ITALIA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1979)

ITALIA (XIX, p. 693; App. I, p. 742; App. II, 11, p. 72)

Mario Cataudella
Giuseppe de Meo
Giovanni Spadolini
Ignazio Baldelli
Alessandra Briganti
Fortunato Bellonzi
Carlo Melograni

Confini. - Con gli accordi tra I. e Iugoslavia relativi al territorio di Trieste, fu adottata nel 1954 una soluzione a carattere provvisorio secondo la quale la "Zona A" (210.12 km2) veniva affidata all'amministrazione italiana e la "Zona B" (529 km2) rimaneva all'amministrazione civile iugoslava. Il 10 novembre 1975 il governo italiano ha firmato con la Iugoslavia un trattato (a Osimo) secondo il quale la linea di demarcazione tra le due zone è stata definitivamente trasformata in confine di stato tra i due paesi.

Circoscrizioni amministrative. - Non prive d'importanza geografica sono le variazioni amministrative intervenute sul territorio italiano dal 1961 in poi. A parte la costituzione o la soppressione di numerose unità comunali, di cui sarebbe troppo lungo fornire un resoconto, sono state istituite una nuova regione e tre province.

Nel 1964, in conformità con lo statuto regionale del Friuli Venezia Giulia, nell'ambito della provincia di Udine fu ripristinato il circondario di Pordenone che venne trasformato in provincia nel febbraio 1968. La nuova unità amministrativa è formata da 51 comuni per complessivi 2273 km2 e conta una popolazione residente di 261.295 abitanti.

Nel 1963 con il distacco della provincia di Campobasso dall'Abruzzo, il Molise è diventata la ventesima regione della Repubblica italiana. Isernia è diventato capoluogo di provincia nel febbraio 1970; il Molise risulta così diviso in due province, e dei 136 comuni molisani 52 (1529 km2) sono stati attribuiti a Isernia e i restanti 84 sono rimasti a Campobasso. Secondo recenti valutazioni (1976) dei 330.475 abitanti del Molise, 94.540 appartengono alla nuova provincia, cosicché questa risulta essere la meno popolata d'Italia.

Dal luglio 1974 anche Oristano è capoluogo di provincia. Il suo territorio è composto di 75 comuni dei quali 71 provengono dalla provincia di Cagliari e 4 dalla provincia di Nuoro. La superficie territoriale è di 2.630,57 km2, la popolazione ammonta a 155.973 unità (stima del 1976).

Dal 1972 sono, inoltre, stati istituiti diversi circondari, distribuiti su varie regioni. A tutto il 1977 il loro numero complessivo era di 12: Biella, Pinerolo, Alba-Bra, Mondovì, Ivrea e Casale Monferrato in Piemonte; Prato in Toscana; Rimini in Emilia e Romagna; Melfi e Lagonegro in Basilicata; Lecco e Lodi in Lombardia.

Popolazione. - Alla data dell'11° censimento (24 ottobre 1971) la popolazione residente in I. risultava di 54.136.457 abitanti. Nel dicembre del 1976 la popolazione è salita a 56.324.727 abitanti. Nei dieci anni che vanno dal 1961 al 1971 il numero dei nati è andato descrescendo del −0,57% all'anno, come anche è diminuita l'eccedenza dei nati sui morti (−1,64%). Nello stesso decennio, però, si è notevolmente ridotto anche il saldo globale dell'emigrazione con l'estero, il che ha prodotto un aumento della popolazione residente di qualche punto superiore al saggio normale di accrescimento.

Dal 1961 al 1971 la popolazione italiana è aumentata di 3.400.000 unità circa, con un quoziente di accrescimento annuo di 6,5 ogni 1000 abitanti, valore questo non lontano da quello medio registrato dal 1861 a oggi. Tale ritmo di accrescimento, però, è stato molto diverso nell'I. centro-settentrionale e nel Mezzogiorno, dove rispettivamente è risultato pari al 9,5 e all'1,4‰. È aumentato quindi il peso che le popolazioni dell'I. centrale e settentrionale hanno sul complesso del paese, mentre è diminuita l'importanza relativa del Mezzogiorno dove, ormai, vive poco più di un terzo della popolazione nazionale, nonostante che il suo territorio sia pari al 43% di quello dell'intero paese. Va poi sottolineato il fatto che nell'I. meridionale la popolazione presente non corrisponde affatto a quella ufficialmente registrata, dato che sono circa 450.000 le persone residenti nelle regioni meridionali che di fatto si sono trasferite altrove, mentre nell'I. settentrionale e centrale si verifica il fenomeno inverso, misurato da 179.000 unità di fatto presenti, anche se non registrate all'anagrafe.

Comunque il fenomeno di maggior rilievo è costituito dal divario che è dato rilevare nel tasso di accrescimento della popolazione tra le diverse ripartizioni statistiche del paese. L'esiguità del tasso di crescita demografica per l'I. meridionale è in stretta connessione con l'andamento dei flussi migratori. D'altra parte, la tendenza generale è quella di un costante abbassamento medio della natalità e della mortalità fino a livelli che, paragonati a quelli europei, possono definirsi decisamente bassi (rispettivamente 17 e 10‰). L'incremento naturale però è diminuito molto poco, conservando valori non lontani da quelli registrati nel corso dell'ultimo secolo (8-9‰). Assai diversa, anche in questo caso, risulta la situazione quando si consideri a parte l'I. meridionale. Escluso il Mezzogiorno, infatti, la natalità per il resto dell'I. si è ridotta sensibilmente ed è oggi su livelli molto bassi (15‰) nonostante il grosso afflusso di popolazione giovane dalle regioni meridionali dove la natalità è tra le più alte d'Europa (21‰). La mortalità, invece è diminuita maggiormente nel Sud soprattutto a causa di una più favorevole composizione per età della popolazione e nonostante che la mortalità infantile sia ancora assai elevata (33‰ di mortalità nel primo anno di vita). L'alta natalità e la meno elevata mortalità nel Mezzogiorno provocano due effetti importanti: da un lato l'accrescimento naturale nell'area meridionale presenta valori intorno al 13,5‰ pari a più del doppio dell'analogo tasso riferito alle regioni settentrionali -, dall'altro il Mezzogiorno, con il suo 36% di popolazione, partecipa all'incremento naturale complessivo del paese in misura del 58%. Sono questi i due aspetti più evidenti del cosiddetto fenomeno di meridionalizzazione della popolazione nazionale.

Significative sono anche le indicazioni che si ricavano dai dati censuari relativi al fenomeno migratorio. Nell'ultimo decennio intercensuario si è registrata una preoccupante esasperazione delle tendenze che si erano rilevate nel decennio precedente. Il numero di emigrati del periodo tra il 1951 e il 1961, poco meno di 1.900.000 unità, sembrava per il Mezzogiorno un triste primato difficilmente superabile. Tra il 1961 e il 1971 è salito a 2.362.000, il che porta il totale di venti anni di emigrazione meridionale a 4,2 milioni che, su una popolazione media di 19 milioni, fa assumere al fenomeno le dimensioni di una vera e propria fuga. La creazione di infrastrutture viarie e l'iniziale processo di modernizzazione avviato in alcune regioni meridionali non è stato in grado di rallentare il flusso migratorio: la rottura dell'isolamento ha favorito l'esodo più che la creazione di strutture produttive e di sufficienti posti di lavoro.

Si può dire che tutte le regioni meridionali hanno un bilancio migratorio in deficit. Nel decennio tra il 1961 e il 1971, il 20% delle persone hanno abbandonato la Basilicata, il 18% il Molise e la Calabria, il 10% il Mezzogiorno nel suo insieme. Citiamo l'esempio della provincia di Isernia dalla quale sono emigrati oltre 20.000 abitanti dei 106.000 che formavano la sua popolazione nel 1961; dei 229.000 abitanti della provincia di Enna ne sono emigrati nello stesso periodo 52.000.

Appare grave il fatto che il peggioramento del saldo migratorio si è dovuto registrare anche in province come quella di Brindisi e nella Sicilia sud-orientale, dove, pure, sono stati realizzati notevoli investimenti nel settore industriale.

Tenendo distinti i comuni-capoluogo dagli altri comuni, si possono dedurre elementi utili sulla direzione delle correnti migratorie e su alcuni problemi che ne derivano. Nel decennio 1961-71 i capoluoghi si sono in generale accresciuti con un ritmo quasi 4 volte superiore a quello degli altri comuni. Una differenza nettissima tra l'I. centro-settentrionale e il Sud riguarda invece i comuni non capoluogo di provincia, che si vanno spopolando nel Mezzogiorno (−2‰ per anno), mentre nel resto d'I. si accrescono a un ritmo piuttosto sostenuto (+ 7‰ per anno).

Questi dati confermano per il Mezzogiorno la tendenza alla concentrazione della popolazione nei centri urbani con preferenza per i più importanti; le differenze che esistono negli ambiti provinciali tra popolazione presente e popolazione residente accentuano tale tendenza. Ma attualmente neanche le città esercitano nel Sud un'effettiva azione di contenimento dell'emigrazione, tanto è vero che tra il 1951 e il 1961 l'incremento dovuto all'immigrazione nei comuni-capoluogo dell'I. meridionale era ancora positivo (2,2‰) mentre, nell'ultimo decennio, si è registrata un'inversione di tendenza (−3,6‰ per anno). Sono i capoluoghi, in particolare quelli siciliani, ma anche parte di quelli pugliesi e campani, che hanno avuto perdite migratorie molto consistenti. E per i pochi capoluoghi che hanno continuato a registrare saldi migratori positivi (Salerno, Potenza, Cosenza) il fenomeno è solo apparente, dato che le città meridionali sono soltanto luogo di transito per l'esodo rurale e montano e luogo di partenza verso i centri industrializzati, o più propriamente metropolitani, per coloro che hanno ricevuto un'istruzione adeguata o sono riusciti a darsi una prima qualificazione professionale. Per effetto del consistente saldo naturale le città del Mezzogiorno, nonostante il saldo migratorio negativo, costituiscono importanti poli di sviluppo demografico anche dove non vi è stata industrializzazione, mentre nelle grandi città dell'I. settentrionale e centrale si è già da alcuni anni rafforzata la tendenza al decentramento degl'insediamenti e delle attività produttive.

È esemplare il caso della provincia di Torino la cui popolazione è aumentata fra il 1961 e il 1971 del 15% nel capoluogo, mentre è cresciuta del 40% negli altri comuni. Tipico è anche l'esempio di Milano con un aumento del 9% per l'area urbana e del 38% per la provincia.

Sulla recente evoluzione della popolazione attiva e sulle forze di lavoro nel loro complesso i dati censuari segnalano per l'I. una contrazione del grado di partecipazione della popolazione alle attività produttive, e il fenomeno è di carattere generale: infatti l'intero paese ha visto scendere nell'ultimo decennio il tasso di attività dal 38,7% al 34,7%. Esso, tuttavia, presenta un diverso andamento al Nord dove è del 37,3 (−3,8) e al Sud dove è del 30,2% (−4,6). La contrazione della popolazione attiva si verifica in tutti i paesi economicamente progrediti ed è un fenomeno che si collega ai processi di trasformazione delle strutture economiche e sociali ancor più che alla struttura demografica. Certamente sono fattori positivi il prolungamento dell'obbligo scolastico, la durata media degli studi oltre la fascia dell'obbligo, i miglioramenti nella legislazione previdenziale che accelerano il passaggio degli anziani nelle categorie non attive e, infine, la ristrutturazione dell'occupazione agricola che comporta il passaggio di un cospicuo numero di coadiuvanti, ragazzi soprattutto, nella popolazione non attiva. Non è questo, però, il caso dell'I. meridionale, dove la contrazione del tasso di attività tocca in alcune province livelli patologici da addebitarsi prevalentemente a una struttura economica arretrata in cui i fenomeni di squilibrio intersettoriali sono assai diffusi. Avviene che, per la carenza di capacità di assorbimento da parte delle altre attività produttive, la forza-lavoro espulsa dall'agricoltura non trova utilizzazione in altri settori, o quanto meno, resta sottutilizzata. Essa, quindi, si sposta semplicemente di luogo, andando a ingrossare, in città, le file dei disoccupati e dei lavoratori precari. In altre parole l'esodo dall'agricoltura non trova riscontro in un proporzionale accrescimento dell'occupazione in altri settori e si traduce, pertanto, in una contrazione del tasso di attività (v. tab. 4).

