e maggiori investimenti culturali dell'introduzione di fabbriche ‛chiavi in mano' con personale straniero. Le zone in cui si trovano installate queste fabbriche stanno diventando delle isole collegate più alle grandi società occidentali che al resto del paese. La disintegrazione, la marginalizzazione e persino l'eliminazione delle attività produttive tradizionali (artigianato, agricoltura) appaiono più evidenti dell'integrazione promessa dai teorici.

5. In ogni caso, la dipendenza tecnologica, alimentare e finanziaria (anche per i paesi produttori di petrolio) è cresciuta in misura diversa secondo i paesi e i regimi. La crescita demografica ha accelerato quest'evoluzione, obbligando un gran numero di giovani a emigrare sia all'interno del mondo musulmano (Pakistani, Indiani ed Egiziani in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi) che fuori di esso (Maghrebini in Francia, Turchi nella Germania Occidentale, ecc.). I bassi salari (come per esempio in Egitto), la guerra civile in Libano, l'oppressione politica diffusa un po' dovunque hanno ulteriormente alimentato la fuga di cervelli verso i paesi sviluppati.

6. Il rafforzamento degli schemi culturali conservatori e l'abbondanza di manodopera maschile sul mercato del lavoro hanno fatto sì che le donne restassero confinate nell'attività domestica. Il numero di quelle che sfuggono a questo duro destino è molto limitato e l'emancipazione giuridica e psicologica è resa difficile dalla diffusione dell'islamismo ‛rivoluzionario'.

7. L'ineguale distribuzione del reddito nazionale - l'industria opera a danno dell'agricoltura, la città a danno della campagna, i settori ricchi a danno dei settori poveri, ecc. - favorisce forme di produzione, di scambio e di consumo aperte verso il sistema economico mondiale. Le grandi società multinazionali e gli Stati si trovano a operare in questi contesti senza alcuna cattiva coscienza, ma gli esperti stranieri che attuano i programmi di cooperazione si rendono conto dell'inadeguatezza e persino degli effetti nocivi della loro attività. Gli operatori nazionali sono ancora più frustrati, perchè non partecipano alle scelte politiche che definiscono gli indirizzi e le finalità dello sviluppo.

8. Alcuni paesi musulmani, come l'Arabia Saudita, il Pakistan, l'Iran attuale, ecc., incoraggiano lo sviluppo di ricerche teoriche che fondino un sistema economico islamico basato esclusivamente sugli insegnamenti del Corano, della sunna (la tradizione imamita in Iran) e della sharī‛a o Legge religiosa. A Gedda esiste un Centro internazionale di ricerche sull'economia islamica, come esiste una Banca islamica che applica il principio del credito senza interesse. Questi tentativi rafforzano la credibilità dei movimenti islamici che rifiutano i modelli capitalistici o marxisti ma, come alternative efficaci alle teorie e alle pratiche dell'economia moderna, non reggono all'analisi critica (v. Timur, 1985).

9. I problemi del dopo-petrolio saranno tanto più gravi quanto più le politiche di risanamento, di riconversione e d'integrazione di tutte le attività nazionali saranno state tardive, insufficienti o inadeguate durante gli anni ottantanovanta. Il tempo utile per effettuare queste revisioni dipende evidentemente dalla rapidità con cui le economie occidentali supereranno la propria crisi e troveranno fonti di energia alternativa.

10. La sorte dei paesi poveri dipenderà ancora per molto tempo dalla più volte ribadita solidarietà islamica e dall'affermarsi di un nuovo ordine economico mondiale, costantemente invocato in tutte le organizzazioni internazionali.

