ISOCRATE

Enciclopedia Italiana (1933)

ISOCRATE ('Ισοκράτης, Isocrătes)

Arnaldo Momigliano

Oratore ateniese, nato nel 436, figlio di Teodoro del demo di Erchia. La ricchezza del padre gli permise di ricevere una educazione assai raffinata. Non conosciamo i nomi dei maestri, eccetto Gorgia, con cui entrò in relazione in età abbastanza matura; ed è per lo meno senza sicuro fondamento l'ipotesi che fa di lui per un certo tempo uno scolaro di Socrate. Ma dagli stessi scritti si rivela che egli subì l'influenza della Sofistica e della Socratica: e in specie di Protagora e di Prodico. Un rovescio della fortuna familiare alla fine della guerra del Peloponneso costrinse I. a cercare una professione, ed egli si avviò a perfezionare i suoi studî in Tessaglia presso Gorgia, allora assai vecchio, che colà risiedeva. Fu per I. un momento decisivo. Gl'interessi filosofici, non profondi, perché egli rimarrà sempre sfornito della minima capacità speculativa, ma sinceri e ravvivati da una bontà e serenità di animo, caratteristiche della sua personalità, trovarono al contatto con Gorgia il modo di consertarsi con l'amore per l'eloquenza e la bella prosa.

Da quel tempo I. vedra nella stessa retorica la filosofia. Se delle indagini più propriamente teoretiche, che avevano suggerito a Gorgia le sue riflessioni sul non essere, I. non sembra aver mai avuto consapevolezza, egli assimilò e fece suo il risultato di tali indagini: donde la convinzione che non esiste scienza (ἐπιστήνη), ma solo opinione (δόξα); donde per ulteriore conseguenza la valutazione del linguaggio non come espressione di concetto e quindi di verità, ma come organo di persuasione che, adoperato con arte, porta l'uditore a credere e a fare ciò che l'oratore vuole. La psicagogia gorgiana è insomma accettata in pieno (si cfr., tra i passi fondamentali, Panegirico, 8, e Antidosi, 271).

Per un certo periodo, che non va oltre il 390, I. interpretò questa psicagogia nel senso più ovvio e materiale, come arte di sostenere qualsiasi tesi, e mise a disposizione di chi ne aveva bisogno tale arte, guadagnandosi la vita in Atene con lo scrivere orazioni giudiziarie a pagamento, secondo l'uso. Può essere che egli scrivesse anche alcuni di quei componimenti che erano destinati a rovesciare l'opinione comune su qualsiasi argomento, solo per provare l'efficacia dell'eloquenza, ma, mentre ci restano sei orazioni giudiziarie - alcuna delle quali di autenticità contestata (soprattutto il contro Eutinoo e il Trapezitico), sebbene a torto - non ci resta nessuno scritto paradossografico.

Intorno al 390 (forse anche qualche anno prima) un'esigenza morale che fermentava al fondo del suo pensiero porta I. a una crisi, l'unica crisi effettiva della sua lunga vita, prima della battaglia di Cheronea. I. sente la vacuità del suo mestiere, l'assenza di ideali e di convincimenti che lo caratterizza, e lo abbandona per tempo, né più mai amerà di sentire parlare degli anni trascorsi facendo il logografo. La sua psicagogia si permea ora di un contenuto etico, non del tutto estraneo del resto già a Gorgia. Se non c'è verità, c'è però differenza tra opinione e opinione, e la differenza sta nella "utilità" grecamente intesa, cioè nell'elevazione morale, nella saggezza, nell'equilibrio a cui un'opinione piuttosto che un'altra è capace di portare l'uomo. La psicagogia dunque non può persuadere indifferenziatamente a qualsiasi cosa, ma deve guidare gli uomini a nobili convincimenti. E se filosofia è scelta tra le opinioni, filosofo sarà quel retore che saprà ispirarsi nel suo insegnamento alle opinioni migliori.