Occupazione. - Il numero totale degli occupati in Italia dal 1951 al 1971 è rimasto pressoché invariato, ma vi è stato un forte spostamento dell'occupazione dal settore agricolo agli altri settori. Nel Mezzogiorno dove, come si è già accennato, si è registrata un'emigrazione di circa quattro milioni di unità, l'occupazione è invece diminuita di circa mezzo mil.

Come appare nella tab. 5 l'occupazione complessiva italiana al 1971 ammonta a circa 19,4 milioni di unità ripartita in 13,4 milioni nell'I. centro-settentrionale e in 6 milioni nell'I. meridionale.

Considerando gli occupati nel settore agricolo, va rilevato come il loro numero sia ancora elevato nel Mezzogiorno rispetto all'I. centro-settentrionale, nonostante la sensibile riduzione registrata nell'ultimo decennio. In tale periodo, infatti, gli occupati nel settore primario nell'I. meridionale passano dal 43,7% dell'occupazione agricola totale al 50,4%, mentre la produzione agricola della stessa circoscrizione amministrativa passa dal 38% al 44% con un tasso medio annuo di accrescimento del 7% contro l'8,5% dell'I. centro-settentrionale.

Al 1971, l'occupazione nel ramo manifatturiero è di 1.059.000 addetti nel Sud, con un aumento di 93.000 unità rispetto al 1961, e di 4.952.000 addetti nell'I. centro-settentrionale, con un aumento di 430.000 unità nell'ultimo decennio. Espressa in unità di permanenti la variazione dell'occupazione nel ramo manifatturiero è di 130.000 unità nell'I. meridionale e di 516.000 nell'I. centrale e settentrionale.

Il rapporto addetti per unità locale risulta per l'I. nel suo insieme 8,4, per il Centro-Nord 10, e per il Mezzogiorno 4,1. Ancora molto alto appare il numero di unità locali con almeno 5 addetti, in particolare nel Mezzogiorno dove il 91,6% delle aziende sono di tali dimensioni e assorbono il 35% degli occupati nel settore. Il dato relativo alla dimensione media delle unità locali è un elemento utile per misurare il livello di sviluppo industriale. In particolare si può affermare che nel Mezzogiorno il processo di emarginazione delle piccole imprese continua in misura più ridotta rispetto al decennio precedente mentre nell'I. settentrionale si è fermato. Tale evoluzione della struttura industriale fa supporre che il mercato abbia eliminato nel Sud una buona aliquota delle unità locali di tipo artigianale favorendo, per quelle rimaste, l'inserimento in un sistema produttivo più equilibrato.

Per l'I. nel suo complesso tra il 1961 e il 1971 si è registrata, come già si è accennato, una forte variazione negativa nell'occupazione agricola, soprattutto nell'I. settentrionale. Diminuisce lievemente anche l'industria estrattiva e delle costruzioni, mentre qualche aumento si registra nell'industria elettrica e manifatturiera, ma per quest'ultima il ritmo di accrescimento è nettamente inferiore a quello registrato tra il 1951 e il 1961. La tab. 6 riporta i saggi medi annui delle variazioni dell'occupazione tra il 1961 e il 1971.

Agricoltura. - Secondo l'ultimo censimento generale dell'agricoltura (ottobre 1970) la superficie agricola utilizzata in I. ammonta a circa 17,5 milioni di ettari di cui il 25,5% si trova nella zona altimetrica di montagna, il 45,7% nella zona collinare e il 29,1% in pianura. Nella ripartizione della superficie agricola per gruppi di coltivazioni, il 50,6% è destinato al seminativo, il 30,9% ai prati permanenti e ai pascoli, e il 16,8% alle coltivazioni legnose. È evidente, confrontando questi dati con quelli dei precedenti censimenti, come siano aumentati in percentuale sia il seminativo, specialmente nella zona di pianura, sia le coltivazioni legnose agrarie. Quasi stazionaria è invece la superficie destinata a bosco (6.208.241) mentre quella improduttiva ammonta a 3.055.072 ha, con un aumento di circa un milione di ettari in poco più di dieci anni. Nel 1970 è aumentata rispetto agli anni precedenti anche la superficie irrigua. Le più recenti opere d'irrigazione sono dovute ai lavori di completamento dei comprensori di bonifica e alla costruzione di serbatoi e di bacini artificiali ad opera della Cassa per il Mezzogiorno.

Per quanto riguarda l'andamento della produzione nell'ultimo decennio è da segnalare soprattutto l'aumento dei raccolti di frumento, di granoturco, di pomodori e di uva (tab. 7). Tali aumenti sono da ascrivere principalmente all'incremento della resa unitaria più che all'ampliamento delle aree coltivate.

A causa delle variabili condizioni climatiche la produzione di mais ha subito notevoli oscillazioni da un anno all'altro e si aggira in media sui 50 milioni di q (53,4 milioni di q nel 1976) forniti per il 70% da Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli, regioni queste che destinano a tale coltivazione vaste aree della pianura e dei fondivalle. La coltivazione va diminuendo per estensione e per resa dal Nord verso il Sud e raggiunge i valori minimi nelle isole. La vite è presente in tutte le regioni italiane ma dà origine a paesaggi molto differenti in conseguenza del fatto che può figurare in coltura promiscua oppure specializzata. La sua coltura si spinge sino ai 1000 m nella regione alpina, sui versanti soleggiati della valtellina, e giunge addirittura a 1300 m sull'Etna. L'I. è ora al primo posto nel mondo per la produzione di uva con raccolti di oltre 100 milioni di q (105,5 nel 1976), come anche per quella del vino (65,8 milioni di ettolitri). La maggior parte dell'uva viene destinata alla vinificazione, ma una parte cospicua (8 milioni di q) è da tavola. Le regioni dove la coltura è maggiormente estesa sono la Puglia, la Sicilia, il Veneto e l'Emilia-Romagna, seguite da Piemonte, Toscana e Lazio, ma ogni regione ha i suoi vini tipici che alimentano un prospero commercio di esportazione. Anche la produzione di ortaggi ha una grande importanza per le esportazioni nei paesi esteri. Legata a favorevoli condizioni di clima, a terreni soffici, ben irrigati e concimati e alla presenza. di un vasto mercato di assorbimento, l'orticoltura si è sviluppata nelle aree che circondano gli agglomerati urbani (Milano, Bologna, Napoli, Bari, Palermo, ecc.). Ma più recentemente con il perfezionamento dei mezzi di conservazione e dei trasporti, specie diverse di ortaggi si avvicendano per tutto l'anno a pieno campo. La Campania per una favorevole combinazione di fattori fisici e umani è al primo posto in I. per la varietà, la qualità e il valore della produzione orticola. Le aree di maggiore concentrazione sono la pianura circumvesuviana e quella del Sele che dànno alla regione il primo posto per la produzione di cavolfiori e melanzane.

Si è molto sviluppata negli ultimi venti anni anche la produzione del pomodoro, che è passata dai 19 milioni di q del 1957 ai 29,8 milioni del 1976 (ma oltre 36 mil. di q nel 1974). La Campania è al primo posto per questa produzione con raccolti che si aggirano sui 10 milioni di q.

La coltivazione degli alberi da frutta comprende numerose specie con esigenze climatiche diverse ed è praticata su tutto il territorio nazionale; per le pere e le mele, il primato spetta all'Emilia-Romagna con oltre 15 milioni di q, pari circa al 40% della produzione nazionale (36,6 milioni di q nel 1976).

Consistenza del bestiame. - I dati sulla consistenza del bestiame nel 1976 indicano una generale diminuzione del patrimonio zootecnico, nonostante l'aumentato consumo di carne, latte e formaggi. Rispetto alla consistenza del patrimonio zootecnico italiano del 1968 risultano oggi diminuiti i bovini (8.736.900), gli ovini (8.445.200) e i caprini (948.200). Gli equini (540.600) tra cavalli, asini, muli e bardotti si sono dimezzati. L'unico settore in espansione è quello dell'allevamento dei suini, che ha oggi superato i 9 milioni di capi, contro i 3,9 milioni del 1958.

La scarsa consistenza del patrimonio bovino, di molto inferiore alla richiesta del mercato nazionale, ci costringe a considerevoli importazioni dall'estero. La disponibilità di buoni pascoli, adatti all'allevamento dei bovini, è limitata nel nostro paese alla fascia alpina, alla pianura Padana e a piccole aree della penisola. La limitata estensione delle aree a pascolo è uno dei motivi dell'esiguità di tale tipo di allevamento. La maggior parte dei prati appartiene a quattro regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia. Queste regioni ospitano oggi quasi i tre quinti dei bovini italiani e forniscono la maggior parte di carne, latte e prodotti caseari.

Pesca. - La pesca rappresenta in I. un'attività secondaria sia per l'esiguità della flotta specializzata, sia per lo scarso numero di persone che si dedicano a tale attività. Il settore appare però in espansione per il recente aumento del naviglio (3871 motopescherecci e 15.820 motobarche nel 1976; rispettivamente 3045 e 8145 nel 1960) e per la stazza complessiva (257.460 t nel 1976,108.000 nel 1960). È aumentata anche la stazza media della flotta peschereccia italiana a causa del potenziamento del naviglio da pesca attrezzato per l'alto mare. In I. si pescano annualmente circa due milioni di q di pesce (2,6 milioni nel 1976) e quasi un milione di q di molluschi e crostacei (926.000 e 198.000 q rispettivamente nel 1976). La maggior parte del pesce viene catturato nell'Adriatico (40%), che presenta condizioni naturali più favorevoli, e nelle acque sicule.

Fonti di energia. - Lo sviluppo industriale e della motorizzazione ha accentuato la carenza di energia per l'I. che deve ricorrere a massicce importazioni di combustibile; tali importazioni incidono fortemente sulla bilancia dei pagamenti con l'estero. Nel nostro paese si estrae carbone soltanto in Sardegna nel Sulcis, ma tale produzione è in fase di estinzione dato che nel 1976 la produzione ha toccato appena le 1340 tonnellate. La lignite, circa due milioni di t., si estrae in Valdarno, in Umbria e in Sardegna. Alquanto migliore è la situazione per quanto riguarda il petrolio (i . 108.550 t nel 1976) che proviene in gran parte dalle province di Caltanissetta (Gela) e di Ragusa. Nuovi giacimenti sono stati rinvenuti a Pisticci (Matera); diminuisce, invece, la produzione dei pozzi funzionanti nelle province di Piacenza e di Parma.

In costante aumento è la produzione di gas naturale che da meno di un miliardo di m3 nel 1951 ha superato i 15 miliardi di m3 nel 1974. Mentre sono in graduale esaurimento i giacimenti della Padania, va crescendo l'utilizzazione dei giacimenti del Mezzogiorno (Sicilia, Basilicata, provincia di Teramo e Foggia) e di quelli dell'Adriatico al largo di Rimini, San Benedetto del Tronto, Ravenna.