Queste rapide indicazioni sull'evoluzione economica acquisteranno maggior significato se esaminate alla luce dei dati sociali corrispondenti. In primo luogo occorrerà tener presente la difficoltà di identificare delle classi sociali coscienti della loro posizione e del loro ruolo, che godano di attributi e di privilegi o soffrano di soggezioni che alimentano la dialettica sociale. Quest'ultima si è sicuramente intensificata negli anni sessanta e settanta, ma l'autoritarismo degli Stati, la fragilità delle economie, la precarietà dei ruoli e delle posizioni, la mobilità sociale, gli sconvolgimenti istituzionali e del costume, l'incepparsi e il dissolversi delle solidarietà tradizionali, la comparsa di nuove élites politiche ritardano ovunque la formazione di classi sociali capaci di svolgere un ruolo d'integrazione e dinamizzazione di tutta la società.

Più si spinge a fondo l'analisi della stratificazione sociale, più si rende evidente un duplice fenomeno, che caratterizza tutte le società musulmane contemporanee. Il processo di modernizzazione favorisce, come si è visto, l'appello a tecnici, ingegneri, funzionari, insegnanti, medici, uomini di legge, ufficiali: tutta gente istruita e al servizio dello Stato. Questi operatori sono necessari per il funzionamento della nuova economia, ma sono politicamente dipendenti; essi costituiscono una classe media che svolge funzioni di mediazione, più o meno efficace, tra la modernità e la tradizione, tra lo Stato e il resto della società. Ciononostante, non si può parlare di una classe omogenea: in essa alcuni elementi s'oppongono violentemente alla tradizione, altri, al contrario, rifiutano la modernità (è stato rilevato che i movimenti islamici reclutano molti aderenti tra gli ‛scienziati'). Tutti godono di privilegi modesti, ma abbastanza significativi da impedire la formazione di uno spirito rivoluzionario volto contro regimi che si limitano a promettere la modernizzazione. La dinamica della classe media la spingerebbe a chiedere una più accentuata modernizzazione e partecipazione politica, ma sono i militari che rovesciano i regimi tradizionali e tendono ad appoggiarsi sulle forze popolari. La classe media è così mantenuta in posizione di dipendenza, ma lavora ad accrescere i propri privilegi, soprattutto dal momento che sottostà a privilegi ancor più esorbitanti.

Il secondo fenomeno sociale importante è l'assenza d'una borghesia con basi economiche, sociali e politiche sufficientemente ampie e garantite da consentirle un ruolo storico paragonabile a quello della borghesia europea a partire dal XVIII secolo.

Si dovrebbe quindi risalire lontano nella storia sociale di ciascun paese oggi costituito in ‛nazione' (alludo ai confini spesso arbitrari tracciati dai colonizzatori; alle creazioni recenti, come il Pakistan o il Bangia Desh; alle scissioni, come quella tra i due Yemen) per poter spiegare la discontinuità, la debolezza, il carattere parassitario di quella che, nella maggior parte dei casi, si può definire la ‛borghesia'. Là dove si era troppo compromessa con i colonizzatori, una volta raggiunta l'indipendenza ha subito colpi molto duri. Questo spiega il carattere populista di parecchi regimi e la loro incapacità di trasformare radicalmente le strutture di potere, la visione del mondo, i modi di produzione e di scambio nel quadro di un unico movimento d'integrazione sociale. Le rivoluzioni oscillano tra il richiamo diretto alle democrazie popolari e il ritorno a un modello islamico che esiste solo nel mondo immaginario dei militanti.

Ciò non significa che la borghesia sia indispensabile per la trasformazione globale della società: la classe media o il proletariato potrebbero assolvere un compito equivalente, se ve ne fossero le condizioni politiche e culturali. Ma si è visto che la precarietà dell'industrializzazione e i colpi inflitti all'agricoltura sono stati tali che la formazione di un proletariato operaio ha subito necessariamente dei ritardi: quando l'educazione sindacale ne avrebbe potuto favorire l'emergere, il controllo statale si è rivelato ancor più rigido. Gli operai sono sparsi in fabbriche isolate le une dalle altre; possono essere in maggioranza stranieri (in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi) o dipendenti dello Stato (in Algeria), e questo limita ogni azione rivendicativa. Il controllo ideologico si estende persino ai lavoratori emigrati nei paesi industrializzati.

