ISRAELE-PALESTINA: UNA PACE ELUSIVA

XXI Secolo (2009)

Israele-Palestina: una pace elusiva

Sergio Scarantino

La prospettiva geopolitica

Dalla fine della guerra fredda il Vicino Oriente non è più terreno di rivalità e possibile scontro fra superpotenze. L’epicentro delle crisi si è progressivamente spostato verso l’area del Golfo, dove la principale priorità degli Stati Uniti resta quella di assicurare la libertà degli approvvigionamenti petroliferi e, in sostanza, di evitare che un singolo Stato ne assuma un controllo esclusivo. Questo ha alimentato negli ultimi anni del 20° sec. la convinzione che, in una prospettiva geopolitica, il conflitto arabo-israeliano e, in particolare, israelo-palestinese, pur tragico, fosse tuttavia una tragedia circoscritta, residuale (tanto più dopo la pace di Israele con l’Egitto e la Giordania), contenibile con interventi umanitari ed esercizi diplomatici di limitazione dei danni. Si è trattato di una pericolosa illusione ampiamente smentita dagli avvenimenti dei primi anni del 21° secolo. Dalla seconda Intifāḍa, scoppiata nel 2000, al sostegno siriano e iraniano a Ḥezbollāh (Partito di Dio) e Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento della resistenza islamica), dalla guerra in Libano dell’estate 2006 all’allarme suscitato dal programma nucleare dell’Irān, dal crescendo di dichiarazioni minacciose fra quest’ultimo e Israele, fino alle rivelazioni dei servizi statunitensi di una collaborazione fra Corea del Nord e Siria per la costruzione nel territorio di quest’ultima di un sito nucleare militare (poi bombardato dall’aviazione israeliana nel settembre 2007), le ramificazioni e le connessioni fra le diverse aree di crisi sono apparse drammaticamente evidenti.

La politica di mero contenimento dei conflitti nel Vicino Oriente non ha dato i frutti sperati. Il nodo irrisolto della questione palestinese è assurto sempre più a simbolo delle incomprensioni fra Occidente e mondo arabo-islamico e oggi costituisce un fattore reale e costantemente evocato di complicazione nei rapporti reciproci e di turbativa di un dialogo ritenuto altrimenti indispensabile anche per scongiurare le profezie catastrofiste di uno scontro di civiltà. La questione palestinese è uno dei fattori di risentimento antioccidentale e, in particolare, antiamericano nel mondo, ha avuto un ruolo largamente sottovalutato nella formazione ideologica di Osama bin Laden (Usāma ibn Lādin) e dei vertici di al-Qā῾ida e complica la strategia di Washington di attrarre a sé i Paesi arabi moderati. All’Occidente viene regolarmente mossa l’accusa di usare a danno degli arabi palestinesi due pesi e due misure per la mancata attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite sul conflitto arabo-israeliano (la risoluzione n. 194 del 1948 dell’Assemblea generale e le risoluzioni n. 242 del 1967 e n. 338 del 1973 del Consiglio di sicurezza, le più importanti sul conflitto, sono rimaste lettera morta), per l’acquiescenza alle violazioni della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in tempo di guerra, per l’uso asseritamente selettivo e opportunistico del principio di autodeterminazione (l’esempio portato da ultimo riguarda il confronto fra Kosovo e Palestina). A ciò si aggiungono critiche di parzialità nell’esprimere deplorazioni o condanne sulle inadempienze israeliane o palestinesi, nella diversa durezza e tempestività delle risposte sanzionatorie, nella maggiore o minore assertività nella mediazione negoziale. L’accusa all’Occidente di sostenere una parte a scapito dell’altra va ben oltre i gruppi estremisti, che la usano – come al-Qā῾ida – in funzione di scopi politici diversi, ma che possono farlo proprio perché sanno di toccare una corda profonda del sentimento comune nel mondo arabo e islamico.

Sottovalutare il contenzioso israelo-palestinese, a parte il rischio di alienare ulteriormente gli attuali governi arabi amici e di indebolirli nei confronti delle componenti più radicali nei rispettivi Paesi, comporta anche il pericolo di trascinare un conflitto irrisolto e incancrenito verso un’era che potrebbe vedere crescere e allargarsi le minacce militari e quelle terroristiche. Nella regione mediorientale, il moltiplicarsi delle forniture commerciali di centrali atomiche a uso civile potrebbe portare a una successiva proliferazione nucleare, con le incognite che ne derivano. L’aspirazione all’uso dell’atomo per scopi civili è legittima e non contestabile, ma dalla capacità civile acquisita a quella militare sviluppata in proprio, il passo è breve quando ne esista la volontà. Lo insegna l’esperienza dell’India, che elaborò il proprio programma nucleare militare a partire da forniture canadesi di nucleare civile perfettamente legittime. Oggi i Paesi arabi moderati hanno ancora, sul piano strategico, l’interesse a mantenersi sotto l’ombrello protettivo di accordi di sicurezza con Paesi occidentali e con gli Stati Uniti in particolare, per mantenere un equilibrio strategico nella regione e contenere tentazioni di egemonismo, in particolare dell’Irān. Ma è un quadro che potrebbe mutare, in relazione ai rispettivi equilibri interni come a quelli internazionali. Se non si seguirà una via internazionalmente concordata e solidamente garantita per rispondere alla domanda crescente di energia nucleare a scopi civili, lo scenario più probabile è che si proceda in ordine sparso e che ogni Paese cerchi autonomamente di sviluppare una propria capacità.

Per tutto questo insieme di motivi, in una mappa ideale dei punti caldi del globo, dove è tuttora possibile che una crisi locale inneschi meccanismi cumulativi ed esponenziali di destabilizzazione, l’area israelo-palestinese figura a giusto titolo fra le principali. Un’intesa globale di pace fra Israele e il mondo arabo che incorpori una soluzione equa e duratura per i palestinesi non risolverebbe tutti i problemi del Medio Oriente, ma aiuterebbe non poco a stabilizzarne un segmento importante.

Le parti in conflitto

È un doloroso paradosso che il popolo senza terra degli ebrei in fuga dall’Europa abbia trovato rifugio presso uno dei popoli più ospitali del mondo, gli arabi di Palestina, e che quello che poteva essere un innesto fecondo (e che malgrado tutto in parte lo è anche stato) si sia trasformato in una lunga tragedia. Nel 2008 Israele ha compiuto 60 anni di vita. Le due priorità che David Ben Gurion aveva assegnato allo Stato ebraico, la sicurezza e subito dopo la pace con i vicini, sono state conseguite solo in parte. Affermatosi come superpotenza regionale, Israele non è stato seriamente minacciato da alcun esercito arabo da oltre trent’anni, ma resta esposto al terrorismo e ad azioni di guerriglia e ha visto ampliarsi l’arco delle minacce potenziali prima da parte dell’Irāq di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn), che gli lanciò contro ben 120 missili Scud durante la guerra per il Kuwait in cui Israele non rivestiva alcun ruolo, e poi, in prospettiva, dell’Irān di Mahoumud Ahmadinejad (Maḥmūd Aḥmadīnežād). La pace è stata raggiunta lungo le frontiere più estese, quelle con Egitto e Giordania, ma con la Siria permane uno stato di tensione endemica, in cui si alternano sviluppi inquietanti e spiragli di ripresa di dialogo per la pace, mentre in Libano e nei territori di Cisgiordania e Gaza sono emersi nuovi avversari come Ḥezbollāh e Ḥamās. La frontiera più delicata di tutte, quella che dovrebbe separare lo Stato ebraico da uno arabo palestinese, attende ancora di essere tracciata e riconosciuta con un accordo di pace. In più, Israele si sente esposto a un’ipoteca demografica che proietta sulle prospettive future l’ombra di un antico spettro, quello di tornare a essere minoranza. L’immigrazione ebraica, esauritasi l’ultima ondata dall’ex URSS fra il 1990 e il 1994, non compensa più la maggiore crescita demografica arabo-palestinese e l’emigrazione verso gli Stati Uniti e la stessa Europa. Nel territorio fra il mare e il Giordano, nel 2008 vivevano 5,7 milioni di ebrei e 5,3 milioni di arabi palestinesi, di cui 1,5 cittadini oppure residenti permanenti d’Israele. Tuttavia, secondo le proiezioni più attendibili, nel 2010 gli ebrei non sarebbero più maggioranza e nel 2050 potrebbero non superare il 35% della popolazione totale. Ha quindi preso corpo progressivamente – prima fra i laburisti e poi decisamente nel 2003, con l’allora primo ministro Ariel Sharon – l’idea di una separazione etnico-demografica che è sembrata segnare il tramonto del sogno annessionistico sull’intera Eretz Israel, la terra biblica, almeno come obiettivo dichiarato. In realtà, la prospettiva della separazione e quella dell’allargamento e dell’annessione, tradizionalmente intese come programmi rispettivi della destra e della sinistra israeliane, sono state coltivate entrambe dai successivi governi israeliani, tanto di destra quanto di centrosinistra. Il governo di Yitzhak Rabin, che pure si spinse più di altri sulla via della pace negli anni di Oslo, non fu però da meno nelle attività di insediamento nei territori occupati. Oggi, dopo l’affermazione della destra religiosa e di quella laica alle elezioni del febbraio 2009, il pendolo fra le due anime del sionismo, quella dello Stato-rifugio degli ebrei e quella dello Stato biblico del ‘Grande Israele’, sembra tornato a spostarsi sulla seconda. Ma, di fatto, considerazioni strategico-militari, motivazioni ideologiche e preoccupazioni demografico-identitarie restano intrecciate.

Il futuro si giocherà sulle possibilità residue di una separazione dei due popoli in due Stati e sulle modalità di realizzazione, se in base a un accordo che regoli il complesso contenzioso bilaterale o invece tramite decisioni prese in modo unilaterale dall’occupante. Oggi, la gigantesca barriera di sicurezza che Israele ha cominciato a costruire a partire dal 2002 e che dovrebbe essere completata nel 2010 – una combinazione di muri di cemento armato alti 8 metri, di reticolati con sensori elettronici e di strade securizzate larghe da 50 a 100 metri – è lo specchio di un’ambivalenza. Se per i palestinesi è una vessazione che si aggiunge ad altre, perché taglia le loro terre e i loro villaggi e li imprigiona in enclaves, per gli israeliani implica separazione ma, senza la pace, anche isolamento. Vi coesistono contraddittoriamente esigenze difensive dal terrorismo e riflessi annessionistici, in particolare su Gerusalemme e sulla valle del Giordano, ma anche l’apprensione nel tracciare, insieme a frontiere che potrebbero essere definitive, le mura della prigione del vicino e il perimetro del proprio assedio.