In aumento è anche la produzione di energia elettrica. Nel 1958 l'I. possedeva centrali idroelettriche che fornivano 36 miliardi di kWh; le termoelettriche, comprese quelle a energia geotermica, ne fornivano 9 miliardi e mezzo. Nel 1976 la produzione delle centrali idroelettriche è salita a quasi 41 miliardi di kWh, quella delle termoelettriche a 115,9 miliardi. Altri 2,5 miliardi sono di origine geotermica e 3,8 miliardi sono prodotti da centrali termonucleari i cui impianti si trovano a Ispra, Frascati, Bracciano e Pisa. Centrali termonucleari sorgono a Saluggia e a Trino (Vercelli), a Foce Verde (Latina), a San Venditto-Garigliano (Caserta). Un'altra centrale è in costruzione a Caorso.

Industria. - Dopo la crisi del 1971 la produzione industriale italiana, con fasi alterne, è di nuovo in aumento anche se con un tasso molto contenuto. L'avvicendarsi di situazioni congiunturali più o meno favorevoli è servito in misura non sempre soddisfacente ad attenuare i condizionamenti derivanti da problemi strutturali che alcuni rami e settori dell'industria italiana denunciano da vari anni e che permangono sostanzialmente aperti.

Per quanto concerne l'industria siderurgica, gli stabilimenti più importanti sono stati localizzati lungo la costa, a causa della maggiore facilità di approvvigionamento, via mare, delle materie prime. Per la produzione della ghisa, che nel 1976 ha superato gli 11,6 milioni di t, primeggiano gli altiforni di Trieste, Napoli (Bagnoli), Piombino, Taranto, Aosta, Genova (Cornigliano), Torino, Marghera, ma non mancano in altre regioni impianti di minore importanza. Per l'acciaio, la cui produzione nel 1977 è stata di 23,2 milioni di t (ma con uno sfruttamento degl'impianti inferiore al 70%), è in testa la Lombardia seguita nell'ordine dalla Puglia, dalla Liguria, dalla Campania, dal Piemonte, dalla Toscana, dall'Umbria, dalla Val D'Aosta. Tra le ferroleghe, quelle maggiormente prodotte in I. sono il ferro-silicio, il ferro-manganese, il ferro-cromo.

L'industria tessile, che alla data dell'ultimo censimento industriale contava circa 600.000 addetti distribuiti in più di 36.000 aziende, è prevalentemente concentrata nell'I. settentrionale. Negli ultimi anni la produzione di questo ramo è risultata pressoché stazionaria (circa 2 milioni di q di filati di cotone e 2,5 milioni di q di filati di lana) e solo l'industria laniera ha registrato un certo incremento. L'industria tessile italiana più importante è quella cotoniera (circa 155.000 addetti) che lavora materia prima fornita dall'estero ed è quasi del tutto accentrata in Lombardia e in Piemonte dove si trovano il 75% dei fusi e circa il 90% dei telai. Anche i lanifici dipendono in gran parte dall'estero per la materia prima e sono concentrati soprattutto nel Biellese, nel Vicentino, in Lombardia e in Toscana. In decadenza è l'industria della canapa sia per gli alti costi di produzione sia per la concorrenza di filati e di tessuti provenienti dall'estero. Le fibre sintetiche e artificiali fanno una crescente concorrenza alle fibre naturali. Gli stabilimenti sono in gran parte situati in Piemonte, Veneto e Campania; la produzione del 1974 ammonta a 1,5 milioni di q per le fibre sintetiche, 2,5 milioni di q per le fibre artificiali.

Il settore dell'industria chimica ha un'importanza fondamentale perché è alla base di altri rami di attività e richiede grandi quantità di energia. I maggiori impianti dell'industria chimica sorgono di solito dove abbonda l'energia elettrica. La produzione fondamentale è quella della chimica di base e in particolare dell'etilene (400.000 t nel 1974); produzione assai importante è anche quella dei fertilizzanti che trovano in agricoltura un impiego sempre più vasto. Carattere di grande industria ha anche la lavorazione della gomma che è concentrata in prevalenza in Lombardia e Piemonte. Importanza crescente compete alle materie plastiche che trovano oggi impiego per la fabbricazione dei più disparati oggetti.

L'industria chimica, oltre ad avere importanza per l'alto valore dei suoi prodotti, costituisce spesso una delle più incisive forze di modificazione dell'ambiente. Spesso gl'impianti di questo settore compromettono l'equilibrio ecologico; le acque di scarico delle industrie chimiche hanno finito per inquinare l'aria, i terreni e i corsi d'acqua delle zone maggiormente industrializzate dell'I. settentrionale.

Trasporti e comunicazioni. - Nell'ultimo decennio un incremento rapido hanno avuto i trasporti automobilistici sia per quanto riguarda le merci sia per i passeggeri. È aumentata nello stesso periodo la quantità di merci trasportate per ferrovia (18 milioni di t/km), mentre il traffico passeggeri che utilizza questo mezzo tende a stabilizzarsi intorno ai 32 milioni di viaggiatori per km ad anno.

Si sono notevolmente sviluppati con un ritmo intenso anche i trasporti aerei, mentre sono in diminuzione i trasporti marittimi passeggeri, specialmente sui lunghi percorsi. Estremamente variabili sono i trasporti di merce via mare in dipendenza della congiuntura internazionale (v. tab. 10).

Un grande contributo all'evoluzione dell'economia italiana è stato dato dalla costruzione di una moderna ed efficiente rete di autostrade. La costruzione dell'autostrada del Sole che da Milano si spinge fino a Reggio Calabria (km 1250), intrapresa dopo il 1955, ha contribuito a rompere l'isolamento di molte aree del Mezzogiorno e costituisce la principale arteria della penisola. Dopo l'autostrada del Sole molte altre autostrade sono state costruite e attualmente (1977) il sistema autostradale italiano ha una lunghezza di 5529,3 km; poco meno di 1300 km sono in costruzione o in progetto. Gli assi fondamentali di questa rete sono costituiti, accanto all'autostrada del Sole, dalla Milano-Genova (autostrada dei Fiori) con diramazioni per Ventimiglia e Livorno, dalla Milano-Torino, dalla MilanoVenezia (che nel tratto Brescia-Venezia prende il nome di Serenissima), dalla Milano-Rimini con proseguimento per Canosa di Puglia. Una funzione assai importante rivestono le autostrade Roma-Avezzano-L'Aquila e Napoli-Bari (per altri esercizi, v. autostrade). È già stata costruita o è in costruzione anche una serie di superstrade per raccordare tra loro le arterie di grande comunicazione. Tra di esse val la pena di menzionare la Empoli-Siena, la Basentana, tra la Piana del Sele e di Metaponto e quella che da Catania si dirama per Siracusa e per Gela.

Commercio. - Il ruolo del settore commerciale è preminente in I. sia per numero di addetti sia per il valore dell'apporto che dà al reddito nazionale. I dati numerici dell'occupazione in questo settore, messi a confronto con quelli delle unità locali, testimoniano insieme l'importanza sociale del settore e l'estremo frazionamento delle unità aziendali. Il frazionamento delle attività commerciali e la molteplicità delle fasi di passaggio dalla produzione al consumo sono la causa fondamentale della pesantezza dell'apparato distributivo italiano che si ripercuote negativamente sull'andamento dei prezzi al consumo.

Non mancano in I. le organizzazioni di vendita al minuto più moderne (grandi magazzini-supermercati); queste, però, sono in una fase meno avanzata rispetto ad altri paesi mentre è tuttora diffusissimo, specialmente nel Mezzogiorno, il piccolo commercio anche ambulante. Si sviluppa invece, con ritmo sostenuto, il volume delle vendite dirette da parte delle industrie produttrici e si fa sentire maggiormente l'influsso di queste sul mercato attraverso l'imposizione di prezzi prefissati.

Il commercio estero italiano è stato caratterizzato negli ultimi decenni da un costante incremento grazie soprattutto alla progressiva industrializzazione del paese. Pur stazionando su livelli internazionali non molto alti, il nostro commercio estero si caratterizza per ampiezza del suo raggio. Infatti se le relazioni con i paesi europei presentano un peso preminente (65% di cui 45% con gli stati del Mercato comune) sono notevolmente importanti le altre correnti che si dirigono soprattutto verso gli Stati Uniti (11%), da cui riceviamo in genere prodotti finiti, e i paesi del vicino Oriente (5%) e dell'Africa settentrionale (6%) dai quali importiamo crescenti quantità di petrolio greggio. L'alta incidenza del mercato comune europeo dipende dalla politica commerciale degli stati che ne fanno parte, la quale ha avuto notevoli ripercussioni sugli scambi commerciali italiani; in particolare il rinnovato programma agricolo, con la rimozione di tariffe doganali e col trattamento preferenziale riservato agli stati associati, tende a proteggere i prodotti dei paesi membri e a scoraggiare le importazioni dagli altri paesi contribuendo sensibilmente ad aumentare gli scambi nell'area comunitaria.

Nel movimento commerciale assumono un rilievo particolare l'importazione di taluni prodotti (zootecnici) e dell'industria estrattiva (petrolio) e l'esportazione di numerosi beni dell'industria manifatturiera, tra i quali prevalgono i prodotti dell'industria meccanica; questi ultimi, comunque, hanno un peso piuttosto consistente anche sul totale delle merci importate. Oltre a quelli citati rivestono un certo interesse numerosi altri prodotti e in particolare ferro e acciaio, carbon fossile, minerali, pesce, legname, gomma, cacao, caffè, tessuti. La Rep. Fed. di Germania, la Francia, il Regno Unito e i Paesi Bassi sono in genere gli stati con i quali l'I. intrattiene le più intense relazioni commerciali; queste presentano una bilancia costantemente in passivo che tuttavia i cospicui profitti provenienti annualmente dal turismo tendono a ridurre.

Bibl.: V. Lutz, Italy, a study in economic development, Oxford 1962; A. Sestini, Il paesaggio, Milano 1963; C. Muscarà, La geografia dello sviluppo. Sviluppo industriale e politica geografica dell'Italia del secondo dopoguerra, ivi 1967; F. Gribaudi, L'Italia geoeconomica, Torino 1969; S. Cafiero-A. Busca, Lo sviluppo metropolitano in Italia, Milano 1970; R. Almagià-G. Barbieri, L'Italia, Torino 1971; C. N. R., Commissione di studio per la conservazione della natura e delle sue risorse, Libro bianco sulla natura in Italia, Roma 1971; R. Mainardi, Le grandi città italiane. Saggi geografici e urbanistici, Milano 1971; Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Le proiezioni territoriali del Progetto '80, Roma 1971; A. Graziani, L'economia italiana 1945-70, Bologna 1972; E. Sereni, storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1972; A. Desio, Geologia dell'Italia, Torino 1973; R. King, Land reform: the italian experience, Londra 1973; Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, a cura della Tecneco, 4 voll., Roma 1973; L'Italia, una nuova geografia, a cura di E. Turri, Novara 1974; M. Allione, La pianificazione in Italia, Venezia 1976; C. Muscarà, La società sradicata. Saggi sulla geografia dell'Italia attuale, Milano 1976. Inoltre: Le regioni d'Italia, collana diretta da R. Almagià ed E. Migliorini, Torino (18 voll. di autori vari pubblicati dal 1960 al 1970); Bibliografie geografiche delle regioni italiane, C.N.R., Roma (15 voll. di autori vari pubblicati dal 1959 al 1971). Per la documentazione statistica: ISTAT, 28° Censimento generale dell'agricoltura, Roma 1973; id., 11° Censimento generale della popolazione, ivi 1974; id., 5° Censimento generale dell'industria e del commercio, ivi 1975; id., Annuario di statistica agraria, ivi v.a.; Annuario di statistiche industriali, ivi v.a.; id., Annuario di statistiche del lavoro e dell'emigrazione, ivi 1971.

