ISLAMISMO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

ISLAMISMO

Olivier Carré

(XIX, p. 603; App. I, p. 739; IV, II, p. 236)

A partire dagli anni Settanta il termine ''islamismo'', oltre al suo significato prettamente religioso, ha accentuato il suo valore ideologico e politico, designando le correnti di pensiero e di azione che ispirano alcuni stati e movimenti in favore dell'islamizzazione totale delle istituzioni, del diritto, del governo. Si parla altresì d'integralismo, di fondamentalismo, di radicalismo islamico, di Islàm politico. I vari stati che si dichiarano islamici sono talvolta chiamati ''islamisti'', nel senso che ritengono di realizzare i programmi dei movimenti islamisti e pretendono di ''applicare la šarīa''. Tali stati sono l'Arabia Saudita a partire dalla fondazione della monarchia saudita wahhābita nel 1926, la Libia a partire dall'avvento al potere di Gheddafi nel 1969, il Pakistan dalla ''legislazione islamica'' del 1979 istituita da Zia ul-Haqq (1977-88), l'Iran dall'avvento di Khomeini nel 1979, il Sudan dal 1983. I movimenti islamisti agiscono in generale nella clandestinità contro gli stati non islamici e talvolta contro l'uno o l'altro degli stati islamici (soprattutto l'Arabia Saudita). Ne elenchiamo i principali.

Nel Vicino e Medio Oriente arabo: a) i Fratelli musulmani, che hanno ripreso vita dal 1975 in Egitto, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza occupate da Israele, Israele stesso, Libano, Sudan, ῾Irāq (in ambito sunnita); ma anche b) gruppi dissidenti, che si richiamano al Fratello musulmano egiziano radicale Sayyid Quṭb (impiccato nel 1966), come Takfīr wa hiǧra ("anatema e ritiro") in Egitto nel 1977, e ǧihād dal 1980-81 in Egitto e in Palestina (Gaza e Cisgiordania; col nome di Ḥamas, "Movimento di resistenza musulmana", dal 1988), Tawḥīd in Libano (Tripoli) nel 1982; c) i partiti clandestini sciiti dell'῾Irāq: Da("appello") e Muǧāhidūn ("combattenti"); lo Ḥizb-Allāh ("partito di Dio") sciita estremista e Amal ("speranza"), partito sciita moderato in Libano; d) il Partito della liberazione islamica (Taḥīr Islāmī), che ha base clandestina in Giordania o in Libano, con ramificazioni anche in Egitto, Libia, ῾Irāq e pure in Tunisia e Turchia, unico movimento islamista che preconizzi uno stato islamico unificato unico e un nuovo califfato.

Nel Maghreb: Qiyam ("valori") poi Da in Algeria, Ǧamāat al-Tablīġ ("predicazione") e Gioventù musulmane in Marocco, Azione islamica (poi movimento della Tendenza islamica) in Tunisia, particolarmente attivo negli anni Ottanta.

In Turchia: il Partito della Salvezza nazionale, il gruppo Suleymandjé, e soprattutto il popolarissimo raggruppamento confraternico e politico dei Nourdjou.

In Iran (sciita): i Fidāyān-i Islām dagli anni Settanta, lo Ḥizb Allāh ("partito di Dio") khomeinista dal 1978, con una ramificazione in Libano, e (opposti a Khomeini dal 1981) i Combattenti del popolo (Muǧāhidīn-i H̱alq), alleati con l'῾Irāq dal 1983 e con base in ῾Irāq dal 1986.

In Afghānistān: l'Alleanza dei Muǧāhidīn (dal 1974 separata in sette movimenti, unificata dal 1980).

In Pakistan e in India: la Ǧamāat-i Islāmī, sunnita, dal 1941, e ispiratrice di Zia ul-Haqq dal 1977.

In Indonesia (sunnita): i partiti moderati Nahḍat al-Ulamā ("club degli Ulama"), Masǧumi ("comunità") e i gruppi attivisti Dār al-Islām ("territorio d'islam") e Hizbullah ("partito di Dio"); inoltre effimeri gruppuscoli terroristi recenti, come Imran e Kommando ǧihād.