L’altro termine dell’equazione di una pace in Medio Oriente, da cui dipende strettamente la possibilità di un’integrazione stabile d’Israele nella regione a cui appartiene, sta nelle scelte politiche dei palestinesi. I palestinesi soffrono di profonde lacerazioni interne, di un pesante arretramento di condizioni di vita dopo la repressione accompagnatasi alla seconda Intifāḍa, di una contrapposizione sempre più aspra fra pragmatismo e massimalismo, incarnata oggi nella divisione fra la legittima autorità, l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) presieduta da Abu Mazen (῾Abbās Maḥmūd al-῾Aqqād Abū Māzin), che controlla la Cisgiordania, e Ḥamās, che anche dopo l’offensiva militare israeliana, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, resta padrone di Gaza. Ma soffrono anche di una grave crisi ideologica e organizzativa dello ‘storico’ partito nazionalista, al-Fataḥ, diviso da rivalità interne e in clan, che ha contribuito pesantemente alla sconfitta elettorale nel gennaio 2006 a favore di Ḥamās. Se la difesa dell’ebraicità d’Israele impone la demarcazione etnico-demografica, sul lato palestinese si impone l’esigenza altrettanto perentoria di ricostruire società, istituzioni, economia e dignità nazionale in un proprio Stato indipendente. I palestinesi conservano da oltre 40 anni il duplice e triste primato di essere la più vasta popolazione di rifugiati e di apolidi del pianeta: 6 milioni, se si aggiungono ai 4,4 milioni registrati dalle Nazioni Unite all’inizio del 2007 quelli provocati dagli scontri anteriori al 1948. Più dei rifugiati afghani (2,1 milioni) e degli iracheni riparati in Siria e in Giordania (1,2 milioni). Le condizioni di vita a Gaza, che erano al livello più basso dal 1967 già prima della violentissima offensiva israeliana del dicembre 2008, sono precipitate al livello di emergenza umanitaria. In Cisgiordania, pur in presenza di una situazione meno drammatica, ogni speranza di sviluppo economico e civile, nonché di vita normale, resta bloccata da una combinazione di ostacoli di ogni genere, fisici e burocratici, al libero movimento di merci e persone (barriere, posti di blocco, controlli, coprifuoco, necessità di una defatigante serie di permessi per raggiungere scuole, ospedali, mercati, campi, luoghi di lavoro), imposti dalla potenza occupante a partire dalla prima Intifāḍa e inaspriti dopo la seconda. Le fragili tregue unilaterali dichiarate da Israele e Ḥamās dopo l’offensiva già ricordata contro Gaza attendono ancora di consolidarsi in una tregua durevole, nonostante i ripetuti tentativi di mediazione dell’Egitto. In mancanza di un’intesa sulle condizioni poste dalle due parti, resta il rischio di una ripresa di lanci di razzi Qassam da Gaza contro le città israeliane di Ashkelon e Sderot e di nuove incursioni israeliane con un bilancio sempre più pesante di perdite fra i civili, che dal conflitto sono ormai colpiti sistematicamente e in misura crescente. Il conto rispettivo delle perdite, che era di un israeliano per dieci arabi all’inizio di questo secolo, ha raggiunto punte di uno a cento nel corso del 2008. Nel frattempo, la ricerca di una soluzione politica, ostaggio delle difficoltà di sempre, sembra nuovamente allontanarsi.

Il processo di pace oggi

Le prospettive di un componimento del conflitto sono legate, attualmente, all’obiettivo di due Stati (Israele e uno Stato palestinese) che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza. Più in particolare, i tentativi negoziali promossi dalla comunità internazionale si basano sulla road map (la tabella di marcia o percorso) per la creazione di uno Stato palestinese indipendente e vitale, sostenuta dalla presidenza Bush e adottata congiuntamente nel 2003 dal ‘Quartetto’ internazionale composto da Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea. Accettata a suo tempo dal governo Sharon (ma con quattordici riserve di sostanza che ne snaturavano il senso complessivo) e da parte palestinese (senza riserve), la road map è rimasta lettera morta per quattro anni, paralizzata da troppe condizioni e da accuse reciproche di inadempimenti. Dopo l’uscita di scena di Sharon e la rottura fra Ḥamās e al-Fataḥ, il negoziato di pace fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese presieduta da Abu Mazen è stato rilanciato dalla Conferenza internazionale di Annapolis (Stati Uniti) del novembre 2007. L’obiettivo dichiarato era di giungere entro la fine del 2008 a un accordo globale che definisse le rispettive frontiere, le garanzie reciproche di sicurezza e le altre questioni rimaste aperte. I buoni rapporti personali fra il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente Abu Mazen e l’avvio di discussioni a tutto campo con delegazioni allargate sui temi di status finale, avevano fatto sperare che già alla fine del 2007 si potesse approvare un accordo quadro o quanto meno una serie di principi-guida per sciogliere i nodi di fondo e in particolare quelli di Gerusalemme e dei rifugiati. Così non è stato ed è apparso chiaro che, come non si poteva giungere a un accordo complessivo in pochi mesi, ancora meno si potevano affrontare separatamente alcuni temi e accantonarne altri, perché si sarebbe stravolto l’equilibrio complessivo del dare e avere per le due parti negoziali. Sia che si provasse a esplicitare il principio del ritorno alle frontiere anteriori alla guerra dei Sei giorni del 1967 con scambi territoriali (punto cruciale per i palestinesi), sia che si escludesse, come soluzione per i rifugiati, il loro ritorno in massa in Israele (punto chiave per gli israeliani), sia infine che si ventilasse la possibilità di una ripartizione della sovranità su Gerusalemme (tema estremamente sensibile per entrambi), si entrava in una situazione di stallo. Di fronte ai dissensi su quali punti esplicitare e quali rinviare, il timore da ambo le parti era di dare libero sfogo nelle rispettive pubbliche opinioni alle accuse di aver ceduto su punti cruciali senza chiarezza sulle contropartite. Malgrado un forte impegno reciproco, in sostanza si è camminato in tondo, giungendo una volta di più a riscoprire che l’unica possibilità di far accettare un’intesa alle forze politiche interne e alle rispettive popolazioni consiste nel presentare un ‘pacchetto’ complessivo che regoli tutto. La preparazione di Annapolis è stata quindi rapidamente riportata a obiettivi meno ambiziosi e la Conferenza si è conclusa con una dichiarazione che si limitava ad annunciare formalmente e solennemente la ripresa di negoziati sullo status finale.

Anche così, ad Annapolis vanno riconosciuti alcuni meriti politici e di metodo. Mobilitando un’ampia partecipazione estesa anche agli Stati arabi, inclusa la Siria, la Conferenza aveva ricreato, per la prima volta dopo la Conferenza di Madrid del 1991, uno scenario di processo di pace onnicomprensivo fra Israele e l’intero mondo arabo. La metodologia andava oltre la road map e ricordava quella adottata con successo nel processo di pace in Irlanda del Nord: si sarebbe negoziato tutto e subito (come con gli accordi di Belfast del 10 aprile 1998), spostando la condizione dalla fase negoziale a quella dell’attuazione. Annapolis saltava infatti la previsione di un accordo su frontiere provvisorie e prevedeva che si potesse cominciare a negoziare da subito un accordo di status finale indipendentemente dagli adempimenti della prima fase. Appunto su questi (disarmo di tutte le milizie palestinesi e cessazione di ogni violenza da una parte, abolizione progressiva delle restrizioni alla libertà di movimento nei Territori occupati e sospensione degli insediamenti dall’altra) il processo aveva dimostrato di non decollare. Non a caso l’unico sviluppo negli anni della road map pre-Annapolis era stato il ritiro israeliano da Gaza, deciso da Sharon non in un quadro negoziale ma nell’ambito di un progetto unilaterale di separazione, con l’intento abbastanza trasparente di rinviare il resto (e cioè la Cisgiordania) a tempi migliori. Israele si era del resto limitata a ritirare truppe e insediamenti, mantenendo il completo controllo degli accessi terrestri e marittimi e dello spazio aereo della Striscia di Gaga e opponendosi alla costruzione di un aeroporto. Le speranze che il metodo nordirlandese additato da Annapolis alle parti (l’accelerazione del negoziato) portasse a uno sblocco sono durate poco. All’effetto-annuncio della Conferenza non aveva fatto seguito alcun progresso sostanziale fino al mo-mento in cui il negoziato è stato sospeso per lo scoppio delle ostilità a Gaza. Da allora si sono fatti passi indietro: il governo israeliano insediatosi dopo le elezioni del febbraio 2009 ha fatto sapere per bocca del suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, di ritenersi vincolato solo dalla road map, ma non da Annapolis e, almeno finora, ha preso le distanze dalla stessa prospettiva dei due popoli per due Stati.

Dialogare con Ḥamās?