La timidezza, come confessa I. stesso, gl'impedì di mettere in pratica questi convincimenti nella vita politica e farsi guida di masse; lo spinse invece ad aprire una scuola (trasportata forse per un certo tempo a Chio), in cui l'insegnamento dell'eloquenza era base dell'educazione morale. Come in tal modo nella teoria del valore indifferenziato delle opinioni s'introduca un criterio di certezza morale, che le era contradittorio, è troppo ovvio e non occorre rilevare. Il fatto è che questa trasformazione dell'eloquenza in apostolato morale colpì profondamente i contemporanei e fece di I. uno dei personaggi più celebri del suo tempo. Il proclama della nuova scuola, uscito intorno al 390, l'orazione Contro i Sofisti, cioè contro la retorica amorale dei predecessori, ebbe vasta eco e Platone vi riconobbe nel Fedro uno sforzo verso la vera filosofia; benché poi la fede salda nella verità di Platone si dimostrasse inconciliabile con lo scetticismo di fronte a ogni scienza propria di I., e Platone passasse fra i detrattori di I., fra cui era anche Antistene, nemico della retorica gorgiana, e scrivesse parole assai severe su I. nell'Eutidemo, ricambiato o forse meglio provocato da parole altrettanto dure di I. nel proemio dell'Elena. Comunque sia di questi rapporti fra I. e Platone, assai discussi e molto oscuri, anche per l'incerta cronologia delle opere rispettive, è certo che I. si trovò a rappresentare le aspirazioni di vaste cerchie di persone, appartenenti alle classi agiate, sfornite di vera fede nella religione tradizionale, diffidenti di fronte alle teorie filosofiche, amanti tuttavia un ordine spirituale quale era nell'eloquenza dell'Ateniese. Molti dei più insigni Greci del tempo, uomini politici come Timoteo figlio di Conone, storici come Eforo, oratori come Iperide e Licurgo, poeti tragici come Teodette, furono alla sua scuola oppure ne risentirono profondamente l'influsso: e tra questi ultimi è da mettere anche Teopompo, benché poi si contrapponesse a I. e polemizzasse spesso con lui per la sua diversa concezione del panellenismo. Alla sua scuola si veniva formando quell'ideale dell'oratore come "uomo onesto, abile nel parlare" (vir bonus dicendi peritus), che avrà tanta importanza in tutto lo sviluppo dell'educazione retorica posteriore nel mondo antico e, attraverso l'Umanesimo, nel mondo moderno. Corrispondentemente si formava quello stile, che resterà tipico di I., di calma dignità e nello stesso tempo di minuta artificiosità, con i periodi dal largo movimento, divisi e suddivisi in parti simmetriche, evitando gli iati e cercando recondite armonie: stile in cui la consapevolezza della forza della parola abilmente maneggiata si unisce con la consapevolezza della dignità delle cose che sono dette. E la freddezza levigata che ne risulta è poi anche l'espressione dell'assenza di ogni profondità intellettuale e morale, della facile contentezza di sé - che è pure caratteristica di I. e assai spesso ingenuamente confessata - che viene da quell'ideale di eloquenza saggia e si trasmetterà a tutte le scuole di retorica successive e sarà il più impressionante segno dell'efficacia di I. nella storia della cultura.

I primi scritti che rivelano il rinnovamento di I. sono probabilmente, dopo l'orazione contro i Sofisti, il Busiride e l'Encomio di Elena. Perché, se essi in apparenza continuano la letteratura paradossografica, in realtà la dissolvono con l'introdurvi un'esigenza di serietà, di riflessione morale o moralistica, che le era estranea. Contro un certo Policrate, che aveva fatto un'apologia di un mitico tiranno antropofago di Egitto, Busiride, I. scrive la sua operetta omonima per dimostrare invece in che cosa deve consistere una vera apologia: e fa l'elogio di un perfetto sovrano, introduttore di elementi di civiltà. In modo analogo trasforma l'elogio di Elena del suo maestro Gorgia o, secondo un'altra opinione, l'elogio di Elena scritto da un ignoto contemporaneo.