In Malaysia: il Movimento della gioventù musulmana malese; e nelle Filippine: il Fronte di liberazione Moro.

Nell'Africa subsahariana: in Sudan i Fratelli musulmani dagli anni Cinquanta (=Fronte nazionale islamico degli anni Ottanta); in Nigeria la setta madista attivista di Maī Tatsine dal 1979; nel Mali i Giovani musulmani dagli anni Cinquanta; in Senegal lo Hizboulahi ("partito di Dio") dal 1979.

Tutti questi movimenti, salvo che in Turchia e in India, agiscono, talvolta violentemente, per l'abolizione della laicità dello stato, soprattutto laddove questa esiste de iure (Senegal, Libano, Indonesia).

Di essi, i gruppi più estremisti riprendono le ideologie delle ramificazioni violente, persino terroristiche, dei movimenti eretici ẖāriǧiti (antisunniti e antisciiti) o ismailiti (antisunniti, antisciiti e antifatimidi), in fondamentale rottura con la grande tradizione musulmana sunnita e sciita, politicamente quietistica. Essi sostengono la guerra (ǧihād) contro alcuni musulmani stessi, dichiarati collettivamente rinnegati attivi e, dunque, meritevoli di esecuzione capitale, tramite azioni suicide con finalità di omicidio sacro, particolarmente di tirannicidio.

La radicalizzazione ideologica dei movimenti islamisti segue le fasi qui descritte: progressiva islamizzazione delle istituzioni e guerra contro le potenze coloniali (anni Trenta e Quaranta); islamizzazione moderna del diritto e giustizia sociale islamica (anni Trenta); preparazione di un'avanguardia islamica convinta e rivoluzionaria, votata all'esclusiva sovranità politica di Dio, Ḥākimiyya (anni Sessanta e Settanta); insurrezione violenta immediata contro le potenze rinnegate e instaurazione integrale della šarīa da parte degli stati islamici (anni Settanta e Ottanta). I modi d'intervento di questi movimenti sono di quattro tipi: come gruppi di pressione (per es. in Turchia, Egitto, Mali); come gruppi insurrezionali (Siria nel 1980-82, Libano dal 1980, Afghānistān dal 1978, Iran nel 1978-79); come gruppi di partecipazione diretta o indiretta al potere (per es. in Giordania, Kuwait, Sudan); infine come gruppi esercitanti il potere assoluto (Iran dal 1981, Pakistan nel 1979-88 e altri stati islamici menzionati sopra).

La capacità di mobilitazione di queste ideologie islamiche radicalizzate deriva da due fattori principali. In primo luogo esse rivendicano la legittimità essenziale, quella della cultura di base, l'Islàm, e adottano l'ideologia islamica corrente dell'Islàm ufficiale stesso, pur contestandone la mancanza di sincerità e di efficacia. Infatti l'Islàm ufficiale, dopo la crisi del califfato degli anni Venti e Trenta, adotta la linea integralista (e non più quietistica) di Ibn Taymiyya e dei suoi diffusori, in particolare Ibn Qayyim alǦawziyya. Questa linea in politica è molto vicina alle concezioni ẖāriǧite ed è marginale rispetto alla grande tradizione di pensiero politico sia sunnita che sciita, ben sintetizzata da Ibn H̱aldūn e dai suoi discepoli contemporanei (῾Alī ῾Abd al-Raziq, Muḥammad ῾Imara, ῾Abd Allāh Laroui, ecc.). Essa vuole confondere sfera religiosa e sfera politica (e mondana in generale), ciò che Muḥammad Arkun definisce, per denunciarlo, ''lo slogan DDD'' (dīn=dunya=dawla, "religione, mondo, stato"), caratteristico della ''ragione ortodossa islamica'' attuale. I documenti recenti dell'Islàm ufficiale ripetono a sazietà questo slogan, per es. nella Dichiarazione islamica universale dei diritti dell'uomo (Consiglio islamico mondiale, 1981). I movimenti attivisti estremi intendono solo, a quanto affermano, mettere in pratica questo slogan ufficiale e chiedono all'Islàm ufficiale e alla ''ragione ortodossa'' (poco tradizionale e di fatto molto marginale) di essere conseguente nei fatti.