Il Movimento della resistenza islamica, Ḥamās, viene considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica non solo da Israele, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, con l’eccezione del Regno Unito che, analogamente alla posizione tenuta nei confronti del Sinn Féin e dell’IRA (Irish Republican Army), ne considera terrorista solo l’ala militare. Diversamente da altre organizzazioni, come la Ǧihād islamica, Ḥamās non è solo una milizia armata (le brigate ῾Izz al-Dīn al-Qassām), ma un partito politico con un’ampia rete di servizi sociali, a cui ha dato il voto oltre il 40% dei palestinesi nelle elezioni parlamentari del gennaio 2006. L’obiettivo dichiarato nella sua Carta istitutiva del 1988, documento estremista e di stampo antisemita (che cita ancora come fossero autentici i Protocolli dei Savi di Sion, il noto falso della polizia zarista) è quello di «alzare la bandiera di Allāh sopra ogni centimetro della Palestina». La Palestina intera è considerata «waqf (usufrutto) islamico fino al giorno della Resurrezione» e la sua liberazione è un dovere religioso, giacché «solo sotto le ali dell’Islam è possibile ai seguaci delle tre religioni – Islam, Cristianesimo ed Ebraismo – coesistere in pace e quiete gli uni con gli altri». Il suo giudizio sulle «cosiddette soluzioni pacifiche e le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese» è che «non sono altro che un modo di nominare degli infedeli come arbitri in terra d’Islam» e «una perdita di tempo e un esercizio futile». Nei fatti, si è registrata un’evoluzione. Ḥamās si è schierato contro il processo di pace avviato con gli Accordi di Oslo del 1993, ma ha sospeso gli attacchi suicidi nell’anno e mezzo precedente il vertice israelo-palestinese-americano di Camp David (luglio 2000), in attesa di vederne gli esiti. Pur non avendo mai abdicato al terrorismo come arma di resistenza (attentati suicidi, lanci indiscriminati di razzi contro centri abitati), ha offerto ripetutamente una tregua decennale in cambio della restituzione integrale dei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967 e del ritorno dei rifugiati. Come già l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) prima degli Accordi di Oslo, Ḥamās ha finora rifiutato di riconoscere Israele, ma ha compiuto diversi passi in avanti, non senza residue ambiguità e con un dibattito serrato al proprio interno, verso la ‘soluzione bistatuale’. Prima con il Documento di riconciliazione nazionale del giugno 2006 (o Documento dei prigionieri, redatto in carcere da detenuti palestinesi delle diverse fazioni), poi con gli Accordi della Mecca del febbraio 2007 mediati dall’Arabia Saudita per la formazione del governo di unità nazionale palestinese guidato da un primo ministro di Ḥamās, Ismail Hanyeh (Ismā῾īl Haniya), il partito si è impegnato a rispettare gli accordi precedentemente sottoscritti dall’OLP. Hanyeh non si è opposto, ma si è astenuto, quando il vertice della Lega Araba del marzo dello stesso anno a Riyāḍ ha rilanciato il Piano di pace arabo del 2002 (pace e normalizzazione con Israele in cambio di uno Stato palestinese nelle frontiere del 1967 e di una «giusta soluzione» al problema dei rifugiati, espressione ritenuta da Ḥamās compromissoria del pieno diritto al ritorno). Khaled Meshaal (Ḫālid Maš῾al), riconosciuto leader del movimento in esilio a Damasco, ha dichiarato dopo un incontro con Jimmy Carter nell’aprile 2008 la disponibilità ad accettare un accordo con Israele a condizione che sia approvato da un referendum o da un governo democraticamente eletto. Formalmente legato ai Fratelli musulmani, il movimento islamista ha visto la sua leadership decimata dalle azioni israeliane durante e dopo la seconda Intifāḍa, il che ha reso probabilmente meno coesa la catena di comando fra la sua ala politica e l’ala militare delle brigate ῾Izz al-Dīn al-Qassām, rafforzando la seconda sul territorio. Lo si è visto, anche prima che la ‘guerra di Gaza’ facesse emergere dissonanze fra i leader a Gaza e quelli in esilio a Damasco, con un attentato a Dimona, deciso localmente sulla base di un’autorizzazione generica dei capi locali delle brigate, senza consultare né Gaza né Damasco. Il movimento resta comunque più compatto dell’avversario laico nazionalista al-Fataḥ. L’evoluzione e le residue, volute ambiguità di Ḥamās hanno dato luogo ad accesi dibattiti. Si cercherebbe invano ancora oggi quella rinuncia alla violenza e quel chiaro riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza che sono richiesti dalla comunità internazionale. Ma vi è anche da chiedersi se sia realistico che Ḥamās li conceda prima e non a conclusione di un negoziato, dal momento che è l’unica carta di cui dispone. I suoi leader, dall’ex primo ministro Hanyeh a Khaled Meshaal, hanno ripetuto che Ḥamās intende offrire una hudna (tregua) di dieci anni e non una pace. La hudna decennale non è in sé un concetto particolarmente rassicurante, dal momento che nella tradizione e nella giurisprudenza islamiche è riferita alla tregua del Trattato di Ḥudaybiyya, concluso dal profeta Maometto con la tribù dominante della Mecca, i Quraish, per consolidarsi prima di prendere la città con le armi. Resta tuttavia che dieci anni di tregua non sono pochi per dare ai rispettivi popoli la possibilità di sposare nell’intimo la pace fra due Stati e togliere la voglia di far scorrere altro sangue. La risposta alle ambiguità di Ḥamās è consistita in una strategia di boicottaggio diretta a isolare gli islamisti, che ha peraltro fatto precipitare la situazione senza minare la loro popolarità e senza eliminarne l’arsenale militare. Nel giugno 2007 Ḥamās ha preso il potere a Gaza denunciando un tentativo di al-Fataḥ di rovesciare con la forza il governo nato dalle elezioni. Israele ha risposto con sanzioni, chiudendo i valichi verso la Striscia, tagliando le forniture di elettricità e riducendo progressivamente gli accessi ai convogli che trasportavano cibo, combustibile, medicinali, parti di ricambio per impianti di depurazione dell’acqua. Ḥamās ha ripreso il lancio indiscriminato di razzi Qassam contro le città di Sderot e Ashkelon e Israele ha risposto con incursioni aeree su Gaza. Una tregua negoziata attraverso l’Egitto è durata due mesi, da settembre a ottobre, ma è saltata a seguito di un’incursione israeliana dentro Gaza il 4 novembre in cui sono stati uccisi 6 miliziani di Ḥamās. Ai nuovi lanci di razzi è seguita l’operazione Piombo fuso, una massiccia offensiva aerea e terrestre israeliana costata in poche settimane oltre 1300 morti fra i palestinesi, a fronte di 28 vittime fra i civili israeliani in otto anni. Nonostante l’offensiva, la Striscia di Gaza non è stata tolta al dominio islamista e resta bloccata, lo sforzo di mediazione egiziano per una tregua durevole e per la riconciliazione fra i palestinesi si è arenato, Ḥamās non è stato debellato e i sondaggi lo danno vincente in caso di elezioni, non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania. In Israele, la ‘guerra di Gaza’ ha fatto risalire nei sondaggi pre-elettorali i leader della compagine governativa di centrosinistra, ma non ha impedito la prevalenza dei partiti della destra nelle elezioni del febbraio 2009 e l’insediamento di un governo guidato dal Likud di Benjamin Netanyahu, contrario al processo di pace avviato a Oslo.

Prima di esaminare gli scenari che si delineano per l’avvenire, conviene esaminare più da vicino come si pongono oggi, dopo circa quindici anni di processo di pace segnato da negoziati intermittenti e brusche rotture, le questioni dette di status finale che un accordo di pace fra israeliani e palestinesi dovrebbe risolvere.

Le frontiere

Il problema della delimitazione territoriale fra Israele e un futuro Stato palestinese riguarda essenzialmente la Cisgiordania. Gaza non è contesa e, anche se oggi è in mano ad Ḥamās, vi è un generale consenso sul principio che dovrebbe ricadere sotto la sovranità del futuro Stato di Palestina. Può considerarsi superata la vecchia impasse di principio fra la rivendicazione palestinese del puro e semplice ritorno alle linee armistiziali del 1949 (la cosiddetta Linea verde) e la necessità fatta valere da Israele di tenere conto delle sue esigenze di sicurezza e dei mutamenti intervenuti sul terreno da allora, vale a dire della presenza in Cisgiordania di 250.000 coloni israeliani, a cui se ne aggiungono altri 200.000 a Gerusalemme Est. L’Autorità palestinese ha accettato da tempo – lo fece Yasser Arafat (Yāsir ῾Arafāt) con gli Accordi di Oslo del 1993 – il principio che, per consentire a Israele l’annessione delle colonie più importanti, si possa procedere a uno scambio territoriale. Ciò salva, almeno formalmente, il principio dell’inammissibilità dell’acquisizione territoriale con la guerra, che è alla base della risoluzione n. 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU e dell’intero sistema internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale. Il problema sta nel rapporto di scambio, nella sua entità complessiva e quindi nel tracciato concreto delle frontiere, che dovrebbe assicurare che lo Stato palestinese sia territorialmente contiguo (includendo un corridoio fra Cisgiordania e Gaza). Le cartine riprodotte di seguito rendono un’idea delle diverse opzioni avanzate negli ultimi anni in materia di divisione territoriale. La fig. 1A rappresenta un’estrapolazione delle proposte avanzate da parte israeliana al vertice di Camp David del luglio 2000. L’entità (o, in linguaggio di parte, la ‘generosità’) dell’offerta israeliana a Camp David ha dato luogo, come è noto, a lunghe diatribe (con percentuali di territorio da restituire ai palestinesi oscillanti dall’88 al 91%), dovute soprattutto al conflitto di vedute sull’inclusione o meno di Gerusalemme Est nella Cisgiordania e sul gioco propagandistico di attribuzione della responsabilità per il fallimento del vertice. Il primo ministro israeliano dell’epoca, Ehud Barak, in un’intervista rilasciata allo storico israeliano Benny Morris nel 2002, ha ammesso che la sua proposta era quella di riconoscere ai palestinesi «una porzione indivisa di territorio sovrano fatta eccezione per una striscia israeliana sottile come una lama di rasoio da Gerusalemme attraverso Ma’ale Adumim fino alla valle del Giordano». Su quest’ultima la richiesta israeliana era di annetterla o di mantenere il controllo sul 20% del territorio.

In realtà, si ignora se a Camp David sia stata formalmente scambiata una cartografia dettagliata delle proposte avanzate di volta in volta e non si può escludere che vi siano stati fraintendimenti allora, né abbellimenti o peggioramenti nelle ricostruzioni successive, dopo che le proposte furono ritirate in seguito al fallimento del vertice. Fino a quando non saranno aperti i relativi archivi, non si conosceranno i termini precisi della questione. Bill Clinton formulò successivamente, nel dicembre 2000, una serie di parametri per giungere a una soluzione che prevedeva in modo più esplicito la contiguità dello Stato palestinese, con un’annessione da parte israeliana del 4-6% del territorio. Sulla valle del Giordano i diritti di Israele venivano limitati al coordinamento con una presenza internazionale sulla linea di confine con la Giordania. Le idee di Clinton furono accolte con riserve da ambo le parti. Ciò rese possibile un tentativo in extremis di raggiungere un’intesa a Ṭābā, in Egitto, dal 21 al 27 gennaio 2001, ormai a ridosso delle elezioni israeliane. Benché si stesse effettivamente arrivando a un’intesa, basata sulla restituzione ai palestinesi del 94% dei territori, il negoziato fu interrotto dallo stesso Barak, che ormai non aveva più una maggioranza parlamentare e che nei sondaggi sulle imminenti elezioni del 6 febbraio 2001 risultava nettamente perdente a favore del leader del Likud Sharon.

Un’immagine eloquente dell’avvento di Sharon in termini di arretramento delle posizioni negoziali israeliane si può ricavare dalla fig. 1B. Le proposte ventilate da Sharon prevedevano in sostanza la cessione ai palestinesi delle aree A e B previste dagli Accordi di Oslo (vale a dire di quelle già amministrate dall’ANP), e l’annessione a Israele dell’area C e in particolare dei grandi blocchi di insediamenti (come Ariel e Ma’ale Adumim), nonché della valle del Giordano come zona di sicurezza. In quei termini, Israele avrebbe incorporato il 57% della Cisgiordania, a fronte del 6% previsto a Ṭābā. Si trattava di un’ipotesi di spartizione leonina e senza possibilità di essere accolta (ai palestinesi sarebbe rimasto meno del 10% della Palestina mandataria), mirante in quella fase a eludere un negoziato per il quale Sharon denunciava del resto la mancanza di interlocutori, non considerando più tale Arafat. La fig. 2 rappresenta la proposta di divisione territoriale avanzata nell’Iniziativa di Ginevra: un modello di accordo di pace israelo-palestinese firmato il 1° dicembre 2003 a titolo ‘privato’ dai negoziatori degli Accordi di Oslo e di Ṭābā, su cui torneremo più avanti. In questa ipotesi lo scambio territoriale risulta alla pari, gli israeliani conserverebbero circa il 2% della Cisgiordania e manterrebbero una parte importante degli insediamenti a est di Gerusalemme, incluso quello di Ma’ale Adumim, mentre la valle del Giordano sarebbe palestinese, fatto salvo un regime di sicurezza per il confine con la Giordania secondo le linee dei parametri indicati da Clinton.