Ma tali scritti polemici non potevano che essere un ponte di passaggio per un'attività in cui l'eloquenza adempisse veramente alla sua funzione di ammonitrice e banditrice d' ideali. Anche in ciò la stessa attività di Gorgia poteva offrire un avviamento, perché Gorgia aveva pronunciato nel 392 a Olimpia un discorso in cui incitava i Greci alla concordia interna e alla lotta contro il barbaro. E in generale il programma, che, dopo la guerra del Peloponneso e la guerra corinzia, si presentava meglio accetto agl'intellettuali greci, fieri della loro civiltà e consapevoli della profonda differenza del Greco dal barbaro, era la soppressione delle lotte interne per la costituzione di un fronte unico eontro la Persia, che dal secondo periodo della guerra del Peloponneso in poi era diventata arbitra arrogante della vita greca. Ma se questo programma preesisteva a I., esso deve a lui la sua maggiore diffusione lungo un quarantennio: per opera sua esso fu presentato davanti agli uomini di stato più potenti e divenne parte viva della politica del tempo, seppure con risultati che certo I. non attendeva. Nella missione di araldo dell'ideale panellenico I. trovò infine lo scopo della sua vita e la piena attuazione del suo concetto di eloquenza pervasa da un valore morale. Oggi nessuno crede più che la diuturna opera di I. in questo senso sia soltanto una manifestazione di retorica nel significato dispregiativo della parola: la storiografia tedesca del secolo scorso, dal Droysen al Beloch, essendosi sforzata di dimostrare come nella realtà politica del sec. IV a. C. ci sia stato veramente uno sforzo verso l'unità politica della Grecia, che si attuò poi con Filippo di Macedonia, ha anche di necessità rivalutato il teorizzatore di tale unità. L'errore di tale storiografia consiste però nell'aver creduto che il problema dell'unità nazionale s'impostasse nella Grecia antica come negli stati moderni del sec. XIX e quindi nell'aver creduto di vedere in I. un anticipatore di Fichte o di Mazzini o magari di Bismarck o di Cavour. In realtà nella Grecia antica si ebbe un dissidio non mai superato fra l'attaccamento alle libertà delle singole città, considerate sempre come lo stato ideale, e la esigenza di oltrepassarlo per non esaurirsi in lotte intestine. Il dissidio non fu mai composto dai Greci stessi. Lo compose Filippo, sopprimendo uno dei termini, cioè le libertà dei comuni, e unificando la Grecia per assoggettarla a sé; ma fu soluzione che poté essere sopportata rassegnatamente da qualche Greco, non certo vagheggiata da nessuno, e tanto meno da I. Il cui panellenismo è anzi una delle piú tipiche dimostrazioni dell'incapacità dei Greci a superare il dissidio accennato tra il particolarismo e l'unità nazionale.

In sostanza I. è convinto che i Greci costituiscono una civiltà infinitamente superiore alla barbarie delle altre genti e che per conseguenza non devono lottare tra loro, ma contro i barbari e in specie contro il barbaro persiano, che non solo è il più potente, ma è anche il più ricco e perciò può offrire maggiore compenso allo sforzo comune dei Greci e risolvere il problema del pauperismo greco, che I. sente vivamente. L'unità deve essere data dal raccogliersi di tutti gli stati greci intorno a un egemone, dal raccogliersi spontaneamente, cioè per intrinseca persuasione, che è l'unico mezzo lecito fra Greci. Come si vede, in questo concetto di un egemone, a cui tutti devono aderire spontaneamente, c'è una contraddizione, perché se tutti i Greci aderissero spontaneamente, non ci sarebbe bisogno di nessuno che trascinasse gli altri, che è poi, uscendo fuori dalle astrattezze, il compito che I. assegna all'egemone. Nell'idea di un egemone c'è dunque da un lato una concessione alla realtà di fatto, che cioè l'unione spontaneamente non sembrava voler accadere, dall'altro lato un riflesso del particolarismo di I. stesso, greco come gli altri. Tanto è vero che nel Panegirico del 380 I. invoca l'egemonia di Atene, della città "in cui i discepoli sono maestri degli altri Greci". E fu detto giustamente che questo discorso era il manifesto di quella seconda federazione delio-attica che si doveva stringere due anni dopo intorno ad Atene.