In secondo luogo, l'attivismo islamico attuale intende colmare due crolli, due vuoti: quello delle strutture tradizionali e quello dei modelli importati dall'Occidente, che sono falliti. Infatti i regimi autoritari e modernizzatori del periodo postcoloniale in terra islamica − Nasser in Egitto, lo scià nell'Iran, Sukarno in Indonesia, Ben Bella e Bū Midyān (Boumedienne) in Algeria, ecc. − per lo più sono falliti, in particolare a seguito di un sensibile sviluppo economico. Proprio le classi medie moderne, molto occidentalizzate e prima favorevoli ai regimi autoritari propugnatori dello sviluppo e dai quali, nelle promesse, dovevano essere favorite, sono quelle che propugnano la rivoluzione islamica. Sayyid Quṭb in Egitto, ῾Alī Šariati e Banī Ṣadr in Iran, ben rappresentano questi strati sociali delusi. Si tratta di cittadini laici, ingegneri, studenti in materie scientifiche o mediche, tecnici, professori. L'Islàm influenza in tal modo la parte moderna e modernizzatrice della società civile, per erigersi contro lo stato poliziesco e militare, di fatto poco modernizzatore e dimentico della sua vera legittimità, l'Islàm.

Questi due fattori (l'incoerenza dell'Islàm ufficiale e lo scacco delle potenze autoritarie occidentalizzate) si riscontrano dovunque entro la fascia di circa 900 milioni di musulmani sparsi sulla terra. La comunità di azione, d'idea, di metodo dei differenti movimenti islamisti da un paese all'altro, attraverso lingue e culture diverse, è sorprendente. I due ispiratori sono l'egiziano Sayyid Quṭb e l'indiano (poi, dopo il 1947, pakistano) Mawdūdī. Quest'ultimo ha visto le sue opere (scritte in urdu e in inglese) tradotte rapidamente e diffusamente dal 1950, in arabo, turco e francese (per l'Africa nera francofona). Le opere di Quṭb, in particolare l'imponente commento, politico e mistico, al Corano, sono state tradotte dal 1970 in urdu, turco, persiano, inglese e francese. Mawdūdī negli anni Cinquanta ha subito l'influenza dei Fratelli musulmani; a sua volta Quṭb è stato profondamente influenzato dagli scritti di Mawdūdī, che in particolare sviluppano in maniera manichea ḥākimiyya o teocrazia (esclusiva sovranità politica immediata di Dio), ǧahiliyya (paganesimo generale del mondo moderno, musulmani compresi), ǧihād (guerra santa armata permanente contro ogni ǧahiliyya, anche contro i musulmani). Anche la Terza teoria mondiale di Gheddafi, pur evitando i riferimenti religiosi e coranici, si situa in quest'ambito di pensiero.

La teoria di Khomeini, nettamente innovatrice e, logicamente, eretica rispetto allo sciismo duodecimano, è molto vicina a quelle di Quṭb e di Mawdūdī, ma vi aggiunge di proprio un aspetto clericale e totalitario, espresso dalla formula divenuta celebre: wilayat i-faqih (interpretata come sovranità politica del giurista musulmano), che equivale quasi all'imāmat sciita, infallibile e ispirato da Dio solo fino all'874. Le particolarità sciite della teoria khomeinista, invece di distinguerla sostanzialmente dagli estremisti sunniti, piuttosto ve l'accostano, abolendo l'ostacolo dottrinale sciita a ogni legittimo attivismo politico: la taqiyya (quietismo politico) durante il lungo periodo di ġayba (assenza dalla terra dell'ultimo imām fino alla resurrezione). È la ragione per cui la rivoluzione islamica iraniana ha avuto nel 1979-80 un'eco assai vasta fra i musulmani del mondo, sunniti al 90%. Non si distingue fra sunniti e sciiti, ma fra estremisti (gli islamici), sunniti e sciiti, e moderati (i musulmani della grande tradizione politicamente quietistica), sunniti e sciiti.