Economia e Finanza. - Caratteristiche generali dell'evoluzione del sistema economico italiano (1960-76). - Alla fine degli anni Cinquanta, l'economia italiana - completata da circa un decennio la fase della ricostruzione - attraversava un periodo di sviluppo senza precedenti, caratterizzato da elevati tassi d'incremento del reddito, relativa stabilità dei prezzi e soddisfacente equilibrio dei conti con l'estero. Anche il secolare problema della disoccupazione sembrava avviato a soluzione: in parte attraverso l'aumento dei posti di lavoro nell'industria e nelle attività terziarie e in parte a causa della ripresa dell'emigrazione.

Anche nel periodo 1960-76, l'economia italiana ha continuato a svilupparsi; ma i periodi di espansione si sono alternati con altri caratterizzati da rallentamento produttivo, tensioni inflazionistiche e squilibri dei conti con l'estero.

Per una migliore comprensione dell'andamento della congiuntura economica nell'intero periodo è opportuno considerare separatamente i tre sottoperiodi 1960-64,1965-69 e 1970-76. Per ciascuno di essi si darà in questo paragrafo una succinta descrizione dell'evoluzione congiunturale, quale risulta dai dati della tab. 13 e da altri di fonte ufficiale; nel successivo paragrafo si esaminerà la dinamica complessiva dei principali aggregati in ciascun sottoperiodo e nell'intero intervallo 1960-76.

Negli anni 1960-64 si passò da una fase di sviluppo accelerato a una di rallentamento produttivo piuttosto grave: il tasso di aumento del prodotto interno lordo a prezzi costanti, raggiunto nel 1961 il massimo assoluto del dopoguerra (+ 8,2%), si abbassò al 2,6% del 1964, mentre il ritmo d'aumento del livello generale dei prezzi, che dagl'inizi degli anni Cinquanta si era mantenuto fra il 2 e il 3% annuo, saliva al 6-9% fra il 1962 e il 1964.

Nel quinquennio 1965-69 si ebbe un netto miglioramento, sia dal punto di vista della produzione (il tasso di accrescimento del prodotto interno lordo fu in media del 5,6% all'anno) sia da quello della stabilità dei prezzi, il cui aumento fu contenuto entro i limiti del 3% annuo. Particolarmente soddisfacente la situazione dei conti con l'estero: anno dopo anno l'Italia accumulò eccedenze cospicue nel conto delle transazioni correnti, con punte che nel 1968 e nel 1969 superarono i 1500 miliardi all'anno. Anche i conti dell'Amministrazione pubblica in complesso (stato, enti territoriali, enti di previdenza, ecc.) continuarono a chiudersi - come era sempre avvenuto dagl'inizi degli anni Cinquanta in poi - con un discreto avanzo di parte corrente, anche se l'aumento delle spese in conto capitale cominciò fin dal 1965 a provocare forti indebitamenti netti: a questo proposito basti pensare che mentre nel quinquennio 1960-64 l'indebitamento netto fu in media di poco più di 50 miliardi all'anno, nei cinque anni successivi esso raggiunse la media annua di circa 1200 miliardi.

Il periodo 1970-76 si apre con un anno non insoddisfacente per quanto riguarda l'incremento del prodotto interno lordo (5%); ma altri importanti aggregati cominciano già a dare preoccupanti segni di cedimento: nel 1970 gl'investimenti fissi aumentano, in termini reali, solo del 2,7% contro incrementi dell'ordine del 9-10% nel triennio precedente; l'eccedenza delle transazioni correnti con l'estero lascia il posto a un deficit non trascurabile (−446 miliardi circa); l'indebitamento netto dell'Amministrazione pubblica supera i 1700 miliardi; e i prezzi salgono in media del 6,7%. Nel 1971 la situazione si aggrava sotto tutti gli aspetti, tranne quello dei conti con l'estero, che migliora, ma solo perché il ridotto ritmo dell'attività produttiva rallenta lo sviluppo delle importazioni. Il prodotto interno reale cresce appena dell'1,6% (l'incremento più basso degli ultimi vent'anni); i prezzi aumentano ancora a ritmo sostenuto (+ 7,2%) e l'indebitamento netto dell'Amministrazione pubblica supera i 3000 miliardi. Gl'investimenti fissi a prezzi costanti, infine, per la prima volta dopo il biennio 1964-65, si contraggono, sia pure in misura non rilevante (−3,1%). Nel successivo biennio 1972-73 si ha una ripresa degl'investimenti e della produzione; ma tutti gli altri principali dati mostrano consistenti peggioramenti: le transazioni correnti con l'estero si chiudono in deficit (−267 miliardi nel 1972 e −2859 nel 1973); i prezzi continuano a crescere a ritmo sostenuto (+ 6,2% e + 11,7%); l'indebitamento del settore pubblico s'ingigantisce (−4898 e −5235 miliardi, rispettivamente, nel 1972 e 1973). Sul 1974 si abbatte la crisi petrolifera, complicando ulteriormente una situazione già resa pesante dalla concomitante azione del rallentamento produttivo e dell'inflazione. L'anno si chiude con un incremento del prodotto interno lordo del 3,4% mentre la media annua dell'indice dei prezzi al consumo risulta aumentata del 19% rispetto al 1973. Il deficit delle transazioni correnti con l'estero raggiunge i 6181 miliardi e l'indebitamento netto dell'Amministrazione pubblica (−5992 miliardi) continua a dilatarsi.

Nel 1975, per la prima volta nella storia economica italiana del dopoguerra, il prodotto interno lordo in termini reali diminuisce rispetto all'anno precedente del 3,5%, in presenza di una ulteriore, sensibile lievitazione dei prezzi (+ 17,3%, in base all'indice implicito dei prezzi del prodotto interno lordo). Il deficit delle transazioni correnti con l'estero scende a 276 miliardi, essenzialmente a causa del ripiegamento del ritmo produttivo e della conseguente contrazione del volume delle importazioni di materie prime, prodotti intermedi e fonti di energia. L'indebitamento netto dell'Amministrazione pubblica raggiunge il livello record di 15.205 miliardi, pari a circa due volte e mezza quello dell'anno precedente.

Nel 1976 si registra una nuova ripresa dell'attività produttiva, con un aumento reale del 5,6% nel prodotto interno lordo, accompagnato peraltro dalla persistenza sia delle tensioni inflazionistiche (l'indice implicito dei prezzi del prodotto lordo sale di un ulteriore 17,8%) sia di un livello eccezionalmente elevato dell'indebitamento netto dell'Amministrazione pubblica (13.046 miliardi). Con la ripresa il saldo negativo delle transazioni con l'estero è risalito, raggiungendo i 2.305 miliardi.

La dinamica dei principali aggregati relativi all'economia italiana (1960-76). - Nella tab. 14 sono riportate, per ciascuno dei tre sottoperiodi, le variazioni medie annue degli aggregati di cui alla tab. 13, nonché la loro variazione complessiva dal 1960 al 1976.

Come si vede scorrendo anzitutto l'ultima colonna, il prodotto lordo interno a prezzi correnti negli anni 1960-1976 si è più che sestuplicato, ma la maggior parte dell'aumento è di carattere monetario, dovuto cioè alla lievitazione dei prezzi. In termini reali, l'aggregato stesso risulta aumentato come da 100 a 218: in altre parole la quantità di beni e servizi a disposizione della collettività nei diciassette anni considerati è più che raddoppiata. Da notare che nel periodo 1970-76 l'incremento medio annuo a prezzi costanti è stato notevolmente inferiore a quello registrato nei dieci anni precedenti; al contrario, i prezzi sono aumentati più fortemente proprio nel periodo 1970-76.

I due successivi aggregati riguardano la distribuzione del reddito: nell'intero periodo 1960-76 i redditi da lavoro dipendente a prezzi correnti sono cresciuti come da 100 a 986; gli altri redditi (da capitale, da impresa, da lavoro autonomo, ecc.) sono invece aumentati come da 100 a 459. Se si tiene conto del contemporaneo aumento dei prezzi, e si deflazionano entrambe le categorie dei redditi con l'indice dei prezzi al consumo, si rileva che, sempre nel periodo 1960-76, i redditi da lavoro dipendente sono aumentati del 228% mentre gli altri redditi sono aumentati solo del 51%. Da rilevare che nell'ultimo periodo gli altri redditi risultano diminuiti, in termini reali, dello 0,8% all'anno. Il forte aumento dei redditi da lavoro dipendente è uno degli aspetti significativi dell'evoluzione dell'economia italiana negli ultimi lustri; di esso si parlerà ancora più avanti, anche in rapporto alla produttività.

Consumi e investimenti costituiscono i due impieghi interni del prodotto finale (il terzo è costituito dalle esportazioni). Dalla tab. 14 si rileva che, sempre nel periodo 1960-76, i consumi a prezzi 1970 sono aumentati più degl'investimenti; ma entrambi hanno registrato un forte rallentamento negli ultimi sette anni. Per gl'investimenti, in particolare, il tasso di sviluppo medio annuo risulta pari a zero contro l'8% e il 5,4% dei due quinquenni precedenti.

Nella tab. 14 sono riportate anche le variazioni relative alle importazioni e alle esportazioni, le quali si riferiscono sia alle merci sia ai servizi (noli, assicurazioni, ecc.). Dal confronto fra i dati delle importazioni e quelli delle esportazioni a prezzi correnti nell'intero periodo 1960-76 risulta che l'aumento delle importazioni (+ 1613%) è maggiore di quello delle esportazioni (+ 1448%); ciò è dovuto soprattutto al vertiginoso aumento dei prezzi delle importazioni (essenzialmente di quelli del petrolio e di altre materie prime essenziali per l'economia italiana). Infatti, a prezzi 1970 le esportazioni italiane hanno "tenuto" ottimamente nell'intero periodo, registrando un aumento superiore a quello delle importazioni (+ 487% contro + 441%).

La dinamica dei prezzi all'ingrosso e al consumo è caratterizzata da un incremento piuttosto contenuto di entrambe le categorie di prezzi nei primi due quinquenni e da un aumento particolarmente forte, specie per i prezzi all'ingrosso, nei sette anni più recenti. Dal 1973 in poi in particolare, si sono avuti aumenti senza precedenti nell'esperienza postbellica: rispetto alla media del 1972, nel 1973 i prezzi all'ingrosso aumentano del 17,8% e i prezzi al consumo del 10,8%; nel 1974, nei confronti dell'anno precedente, rispettivamente, del 40,7% e del 19,1%; nel 1975 si ha una decelerazione, più forte per i prezzi all'ingrosso (+ 8,6%) che per quelli al consumo (+ 16,9%); nel 1976, infine, si registra una nuova impennata dei primi (+ 22,9%), mentre i secondi continuano a crescere al ritmo dell'anno precedente (+ 16,8%).

Occupazione, disoccupazione e produttività. - L'evoluzione dell'economia italiana dal 1960 in poi - di cui si è detto fin qui - è il risultato di molteplici fattori economici e non economici, che molto spesso hanno le loro radici negli anni antecedenti il 1960. Pertanto, per una migliore comprensione dei fenomeni che hanno condizionato il sistema economico del nostro paese negli anni Sessanta e Settanta, è opportuno fornire una rapida panoramica di alcuni aspetti essenziali della vita economica italiana nel periodo 1951-73.