In queste condizioni si può capire che non vi siano nemmeno gruppi sociali paragonabili agli intellettuali dell'Occidente. Se si definiscono questi ultimi in base alla loro funzione critica, si vede subito che il loro numero è assai ristretto in ognuna delle società considerate. Gli ulema, custodi dei valori religiosi, sono più numerosi, più riconoscibili ideologicamente, sociologicamente più influenti, ma non esercitano alcuna autorità spirituale indipendente, perché sono debitori delle loro funzioni e spesso anche dei loro privilegi nei confronti dei regimi al potere. Per questo, essi sono gli antagonisti diretti degli intellettuali aperti alla cultura laica, connessa peraltro alla tecnologia e alla civiltà materiale importate dall'Occidente. Sul piano socioculturale questi intellettuali hanno un'udienza ancora molto limitata: ecco perché, se non sono degli opportunisti, si vedono costretti al silenzio, alla prudenza e all'autocensura.

Nella stessa ottica va sottolineata l'assenza quasi totale delle donne dalla scena sociale e culturale. L'islamismo radicale che si va diffondendo aggrava la contraddizione tra la condizione di stampo medievale imposta alle donne e la spinta delle forze laiche che alimentano il bisogno di emancipazione, specialmente presso le donne che hanno avuto una formazione scolastica e universitaria. Nessuno può dire con esattezza quali siano le tensioni quotidiane, le lacerazioni familiari, i riflessi sul piano psichico e psicosociale indotti dallo scontro continuo tra una volontà tradizionalista e l'incomprimibile reazione vitale di una popolazione giovane e in espansione demografica. Forse è proprio in questo settore sociale che, all'insaputa di tutti, dirigenti e osservatori, si gioca il destino delle società musulmane contemporanee; quando le donne smetteranno di essere, nell'ambito familiare, gli agenti riproduttori degli schemi culturali tradizionali, l'ideologia islamica di cui esse sono nello stesso tempo il sostegno e le vittime perderà il suo fondamento socioculturale più solido.

Come si può notare, la questione culturale è il presupposto di tutte le prospettive di analisi sociale ed economica sopra delineate. Si vedrà ora come essa condizioni ogni politica di sviluppo unitario e globale, alla cui realizzazione è allo stesso tempo legata.

c) La questione culturale

La nuova fase storica inauguratasi ovunque a seguito della proclamazione dell'indipendenza, o di rivoluzioni nate all'insegna dell'euforia, come quella egiziana del 1952, faceva sperare in una fioritura della vita intellettuale, in un rinnovamento della creatività culturale, nell'apertura di nuovi campi conoscitivi, particolarmente rispetto alle diverse forme di espressione della civiltà islamica. In effetti, la produzione poetica, i romanzi, le novelle, i saggi, i film e persino la pittura e la scultura non sono mancati; le riviste e i giornali si sono moltiplicati, anche se sono tuttora controllati dal partito unico; i convegni, le conferenze internazionali, i dibattiti si succedono l'uno all'altro in un clima di competizione fra le diverse nazioni musulmane (particolarmente per celebrare gli anniversari di grandi figure del passato, per esempio Ibn Khaldun). In questo modo si è sviluppato un immenso dialogo collettivo (arabo, turco, iraniano e laico fino al 1970, islamico dopo), che ha percorso il mondo anche al di là della stessa area islamica. Con la guerra civile in Libano, la rivoluzione iraniana, la pressione della censura nella maggior parte dei paesi islamici, la vita intellettuale e la cultura hanno cercato rifugio nelle grandi città come Parigi, Londra, Ginevra, Roma, New York, Chicago.

Quando si cerca di individuare, nel periodo considerato, personalità di spicco, opere significative, correnti di pensiero, scuole letterarie o artistiche, si è immediatamente colpiti dallo stato d'indifferenziazione, una sorta di anonimato o di banalizzazione, dell'attività culturale e intellettuale. Mentre si possono citare parecchi nomi di poeti, romanzieri, intellettuali, cineasti, cantanti che nell'epoca cosiddetta ‛liberale' (1800-1950) avevano superato facilmente i confini nazionali soprattutto nel mondo arabo -, in seguito, la creazione di frontiere nazionali sembra aver limitato la circolazione delle opere e, molto spesso, anche la loro importanza artistica o intellettuale.