Gli insediamenti israeliani e la barriera di sicurezza

La fig. 3 rappresenta infine la situazione al febbraio 2008 degli insediamenti israeliani e del tracciato della barriera di sicurezza (o barriera di separazione) israeliana. Israele ha sempre sostenuto che la barriera non ha carattere politico e non pregiudica future intese, in quanto mira esclusivamente a impedire infiltrazioni terroristiche in Israele e a proteggere i maggiori insediamenti. Va detto però che, se si fosse trattato solo di sicurezza, la barriera sarebbe corsa lungo i rilievi e le cime delle colline, mentre in molti punti traversa i rilievi a mezza costa, in altri casi separa i villaggi arabi dai terreni agricoli e dai pozzi d’acqua da cui ricevono sostentamento, gli alunni dalle rispettive scuole, i malati dalle strutture sanitarie e in altri ancora, soprattutto attorno a Gerusalemme, non separa israeliani da palestinesi, bensì palestinesi da palestinesi. Nel loro libro Lords of the land (2007), Idith Zertal e Akiva Eldar hanno portato a esempio i 128 km di barriera fra il villaggio di Salem e l’insediamento di Elkanah, che hanno incorporato 2400 ettari di terra palestinese da coltivazione o da pascolo, tagliandone fuori i proprietari dei villaggi di Faroun, al-Ras, Kafr Sur, Kafr Jamal, Falamiya e Jayyous, per un totale di oltre 10.000 persone, che devono ottenere circa dieci diversi documenti e autorizzazioni per poter visitare i loro campi al di là della barriera. Il tracciato originario di quest’ultima, che si discostava marcatamente dalla cosiddetta Linea verde, è stato oggetto di severe critiche internazionali e, a seguito di pressioni statunitensi ed europee, nonché di una pronuncia avversa della Corte di giustizia dell’Aia (che Sharon definì «pura malvagità») e della stessa Corte suprema d’Israele, il governo israeliano ha approvato nel febbraio 2005 un nuovo tracciato, più vicino alle linee armistiziali del 1949. Pur continuando a coprire non solo insediamenti più o meno distanti ma terreni agricoli e zone acquifere che non hanno nulla a che fare con la sicurezza, il nuovo tracciato lascerebbe ai palestinesi una percentuale di circa il 92-94% dei Territori, a seconda del percorso definitivo, ma con un’incognita pesante riguardo alla valle del Giordano. Ci si è in un certo senso riavvicinati alle proposte di Barak a Camp David, cercando di bilanciare e massimizzare obiettivi in parte conflittuali, come appunto l’annessione dei maggiori insediamenti e la demarcazione demografica. In questo senso, è chiaro che la barriera figura di fatto fra le ipotesi politiche di frontiera fra i due Stati. Ciò nulla toglie alla difficoltà pratica nell’attuare la separazione su tale base. Al di là della barriera di sicurezza vivono solo 80.000 coloni (in 74 insediamenti), sui 450.000 già ricordati nell’intera Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Basti pensare a quali resistenze politiche ed emotive provocò nel Paese lo smantellamento di 21 insediamenti tra agosto e settembre 2005 e il trasferimento di 9000 coloni da Gaza (operazione che poteva contare sul ferreo decisionismo e il carisma interno di Sharon), per rendersi conto del rischio che il percorso sia in questo caso ben più accidentato, anche perché i coloni sono diversamente motivati sulla presenza nei territori storici di Giudea e Samaria rispetto a Gaza e perché sono armati.

Se si osservano la collocazione e la densità relativa degli insediamenti a est della barriera, si comprende che quello della valle del Giordano e del suo collegamento con gli insediamenti attorno a Gerusalemme resta uno dei nodi più importanti, se non quello decisivo ai fini della divisione territoriale e, di conseguenza, della vitalità del nuovo Stato. Benché l’opinione corrente sia che la ripartizione territoriale costituisca un problema meno spinoso di quello di Gerusalemme o dei rifugiati, è proprio sulla questione della valle del Giordano, un’area pari a 1/3 dell’intera Cisgiordania interdetta fin dal 1967 ai palestinesi come zona militare (ma con insediamenti agricoli), prima ancora che sulle altre, che può arenarsi ogni trattativa di pace.

Gerusalemme: città divisibile perché ancora divisa

La questione territoriale assume ovviamente una fisionomia e una simbologia del tutto particolari quando si tratta di Gerusalemme, della sua futura proiezione urbanistico-demografica e dello status dei Luoghi santi. La città è santa per le tre religioni monoteistiche e abramitiche che vi affondano radici millenarie e vi proiettano le rispettive narrazioni storiche e le proprie mitologie (nel senso antropologico della parola) identitarie, nazionali o religiose. Il disconoscimento della fondamentale importanza che la città e i suoi Luoghi santi rivestono per l’altro ha pesato non poco negli errori del passato e rischia di pesare ancora. Ma Gerusalemme non è solo un simbolo insieme antico e attuale di valore spirituale irrinunciabile. È anche una città di persone, con una geografia umana, territoriale, culturale ed economica complessa, che si apre sul versante d’Israele e su quello palestinese della Cisgiordania come mercato di sbocco e come irradiazione di attività nelle regioni limitrofe. In questo senso, ha anche una vocazione pienamente terrena a essere la capitale di due Stati e non è pensabile che l’una o l’altra parte accetti di recidere legami che sono una linfa vitale per entrambe. Anche qui, tuttavia, non si parte da zero. A Camp David le posizioni sulla divisione della città si avvicinarono notevolmente. Benché l’intensa attività costruttiva israeliana a Gerusalemme Est in questi ultimi anni abbia continuato ad alterare lo status quo con il rischio crescente (se non con il proposito) di creare un nodo inestricabile, l’intesa è ancora possibile se si pensa che, malgrado la riunificazione nel 1967 e la dichiarazione della città come capitale eterna e indivisa di Israele (legge del 1980 che non è stata finora riconosciuta da alcuno Stato), sul piano pratico la città è tuttora divisa in termini di popolazione, infrastrutture, trasporti, istituzioni scolastiche, rete elettrica. Israele ha edificato nella zona araba nuovi quartieri ebraici (come Gilo) che per i palestinesi e per l’intera comunità internazionale restano insediamenti. In base ai parametri di Clinton del dicembre 2000, i quartieri arabi andrebbero al futuro Stato palestinese e quelli ebraici a Israele e lo stesso criterio governerebbe la ripartizione di sovranità sulla città vecchia.

A Camp David (luglio 2000), come è largamente noto, non si raggiunse invece alcuna intesa circa la sovranità sulla Spianata delle moschee (il Monte del Tempio per gli ebrei e il Nobile Santuario, al-Ḥaram al-Šarīf, per gli arabi, che venerano la moschea di al-Aqṣā come terzo luogo santo dell’islam). Anzi, l’insistenza prioritaria su un problema che è quello di maggior rilievo simbolico e religioso e che sarebbe stato più prudente lasciare per ultimo portò al fallimento del vertice. Sulla Spianata delle moschee fu offerta ai palestinesi una potestà amministrativa corredata di simboli di sovranità e altri eufemismi che lasciavano tuttavia la sovranità effettiva in mano a Israele. Si è discusso a lungo sulla scelta di Arafat a Camp David di esprimere un netto rifiuto anziché accettare con riserve. Va considerato che l’esasperazione per il trascinarsi del negoziato spinse Clinton a formulare le proposte a Camp David in termini talmente ultimativi (e poi a drammatizzarne il fallimento) da rendere dubbio che una tale opzione fosse praticabile. Comunque sia, in quei termini un’accettazione sarebbe equivalsa a un suicidio politico. Né Arafat né alcun leader arabo avrebbe potuto sottoscrivere una rinuncia in perpetuo alla sovranità araba sul terzo luogo santo islamico. Del resto, quando trapelò che al vertice si discuteva di Gerusalemme e dei Luoghi santi, al leader palestinese pervennero espliciti ammonimenti dai dirigenti arabi a non compromettere una questione che restava di pertinenza dell’intero mondo arabo e islamico.

Le proposte presentate a Camp David come ultime, del resto, come abbiamo già ricordato, non furono tali. Nei parametri presentati alle due parti cinque mesi dopo, Clinton suggerì per Gerusalemme una formula diversa, proponendo di assegnare ai palestinesi la sovranità sulla Spianata delle moschee e a Israele quella sul Muro occidentale e sul Santo dei Santi, con un impegno a non effettuare scavi oltre il Muro o sotto le moschee se non di comune accordo. L’Iniziativa di Ginevra (2003) ha preso le mosse dalle idee di Clinton, colmando la distanza residua fra le due posizioni. Sul punto più controverso della città vecchia e della zona del Tempio, il Modello di accordo prevede che il Muro del Pianto, il quartiere ebraico e le porte di Sion e dei Maghrebini ricadano sotto sovranità israeliana, mentre il Nobile Santuario/Monte del Tempio e gli altri tre quartieri della città vecchia ricadrebbero sotto quella palestinese, insieme alle porte di Damasco, dei Leoni, di Erode, alla Porta nuova e a quella di Giaffa, attraverso la quale, peraltro, con un’apposita postazione israeliana, viene individuato l’accesso al Muro del Pianto. L’Iniziativa di Ginevra supera il concetto clintoniano di sovranità ‘orizzontale’ palestinese sulla sola superficie della Spianata, ma prevede – in linea con i parametri del dicembre 2000 – che non si possano effettuare scavi archeologici o altri lavori nel sito se non di comune accordo e rimette il coordinamento delle infrastrutture, dei servizi, dello sviluppo economico e del dialogo fra le comunità al giudizio di una commissione municipale congiunta.

L’Iniziativa di Ginevra indica poi un minuzioso dispositivo di garanzie e controlli internazionali, limitato nei compiti ma con la presenza delle maggiori potenze, e comprendente per la Spianata delle moschee un gruppo internazionale armato, incaricato anche di dirimere vertenze, fermo restando che la responsabilità ultima per la sicurezza resterebbe ai palestinesi. In sostanza, si è scelto di adottare per Gerusalemme non un regime internazionale, ma regimi nazionali sotto vigilanza e garanzia internazionale. L’abilità dei negoziatori è consistita nel superare la contrapposizione secca sulle concorrenti sovranità, stemperando e scomponendo di fatto quest’ultimo concetto in sovranità ‘limitate’ di carattere funzionale, come del resto avviene in altri casi – quale, per es., quello di piazza San Pietro nell’ambito del regime concordatario stabilito fra Italia e Santa Sede.

Il problema dei rifugiati

È uno dei punti più sensibili perché tocca la storia rispettiva di sofferenze e ingiustizie patite e, che queste risalgano nei secoli o a due sole generazioni, le vittime hanno la memoria lunga. Il sionismo ha tradotto in impresa nazionale la determinazione a uscire da un passato di discriminazioni e persecuzioni (fino all’orrore dell’Olocausto) e a non essere più minoranza in Stati altrui. Per gli arabi palestinesi, il ricordo della cacciata e delle espulsioni che precedettero, accompagnarono e seguirono la nakba (catastrofe) del 1948 ha portato a rivendicare per oltre quarant’anni il ritorno dei rifugiati. Va ricordato che uno dei primi tentativi di composizione globale del conflitto arabo-israeliano, la Conferenza di Losanna del 1949, fallì proprio sulla questione dei rifugiati.

Il principio del diritto al ritorno è stato sempre respinto da Israele, sia negando responsabilità nell’esodo dei palestinesi sia affermando che il ritorno equivarrebbe a snaturare l’ebraicità dello Stato. Insistere sul discorso delle responsabilità storiche non facilita una soluzione. Se è vero che la storiografia israeliana recente (e in particolare i lavori di Benny Morris e Ilan Pappé) ha ampiamente documentato che azioni di carattere sistematico di cacciata furono compiute nel 1948, è anche vero che i rifugiati palestinesi sono stati mantenuti dagli Stati arabi presso cui hanno trovato rifugio, con l’eccezione della Giordania, in condizioni di emarginazione e apolidia in attesa di una fantomatica riconquista del territorio perduto, attesa che è il retaggio anacronistico delle vecchie posizioni arabe di disconoscimento di Israele. A ciò vanno aggiunte le espulsioni di circa 600.000 ebrei dai Paesi arabi dopo la guerra del 1948, non imputabili peraltro a responsabilità dei palestinesi, che ebbero anzi a subire un ulteriore flusso migratorio ai loro danni. Per problematico che sia, il discorso sui rifugiati e sulle responsabilità non può essere semplicemente eluso, invocando la prescrizione del torto subito. Quest’ultimo può essere il caso, per fare un solo esempio, dell’esodo dei 10 milioni di tedeschi che, dopo il secondo conflitto mondiale, dovettero abbandonare la Prussia, la Pomerania orientale, la Slesia e i Sudeti. Ma la ferita dei palestinesi è mantenuta aperta da condizioni materiali disastrose e dalla mancanza di un loro Stato. Né si può dimenticare che, mentre i tedeschi riparavano verso un Paese chiamato Germania, i palestinesi sono stati spinti non verso un’Arabia coesa, ma verso Paesi circostanti che non erano i loro, di recente indipendenza, complessivamente poveri di risorse, con equilibri etnici, demografici, religiosi ed economici quanto mai delicati e fragili. Se il discorso sulle sofferenze subite non può essere eluso, può però essere spostato dalle recriminazioni sul passato alla responsabilità comune, oggi, nel concorrere a una soluzione che sia equa e concretamente attuabile. Già a Camp David si delineò un consenso di massima sulla necessità di tradurre il diritto al ritorno in una serie di opzioni offerte ai rifugiati, riammettendone in Israele un numero limitato e determinato sovranamente dallo Stato ebraico. Il Modello di accordo di Ginevra ha elaborato il concetto prevedendo all’art. 7 l’istituzione di una commissione e di un fondo internazionali che regolino destinazioni e compensazioni, offrendo ai rifugiati, con priorità a quelli che si trovano in Libano, quattro opzioni: trasferirsi nel nuovo Stato di Palestina; trasferirsi in Paesi terzi in base a un sistema di quote da questi ultimi liberamente adottato; rientrare in Israele in numero determinato sovranamente dal governo israeliano; restare nell’attuale Paese ospite, nel contesto di programmi di sviluppo e riabilitazione sociale e abitativa.