Tale periodo nello sviluppo dell'economia italiana risulta sufficientemente significativo come fase storica distinta dalla precedente e dalla successiva: infatti, il 1951 può farsi coincidere all'incirca con il completamento della ricostruzione economica del paese; e il 1973 con l'ultimo anno precedente la crisi petrolifera internazionale, che sembra aver segnato una svolta decisiva nell'evoluzione delle economie dei paesi occidentali.

Gli aspetti che verranno sinteticamente esaminati riguardano l'evoluzione dell'occupazione e della produttività. Per ciascuno di tali aspetti si considererà la variazione complessiva tra il 1951 e il 1973, al fine d'individuare gli andamenti di lungo periodo, indipendentemente dalle oscillazioni da un anno all'altro. In alcuni casi, peraltro, per meglio porre in evidenza l'evoluzione dei fenomeni considerati, si farà cenno anche all'andamento di essi nei sottoperiodi 1951-62 e 1962-73. Per quanto riguarda l'occupazione, inoltre, verrà esaminato separatamente il più recente periodo 1973-76.

Considerando anzitutto il fattore lavoro, dalla tab. 15 si rileva che l'occupazione complessiva ha avuto andamenti nettamente differenziati nei due undicenni 1951-62 e 1962-73. Infatti, mentre nel primo periodo il numero complessivo dei lavoratori occupati è aumentato di 518.000 unità, nel secondo periodo esso è diminuito di 805.000 unità. Per entrambi i periodi si nota una flessione quasi dello stesso ordine di grandezza nel numero degli occupati in agricoltura (2.830.000 unità nel primo e 2.620.000 nel secondo), diminuzione che è stata determinata soprattutto da persone che avevano una posizione marginale nel settore e cioè in buona parte da donne e da coadiuvanti. Notevolmente diverso risulta invece l'andamento dell'occupazione nei settori extra-agricoli, nei quali, infatti, si registra un aumento di 3.348.000 unità nel primo periodo e di sole 1.815.000 unità nel secondo periodo.

La variazione dell'occupazione totale, positiva nel primo periodo (più 518.000) e negativa nel secondo (meno 805.000), dipende ovviamente dal sovrapporsi delle variazioni dell'occupazione nel settore agricolo e in quelli extra-agricoli.

Le cause di questo andamento dell'occupazione devono ricercarsi nella circostanza che gli anni 1951-62 sono stati caratterizzati da una profonda trasformazione dell'economia italiana, sotto la spinta di un forte aumento delle esportazioni e degl'investimenti: trasformazione risoltasi nel declino del ruolo fino ad allora avuto dall'agricoltura e nella creazione di una notevole struttura industriale. In tale periodo fu in certa misura agevole al sistema economico italiano assicurare occupazione ai lavoratori che abbandonavano l'agricoltura ed erano disposti ad accettare salari sostanzialmente ancorati alla produttività.

Il successivo periodo 1962-73 - travagliato da due crisi, nel 1963-64 e nel 1970-71 - è stato invece caratterizzato da un processo di assestamento della struttura del sistema, da una flessione del tasso di accumulazione, da un rallentamento degl'investimenti e da aumenti salariali di notevole ampiezza, quasi sempre superiori agli aumenti di produttività.

La conseguenza di tutto ciò si è tradotta nella impossibilità, da parte dei settori extra-agricoli, di assorbire interamente l'esodo dall'agricoltura che ha continuato a manifestarsi per una tendenza irreversibile di lungo periodo e sostanzialmente inevitabile a causa delle forti sacche di sotto-occupazione e di disoccupazione esistenti appunto in tale settore. Non si dimentichi a questo riguardo che l'Italia ha una percentuale di forze di lavoro addette all'agricoltura sensibilmente più elevata di quella di vari altri paesi. Per es., nel 1975 la percentuale degli occupati agricoli sul totale degli occupati risultava del 15,8% in Italia, dell'11,3% in Francia, del 9,8% in Danimarca, del 7,3% in Germania, del 6,6% nei Paesi Bassi, del 3,6% in Belgio e del 2,7% nel Regno Unito.

I fenomeni che hanno caratterizzato l'andamento dell'occupazione nel complesso dell'Italia si sono manifestati anche nelle due grandi aree del paese (centro-nord e mezzogiorno) nel senso che in esse si è registrata una forte riduzione dell'occupazione nell'agricoltura in entrambi i periodi nonché un aumento dell'occupazione extra-agricola molto sensibile nel primo periodo (1951-62) e meno accentuato nel secondo (1962-73).

Dato che l'esodo agricolo nella situazione italiana è da considerare sostanzialmente fisiologico, si può ritenere che per valutare i progressi compiuti nel campo dell'occupazione si devono considerare soltanto le variazioni del numero degli occupati nei settori extra-agricoli. In tali settori si rileva appunto che per il complesso dell'Italia l'aumento di occupazione nel secondo periodo (1.815.000 unità) risulta pari a poco più della metà dell'aumento del primo periodo (3.348.000 unità). Tale situazione si riproduce grosso modo nella stessa proporzione nelle due grandi aree (nel Centro-Nord 1.361.000 unità nel secondo periodo e 2.476.000 nel primo periodo; nel Mezzogiorno, rispettivamente, 498.000 e 872.000).

Dalle anzidette cifre si desume fra l'altro che dal 1951 al 1973 l'occupazione extra-agricola nel Mezzogiorno è aumentata più che nel Centro-Nord (+ 55% contro + 47%); il che può essere considerato come un risultato positivo, anche se limitato, della politica di sviluppo del Mezzogiorno.

Per quanto riguarda gli anni più recenti, si rileva che dal 1973 al 1976 l'occupazione complessiva è aumentata nell'intero paese di 503.000 unità, come risultato di una flessione degli addetti all'agricoltura, pari a 261.000, e di un incremento più consistente del numero degli occupati nei settori extra-agricoli (+ 764.000). Gli addetti all'agricoltura si sono ridotti in misura maggiore nel Centro-Nord e meno nel Mezzogiorno, come risulta sia dalle variazioni in cifre assolute (− 172.000 contro − 45.000) sia in termini percentuali (− 11% contro − 3%). L'aumento dell'occupazione nei settori extra-agricoli, invece, è stato nelle due circoscrizioni all'incirca uguale in termini relativi (+ 4% nel Centro-Nord e + 5% nel Mezzogiorno) e pertanto in cifre assolute maggiore nella prima (+ 518.000) che nella seconda (+ 202.000).

Le considerazioni relative all'andamento dell'occupazione possono essere utilmente integrate con i principali dati sulla disoccupazione negli anni successivi al 1973. Dalle rilevazioni sulle forze di lavoro si traggono per gli anni 1973-76 i dati riportati nella tab. 16, dai quali risultano tassi di disoccupazione compresi fra il 2,9 e il 3,7% delle forze di lavoro.

È opportuno tener presente che a decorrere dal gennaio 1977 l'Istat ha ristrutturato le indagini trimestrali sulle forze di lavoro, allo scopo di fornire informazioni più articolate sull'atteggiamento della popolazione nei confronti del lavoro. Con tali indagini, fra l'altro, è stato possibile individuare frange di disoccupazione che in precedenza sfuggivano alle rilevazioni, costituite da persone che, pur avendo dichiarato a una prima domanda di non appartenere alle forze di lavoro (casalinghe, studenti, pensionati, ecc.), a una successiva richiesta dell'intervistatore hanno affermato di cercare lavoro. Tenendo conto di dette frange di inoccupati, il numero delle persone in cerca di occupazione risulta per il 1977 pari a 1.545.000, ossia il 7,2% delle forze di lavoro.

In particolare, nel 1977 sono stati rilevati 211.000 disoccupati veri e propri, 693.000 persone in cerca di 1ª occupazione e 641.000 persone dichiaratesi non appartenenti alle forze di lavoro anche se in cerca di un'occupazione. Da sottolineare che il tasso di disoccupazione è particolarmente elevato per le donne (12,5% contro il 4,6% per gli uomini), per i giovani fra i 14 e i 29 anni (17,3% rispetto al 2,7% per le altre classi di età) e nel Mezzogiorno. Notevolmente elevata appare inoltre l'incidenza della disoccupazione fra i giovani di età compresa fra i 14 e i 29 anni forniti di diploma di scuola media superiore o di laurea: in totale il numero di essi in cerca di occupazione è risultato di 428.000, pari al 28,1% delle forze di lavoro della stessa età e fornite dei medesimi titoli di studio.

È da rilevare, inoltre, che su un numero complessivo di 1.545.000 persone dichiaratesi in cerca di occupazione, soltanto 701.000, pari al 45,4% del totale, avevano fatto una ricerca "attiva" nei trenta giorni precedenti l'intervista, mentre le rimanenti 844.000 persone, pari al 54,6%, o avevano compiuto azioni di ricerca in un periodo anteriore ai trenta giorni, oppure non hanno fornito una risposta valida alla relativa domanda.

Dalle tabelle 17 e 18 è possibile rilevare quale sia stato l'andamento della produzione in rapporto a quello dei fattori produttivi impiegati - ossia l'evoluzione della produttività - nel settore privato dell'economia italiana, escluse le abitazioni. Per quanto riguarda il prodotto per unità di lavoro (tab. 17) si rileva che dal 1951 al 1973 l'aumento maggiore si registra nell'agricoltura (+ 263%). Questo risultato è dovuto essenzialmente all'esodo dal settore agricolo di un sensibile numero di lavoratori occupati durante l'anno solo parzialmente e in attività precarie e marginali. Nell'industria e nelle attività terziarie, invece, l'aumento del prodotto per unità di lavoro (rispettivamente del 232% e del 113%) può ascriversi a un effettivo miglioramento dell'efficienza degli occupati, realizzato grazie a miglioramenti organizzativi e a un'ampia dotazione di beni strumentali.

Il prodotto per unità di capitale, come si rileva dalla stessa tab. 17, è aumentato solo del 27% nell'intero settore privato, cioè molto meno del prodotto per unità di lavoro. Infatti lo stock di capitali fissi utilizzato in ciascun settore è aumentato quasi di pari passo con l'aumento della produzione.

Una più precisa misura delle variazioni dell'efficienza del sistema economico italiano nel periodo considerato è data dagl'indici della produttività globale (o del progresso tecnico in senso lato), i quali sono calcolati tenendo conto non già di uno soltanto dei due fattori della produzione - lavoro e capitale - ma di entrambi contemporaneamente e in base all'importanza che ciascuno di essi ha nel processo produttivo. Dal 1951 al 1973 l'efficienza del sistema economico italiano risulta aumentata in complesso del 162% (tab. 18). Questo miglioramento va ascritto non soltanto al "progresso tecnico" in senso stretto (introduzione di procedimenti e macchinari più efficienti, miglioramenti organizzativi nell'attività produttiva, applicazione su vasta scala dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica, ecc.) ma anche alla redistribuzione delle risorse (capitale e lavoro) dai settori a bassa produttività ai settori a produttività più elevata e al miglioramento qualitativo delle forze di lavoro.

Redditi, produttività, prezzi e investimenti. - Dal 1951 in poi l'evoluzione dell'economia italiana è stata caratterizzata, fra l'altro, da un forte aumento dei redditi da lavoro dipendente per occupato, che ha avuto le sue punte più accentuate nel biennio 1963-64 e negli anni successivi al 1969. L'andamento dei redditi da lavoro dipendente dal 1951 al 1973, nonché le relazioni fra le variazioni di tali redditi, da un lato, e le variazioni dei prezzi e dei tassi di accumulazione, dall'altro, sono illustrati nei grafici1-2-3-4. Per motivi di spazio non tutti i dati relativi a tali grafici sono riportati in questa sede; essi sono peraltro reperibili nelle fonti citate nella bibliografia.