Non si possono qui esporre dettagliatamente le nuove condizioni in cui viene esercitata l'attività intellettuale e culturale. L'ideologia ufficiale, onnipresente, non spiega tutto, ma è uno dei fattori determinanti. Bisogna poi ricordare le divisioni linguistiche, in Indonesia, India e Pakistan; l'emarginazione delle minoranze, accentuata dal nazionalismo vincente; le difficoltà di pubblicazione e distribuzione; l'assenza di un pubblico capace di rispondere alle idee e alle creazioni audaci; il ‛disinganno nazionale' che un po' dovunque, ma soprattutto nel mondo arabo dopo la disfatta del 1967, è subentrato all'euforia delle lotte di liberazione nazionale e dei primi anni d'indipendenza; l'analfabetismo, abbastanza diffuso malgrado i progressi spesso spettacolari dell'istruzione; la competizione, ovunque aspra, tra la lingua nazionale, che cerca di modernizsarsi, e le lingue veicolari per la scienza e la tecnologia.

Non si dispone di analisi sociologiche nel campo della produzione e del consumo culturali che permettano di valutare la diffusione reale degli scritti, i tipi di riviste, di giornali, di opere di larga diffusione, le attese dei diversi settori del pubblico rispetto a quello che viene loro offerto. Con la rivoluzione islamica la letteratura apologetica ha certamente conquistato un pubblico più largo, come mai aveva avuto in passato. Questo aspetto sociologico del risveglio dell'islam non viene abbastanza sottolineato. La diffusione del pensiero di ‛Alī Sharī‛ati anche fuori dell'Iran è indicativa dell'ampiezza di una domanda e dei mezzi politici ed economici adottati per farvi fronte. Anche Al-Mawdūdī e Sayyid Quṭb possono essere citati nello stesso senso: essi sono i maîtres à penser di una gioventù che lotta per la restaurazione dell'Islam puro delle origini e la scomparsa della neo-jahiliyya (la società ‛selvaggia', separata dalla Rivelazione). La letteratura apologetica militante, diffusa più di ogni altra, nutre un potente immaginario islamico comune a tutte le società musulmane contemporanee. È ben nota la forza politica di questo immaginario: culturalmente e intellettualmente esso riesce a penetrare negli ambienti permeati di spirito laico; il dibattito su religione e laicità è così diventato uno dei più vivaci, ma anche dei più contorti nel pensiero islamico attuale. Il rifiuto di pensare in termini laici, ripercorrendo invece tutto lo sviluppo storico sotto il segno dell'Islam a partire dall'instaurazione del califfato omayyade, mostra come funziona l'ideologia dominante: sul piano teorico si rifiuta ogni influenza occidentale, ma in realtà si utilizzano i modelli culturali dell'Occidente nella letteratura, nel cinema, nella musica, nella pittura e nell'architettura. Persino la scrittura è influenzata dalla retorica, dalla grammatica, dai procedimenti linguistici occidentali.

È forse nel campo dell'architettura e dell'urbanistica che il mondo dei simboli e dei segni caratteristici dello stile islamico (molto difficile da definire, in realtà, anche per l'epoca classica) è stato maggiormente intaccato. Dovunque, nell'architettura coloniale, la città europea sorgeva accanto alla ‛medina' o città araba e parecchie città storiche hanno così conservato monumenti, case e quartieri che risalgono a epoche più o meno remote. Dopo gli anni sessanta la fisionomia delle grandi metropoli come Teheran, Baghdad, Damasco, Aleppo, Il Cairo, Tripoli, Algeri, Casablanca e altre è notevolmente cambiata: un'urbanistica ‛moderna', ricalcata su quella delle città industriali dell'Occidente, si è imposta dappertutto, spesso a scapito proprio di quartieri tradizionali che avrebbero meritato un trattamento migliore. Persino nelle moschee, molte delle quali sono state costruite negli ultimi vent'anni, sono stati ridotti al livello di meri segnali (minareto, colonne, cupola, nicchia, ecc.) dei simboli e dei segni attraverso cui questi edifici religiosi s'integravano semanticamente nel loro contesto sociale, economico e urbano.