Questi movimenti estremisti hanno una forza di mobilitazione popolare che singolarmente manca ai regimi autoritari propugnatori dello ''sviluppo'' ma dagli scarsi successi materiali. Infatti spesso essi suppliscono alle mancanze e alle frustrazioni dei sistemi pianificati e burocratici poco efficienti e molto corrotti. È nota la mutua assistenza fra gli islamisti, che provoca frammenti di sviluppo autonomo, in piccola scala, di un'economia parallela informale, spesso ''al nero'', sovente più produttiva della grossa macchina statale. Solo, queste solidarietà islamiche sono confessionali e militanti, escludono i non-musulmani, cristiani, ebrei, indu, bahaisti, animisti: violenti scontri interconfessionali segnano dagli anni Settanta la storia dei paesi musulmani, specie Sudan, Egitto, Libano, Iran, India e Pakistan. Le minoranze non musulmane hanno ragione di essere preoccupate dell'islamismo.

Che dire del futuro? Si può certo immaginare che l'Islàm stia subendo un mutamento fondamentale e irreversibile dal quietismo tradizionale all'attivismo politico proprio dell'origine medinese e poi delle tradizioni eretiche e marginali. Ma sembra più ragionevole aspettarsi di veder spuntare un pensiero musulmano politico fedele alla grande tradizione, di fronte alla sfida dell'estremismo islamico e col favore dei suoi scacchi pratici, sia politici che economici. Infatti anche per gli stati islamici rivoluzionari arriva, a loro volta, il momento dei bilanci: le stesse autorità iraniane constatano, dieci anni dopo la rivoluzione, un bilancio economico pesantemente negativo. Dunque l'i. stesso si modera, non senza resistenze e soprassalti dei ''radicali''. L'esperienza politica diretta degli islamisti li obbliga infatti a integrare nel loro sistema logiche politiche, economiche e amministrative che in sé non hanno alcunché di islamico o di non islamico. Repubblica, costituzione, parlamento, democrazia, partiti politici, cittadinanza laica, diritto, ecc. sono nozioni e pratiche, per così dire, francamente naturalizzate islamiche. Sono legittimate dal simbolismo islamico grazie all'esperienza rivoluzionaria archetipa iraniana degli anni Ottanta. Questa nuova legittimità islamica è ormai conferita all'insieme del quadro politico moderno e futuro (di origine naturalmente occidentale) e la grande tradizione potrà nuovamente ritrovare il suo posto e le sue audacie di assimilazione e di adattamento, così caratteristiche della storia musulmana del pensiero e delle pratiche politiche.

Bibl.: L'Islam et l'état dans le monde d'aujourd'hui, a cura di O. Carré, Parigi 1982; O. Carré, G. Michaud, Les Frères musulmans 1928-1982, ivi 1983; G. Kepel, Le Phrophète et Pharaon: les mouvements islamistes dans l'Egypte contemporaine, ivi 1984; E; Sivan, Radical Islam, New Haven 1985; Shiism and social protest, a cura di J.I. Cole e N.R. Kendie, New Haven-Londra 1986 (in particolare, H. Batatu, Shii organisations in Iraq, pp. 186 ss.); O. Carré, P. Dumont, Radicalismes islamiques, Parigi 1986; F. Burgat, L'Islamisme au Maghreb, ivi 1988; B. Etienne, L'islamismo radicale, Milano 1988; D. Hiro, Holy wars. The rise of Islamic foundamentalism, New York 1989; Y.M. Choueiri, Islamic foundamentalism, Londra 1990; R. Du Pasquier, Il risveglio dell'Islam, Torino 1990; R. Schulze, Islamischen Internationalisms in 20 Jahrhundert, Leida 1990; Religious radicalism and politics in the Middle East, a cura di E. Sivan e M. Friedman, Albany 1990; B. Lewis, Il linguaggio politico dell'Islam, Roma-Bari 1991; Id., La rinascita islamica, Torino 1991.

TAG

Fratelli musulmani

Arabia saudita

Stato islamico

Medio oriente

Cisgiordania