Il diagramma di fig. 1 consente di apprezzare di quanto l'aumento dei redditi da lavoro dipendente in lire correnti ha sopravanzato l'aumento della produttività globale: considerando il periodo 1951-73, si rileva che mentre i redditi da lavoro dipendente per occupato in lire correnti sono aumentati come da 100 a 776, la produttività globale si è accresciuta come da 100 a 262. Tenendo conto che i lavoratori dipendenti costituiscono una frazione molto notevole della popolazione, le loro aumentate disponibilità monetarie hanno determinato una domanda di beni e servizi che è risultata maggiore dell'offerta disponibile sul mercato, creando una pressione alla quale sembrano potersi ascrivere per buona parte le tensioni inflazionistiche manifestatesi con particolare intensità in alcuni anni del periodo considerato. Dai dati disponibili risulta, infatti, chiaramente che nei periodi in cui il divario fra l'incremento dei salari monetari e l'aumento della produttività è stato più forte, i prezzi al consumo sono cresciuti più rapidamente. Negli anni 1951-61 e 1966-69, per es., le differenze fra gli aumenti percentuali dei salari e quelli della produttività globale si mantennero in media intorno a 2,5 punti, e i prezzi al consumo crebbero in media del 2-2,5% all'anno; al contrario, le differenze suddette furono in media di 9 punti all'anno nel 1962-65 e di ben 12 punti nel 1970-73, e negli stessi anni si ebbero incrementi medi dei prezzi al consumo dell'ordine del 6-6,5%. Per l'intero periodo 1951-73 la relazione fra il divario anzidetto e l'aumento dei prezzi risulta nettamente nella fig. 2, nella quale a ogni anno corrisponde un punto che ha per ascissa il divario fra incremento dei salari monetari e aumento della produttività e per ordinata l'aumento dell'indice generale dei prezzi al consumo. Quel che risulta importante, ai fini della stabilità dei prezzi, non è dunque tanto il ritmo d'aumento delle retribuzioni in sé e per sé, quanto il divario fra l'aumento stesso e quello della produttività: il che costituisce appunto il motore di quella "inflazione da costi" più o meno strisciante che si è verificata in Italia prima nel 1963-65 e poi a partire dal 1970.

Il forte aumento dei salari ha dato luogo altresì a una cospicua redistribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente. Dell'entità di questa redistribuzione si può avere un'idea (v. fig. 3) confrontando per il periodo 1951-73 l'andamento dei redditi medi da lavoro dipendente per occupato con quello dei redditi da capitale-impresa (profitti, rendite, interessi e redditi da lavoro autonomo) per ogni mille lire di capitale impiegato nella produzione. Fra il 1951 e il 1973 il reddito medio di ciascun occupato dipendente è aumentato (a prezzi costanti) come da 100 a 360, mentre nello stesso periodo il reddito da capitale-impresa per ogni mille lire di capitale è diminuito come da 100 a 63.

Oltre che sui prezzi, la redistribuzione del reddito a favore del lavoro dipendente sembra abbia influito altresì sul tasso di accumulazione (ossia sul rapporto fra investimenti lordi e reddito), a causa della compressione dei profitti e della conseguente riduzione della capacità di autofinanziamento delle imprese. Dall'esame della serie storica dei tassi di accumulazione dal 1951 al 1973 risulta che gli anni di più accentuato aumento delle retribuzioni sono stati seguiti a breve distanza di tempo (generalmente uno o due anni) da periodi di diminuzione dei tassi di accumulazione. Sia per l'intero sistema economico, sia per il solo settore industriale, la correlazione fra variazioni dei salari in ogni singolo anno e variazioni dei tassi di accumulazione nei due anni successivi risulta infatti piuttosto forte e di segno negativo (v. fig. 4).

Bibl.: Oltre alle Relazioni generali sulla situazione economica del paese dei ministri del Bilancio e del Tesoro e alle Relazioni del Governatore della Banca d'Italia all'assemblea dei partecipanti, v.: M. Abramovitz, Resources and output trends in the US since 1870, Occasional papers 52 of NBER, 1956; S. Fabricant, Basic facts on productivity change, Occasional papers of NBER, 1956; R. M. Solow, Technical change and the aggregate production function, in Review of economics and statistics, ag. 1957; ISTAT, Annuario di contabilità nazionale, vari anni; G. de Meo, Evoluzione e prospettive delle forze di lavoro in Italia, in Annali di statistica, s. 8ª vol. 23, 1970; id., Sintesi statistica di un ventennio di vita economica italiana (1952-71), ibid., s. 8ª, vol. 27, 1973.

Storia. - Agl'inizi del 1961, la situazione politica dell'I. era sottratta ai rischi più gravi di radicalizzazione della lotta fra i partiti, e di scontro fra blocco di destra e blocco di sinistra, che il paese aveva corso nei mesi infuocati dell'estate 1960, durante la sfortunata esperienza del governo Tambroni, appoggiato dal voto del Movimento sociale italiano. Il monocolore Fanfani, fondato sulle "convergenze parallele" dei partiti di democrazia laica con la DC, aveva costituito lo strumento atto a ripristinare le regole della dialettica democratica, prima insidiate o minacciate. Non solo: ma lo stesso monocolore Fanfani, pur sostenuto dai voti dei partiti di democrazia laica, beneficiava anche dell'astensione del partito socialista: era la prima volta, dal 1947, che i socialisti non votavano contro. Passo necessario in vista di giungere, tramite lo stesso Fanfani, a una ripresa delle prospettive di centro-sinistra. La svolta maturò nel corso del 1961, concretizzandosi nella creazione di giunte amministrative di centro-sinistra a Milano, a Genova e a Firenze dopo le elezioni comungli del 6 novembre 1960: elezioni che nell'insieme avevano confermato le posizioni di tutti i partiti, a eccezione di un aumento dal 23 al 24,5% del PCI.

Nel marzo 1961 il XXXIV congresso nazionale del PSI, pur sfumato e generico nelle enunciazioni, confermava la maggioranza alla corrente autonomista. Di lì a nove mesi, nel gennaio del 1962, a Napoli l'VIII congresso della DC approvava la nuova linea politica con la sola opposizione dell'ala centrista, guidata da Scelba e da Gonella. Subito dopo il congresso di Napoli, Fanfani si dimise per costituire un nuovo governo (il suo quarto ministero) con la partecipazione diretta dei socialdemocratici e dei repubblicani e l'appoggio esterno dei socialisti. Nel quadro della posizione internazionale dell'I., che i socialisti facevano propria pur considerandola una premessa per lo sviluppo della distensione, il nuovo governo si proponeva, sul piano delle grandi direttive di politica interna, di procedere all'attuazione delle regioni, al lancio di una programmazione economica, alla revisione dei patti agrari, a una nuova impostazione legislativa per l'urbanistica e per le aree fabbricabili e soprattutto al varo della misura chiesta con maggiore insistenza dai socialisti, la nazionalizzazione dell'energia elettrica.

Il 1962 vide in effetti un'attività ministeriale e parlamentare molto intensa (la nazionalizzazione fu rapidamente approvata), che s'inseriva nella straordinaria ripresa dello sviluppo economico, in atto in I. dal 1959. Purtroppo non fu raccolta l'indicazione di fondo enunciata da La Malfa, ministro del Bilancio, nella nota aggiuntiva: indicazione tendente a coinvolgere i grandi sindacati operai in una linea organica di programmazione economica. Né l'accordo fra i partiti fu infranto dalla momentanea spaccatura determinatasi nel maggio 1962 per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Scadendo il mandato di Gronchi, la DC presentò come proprio candidato ufficiale Segni, leader della corrente di maggioranza dorotea. Ma Segni non ottenne la totalità dei voti democristiani per la tenace dissidenza che ripetutamente votò per il presidente uscente o per Piccioni, e riuscì ad essere eletto solo al nono scrutinio con 443 voti con l'apporto decisivo delle destre contro il candidato dei tre partiti laici di centro-sinistra, Saragat, appoggiato dal PCI, che ottenne 334 voti.

In realtà le attese di rinnovamento radicale del centro-sinistra fanfaniano dovevano infrangersi sullo scoglio delle elezioni politiche, indette per il 28 aprile 1963. La campagna elettorale presentò aspetti molto diversi dalle competizioni precedenti: da un lato la DC aveva scosso e allontanato larghe frange dell'elettorato moderato, dall'altro il PCI restava il solo partito di opposizione a sinistra. Si aggiunga che la DC fondò la propria campagna elettorale sulla contrastata figura del presidente del Consiglio, a tutto sacrificio dei vecchi leaders del partito, in posizione ostile o di riserva verso il centr0-sinistra, mentre il PCI poté attrarre sul suo emblema il voto della maggior parte della folta emigrazione meridionale al nord (oltre quello degli emigrati all'estero), invertendo la tendenza manifestatasi nelle elezioni precedenti, che lo vedevano in aumento al sud ma in calo al nord. Nonostante tali premesse, il successo ottenuto dal PCI il 28 aprile - un milione di voti in più rispetto al 1958, e in percentuale un aumento dal 22,7 al 25,3%, - giunse inatteso e aggravò il risultato a danno del centro-sinistra, i cui partiti complessivamente calarono dal 62,7% del 1958 al 59,6%. Mentre il PSI calò dello 0,5% (dal 14,3 al 13,8%), il PRI rimase stazionario sull'1,4%, il PSDI salì di ben il 2,5% passando dal 4,6 al 6,1%, sì che i tre partiti laici complessivamente passarono dal 20,3 al 21,3%; la DC perse invece il 4,1% dei voti calando dal 42,4 al 38,3%, il punto più basso dall'avvento della repubblica. Se ne avvantaggiò il PLI che raddoppiò la propria percentuale dal 3,5 al 7,0%, mentre subì una vera frana il PDIUM nel quale erano rifluiti i due filoni monarchici di Lauro e di Covelli, scendendo dal 4,8 all'1,7%. Il MSI aumentò dal 4,8 al 5,1%.

La formula di centro-sinistra non era uscita vincitrice dalle elezioni, tuttavia si palesò come la sola possibile nel Parlamento appena aperto. In tal senso si orientarono i quattro partiti per la creazione di un governo organico con la diretta partecipazione del PSI, affidata al segretario della DC, Moro, al posto di Fanfani colpito dai riflessi della prova elettorale. Ma l'accordo faticosamente raggiunto non fu approvato dal comitato centrale del PSI, nel quale il nucleo facente capo a R. Lombardi si staccò dalla corrente autonomista affiancandosi alla sinistra. In attesa che il futuro congresso del partito chiarisse le posizioni, fu formato un governo monocolore della DC presieduto dal presidente della Camera G. Leone, che ottenne la fiducia del Parlamento previa l'astensione dei partiti laici del centrosinistra. Il XXXV congresso nazionale del PSI si svolse a Roma dal 25 al 29 ottobre; sanata momentaneamente la dissidenza di Lombardi, cui fu affidata la direzione dell'Avanti!, la corrente autonomista approvò con il 57,42% dei voti la partecipazione al governo contro il 39,30% alla corrente di sinistra e il 2,20% a quella di Pertini. Dimessosi subito dopo il ministero Leone, Moro riusciva a comporre, dopo un negoziato faticoso e attento, il primo governo organico di centro-sinistra (con Nenni alla vicepresidenza), che ottenne agevolmente la fiducia del Parlamento. Ma alla Camera 25 deputati della sinistra socialista, guidati da Basso, Valori e Vecchietti, si astennero; deferiti ai probiviri del partito, rifiutarono di presentarvisi e convocarono per il 12 gennaio 1964 un congresso nazionale della corrente che sancì la scissione proclamando la fondazione di un nuovo partito: questo prese il nome che i socialisti italiani già avevano assunto nell'immediato dopoguerra, PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria).