La distruzione dell'universo semiotico legato alla moschea ha colpito ancora più brutalmente certi spazi culturali molto promettenti, come per esempio Ras Beirut, un quartiere brulicante di incontri, di liberi scambi, di possibilità creative, che costituiva qualcosa di unico in tutto il mondo arabo, arricchito anche dalla presenza dell'Università americana dal 1866. Dove si potrebbe trovare oggi un Quartiere latino, un Greenwich Village all'interno del mondo arabo? Beirut era, in generale, il polo d'attrazione degli intellettuali arabi, un luogo importante di pubblicazione e di circolazione dei libri.

Il confessionalismo, che è diventato una fonte di tragedia, avrebbe potuto invece offrire una piattaforma sociale e culturale d'iniziazione alla tolleranza e di ricerca di nuove vie da parte del pensiero religioso. Oggi si assiste al ripiegamento di ogni nazione sulla sua identità nazionale. Gli scambi tra differenti aree linguistiche islamiche sono insignificanti; persino nel caso di paesi molto vicini tra loro, come i paesi maghrebini, le linee di confine possono diventare barriere invalicabili. Il culto del ‛genio nazionale', dell'‛unità nazionale', fa dimenticare la forte omogeneità culturale e religiosa del Maghreb da Bengasi a Rabat. È possibile quindi che lo spirito nazionale si rafforzi negli anni avvenire; una prova sarà costituita dal modo in cui si affronterà il fatto religioso nelle società in pieno sviluppo.

d) Il fatto religioso

Le linee di ricerca che abbiamo seguito ci hanno fatto incontrare più volte l'islamismo: il fatto religioso s'inserisce così, ogni volta, al suo vero posto nelle attività molteplici di una società. È stato per sfuggire al dogmatismo ideologico e, ieri, teologico, che fa della religione il fattore che trascende e determina ogni evoluzione, che abbiamo lasciato al terzo posto l'analisi del fatto religioso. Non si tratta quindi di minimizzame l'importanza o di subordinarlo al fattore economico alla maniera marxista. Tuttavia, è un fatto che, in tutti i regimi instaurati dagli anni cinquanta in poi, l'islamismo è stato utilizzato dal potere politico più di quanto non lo abbia ispirato.

La funzione dell'islamismo in ciascuna societa si puo ricostruire con la storia recente. Così il Pākistan è nato da una scissione dei musulmani indiani all'indomani dell'indipendenza; in India l'islamismo è di sostegno alla minoranza nella sua lotta per conservare un'identità; nello stesso modo, nell'URSS, i musulmani osservano rigorosamente il matrimonio religioso per non mischiarsi con i Russi; in Turchia le confraternite accolgono tutti i fedeli che rifiutano la laicità kemalista; in Indonesia e in Malaysia l'islamismo esprime soprattutto un'identità culturale rispetto agli animisti, ai cristiani, agli occidentali; nell'Africa nera il suo ruolo politico è determinante, sempre attraverso l'intermediazione delle confraternite, come per esempio in Senegal; in Iran Khomeini ha messo fine alla secolarizzazione intempestiva voluta dallo scià; nel mondo arabo Nasser ha combattuto i Fratelli musulmani e il Ba'th ha cercato di ridurre l'islamismo a una semplice componente della personalità araba; in Arabia Saudita l'alleanza del potere con la religione risale alla fondazione stessa della dinastia regnante; nel Maghreb la corrente laica, rafforzata dalla cultura francese, ha impedito finora gli eccessi dell'attivismo islamico, il quale però si sta facendo sempre più minaccioso.