Il Piano di pace arabo adottato su iniziativa saudita dal vertice di Beirut del 2002 e poi rilanciato dal vertice di Riyāḍ nel 2007 è entrato in questa logica e ha adottato per i rifugiati la formula di equa soluzione abbandonando quella tradizionale del diritto al ritorno. Non si tratta di sole parole, né si può obiettare, come a volte da più parti si è fatto, che il diritto al ritorno, cacciato dalla porta, rientrerebbe dalla finestra attraverso il richiamo alla risoluzione n. 194 delle Nazioni Unite, che prevedeva ritorno e compensazioni. In realtà già i negoziatori palestinesi a Camp David (e poi a Ṭābā) avevano ampiamente chiarito che per loro la richiesta di accettare la 194 non implicava la pretesa di un ritorno di tutti i rifugiati, più di quanto la richiesta israeliana di accettare l’esistenza di Israele e quindi la legittimità della storica risoluzione n. 181 sulla spartizione della Palestina significasse che Israele era pronto a tornare ai confini della spartizione anteriori alla guerra del 1948. Nelle parole dell’allora capo negoziatore di Arafat e poi ministro degli Esteri dell’ANP, Nabil Shaat (Nabīl Ša῾at), «gli israeliani sapevano bene che noi palestinesi accettavamo Israele nei suoi confini del 1967. Sapevano anche bene che, una volta che avessero accettato la risoluzione n. 194 come gli chiedevamo di fare, non avremmo chiesto il ritorno di milioni di rifugiati. Quello che avevamo in mente era una soluzione per i rifugiati del Libano: 300.000 persone da dividersi a metà fra Israele e la futura Palestina».

Va sottolineato che l’orientamento degli stessi rifugiati non sembra precludere una soluzione di questo tipo. I palestinesi registrati dalle Nazioni Unite come rifugiati all’inizio del 2007 erano circa 4,4 milioni, di cui 1,8 in Giordania, 1,1 a Gaza, 750.000 in Cisgiordania, 400.000 in Siria e 350.000 in Libano. Nel 2003 sono stati condotti nei campi una serie di sondaggi promossi dai Paesi più impegnati nel Gruppo rifugiati costituito a suo tempo nel quadro multilaterale della Conferenza di Madrid: il Giappone attraverso l’UNDP (United Nations Development Programme), la Germania con la Fondazione Adenauer e il Canada con l’International development research center. Lo scopo era di verificare cosa i rifugiati avrebbero deciso di fare nell’ipotesi che fosse stata adottata una soluzione al problema secondo le linee delle intese di Ṭābā e di Ginevra. I rifugiati in Cisgiordania/Gaza e in Libano hanno risposto dividendosi esattamente a metà fra quelli che avrebbero accettato e quelli che avrebbero rifiutato, quelli in Giordania si sono pronunciati per il 50% a favore e per il 37% contro, mentre il resto non ha espresso opinione. Tuttavia, alla domanda su quanti si sarebbero opposti attivamente, solo una ridotta minoranza ha risposto di sì (15% in Cisgiordania/Gaza, 9% in Libano e 8% in Giordania). La grande maggioranza lo avrebbe accolto, sia pure a malincuore e per mancanza di alternative. Maggioranze diverse, ma comunque maggioranze, hanno risposto favorevolmente all’opzione di trasferirsi nel nuovo Stato palestinese (84% in Cisgiordania/Gaza, 61% in Libano e 52% in Giordania). Infine, meno del 10% dei rifugiati ha indicato come prima scelta Israele. Secondo questi sondaggi, dunque, se anche per pura ipotesi li accontentasse tutti – cosa che non viene richiesta – lo Stato ebraico si troverebbe ad assorbire circa 400.000 e non 4 milioni di palestinesi, come si è a volte sostenuto nel tentativo di dimostrare che una soluzione è impossibile e che segnerebbe la fine di Israele. Se è vero che un rientro anche simbolico sarebbe in controtendenza rispetto all’assillo demografico in Israele, resta il fatto che le dimensioni reali del problema sono molto meno ampie di quanto comunemente si pensi e non lo rendono affatto insolubile. Qui, come in altri settori, potrebbe e dovrebbe risultare decisivo il contributo del resto della comunità internazionale, che verrebbe evidentemente chiamata a esprimere uno sforzo speciale. Se si pensa tuttavia alle spese sostenute attraverso i decenni per mantenere l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency), un impegno collettivo per cancellare la realtà aberrante di campi profughi permanenti sarebbe un investimento sul futuro non soltanto possibile, ma ben più realistico e lungimirante.

La questione dell’acqua

Il conflitto arabo-israeliano, che si è abituati a considerare in chiave di opposti nazionalismi e di contesa sulla stessa terra, è stato e resta, in misura maggiore di quanto comunemente si pensi, anche una guerra dell’acqua. Già prima del 1967, in mancanza di accordi fra i Paesi rivieraschi, la lotta per le acque del Giordano fu all’origine di alcune delle tensioni più gravi fra Israele e gli Stati arabi, poi sfociate nella Guerra dei Sei giorni. Anche se viene evocata meno spesso, la questione dell’acqua, risorsa cronicamente scarsa nel Vicino Oriente e la cui penuria è destinata ad aggravarsi per ragioni demografiche, climatiche e di inquinamento, è uno dei problemi più difficili che un negoziato di pace dovrebbe risolvere. Basti pensare che, se la Palestina mandataria del 1947 contava 2 milioni di abitanti, oggi lo stesso territorio ne deve sostenere 11 milioni. L’effetto del depauperamento dovuto al drenaggio a monte è del resto visibile dal continuo abbassamento del livello del Mar Morto. I palestinesi chiedono l’applicazione integrale dell’art. 40 degli Accordi di Oslo che riconosceva i loro diritti sulle risorse acquifere della Cisgiordania, in conformità con il diritto internazionale che proibisce l’appropriazione delle risorse del territorio occupato da parte dell’occupante. Più in generale, richiedono il diritto esclusivo di sfruttamento delle risorse situate nel territorio del loro futuro Stato e sono contrari a che gli israeliani depauperino gli acquiferi (in particolare quelli montani della Cisgiordania) a beneficio dei loro insediamenti che oggi ricevono l’acqua a prezzo di favore da Mekorot, la compagnia idrica israeliana. Inoltre lamentano che la barriera di sicurezza abbia separato i villaggi e le case palestinesi dai rispettivi campi e dai loro pozzi. Gli israeliani ritengono per contro di aver maturato nei quarant’anni di occupazione un diritto d’uso all’acqua dei territori palestinesi, essenziale per la vita del Paese. La situazione attuale è pesantemente squilibrata a vantaggio dei coloni, che ricevono un quantitativo d’acqua pro capite pari a 3,5 volte quello erogato ai palestinesi, che è a sua volta inferiore di un terzo al minimo raccomandato dalla WHO (World Health Organization). Il Golan fornisce una quota notevole (circa un terzo) dell’approvvigionamento idrico israeliano, il che viene denunciato dai siriani come uno dei motivi di fondo della mancata restituzione. A Camp David il problema fu appena sfiorato e sia a Ṭābā sia a Ginevra la questione dell’acqua fu rimessa a un negoziato tecnico. La ricerca di una soluzione pratica, al di là della controversia di principio, non potrebbe che consistere in intese analoghe a quelle raggiunte a suo tempo fra Israele e Giordania e le soluzioni considerate già a Camp David e a Ṭābā vanno nel senso di spostare la questione dalla suddivisione delle risorse (comunque non eludibile perché oggi iniquamente ripartite) a un aumento delle stesse, sia attraverso la realizzazione di impianti di desalinizzazione, razionalizzazione dell’uso e tecniche di conservazione, sia con la costruzione di un acquedotto dalla Turchia, ricca di risorse idriche. Un altro progetto, che presenta però non poche incognite sul piano ambientale ed è di dimensioni imponenti, è ancora in fase di studio: quello di un canale Mar Rosso-Mar Morto per innalzare il livello di quest’ultimo.

Smilitarizzazione e sicurezza

Nei negoziati di Camp David si era vicini a un’intesa almeno per grandi linee. L’Iniziativa di Ginevra prevede che lo Stato palestinese sia smilitarizzato (e non con armamenti limitati come avevano chiesto in precedenza i palestinesi), vale a dire che non abbia un esercito ma solo una ‘robusta’ forza di sicurezza, in sostanza una polizia nazionale a cui si affiancherebbe la Guardia presidenziale. Il Modello di accordo prevede altresì che in Palestina sia stanziata una Forza multinazionale con il compito di fornire garanzie di sicurezza alle parti, agire da deterrente, proteggere l’integrità territoriale del nuovo Stato e supervisionare l’applicazione delle intese. Sempre secondo l’accordo Israele completerebbe il ritiro del proprio personale militare entro 30 mesi dall’entrata in vigore dell’accordo e manterrebbe nella valle del Giordano una piccola presenza militare sotto l’autorità della Forza multinazionale per i successivi tre anni. Infine, è previsto che l’aviazione israeliana possa usare lo spazio aereo palestinese, ma solo ed esclusivamente a scopo di addestramento. Viene invece fatta ricadere nelle rispettive sovranità la sfera elettromagnetica sovrastante il territorio, con divieto di interferirvi senza il consenso del vicino.

Attualità e ‘utopia’ dell’Iniziativa di Ginevra

È difficile immaginare che un vero accordo di pace che abbia una pur remota possibilità di essere accettato e di durare, se mai lo si raggiungerà, possa discostarsi molto dal Modello di accordo annunciato il 1° dicembre 2003 nel quadro della cosiddetta Iniziativa di Ginevra. Il paradosso è che questa opinione è condivisa tanto dai suoi sostenitori quanto dai suoi detrattori nei due campi, i quali ultimi vi vedono, da prospettive opposte, un prezzo troppo alto da pagare per la pace. In questo senso, malgrado quanto si dirà sul suo apparente accantonamento, il Modello di accordo conserva intatta la sua importanza politica e concettuale come base di riferimento. Ginevra rappresenta a tutt’oggi il risultato di quindici anni di processo di pace, racchiude le esperienze dei progressi e dei fallimenti nei tentativi dei negoziati condotti per portarlo a compimento, riflette nella sua redazione un punto di equilibrio faticosamente ricercato su tutti i nodi più sensibili per le due parti. Si tratta di un testo meticoloso e completo, negoziato per due anni e mezzo da due delegazioni composte dai principali negoziatori israeliani e palestinesi di Oslo, in particolare Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo (Yāsir ῾Abd Rabbuh), partendo dai progressi fatti anche se non pubblicizzati a Camp David, dai parametri di Clinton e infine colmando la distanza residua. Nei paragrafi precedenti se ne sono già visti i termini esaminando i diversi temi di status finale.