Il governo si accinse dunque all'attuazione del suo programma, imperniato sulla cosiddetta politica di piano, cioè su una programmazione che coordinasse le attività economiche (senza peraltro procedere a ulteriori nazionalizzazioni), l'istituzione delle regioni a statuto ordinario, la riforma urbanistica, la revisione dei patti agrari, la riforma scolastica, ferma restando la posizione internazionale dell'I. sul piano europeistico e nell'area atlantica. Senonché si palesarono subito come impellenti, per non dire preminenti, i problemi della congiuntura economica entrata in fase recessiva: una recessione che quasi improvvisamente parve arrestare il miracolo dell'espansione produttiva. Al di là delle polemiche sulle cause della congiuntura (spinta inflazionistica originata dall'aumentata richiesta di beni di consumo, a sua volta conseguenza dell'aumento dei salari e degli stipendi, oppure inevitabile arresto della disordinata crescita degli anni precedenti, o ancora freno a ogni slancio imprenditoriale posto dal tono "demagogico" e "punitivo" nei confronti del mondo imprenditoriale da parte di alcune correnti dei partiti della coalizione con la nazionalizzazione dell'energia elettrica o con la minaccia di una programmazione "coercitiva"), al di là anche delle polemiche sulla politica dei redditi, il governo fu costretto a conferire priorità assoluta ai provvedimenti anticongiunturali procrastinando gli impegni riformatori. Il ministero Moro fu quindi imputato dalle correnti più avanzate all'interno della coalizione, di aver perduto la carica innovatrice con cui era stato concepito: il che provocò contrasti all'interno e riaccese la dissidenza lombardiana.

Il 25 giugno la corrente di Lombardi riuscì a far astenere i tre partiti laici su un capitolo di spesa del ministero della Pubblica Istruzione che prevedeva l'erogazione di 149 milioni a favore della scuola media non statale, che fu respinto con 228 voti contro 225 e 56 astenuti. S'imponeva ormai un chiarimento e Moro presentava le dimissioni del governo. La crisi si risolse nella seconda metà del luglio 1964 - in un'atmosfera tesa e in un susseguirsi contraddittorio di dicerie e timori di soluzioni extra-parlamentari (tre anni dopo scoppierà lo scandalo del SIFAR a proposito del luglio del 1964) - con la ricostruzione di un governo quadripartito, il secondo ministero Moro. L'ala lombardiana passò all'opposizione nell'ambito del PSI, ma dopo la scissione di quasi tutta la sinistra non aveva la forza sufficiente per modificare l'indirizzo del partito. Il nuovo ministero nella sua composizione ricalcò esattamente il precedente, salvo la sostituzione del lombardiano Giolitti al Bilancio con l'autonomista Pieraccini, che darà il suo nome al primo piano quinquennale. Il governo ottenne la fiducia al Parlamento con lo schieramento del novembre 1963 e s'impegnò a fondo per superare la congiuntura economica, dapprima nel settembre con alcuni decreti-legge anticongiunturali, e poi nel marzo successivo con un "superdecreto" (nel settembre del 1964 fu anche approvata la nuova legge sui patti agrari).

Nel frattempo si era posto improvvisamente sul tappeto il problema della presidenza della Repubblica: il 7 agosto del 1964 il presidente Segni fu colpito da paralisi. Sostituito in via transitoria dal presidente del Senato, Merzagora, si dimise ai primi di dicembre. Convocato il Parlamento in seduta comune il 16 dicembre, il candidato ufficiale della DC, Leone, non riuscì a ottenere l'elezione per la dissidenza di una parte della DC schierata sul nome di Fanfani, il quale già all'atto della formazione del secondo ministero Moro aveva ripreso libertà d'azione nell'ambito del partito pur votando a favore del governo, facendo ritirare la rappresentanza ministeriale della propria corrente. Posizione ribadita nel settembre nel IX congresso nazionale della DC, allorché la corrente fanfaniana, che aveva ottenuto il 21,1% dei voti, si rifiutò di entrare nella direzione (il congresso aveva comunque ribadito la politica di centro-sinistra, con la sola opposizione dei centristi, che avevano ottenuto l'11,5% dei voti, contro il 46,5% alla corrente dorotea e il 20,7% ai sindacal-basisti; e Rumor, successore di Moro, era stato confermato alla segreteria). Occorsero ben dodici giorni e ventuno scrutini per sbloccare la situazione. Nell'impossibilità di arginare la dissidenza e giungere all'elezione del candidato ufficiale del partito, come Moro era riuscito a imporre due anni e mezzo prima con Segni, Leone si vide costretto a rinunciare, mentre la DC, non accogliendo la candidatura di Fanfani e non potendo avanzarne altre sicure, orientò la propria scelta su Saragat, l'uomo di palazzo Barberini, sul cui nome conversero anche i voti del PSI e del PCI, in precedenza confluiti su Nenni. Saragat fu così eletto presidente della Repubblica con la sola opposizione dei partiti di destra. Il governo si dimise per correttezza costituzionale, ma il nuovo presidente respinse le dimissioni e poco dopo il suo posto al ministero degli Esteri fu assunto da Fanfani; prima traduzione dei tentativi di Rumor di sanare i dissidi interni e di avviare il superamento dei contrasti tra le varie correnti, tentativi che culmineranno appunto nella partecipazione di tutte le correnti democristiane al terzo ministero Moro.

Il secondo governo presieduto dallo statista pugliese si dimise il 21 gennaio 1966 essendo stato messo in minoranza alla Camera il giorno precedente (221 voti contro 250) sulla legge per la scuola materna statale, un provvedimento caratterizzante il programma ministeriale ma contro il quale votarono in scrutinio segreto non pochi deputati democristiani. La crisi si risolse con un reincarico a Moro e con la ricostituzione di un governo quadripartito, nel quale appunto entrarono tutte le correnti della DC, anche quella centrista (ma non il suo leader Scelba, per il quale fu irremovibile il veto socialista).

Nell'ambito dei due partiti socialisti era intanto in atto il processo di riunificazione. Nel novembre del 1965 si era tenuto il XXXVI congresso nazionale del PSI (la corrente autonomista aveva ottenuto l'80% dei voti contro il 18% dei lombardiani, ma le posizioni dei due capi della corrente autonomista cominciavano a differenziarsi per le riserve di De Martino sulle certezze di Nenni) ed era stato proposto al PSDI un "periodo di azione comune e di comuni responsabilità a livello di partito, di gruppo parlamentare e di amministrazioni locali". Ai primi di gennaio del 1966, a Napoli, il XIV congresso nazionale del PSDI ribadì la propria unanime propensione all'unificazione. Un comitato paritetico fu incaricato di preparare la carta dei princìpi, lo statuto e le norme transitorie del nuovo partito; preparati i documenti nel corso dell'estate (sul piano ideologico e programmatico ci si rifaceva ai princìpi dell'Internazionale socialista e sul piano organizzativo si prevedeva una duplicità di cariche a tutti i livelli fino al primo congresso nazionale), furono convocati congressi straordinari dei due partiti, che ratificarono gli accordi e confluirono, il 30 ottobre, in quella che fu chiamata la Costituente socialista. Nenni, che più tenacemente si era battuto per quel risultato, fu proclamato presidente del nuovo partito, mentre la segreteria fu assunta da De Martino per l'ex-PSI e da Tanassi per l'ex PSDI. Di lì a poco, superata la fase congiunturale dell'economia, avendo segnato il 1966 una piena ripresa, e avvicinandosi il termine della legislatura, si pose urgente il problema di un'attuazione più ampia possibile dell'originario programma di riforme. Il che fu oggetto della cosiddetta "verifica" sollecitata dal nuovo partito socialista unificato nei confronti della DC, che portò a un accordo generale ai primi di marzo del 1967 sulla sollecita approvazione del piano quinquennale (che fu varato definitivamente dalla Camera di lì a pochi giorni e dal Senato nel luglio) e sulla legge elettorale dei consigli regionali, che entrò in vigore nel febbraio del 1968.

All'approssimarsi delle elezioni politiche, fissate per il 19 maggio 1968, la coalizione poteva, sì, sostenere di aver fatto superare al paese la crisi congiunturale e di aver condotto all'approvazione alcuni dei principali cardini programmatici, ma non poteva non risentire della delusione suscitata dalle attuazioni procrastinate o dell'opposizione sollevata da provvedimenti controproducenti come quello sulle pensioni, preso quasi alla vigilia delle elezioni: senza contare il clima pesante per l'improvvisa e clamorosa rivolta studentesca che tra la fine del 1967 e l'inizio del 1968 dilagò nelle università italiane. Era un'esplosione rivelatrice di una situazione universitaria precaria, ma che assumeva precisi significati politici e sociali, sia che volesse sollecitare riforme e implicitamente suonare critica delle lentezze ministeriali e parlamentari (resesi in effetti esasperanti negli ultimi tempi), sia che intendesse procedere a una "contestazione" globale del sistema sociale e dei suoi istituti giuridico-politici.

Nell'agosto del 1964 a Jalta era morto improvvisamente Togliatti, lasciando un documento critico della politica sovietica, che rivendicava un margine più ampio di autonomia per i singoli partiti comunisti. Gli era successo alla segreteria del partito L. Longo. Ma il ripudio della linea assunta dal partito comunista cinese, nel grande scisma che lacerava il mondo comunista, sollevava opposizioni e critiche in nome dei principi rivoluzionari e conduceva alla creazione di piccoli ma numerosi nuclei marxisti-leninisti al di fuori e alla sinistra del PCI; la nuova direzione di Longo, nel più vasto quadro della linea di distensione internazionale e di sviluppo delle vie nazionali al socialismo, era spinta a valutare le effettive possibilità di azione in I. e di eventuali confluenze con altre forze. Era così lanciata nel 1964 l'idea di un partito unico della sinistra italiana, oppure venivano avanzate prospettive di convergenze con la sinistra cattolica, quella che fu chiamata la "repubblica conciliare". Lo stesso IX congresso nazionale del PCI, svoltosi a Roma alla fine di gennaio del 1965, dibatté queste prospettive e rivelò comunque un fermento interno che fino allora non aveva avuto modo di manifestarsi e una differenziazione di posizioni fra la destra di Amendola e la sinistra di Ingrao.

Le elezioni del maggio 1968 segnarono un ulteriore calo rispetto al 1963 per i partiti del centro-sinistra, scesi dal 59,6 al 55,6%, ma con una differenza rispetto alle elezioni precedenti. Se allora il calo era stato quasi tutto della DC, questa volta era tutto del nuovo partito socialista unificato. La DC aumentò leggermente dal 38,3 al 39,1%, e così pure il PRI dall'1,4 al 2%. Il corpo elettorale infrangeva invece le speranze riposte nell'unificazione, facendo perdere alla nuova formazione ben il 5,4% dei voti (dal complessivo 19,9 al 14,5%). Una larga parte di questi voti confluì sul PSIUP (il 4,5%), verso il quale si orientarono prevalentemente i nuovi nuclei giovanili contestatori, e una parte invece contribuì all'ulteriore successo del PCI, che aumentò dal 25,3 al 26,9%. A destra tutti i partiti calarono: il PLI dal 7,0 al 5,8%, il PDIUM dall'1,8 all'1,3% e il MSI dal 5,1 al 4,5% con una perdita complessiva del 2,3%. La cocente delusione elettorale determinò nel partito socialista unificato la decisione del "disimpegno" ministeriale, rendendo vano il tentativo dell'on. Rumor di costituire un nuovo governo di centro-sinistra, al posto di Moro sacrificato dalla DC in conseguenza della sconfitta della coalizione.