Tuttavia, questa esposizione sommaria non spiega niente. Perché l'islamismo è salito alla ribalta della scena politica e sociale, specialmente a partire dagli anni settanta? Si tratta d'una forza ricorrente propria di questa religione o di una peculiarità dei suoi insegnamenti, che offrirebbero, più di quelli di altre religioni, un'alternativa credibile ai modelli laici? O il fenomeno si deve semplicemente ricondurre ai ritardi accumulati da società che devono rispondere, in breve tempo, a moltepici sfide? Per trovare risposta a questi interrogativi bisogna andare alla radice di ogni potere e dell'obbedienza che esso esige. Il fatto religioso interviene in tutte le società come un referente che attribuisce forza, sacralità e trascendenza a comportamenti profani che altrimenti sarebbero privi di autorità. Il linguaggio religioso, attualizzato nei riti, conferisce un sovrappiù di significato a parole, atteggiamenti, norme, pratiche che di per sé non produrrebbero l'obbedienza. Il fatto che un gruppo accetti di obbedire a un capo è conseguenza dell'autorità carismatica che dà a tutti la possibilità di riferire a significati trascendenti gli usi e i discorsi correnti. I membri del gruppo si sentono vincolati i n t e r i o r m e n t e dal ‛debito di senso' verso il Profeta e, tramite lui, verso Dio. ‟Obbedite a Dio, obbedite al suo Profeta", ripete il Corano. In effetti, l'essenza del fatto religioso si manifesta molto chiaramente nell'insegnamento e nell'opera di Maometto; egli ha imposto a tutti i suoi adepti un pesante ‛debito di senso', accompagnando la sua opera con due tipi di discorsi: i suoi commenti e i suoi comandi personali, espressi nel linguaggio corrente (e questo è lo ḥadīth) e la parola coranica, che trascende e sacralizza, con procedimenti linguistici appropriati, tutte le decisioni e gli eventi prodottisi durante l'apostolato del Profeta. Il sovrappiù di senso che il Corano aggiunge al linguaggio corrente spiega le letture inesauribili che ne fanno i fedeli.

Le società ricorrono con maggiore insistenza a un'autorità legittimatrice nelle fasi di rapida trasformazione. Le società musulmane attuali hanno da risolvere problemi d'identita, di giustizia, di statuto della persona umana, di istituzioni politiche, di valori culturali, ecc. Dal momento in cui è apparso il Corano in poi, tutti questi campi dell'esistenza storico-sociale sono stati penetrati, elaborati, definiti dall'elemento islamico. In effetti, il fatto religioso ha il vantaggio d'agire immediatamente a livelli molteplici e intrecciati, mescolando insieme simbolizzazione, mitizzazione, ritualizzazione, sacralizzazione, ideazione e ideologizzazione; scuotendo contemporaneamente il sentimento, l'immaginario e la ragione; integrando il tutto nell'unico e unificante slancio della fede: un tutto v i s s u t o che l'analisi frantuma, divide secondo livelli, aspetti, ambiti specializzati. Quanto più il fatto religioso è efficace perché globale, immediatamente accessibile a tutti, tanto più le scienze che se ne impadroniscono lo disarticolano, lo spezzettano, lo relegano nel superato, nell'irrazionale, nel leggendario, nel superstizioso, nell'anacronistico, nel fantastico.

È appunto nelle società musulmane attuali che si può constatare come il confronto storico tra religione e laicismo, religione e comunismo, religione e colonialismo, religione e imperialismo (si veda anche l'America Latina) rafforzi il fatto religioso sotto il profilo ideologico, ma tenda invece a indebolirlo sotto il profilo intellettuale e teologico. Il risveglio religioso è un fatto politico perché i popoli hanno bisogno di speranza quando sono minacciati nella loro dignità. Nella religione non ci sono solo trascendenza e sacralità; ci sono elementi psicologici, politici, sociali, culturali, giuridici e questo significa che occorre ridefinire il fatto religioso al di là delle sbrigative demarcazioni imposte dalla scienza positivista o da un potere arbitrario.