L’essenza politica del Modello di accordo di Ginevra consiste in uno scambio fra la rinuncia dei palestinesi a chiedere il ritorno dei rifugiati in Israele e la rinuncia israeliana al controllo della Spianata delle moschee. L’accordo informale di Ginevra raccolse al momento del suo annuncio consensi estremamente significativi e rivelatori di quanto la comunità internazionale anelasse a una soluzione del conflitto e la ritenesse ormai più che matura: dallo stesso presidente George W. Bush (che aveva definito produttivo lo sforzo di Ginevra in una conferenza stampa a Washing­ton con re ῾Abd Allāh II di Giordania il 4 dicembre 2003), all’ex presidente Clinton, dal segretario di Stato Colin Powell, che volle ricevere a Washington i due capi negoziatori, al primo ministro britannico Tony Blair, dal presidente francese Jacques Chirac a Nelson Mandela, dal segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan all’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Javier Solana, dal presidente egiziano Hosni Mubarak (Ḥusnī Mubārak) al re del Marocco Muḥammad VI. Il ministro degli Esteri giordano Marwan Muasher (Marwān al-Mu῾ašir) chiese un concreto appoggio regionale e internazionale all’Iniziativa. Mubarak inviò alla cerimonia della firma il suo principale consigliere politico, Osama El-Baz (Usāma al-Bāz). Il governo saudita vi si unì più tardi, dopo aver preso tempo per studiare in dettaglio la rispondenza del Modello di accordo al proprio Piano di pace, adottato dalla Lega araba al vertice di Beirut del 2002, ma aderì poi in modo fermo e convinto. Otto Stati arabi parteciparono all’iniziativa (Algeria, Tunisia, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qaṭar, Oman, Marocco, Giordania). Comitati nazionali di sostegno all’Iniziativa si formarono spontaneamente in molti Paesi, fra i quali anche l’Italia.

Il clima mutò rapidamente quando si manifestarono le opposizioni (di carattere ben diverso, come vedremo subito) dalle due parti e l’entusiasmo iniziale a livello internazionale si tramutò in cautele, reticenze e infine in un silenzioso accantonamento. In Israele la reazione ufficiale fu un secco rifiuto. Sharon parlò di documento «dannoso e imbarazzante», affermando che «solo un governo può condurre negoziati e concludere un accordo» e dichiarando in un discorso a Herzliya il 18 dicembre 2003 che «questo tipo di piani inganna il pubblico e crea false speranze. Non vi sarà pace prima che il terrore sia sradicato». Nello stesso discorso Sharon, che dopo essere stato spiazzato dall’iniziativa di Bush per la creazione di uno Stato palestinese con la road map si trovava adesso incalzato da Ginevra, presentò la sua alternativa. Dopo aver ribadito che «la road map è il solo piano politico approvato da Israele» (omettendo di avervi apposto riserve tali da vanificarla) aggiunse che, se l’ANP avesse continuato a violare i suoi impegni (intesi non solo nel compito di disarmare le milizie, ma in quello di stroncare completamente il terrorismo), Israele avrebbe adottato un piano unilaterale di disimpegno e accelerato la costruzione della barriera di sicurezza. Anche Barak non fu da meno: parlò alla CNN (Cable News Network) di «accordo fittizio e irresponsabile», che «premia il terrore», e «non elimina il diritto al ritorno ma si limita a dare a Israele un certo controllo tecnico sulla sua attuazione» (in realtà, come abbiamo visto, gli dà un controllo totale) e che infine «compromette l’attuazione della road map».

Arafat, che aveva autorizzato Abed Rabbo a negoziare e che aveva mandato a Ginevra un suo ministro, Fares (Fāris) Qaddura, il suo consigliere personale Manuel Hassassian e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jibril Rajoub (Ǧibrīl Raǧūb), si sentì costretto, dopo la presentazione dell’accordo, a distanziarsene e ad assumere una posizione più defilata a seguito di una serie di manifestazioni di protesta a Gaza, in Cisgiordania e in Libano organizzate da Ḥamās, dalla Ǧihād islamica e da Ḥezbollāh, che denunciavano come tradimento e nuova dichiarazione Balfour (1917) la rinuncia al diritto al ritorno. Siria e Libano assunsero anch’essi un atteggiamento negativo. Formalmente fu imputato al fatto che Sharon aveva già respinto l’Iniziativa e che per essa non esisteva quindi alcun interlocutore (argomento speculare a quello ripetutamente usato da Sharon nei confronti di Arafat), ma sostanzialmente l’avversione era dovuta al fatto che il Modello di accordo era limitato alla questione israelo-palestinese e non toccava Damasco e Beirut. La Lega araba fu costretta ad adeguarsi per tener conto delle riserve siriane e libanesi e assunse una posizione anodina, definendo quello di Ginevra un documento popolare e non ufficiale e uno sforzo non negativo, ma ribadendo anch’essa che l’unico piano internazionalmente riconosciuto restava la road map, mai decollata. In questo contesto spiccano la determinazione e la chiarezza con cui il regno saudita ha continuato ad additare anche in tempi successivi, come chiave per una soluzione, accanto al suo piano, proprio l’Iniziativa di Ginevra. Le opinioni pubbliche delle due parti si sono dimostrate divise. Un sondaggio, commissionato da un think tank di Washing­ton, il Baker institute, subito dopo che l’Iniziativa fu resa nota, ha mostrato che il 55,6% dei palestinesi e il 53% degli israeliani sostenevano i principi dell’accordo. Da altri sondaggi compiuti successivamente è risultato che l’Iniziativa veniva sostenuta soltanto dal 31% degli israeliani e dei palestinesi e decisamente osteggiata dal 38% degli israeliani e dal 33% dei palestinesi, con gli altri indecisi.

In realtà, che il miglior testo finora prodotto per una soluzione di pace incontri riserve e diffidenza (anche se la percentuale di indecisi resta determinante) la dice lunga non sui suoi difetti, ma sulla difficoltà che incontra in questa fase storica la conclusione di una vera pace israelo-palestinese e quindi arabo-israeliana. È quindi tempo di vedere più da vicino i fattori contingenti e quelli più profondi che fanno sì che anche dopo la fine dell’Intifāḍa, dopo l’uscita di scena di due nemici giurati come Arafat e Sharon, dopo il conclamato impegno dell’amministrazione Bush a promuovere da subito un accordo di status finale, la meta appaia ancora molto lontana.

Difficoltà contingenti e difficoltà di fondo

La causa contingente delle difficoltà è la debolezza politica dei governi attuali delle due parti. In Israele nessuno dei partiti maggiori (Kadima e Likud) è in grado di governare da solo e la sopravvivenza delle coalizioni formate di volta in volta è venuta a dipendere in misura crescente dall’appoggio condizionato di partiti religiosi (come l’ultraortodosso Shas di Eli Yishai) o di estrema destra, come Israel Beitenu di Lieberman, pronti a uscire dalla maggioranza se un negoziato portasse a rinunce o arretramenti su Gerusalemme o sui rifugiati. Il premier e leader del Likud, Netanyahu, ha preso le distanze dalla formula dei due Stati, limitandosi a parlare genericamente di ‘pace’ e di disponibilità a migliorare le condizioni economiche dei palestinesi. Il ministro degli Esteri Lieberman ha a sua volta escluso che Israele sia vincolato da impegni derivanti dalla conferenza di Annapolis, in quanto mai ratificati. Sul versante opposto, la de­bolezza dell’ANP presieduta da Abu Mazen è stata ampiamente messa a nudo dalla sconfitta di al-Fataḥ alle elezioni del gennaio 2006 a vantaggio di Ḥamās e poi, militarmente, dalla presa violenta di Gaza da parte dello stesso Ḥamās nel giugno 2007. Le operazioni militari israeliane contro Gaza nel 2008-09 non hanno mutato il quadro, semmai lo hanno aggravato. Le indicazioni attuali sono che Ḥamās resta più popolare di al-Fataḥ, tanto in Cisgiordania quanto a Gaza. Benché sostenuto dai Paesi occidentali con aiuti economici, limitate forniture e addestramento nel campo della sicurezza, Abu Mazen è indebolito dal frazionamento di al-Fataḥ, da dissensi nei ranghi del suo stesso partito e in particolare dallo scontento degli elementi più giovani. Ma, soprattutto, il presidente palestinese non ha potuto produrre alcun credibile risultato politico in termini di prospettive future per il suo popolo per poter battere Ḥamās. Dopo due anni di negoziati inconcludenti con una controparte formalmente impegnata a perseguire l’opzione bistatuale, lo Stato palestinese non si è materializzato, l’occupazione è continuata, gli ostacoli alla libertà di movimento sono aumentati anziché diminuire e si sono intensificati gli espropri e gli insediamenti.