Ma I. non poteva trovare compiuto in questa federazione il suo ideale. Non solo perché essa non si occupava della Persia, ma perché egli non poteva tollerare che l'egemone opprimesse le città federate per farle stare insieme: ciò era, secondo lui, tirannide, non egemonia. Ma non si avvedeva che, per la fedeltà dei Greci alle libertà delle loro città (d' ognuno alla propria libertà, s'intende, non a quella degli altri che non veniva mai rispettata), solo la tirannide poteva mantenere salda la compagine di una lega, quando un pericolo imminente non facesse da cemento tra i confederati. Perciò I. andrà cercando tutta la vita un egemone, che non fosse tiranno, e non lo troverà mai. Se ancora nel Plataico (del 371?) egli difendeva il programma della lega delio-attica contro Tebe, anche per amore del suo allievo Timoteo, che era l'anima della lega e dell'opera di I. si era valso spesso nei primi anni della fondazione per la propaganda, già intorno a quel tempo rivolgeva l'attenzione più a uomini singoli che a città, sia perché nell'uomo singolo il particolarismo era più facilmente estinguibile che non in una collettività, sia perché la sua stessa mentalità aristocratica, la sua fiducia estrema nella cultura lo dovevano rendere solidale più con uomini che con partiti. È degli anni intorno al 370 tutta la sua pubblicistica in esortazione e in elogio dei re greci di Salamina, di Cipro, difensori di un estremo baluardo dell'ellenicità contro il Persiano: il Nicocle, l'A Nicocle e soprattutto l'elogio funebre del padre di Nicocle, il re Evagora. Negli anni successivi egli si rivolge ad Alessandro di Fere, a Dionisio di Siracusa, forse al re Agesilao di Sparta, certo al figlio Archidamo, sempre invocando che essi si mettano alla testa di un'azione panellenica. Documenti di tale attività un frammento di lettera a Dionisio, forse interrotto per la morte del tiranno e quindi del 367, e un'orazione e una lettera per Archidamo, la prima del 366 circa, la seconda del 356 (sospettata ingiustamente di essere apocrifa).

Disilluso da tutti questi vani appelli, I. approfitta della crisi manifestatasi nell'organizzazione imperiale di Atene con la guerra sociale (357-55), rivolta dei confederati contro Atene, per insistere presso i concittadini sulla necessità di abbandonare la tirannide per l'egemonia e quindi riformare i costumi nell'interno stesso della città, a impedire che le passioni peggiori prevalgano: dare maggiore autorità a un istituto cosi rispettabile come l'Areopago, assicurare l'elevatezza dei suoi membri rendendo elettive le nomine degli arconti, abolendo cioè l'estrazione a sorte. Tale il contenuto delle orazioni Per la pace e l'Areopagitico, a cui si accompagna il discorso Sullo scambio (l'Antidosi), in cui, sotto specie di difendersi dall'accusa di un certo Lisimaco di essersi sottratto ai suoi doveri di trierarca, proponendo, secondo la solita procedura, lo scambio delle sostanze, egli difende tutta la sua vita di maestro e propagandista e fa l'elogio del suo allievo Timoteo, esempio di egemonia non tirannica.

Ma l'appello è vano ancora una volta, e I. passa infaticato a invocare Filippo di Macedonia nel 346, quando dopo la pace di Filocrate (v. grecia: Storia) appariva arbitro della Grecia, ma non aveva ancora deciso delle sorti della Focide, e gli si attribuivano le intenzioni più disparate. I. gli si rivolge con scopo non diverso da quello degli altri appelli, ma con una trepidazione che solo quel momento poteva imporre. Nel desiderio di veder avverato il proprio sogno di una guerra contro i Persiani guidata da Filippo, v'era anche la speranza di deviare l'attività di Filippo minacciosa per la Grecia. Filippo, pure certo apprezzando il riconoscimento che gli veniva dall'appello di un intellettuale così noto, che lo chiamava re greco di gente barbara e dunque ne ammetteva il diritto d'intervenire in Grecia, era per allora guidato da altri interessi. Ancora il vecchio infaticato sognatore si vide disilludere e, dopo aver incitato una seconda volta Filippo con una lettera del 344 espresse la sua delusione nel Panatenaico, una lunga orazione elaborata faticosamente nelle torture di una malattia tra il 342 e il 339 cioè tra il novantaquattresimo e il novantasettesimo anno di età. In questa orazione, in cui la stessa lunga composizione, a tacere della senilità, importa oscillazioni e oscurità gravissime di pensiero, c'è in sostanza una riaffermazione della fede nelle città greche per sé stesse e soprattutto in Atene: e la figura di Agamennone condottiero greco contro l'Asia è contrapposta a Filippo. Senza più nessun programma preciso per l'avvenire, I. conferma in modo commovente la sua fede nella civiltà dei Greci, mentre Demostene preparava la riscossa, che fallirà a Cheronea.