L'eccessiva incidenza politica del fatto religioso nelle società musulmane è resa manifesta in particolare dal peso esorbitante riconosciuto alla legge islamica, detta sharī‛a, che effettivamente si adatta più del diritto moderno alla psicologia dei fedeli, in quanto fonda la responsabilità sulla coscienza della colpa, in primo luogo religiosa e secondariamente civile. Tuttavia, quello che forse si guadagna in termini di efficacia etica, si perde in termini di lucidità intellettuale. La riflessione etica e teologica è assente, mentre dovrebbe sollecitare l'attenzione degli ulema, esattamente come al tempo in cui furono elaborati la sharī‛a e i suoi principi fondamentali (usai). Questo divorzio tra la legge e la riflessione teorica è caratteristico di un clima ideologico in cui la religione non rappresenta altro che un atout congiunturale e tattico. Gli ulema al servizio dell'ideologia ufficiale lasciano credere che il lavoro teorico (scienza degli usūl) è stato eseguito, correttamente e definitivamente, dai dottori fondatori di scuole nel II e III secolo dell'Egira, rivelando così una strategia che tende ad annullare ogni dimensione storica, qual è stata utilizzata dalla teologia medievale e ripresa, su grande scala, dagli ideologi contemporanei. Va anche ricordato che gli Stati e le società civili rivolgono, in effetti, richieste molto diverse alla sharī‛a: i primi vogliono, ad un tempo, mantenere l'ordine, grazie alle norme incorporate nel rito, e consolidare la loro legittimità, presentandosi come i sostenitori dell'Islam; le seconde, al contrario, vogliono limitare l'arbitrio politico che rinvia a tempo indefinito l'attuazione della giustizia e delle libertà promesse.

Si rammenti quello che si è detto a proposito dell'assenza di una classe sociale sufficientemente dinamica e aperta da imporre un'alternativa alle soluzioni ‛islamiche' o laiche che si scontrano all'interno delle società musulmane. Si comprenderà che il riproporsi dell'islamismo, indistintamente religione-Stato-mondo secolare (le tre D), non è dovuto all'essenza particolare di questa religione; la separazione o la fusione ditali istanze dipendono dagli agenti sociali, dalla loro cultura, dalla loro situazione politica ed economica. Quanto alla portata filosofica sia della separazione che della fusione, si tratta di definirne i contorni e di metterla in luce attraverso uno studio comparato soprattutto delle pratiche islamiche e occidentali.

3. Lasciar parlare le società

All'inizio di questo saggio è stato espresso il disagio per il fatto di dover parlare dell'Islam in generale e non delle singole società considerate nel loro sviluppo storico e nelle loro specifiche realtà sociologiche.

Le società in questione sono così poco analizzate che le monografie loro dedicate sono spesso ripetitive e vi si ritrovano immancabili considerazioni sull'islamismo in generale. Questo perché è più semplice parlare dell'islamismo in termini di ‛ortodossia' che svelare tutti i meccanismi, le forze e le finalità che regolano la vita di queste società a partire dagli anni cinquanta. Qui il ricercatore si sente mancare il terreno sotto i piedi: gli archivi recenti sono per definizione inaccessibili e le ricerche dirette del sociologo e dell'etnologo provocano diffidenza o un energico rifiuto da parte delle autorità. L'etnologia in particolare risulta sospetta agli occhi dei dirigenti nazionalistici, che la giudicano una scienza ‛colonialista' che risveglia i particolarismi locali e contrasta gli sforzi di unificazione nazionale. Argomento specioso, che ignora sia i progressi recenti dell'etnologia e dell'antropologia, sia il pensiero politico in tema di strutture federative. È sorprendente che nessuno dei regimi che si richiamano all'Islam pensi a soluzioni di tipo federale, che permetterebbero d'integrare nell'unità nazionale gruppi etnici e culturali importanti, come i Curdi, gli Armeni, i Berberi. Questo presupporrebbe però un rispetto fondamentale per le differenti culture che lo Stato giacobino e il rigido nazionalismo del XIX secolo non possono avere.