Se la debolezza delle parti è la causa contingente, esistono però ragioni profonde da ambo i lati che sono al cuore dello scetticismo e della riluttanza a sostenere i costi che la pace comporta in termini di compromessi. Qui giocano con tutto il loro peso aspirazioni ritenute fondamentali e irrinunciabili dalle due parti, ma anche una perdurante sfiducia reciproca. Concludere la pace significa sottoscrivere la rinuncia definitiva a una visione ideale dei propri diritti lungamente coltivata e continuamente alimentata dalla mobilitazione emotiva e propagandistica inevitabile in un conflitto ormai sessantennale: per i palestinesi il diritto al ritorno dei rifugiati e dei loro discendenti, per gli israeliani la riunificazione di Gerusalemme come loro capitale eterna e indivisibile, ma anche il diritto storico-biblico a insediarsi ovunque in Eretz Israel. Conta solo in parte che la sostanza concreta di questi ideali sia stata dimostrata da tempo incompatibile con la pace. Accettare l’impraticabilità del sogno biblico del ‘Grande Israele’, come hanno fatto i laburisti e il partito Kadima fondato da Sharon, è altra cosa dal risolversi all’atto formale di rinunciarvi in perpetuo e le frange più estremiste del movimento dei coloni, per quanto siano minoritarie, non mancano dei mezzi per impedirlo o sabotarlo, anche creando incidenti. A scatenare l’inferno basta poco. L’esempio più eclatante, dopo un anno e mezzo senza attentati suicidi ma anche senza il raggiungimento di un’intesa al vertice di Camp David, fu la celebre ‘passeggiata dimostrativa’ di Sharon sul Monte del Tempio nel settembre 2000, seguita l’indomani, in rapida successione, dalle sassaiole di giovani palestinesi dall’alto della Spianata sul Muro del Pianto sottostante (che ferirono, anche se in modo non grave, un ufficiale), dal fuoco israeliano e dalla seconda Intifāḍa. Quanto al diritto al ritorno dei profughi e dei loro discendenti alle proprietà d’origine in Israele (che in molti casi neppure esistono più) appare sempre più una vana utopia di fronte ai mutamenti intervenuti sul terreno e alla situazione demografica attuale. Si può aggiungere che trasferimenti di popolazione che furono ingiusti allora non potrebbero avvenire oggi, in misura massiccia e a distanza di generazioni, se non a prezzo di un’ingiustizia di segno opposto. Ma il sentimento profondo e la memoria storica permangono nonostante tutto e si fanno tanto più forti quanto più la condizione di vita attuale dei palestinesi, esuli e profughi nella loro stessa terra sotto un’occupazione militare straniera, diventa intollerabile, come lo è agli occhi di qualunque persona che conosca la realtà dei Territori e abbia un minimo di obiettività. L’altro ostacolo di fondo è quello della reciproca sfiducia: se in passato questa riguardava la buona fede dell’interlocutore, oggi riguarda la possibilità che, anche se animato da buone intenzioni, sia in grado di onorare gli impegni richiesti. In campo israeliano prevale la convinzione che Abu Mazen non sia in grado di controllare neppure la Cisgiordania e che i palestinesi, lasciati a sé stessi, non siano in grado oggi di governare un proprio Stato indipendente. La vittoria elettorale di Ḥamās e poi la sua presa di potere a Gaza dopo il ritiro israeliano appare a molti come un minaccioso anticipo di quanto potrebbe accadere su scala più vasta in caso di ritiro dalla Cisgiordania. La domanda diventa allora perché correre il rischio di stipulare un accordo di pace con una leadership che, per quanto bene intenzionata, può essere scalzata domani da forze islamiste radicali, che potrebbero rinnegare le intese raggiunte da altri. In Israele la domanda che viene posta è anche più generale: se valga la pena di lasciare che nasca uno Stato indipendente che potrebbe diventare per i palestinesi una base per consolidarsi militarmente e armare meglio un revanscismo mai sopito. Contro Arafat si è detto spesso che non aveva mai rinunciato alla ‘teoria degli stadi’ mirante alla riconquista per tappe dell’intera Palestina, malgrado non si capisca perché allora non abbia accettato subito il ‘primo stadio’ che gli si offriva a Camp David. È inevitabile, nella logica della sfiducia, che le paure si rincorrano in una spirale che si autoalimenta e spingano ad adottare una condotta che finisce per confermare quelle paure e rafforzare i motivi che le hanno originate. Così, non credendo nell’interlocutore moderato, si finisce per bruciarlo e rafforzare l’avversario più oltranzista. I palestinesi non saranno mai in grado di gestire un loro Stato finché non si consentirà loro di farlo e non si investirà un capitale politico e psicologico nel successo della loro impresa nazionale come parte indispensabile della propria, dal momento che gli stessi palestinesi, troppe volte considerati in blocco come nemici, possono essere invece il vero salvacondotto per l’accettazione piena di Israele nella famiglia di nazioni di quella regione che il sionismo ha scelto per la propria impresa nazionale.

Sul versante palestinese, lo scetticismo è alimentato da numerosi fattori, in buona parte speculari. Il primo sta nella constatazione che dal riconoscere Israele con gli Accordi di Oslo non è venuto nulla: né la fine dell’occupazione, né un miglioramento delle condizioni di vita, né un serio impegno al tavolo negoziale, né un alleggerimento dei controlli e degli impedimenti a muoversi, né soprattutto l’interruzione degli insediamenti. Questi ultimi, con gli annessi reticoli di strade di comunicazione e accesso che li circondano sono forse il fattore che pesa di più, perché testimonia della perpetuazione di una logica annessionistica che è il contrario di quella negoziale e dell’intento dichiarato di giungere a un compromesso territoriale. Nel 2007 sono state costruite oltre 1500 nuove unità abitative e il numero di coloni in Cisgiordania è aumentato del 5,6% a fronte di un incremento medio della popolazione israeliana dell’1,7%. In pieno processo di Annapolis e dopo l’annuncio di congelamento di nuovi insediamenti, sono ripresi i lavori per la costruzione di 750 nuove abitazioni. Mentre si sono smantellati alcuni insediamenti e avamposti ‘illegali’ per la legge israeliana costruiti a partire dal 2001, intorno a Gerusalemme e nella zona orientale della città le costruzioni si sono moltiplicate, con il risultato di rendere in prospettiva sempre più difficile spartire in modo razionale la città fra zona araba ed ebraica e di creare enclave e intersezioni che rendono sempre più precari i collegamenti fra la parte araba della città e il resto della Cisgiordania. Un terzo degli insediamenti è stato realizzato su terre di proprietà palestinese confiscate per motivi di sicurezza. Un altro elemento di sfiducia sta nel mancato adempimento degli obblighi derivanti dalla prima fase della road map, in particolare la rimozione della maggior parte dei posti di controllo, dei blocchi stradali, dei divieti di circolazione e della catena di permessi per muoversi da un posto all’altro, che soffoca l’intera società palestinese.

Riserve mentali

Sfiducia e timori da ambo i lati hanno le loro ragioni, ma orientare le proprie scelte solo in funzione dei peggiori scenari è un processo cumulativo che non fa che perpetuare il conflitto da cui ci si vorrebbe cautelare. Dal lato israeliano, dubitare del valore di una pace equa con l’ANP perché dietro l’angolo ci sono gli irriducibili di Ḥamās significa sottovalutare il desiderio di pace e di normalità dei palestinesi, ma anche contribuire ad annegarlo in una crescente disperazione sul loro futuro. Spingendosi oltre sulla via di un catastrofismo irrazionale, si può anche dubitare della pace con i Paesi arabi moderati di oggi perché dietro ci sono gli islamismi di domani e dietro ancora i gihadisti di al-Qā῾ida. Ciò porta a non vedere che la pace con gli arabi sarebbe comunque un formidabile elemento di stabilizzazione regionale, che toglierebbe argomenti e peso alle voci più estremiste. Come tanti fatti compiuti di segno diverso sul terreno, una pace con i Paesi della Lega araba e quindi anche con il Libano e la Siria (che difficilmente rinuncerà a sostenere Ḥamās se non riavrà il Golan come l’Egitto ha riavuto il Sinai) creerebbe una nuova situazione regionale che difficilmente potrebbe essere contestata da altri Paesi islamici. Il rischio è quello di perdere l’occasione di una stabilizzazione di portata storica, ormai più che matura, offerta ripetutamente e solennemente dall’intero mondo arabo con il Piano saudita, con l’iniziativa di pace del vertice di Beirut del 2002 e con il vertice della Mecca del 2007. Anwar el-Sadat (al-Sādāt) pagò con la vita, per mano di un fanatico islamista, lo scontro con i Fratelli musulmani e la pace israelo-egiziana. Ma questa gli è sopravvissuta per ormai quasi un trentennio e ha cambiato stabilmente gli equilibri del Medio Oriente.

È paradossale che il governo Olmert, al di là delle parole, abbia posto un impegno politico così poco risoluto nel disegno di Annapolis proprio mentre inquietudini crescenti si appuntavano sull’Irān di Ahmadinejad. Così facendo Israele ha lasciato che si allargasse l’area della conflittualità a dimensioni rese sempre meno governabili anche dalla mancanza di contrappesi in termini di consolidamento di rapporti con la regione immediatamente circostante.

Sul versante palestinese, in molti ha giocato da troppo tempo l’illusione di poter ribaltare la forza dell’avversario in una contrapposta violenza, confondendo resistenza e terrorismo, arrivando tardi a rinunciare all’obiettivo massimalista della negazione dell’altro e ad accettare la prospettiva della spartizione territoriale come pace e non solo tregua d’armi. Come ha scritto Jimmy Carter, a differenza di Sadat e di re Hussein (Ḥusayn), i leader palestinesi non sono mai riusciti a rassicurare veramente gli israeliani. Vittime dirette dell’impresa nazionale sionista, deboli, divisi e spesso strumentalizzati, non sono riusciti nell’impresa, riuscita invece in altri contesti di resistenza a un nemico più forte, di catturarne la coscienza in misura tale da far prevalere nel campo avversario la parte più disposta al dialogo e al negoziato, per risolvere un conflitto divenuto eticamente e psicologicamente insostenibile. Purtroppo le molte voci di pace, di dialogo e di lavoro comune che si levano nei due campi sembrano continuamente sommerse da un discorso di segno contrario, che tende a farle apparire utopismi di ‘anime belle’ o ingenue forme di appease­ment, se non tradimenti, utili al più a fini di pubbliche relazioni con la comunità internazionale.

È chiaro che, per poter funzionare, la pace richiede un salto di mentalità: non solo dolorosi compromessi, ma soprattutto capacità di mantenere nervi saldi e determinazione nel difendere il nuovo assetto da provocazioni e dal sabotaggio terroristico, che non cesserebbero comunque dall’oggi al domani. La storia del processo di pace insegna che le fasi di progresso politico sono state accompagnate puntualmente da contraccolpi devastanti. Il 25 febbraio 1994 (sei mesi dopo gli Accordi di Oslo) Baruch Goldstein, un medico militare israeliano seguace del rabbino Kahane, massacrò 29 musulmani in preghiera nella Grotta dei Patriarchi a Hebron prima di essere disarmato e linciato. La versione ufficiale parlò di un pazzo isolato, ma il funerale di Goldstein fu seguito da migliaia di persone e negli elogi funebri i rabbini legati al movimento dei coloni parlarono di ‘martire’, ‘eroe’, e ‘uomo santo’. Il gesto di Goldstein impresse una svolta strategica alla violenza, perché fu allora che il fondatore di Ḥamās, lo sceicco Ahmed Yassin (Aḥmad Yāsīn), sciolse la riserva sulla compatibilità fra il suicidio e l’islam in condizioni di conflitto, dando il via libera, trascorsi i 40 giorni di lutto islamico, alla pratica degli attentati suicidi, con la rivendicazione del massacro di Afula (un’auto piena di esplosivo fu lanciata contro un autobus di studenti israeliani facendo 9 morti e 55 feriti). E ancora: quando un altro estremista israeliano, Yigal Amir, assassinò il primo ministro Yitzahak Rabin (1995), dichiarò esplicitamente che lo aveva fatto per far saltare gli accordi esistenti e mettere fine al processo negoziale. Delle conseguenze dello stillicidio di lanci di razzi Qassam da parte di Ḥamās e di gruppi minori si è già detto. La pace non comporterebbe né la fine miracolosa di tutti gli atti di violenza, né immediate condizioni di benessere nelle terre palestinesi. Occorrerebbero una o due generazioni educate alla convivenza e un vero riorientamento culturale, nella propaganda, nell’azione dei media, nell’istruzione, nei materiali didattici o informativi (dai testi scolastici alle carte stradali), perché possa radicarsi un abito mentale diverso nei confronti dell’ex nemico. Il punto è che, se non si lavora per costruirlo perché non lo si crede possibile, non si produrrà da solo.

Conseguenze di un fallimento del processo di pace: due Stati o uno solo?