Se è giusta questa interpretazione (altri crede che I. esprima nel Panatenaico una rassegnazione verso Filippo), ben difficilmente può essere sua la lettera conservata nel corpus dei suoi scritti che egli avrebbe mandata a Filippo dopo la battaglia di Cheronea, per esprimere la propria adesione al nuovo stato di fatto e dire la sua speranza di vedere adempiuti i suoi ideali. Questa lettera è più probabilmente di un falsario, che volle mostrare I. favorevole a Filippo anche in questa contingenza. Contrasta con l'autenticità della lettera anche la tradizione che I. si lasciò morire d'inedia pochi giorni dopo Cheronea: tradizione che uno dei nostri informatori specifica asserendo che si lasciò morire per il dolore della rovina della patria. Questa aggiunta può essere infondata; ma non c'è da dubitare del suicidio di I. a 98 anni, avesse poi motivo nelle sofferenze fisiche o in quelle morali o in entrambe.

Poco dopo che la libertà dei Greci era stata oppressa a Cheronea, moriva così il più appassionato teorico di una unità, che si conciliasse con la libertà. Le contraddizioni intrinseche del suo programma ne spiegano il fallimento, perché chi si accingeva a costruire l'unità comprimeva le libertà comunali: esso però ebbe grande efficacia, perché Filippo nel costituire la lega di Corinto si richiamò senza dubbio alle idee di I., sia pure svuotandole del presupposto di libertà che le animava; e quindi tutta la storia delle leghe greche successive fino all'intervento romano fu per qualche parte sotto l'influenza di I. Il quale ebbe una fortuna grandissima in tutto il mondo antico per il suo stile e per il suo ideale di eloquenza, anche a prescindere dal contenuto dei suoi discorsi non più capiti nel loro valore politico. Sebbene i più raffinati atticisti preferissero Lisia, tuttavia lo stile di I. ebbe importanza determinante nel foggiare lo stile di contemporanei e successori: basti pensare che lo scrupolo di evitare lo iato, caratteristico della prosa letteraria antica, deriva per la massima parte da lui.

Bibl.: Le biografie antiche in A. Westermann, Biographi, Brunswick 1845, p. 245 segg. Edizione principe degli scritti di Demetrio Calcondila, Milano 1493. Migliori edizioni moderne: Benseler-Blass, Lipsia 1885; E. Drerup, Lipsia 1906 (solo il volume 1°). Abbondanti indicazioni bibliografiche nella prefazione del Drerup all'ed. citata e nella vasta monografia del Münscher, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., IX, col 2146 segg. Qui si possono solo dare alcune indicazioni, in specie di opere più recenti, con l'avvertenza che per la valutazione di I. sono indispensabili le più importanti storie greche (v. sotto grecia: Storia). Per l'analisi stilistica, si vedano: F. Blass, Attische Beredsamkeit, III, i, 2ª ed., Lipsia 1893; E. Norden, Antike Kunstprosa, I, 4ª ristampa, Lipsia 1923, p. 113 segg. Per il metodo educativo di I.: A. Burk, Die Pädagogik des I., Würzburg 1923. Per le teorie politiche e la loro efficacia: R. v. Scala, Isokrates und die Geschichtschreibung, in Verhandlungen der 41. Philologenversammlung (1891); J. Kessler, I. und die panhellenische Idee, Paderborn 1910; P. Wendland, Beiträge zur athenischen Politik und Publicistik des IV. Jahrhunderts, in Götting. Nachrichten, 1910, pp. 123 segg., 289 segg.; R. Pöhlmann, I. und das Problem der Demokratie, in Sitzungsb. Bayer. Akad., 1913, i. Abh.; A. Rostagni, I. e Filippo, in Entaphia Pozzi, Torino 1913, p. 131 segg.; M. Muehl, I. und die Geschichtschreibung, I, Würzburg 1917 (la seconda parte non mai pubblicata); G. Mathieu, Les idées politiques d'Isocrate, Parigi 1925; U. Wilcken, Philipp v. Makedonien und die panhellenische Idee, in Sitz. Ber. Preuss. Akad., 1929, p. 291 segg.; A. Momigliano, Filippo il Macedone, Firenze 1933. Per la polemica con Platone, B. v. Hagen, Num simultas intercesserit I. cum Platone, Jena 1906.

TAG

Guerra del peloponneso

Battaglia di cheronea

Dionisio di siracusa

Filippo il macedone

Demetrio calcondila