Le società parlano e hanno voci molteplici. Limitandosi a quel che dicono i documenti scritti, gli storici raccolgono solo una parte di queste voci, quelle più rappresentative, che hanno avuto accesso alla scrittura e alla lettura. È quanto ha fatto la storiografia musulmana, che persino nella fase della trasmissione orale ha selezionato le testimonianze degne di essere messe per iscritto. Questa selezione continua ancora oggi: quando i sociologi e i politologi parlano dei movimenti islamici, trascrivono gli scritti degli ulema e dei capi di questi movimenti. Un gran numero di agenti sociali resta così assente: non solo le donne e i bambini, che pure esprimono verità decisive sulle società, ma anche tutti i ‛silenziosi' ‟il mormorio dei silenziosi", secondo la bella espressione del sociologo egiziano Sayyid ‛Uways, che ha raccolto le frasi scritte dai tassisti del Cairo sulle loro vetture. Lo stesso sociologo ha raccolto e analizzato alcune lettere indirizzate da contadini egiziani analfabeti alla tomba dell'imam al-Shāfi‛ī..

È stato già rilevato che persino tra gli intellettuali ve ne sono alcuni che restano silenziosi, per scelta o per necessità. Cosa vale, allora, una rappresentazione della società basata soltanto sulla selezione di quelli che parlano, o addirittura ‛gridano' ? Eppure è proprio questo che ci offrono generalmente tutte le società musulmane, di ieri e di oggi. Numerose questioni restano senza risposta; molte altre non sono neanche poste. Per concludere, occorre richiamare l'attenzione su un problema ancora poco avvertito in queste società: si tratta del ‛non pensabile' e del ‛non pensato' che si sono accumulati da quando il pensiero islamico è stato dominato dall'ortodossia.

Il ‛non pensabile' ha una dimensione sociale e politica: dopo il processo a Ibn Shannabudh a Baghdad sulle diverse letture del Corano, la discussione in merito alla storia del testo coranico è diventata non pensabile; allo stesso modo, la formazione di raccolte di ḥadīth autentici, sia per i sunniti che per gli scuti, ha reso non pensabile l'esame dei problemi posti dalla trasmissione di questi ḥadīth; si aggiunga l'esempio della dottrina secondo cui il Corano rappresenta qualcosa di creato nel tempo, dottrina professata dai mutaziliti e diventata non pensabile a causa della professione di fede (‛aqīda) del califfo al-Qādir (X-XI secolo). All'interno stesso del pensiero islamico si possono moltiplicare gli esempi. Cosa ancora più grave, i principali problemi filosofici, dibattuti in Occidente dal XVI secolo in poi, sono confinati nel non pensabile in quanto, dopo Averroé (Ibn Rushd), la riflessione filosofica è venuta a mancare.

Oggi, il controllo ideologico conferma questo carattere non pensabile per tutto ciò che riguarda l'Islam: tuttora non si può ‛pensare' la storicità del Corano, dello ḥadīth o della sharī‛a, perché si intaccherebbero i fondamenti della legittimità dei poteri attuali. Ecco perché il risveglio dell'Islam di cui parlano gli osservatori attenti solo alle voci che ‛gridano' avviene sulla base di un immenso ‛non pensato', accumulatosi attraverso i secoli. Questo non pensato è diventato un elemento molto illuminante dei conflitti e delle convulsioni che agitano le società musulmane. Ed è urgente che l'analisi sia estesa a questi aspetti che, come si vede, non riguardano solo la filosofia speculativa. Se i musulmani stessi si scontrano con il non pensabile e il non pensato, come ostacoli tramandati dalla loro storia, che accadrà a quei consiglieri economici, quegli esperti di tutti i campi (ingegneri, architetti, professori) che vengono a ‛cooperare' all'interno di società così poco conosciute? Se si rileggono i capitoli precedenti relativi allo Stato e all'economia alla luce dei concetti che sono stati appena sviluppati, si percepirà forse quali siano le condizioni indispensabili per uno sviluppo integrato e globale dei paesi musulmani. Le società musulmane meritano che, finalmente, sia loro concessa quest'opportunità tanto attesa.

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