È ovvio che le conseguenze del definitivo abbandono del processo negoziale che la conferenza di Annapolis intendeva rilanciare sarebbero di ampia portata. Si indebolirebbe in modo ulteriore e forse decisivo chi vi ha investito il proprio capitale politico, a cominciare da Abu Mazen, e si logorerebbe ulteriormente l’immagine degli Stati Uniti come principale mediatore nel conflitto. Ma soprattutto ne uscirebbe gravemente compromessa quella stessa prospettiva bistatuale su cui l’intero processo si è basato, dagli Accordi di Oslo in poi. Non sono mancati del resto, negli ultimi tempi, accanto a una revisione critica dell’idea stessa di un ‘processo’ di pace, segni di una sfiducia crescente nella possibilità reale di arrivare a due Stati indipendenti. Politici e intellettuali palestinesi moderati e figure prestigiose dell’OLP come Sari Nusseibeh (Sarī Nusayba), Hanan Ashrawi (Ḥanān ῾Ašrāwī) o Abu Ala’a (Abū ῾Alā᾿), hanno indicato che, tramontata la soluzione bistatuale, ai palestinesi sotto occupazione non resterebbe che chiedere la cittadinanza israeliana, fosse anche una cittadinanza ‘di seconda categoria’.

L’alternativa tradizionale ai due Stati, antica quanto il conflitto israelo-palestinese, è quella dello Stato unico. Vi rientrano un ventaglio di scenari, auspicati o temuti, che vanno dall’utopia umanistica di convivenza in uno Stato binazionale laico e democratico fino alla prospettiva, illusoria ma non di meno presente, di un regolamento di conti, subitaneo o per tappe, che spazzi via il nemico: prospettiva che ovviamente non è di soluzione, ma di conflitto perpetuo e in cui si riconoscono non a caso gli estremisti delle due parti. Di norma viene obiettato che lo Stato binazionale è insieme una ricetta esiziale di conflitto e una chimera, perché i palestinesi non hanno la forza per imporla e gli israeliani non vi consentirebbero mai: non potrebbero consentirvi senza rinunciare alla natura stessa dello Stato ebraico, che è alla base della sua fondazione e dell’intera impresa sionista. Ma, se si trattasse veramente solo di una chimera, non si capirebbe allora perché proprio i principali leader israeliani, da Shimon Peres a Barak, da Sharon a Olmert, abbiano moltiplicato negli ultimi anni dichiarazioni in cui l’hanno denunciata invece come una minaccia concreta e attuale: minaccia percepita come tanto più insidiosa perché in realtà non viene dalla parte avversaria, troppo debole per imporre soluzioni, ma dalla propria, ossia dalla colonizzazione dei territori occupati e dall’ideologia annessionistica del ‘Grande Israele’, in cui l’annessione comporta alla lunga il voto agli arabi e quindi una maggioranza politica araba, a meno di reprimerla, con il conseguente dilemma fra rinunciare all’ebraicità dello Stato o alla democrazia. Si tratta di timori che sembrano confermati dal successo di un leader come Netanyahu, capo del Likud, che mantiene le distanze dalla soluzione bistatuale e che ha sostenuto in passato che il problema palestinese va risolto in chiave di autonomia e di ‘pace economica’. La riserva mentale e insieme l’elemento inconfessabile nelle posizioni della destra può essere quello di una pulizia etnica strisciante, nella speranza che i palestinesi in qualche modo escano di scena, come gli indiani d’America. Nei suoi commenti politici, lo storico Benny Morris ha oscillato fra una visione di questo tipo e, più recentemente, nel suo libro One State, two States (2009), la vecchia ‘soluzione giordana’ di un’incorporazione dei territori palestinesi al regno hashemita: si tratta di una variante irrealistica e antistorica della soluzione bistatuale, respinta tanto dai palestinesi quanto dalla Giordania, che ne uscirebbe verosimilmente destabilizzata. In realtà, a parte i risvolti etici di discorsi su scambi territoriali che coinvolgerebbero milioni di persone o (nel caso della soluzione di Morris) di accorpamenti dettati dall’esterno che ricordano le demarcazioni statuali dell’epoca coloniale, è lecito dubitare che operazioni di ingegneria etnico-demografica risolvano un problema di convivenza che resta politico. Come si è visto, è la stessa visione bistatuale che sembra impallidire, ammesso che non sia già da considerare un’occasione tragicamente persa, da ambo le parti. Ma c’è di più: la stessa differenza fra ipotesi monostatuale e bistatuale è, nei fatti, meno risolutiva di quanto possa sembrare. Per poter convivere in pace e sicurezza, due Stati su un territorio così esiguo e povero di risorse dovrebbero essere chiamati a uno sforzo cooperativo non molto minore di quello, apparentemente impossibile, richiesto a due comunità nello stesso Stato. Per vivere in sicurezza, si dovrebbero regolare minutamente il controllo degli spazi aerei, la collaborazione di polizia, la rete elettrica, il sistema viario, la rete idrica, la concorrenza economica. Se domani si realizzasse un accordo basato sulla restituzione dei territori occupati nel 1967 con modifiche solo minori, i coloni che dovrebbero far ritorno entro i confini di Israele sarebbero centinaia di migliaia (500.000 se si include Gerusalemme Est). Se invece si mantenesse l’attuale configurazione degli insediamenti in cambio della cessione del ‘triangolo della Galilea’ al nuovo Stato, si avrebbe comunque una territorialità a macchie di leopardo pressoché ingestibile. In entrambi i casi un problema ancora più grave si porrebbe per l’acqua. Israele verrebbe a dipendere in modo cruciale dagli acquiferi montani della Cisgiordania restituita ai palestinesi e quindi dalla buona volontà di un governo del nuovo Stato, che non potrebbe erogare al vicino quantità d’acqua paragonabili a quelle oggi appropriate da Israele per soddisfare la sua «sete da primo mondo», come l’ha chiamata Jonathan Cook nel suo recente libro Disappearing Palestine (2008). In più, un Israele in pace perderebbe molti dei benefici ricevuti in termini di aiuti economici e militari dall’estero in nome di una continua emergenza e dovrebbe riconvertire un’industria bellica che ha un peso non secondario nell’economia del Paese. Infine, dovrebbe accettare una concorrenza ad armi pari in agricoltura. Sono tutti fattori obiettivi che spiegano perché la prospettiva di due ‘veri’ Stati rischi di essere, se non ugualmente chimerica, non molto più facile da attuare di quella monostatuale e perché sia rimasta finora, al di là delle esortazioni della comunità internazionale, un miraggio continuamente risospinto verso il futuro.

Lo scenario più probabile resta allora quello di un mancato accordo e quindi di un prolungamento di fatto della situazione attuale. Meno probabile e non durevole sarebbe la soluzione di un accordo su un mini-Stato palestinese indipendente, contiguo e vitale solo sulla carta e che offrirebbe poche prospettive di futuro ai suoi abitanti e poca sicurezza al suo vicino. Né l’una né l’altra sono vie di pace. Si tratterebbe piuttosto del consolidamento di un sistema di dominio non molto diverso da quella che fu l’apartheid sudafricana. Il termine ha destato scalpore quando l’ex presidente americano Jimmy Carter lo ha usato nel suo primo libro sul conflitto israelo-palestinese Palestine. Peace not apartheid (2006), ma non si saprebbe come altro definire un sistema che applica, come già accade nei confronti dei coloni israeliani e dei palestinesi, un diverso regime giuridico nello stesso territorio in base all’appartenenza etnica, imponendo al secondo gruppo una serie di limitazioni a libertà e diritti di cui gode invece pienamente il primo. Del resto, nei territori ne esistono già segni tristemente familiari, dalle carte d’identità a colori diversi ai lasciapassare, dai permessi di soggiorno per i palestinesi di Gaza ‘non residenti’ in Cisgiordania alle strade e superstrade riservate ai coloni e chiuse agli altri, dal controllo dell’accesso ai centri d’istruzione superiore e ai servizi medici e in generale alle proprie risorse, a cominciare dall’acqua fino alla distruzione di abitazioni e alle deportazioni. Israele può disinteressarsene per due ragioni. Può rivendicare un’anomalia in positivo nell’essere ancora una democrazia di stampo occidentale che non trova eguali nella regione. Può rassicurarsi pensando che, quale che sia l’atteggiamento della piazza araba, nessuno è comunque pronto a scatenare guerre e a sfidare uno degli eserciti più forti del mondo che è anche una potenza nucleare. Sono considerazioni non prive di fondamento, ma che non dicono tutto. In particolare, trascurano il fatto che in Medio Oriente i conflitti possono accendersi per autocombustione e non tengono conto dei caratteri diversi che potranno assumere in futuro i conflitti armati e il terrorismo. Chi pensa che il problema palestinese possa sparire poco a poco, un po’ come gli indiani d’America davanti all’inarrestabile progresso portato da pionieri e coloni, sbaglia epoca e sbaglia contesto. Se vi è una lezione che il 20° sec. ha passato indelebilmente al nostro, dalla fine del colonialismo all’orrore dell’Olocausto, è che non possono esistere uomini e sotto-uomini, popoli e sotto-popoli.

Conclusioni

A meno che il negoziato di pace riprenda sotto una spinta più assertiva della comunità internazionale e si allarghi a un regolamento fra Israele e Siria che spinga Damasco a condizionare in positivo anche Ḥamās, quella che sembra imporsi è la conclusione pessimistica che la possibilità di pace che forse tuttora esiste non sarà raccolta. Occorrerà ancora una volta fare il possibile per contenere i danni, abbassare la soglia di violenza, contrastare il terrorismo, cercare di evitare catastrofi umanitarie e continuare a operare nel tentativo di invertire la rotta. Ma il conflitto sembra destinato a passare, irrisolto, alle prossime generazioni. Nel concludere un’analisi in senso pessimistico non ci si può che augurare di essere in errore. Ma una certa dose di pessimismo, quando s’impone sulla base dell’osservazione dei fatti e delle motivazioni sottostanti, può anche avere il merito di far contemplare con disincanto la mancanza di mete e di spingere tutti coloro che del conflitto pagano direttamente le conseguenze a un riesame profondo delle rispettive priorità e scelte.

Rimane viva la speranza che un Nelson Mandela palestinese e un Frederik De Klerk israeliano emergano quanto prima e riescano a conquistare i cuori e le menti dei rispettivi popoli e degli avversari a un credibile progetto di pace e di collaborazione, indispensabile per condividere un territorio limitato e scarse risorse naturali. Ma oggi, per usare il titolo di un libro recente sulla questione israelo-palestinese, questa è solo una «speranza oscura». Finché rimane aperto, il conflitto sembra forzare chi lo osserva, per la natura speciale delle due parti, per i luoghi che ne sono teatro e per le sue matrici storiche, a parteciparvi dolorosamente con un moto di coscienza, se non a prendere partito. È una divisione degli animi che in Occidente è manifesta nei commenti, nel taglio di molti articoli della stampa, nei dibattiti politici, nelle linee editoriali di giornali e riviste ‘impegnati’ a difendere una causa o l’altra e che sembra precludere una visione equanime di un conflitto fra due popoli alle cui fondamentali aspirazioni non ci si può che sentire vicini. Per un verso, non si può che essere allora dalla parte della democrazia rispetto all’autoritarismo, della libertà di opinione e di critica rispetto al conformismo e alla censura, del confronto delle idee e dello Stato di diritto rispetto alla logica dell’intimidazione e del terrore. Per altro verso, fra potenza occupante e popolo occupato non si può che essere dalla parte del secondo quando i suoi diritti fondamentali vengono calpestati. Questa dicotomia in realtà non ha ragion d’essere in questi termini. Se si comprende che la vera discriminante passa all’interno dei due campi, delle due società e delle rispettive forze politiche, si capirà anche che il partito da prendere non è fra israeliani e palestinesi, ma fra chi in un campo e nell’altro lavora per la pace e chi lavora, più o meno consapevolmente, per la continuazione del conflitto.

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