Fu così giocoforza, in attesa di un chiarimento della situazione, ricorrere come cinque anni prima a un ministero monocolore della DC presieduto da Leone, che ottenne la fiducia della Camera e del Senato previa l'astensione dei socialisti e dei repubblicani. Dal 23 al 28 ottobre 1968 si tenne poi a Roma il primo congresso del partito socialista unificato, che assunse il nome di PSI: Nenni fu confermato presidente e Ferri eletto alla segreteria, ma con una maggioranza ristrettissima, non avendo il congresso sanato la frattura in varie correnti di quelli che erano stati il PSDI e la corrente autonomista del PSI. A larga maggioranza era stato comunque deciso di riprendere la collaborazione ministeriale, così che, dimessosi Leone, nel dicembre nacque il primo ministero Rumor con De Martino vicepresidente e Nenni agli Esteri.

Il ministero Rumor dovette affrontare la fase culminante della contestazione studentesca, la più clamorosa ma non la sola manifestazione di un fermento che scuoteva il paese, fino a ordinare il 1° marzo del 1969 lo sgombero da parte della forza pubblica dell'università di Roma, occupata. Quel governo si prefisse, inoltre, una rapida ripresa delle istanze riformatrici, dal rinnovamento dello stato alla piena occupazione, dalla riforma universitaria al miglioramento delle pensioni come impegni prioritari. Sul piano internazionale, infine, lo stesso ministero Rumor giunse alla firma del trattato di non proliferazione nucleare, stilato, dopo lunghe trattative, alla conferenza ginevrina sul disarmo. Il Senato e la Camera ne avevano autorizzato la firma il 19 e il 26 luglio 1968, ma l'occupazione della Cecoslovacchia, il 21 agosto, da parte delle truppe del Patto di Varsavia (contro la quale lo stesso PCI levò accenti di riprovazione), aveva indotto a sospendere la firma, che fu apposta poi nel gennaio 1969.

Il governo fu tuttavia di breve durata. Nell'ambito dei singoli partiti riprese aspra la dissidenza interna. E mentre nella DC si acuivano i contrasti fra le correnti (alla fine del 1968 Moro si staccò dalla corrente dorotea, che andò gradualmente restringendo la propria forza, pur continuando a reggere il partito con l'aiuto della corrente fanfaniana dopo il congresso di Milano del novembre del 1967), nel nuovo PSI esplodevano i contrasti fra l'ala socialdemocratica e quella socialista, sia per il timore della prima di essere sopraffatta sul piano organizzativo, sia per le tendenze aperturistiche nei confronti del PCI quali andavano profilandosi nell'ala di De Martino e che rispondevano alle prospettive del XII congresso nazionale del PCI tenutosi a Bologna all'inizio del 1969. Il contrasto portò nel luglio a una nuova scissione e alla creazione del PSU (Partito Socialista Unitario), che raccolse una piccola parte di ex socialisti, guidato da Tanassi e Preti. In seguito al ritiro dal governo dei ministri del nuovo partito, Rumor fu costretto a dimettersi. Nell'impossibilità di tornare subito a un governo organico di centro-sinistra, Rumor compose allora il suo secondo ministero con la sola partecipazione della DC, mentre gli ex-alleati gli assicuravano l'appoggio esterno.

Nel dicembre 1969 il ministero poté annunciare al Parlamento il concreto avvio alla soluzione del problema alto-atesino, che aveva lacerato per anni i rapporti con l'Austria (v. alto-adige, in questa App.). Il governo italiano aveva proposto di sottoporre la controversia sull'applicazione dell'accordo alla Corte internazionale di giustizia, mentre l'Austria aveva preferito ricorrere alle Nazioni Unite; la XV assemblea generale nell'autunno del 1960 (e nuovamente la XVI l'anno dopo) aveva sollecitato le parti a riprendere i negoziati. Incontri bilaterali si erano svolti nel gennaio, maggio e giugno del 1961, senza condurre ad alcun risultato, mentre esplodeva il terrorismo, che in quell'anno causò 55 attentati, dei quali una ventina nella notte sul 12 giugno. Mentre era costretto a procedere alle necessarie misure di sicurezza, il governo italiano aveva nominato una commissione di studio presieduta dall'on. P. Rossi, che nel volgere di tre anni fu in grado di sottoporre al governo tutta una serie di proposte imperniate sull'allargamento dell'autonomia provinciale nella cornice regionale. Su queste basi - di un'autonoma iniziativa italiana, tuttavia convalidata dall'approvazione austriaca - erano stati ripresi i colloqui con il governo austriaco, in particolare con gl'incontri Saragat-Kreisky a Milano e a Ginevra nel maggio e nel settembre del 1964, cui erano seguiti lunghi contatti - facilitati negli ultimi tempi dall'attenuarsi del terrorismo e dall'affievolirsi del peso delle tendenze estremistiche tirolesi - che giunsero infine a conclusione il 30 novembre 1969 con l'incontro fra i due ministri degli Esteri Moro e Waldheim a Copenaghen.

Proprio in quei giorni, sul piano interno, l'"autunno caldo" toccava il suo acme. Si trattò di una lunga e complessa serie di scioperi e di agitazioni sindacali, volti al rinnovo dei contratti di lavoro delle più importanti e numerose categorie. Non solo: ma si accentuò e si allargò il sommovimento contestativo sboccato in fermenti di violenza destinati a scavalcare, e talvolta a paralizzare, gli stessi sindacati. Fermenti di estremismo di sinistra si mescolavano con filoni sempre più evidenti e minacciosi di estremismo, o radicalismo, di destra, influenzato dal rigurgito di ideologie fasciste e naziste (e non mancarono neanche nuclei misti, nazi-maoisti: "guardie nere e guardie rosse" come fu scritto in quegli anni). In quel clima acceso, nel dicembre 1969, s'inserì il drammatico attentato alla Banca dell'Agricoltura a Milano, l'attentato di piazza Fontana (con tutto il suo seguito, non ancora sciolto, di vicende giudiziarie), attentato che provocò la morte di diciassette persone. Era un clima di tensione e di esasperazione crescente: sicché Rumor prese l'iniziativa di sollecitare la ripresa della collaborazione governativa. L'esigenza di un ritorno a un'organica politica di riforme e anche di timore di elezioni politiche anticipate condussero il 27 marzo, dopo una tormentata crisi, caratterizzata anche da un tentativo Moro bloccato dal problema del divorzio, al terzo ministero Rumor, con il ritorno di socialisti, socialdemocratici e repubblicani al governo. Quasi per sfuggire ai crescenti pericoli di quella che fu chiamata non a caso la "strategia della tensione".

Dopo le prime elezioni regionali del giugno 1970, favorevoli al centrosinistra, questa coalizione politica avrebbe potuto riprendere con maggior forza la propria politica, ma l'insanabilità dei contrasti fra i partiti, riesplosi sul problema della costituzione delle giunte regionali - l'accettazione o meno di giunte di sinistra fra PCI, PSIUP e PSI -, indusse Rumor, ai primi di luglio, alle dimissioni. Seguì una lunga e travagliata crisi, risolta con l'ascesa alla presidenza del Consiglio di E. Colombo, ministro del Tesoro in tutti i governi dal primo ministero Leone in poi, e massimo leader, con Andreotti, di quell'ala dorotea che proprio pochi mesi prima si era staccata dal gruppo Rumor-Piccoli. Inalterata restava la compagine ministeriale, mentre il programma era volto ad affrontare in via preliminare una nuova fase congiunturale dell'economia italiana (6 agosto 1970).

Nel clima caratterizzato dalla preminenza dei problemi economici, l'I. celebrava il primo centenario dell'unità con Roma capitale, senza che tuttavia la coalizione di governo, pressata da complessi problemi, trovasse la forza di giungere a una durevole unità di intenti. Il 24 dicembre 1971 - con la partecipazione anche dei delegati regionali - G. Leone veniva eletto presidente della Repubblica; la crisi di governo, apertasi il 15 gennaio con le dimissioni del governo Colombo, non diede modo ai Partiti del centro-sinistra di elaborare una linea concorde. Si giunse così, il 17 febbraio 1972, a un governo monocolore democristiano, presieduto da G. Andreotti. Questi non otteneva al Senato il 26 febbraio 1972 il voto di fiducia, per cui rassegnava le dimissioni. Di conseguenza, nell'impossibilità di dare una soluzione alla crisi di governo, il presidente Leone scioglieva il Parlamento, indicendo le elezioni per i giorni 7 e 8 maggio. Esse davano i seguenti risultati (in percentuale di voti e in seggi): per la Camera: DC, 38,8%, 267 (+1); PRI, 2,9%, 14 (+5); PSDI, 5,1%, 29; PCI, 27,2%, 179 (−2); PSI, 9,6%, 61 (−1); PSIUP, 1,9%, 0; PLI, 3,9%, 21 (−10); MSI e PDIUM, 8,7%, 56 (+26); SVP, 0,5%, 3; per il Senato: DC, 38,1%, 136 (+1); PRI, 3%, 5 (+3); PSDI, 5,4%, 11; PCI e PSIUP, 28,4%, 94 (−7); PSI, 10,7%, 33 (−2); PLI, 4,4%, 8 (−8); MSI e PDIUM, 9,2%, 26 (+13); SVP, 2 seggi. L'on. Andreotti, incaricato di formare il nuovo governo, dopo aver tentato di dare vita a una coalizione che andasse dal PLI al PSI, in seguito al rifiuto di quest'ultimo nel giugno 1972 formava il suo secondo gabinetto con la DC, il PSDI, il PLI e l'appoggio esterno del PRI.

Tale governo, detto di "centralità democratica", registrava il rientro nella coalizione del partito liberale di Malagodi, che assumeva direttamente il dicastero del Tesoro; la maggioranza su cui contava il ministero - che otteneva la fiducia dalle Camere nel mese di luglio - era assai limitata, dato il voto contrario del PSI: 18 voti alla Camera e 4 al Senato. Il programma era imperniato sulla difesa dell'ordine pubblico, sul rilancio dell'economia e sulle riforme giudicate inderogabili, dall'università alla casa, dagli ospedali agli enti mutualistici. La ripresa economica costituiva l'obiettivo principale del governo a base parlamentare neo-centrista, ma l'intento di stimolare la domanda mediante un incremento del potere d'acquisto implicò l'espansione della spesa pubblica con provvedimenti (quale l'attuazione degli aumenti ai "superburocrati") che suscitarono reazioni e richieste a catena in altri settori del pubblico impiego. Conseguenza fu un ulteriore aumento dei prezzi e del costo della vita e un'accentuata svalutazione della lira. Scarsi risultati dette la decisione del febbraio del 1973 della libera fluttuazione della nostra moneta (mentre gli altri paesi della CEE, fatta eccezione di Gran Bretagna e Irlanda, - entrate insieme con la Danimarca a far parte della Comunità dal gennaio di quell'anno - si accordavano per contenere le oscillazioni delle proprie monete rispetto al dollaro entro uno scarto massimo del 2,25%), nell'intento di non danneggiare la ripresa economica e di evitare fenomeni speculativi. Si trattava di una svalutazione di fatto (il deprezzamento rispetto alle principali monete della CEE sarà del 25-30%), un tentativo di salvaguardia della valuta pregiata che si sarebbe concluso nel marzo dell'anno successivo con l'allineamento sulle posizioni degli altri paesi della Comunità.

Alle difficoltà dovute alla crisi economica si aggiungevano quelle relative all'ordine pubblico: la spirale della violenza si estendeva, un particolare tipo di radicalismo di destra accentuava la sua minaccia, facendo di Milano il suo epicentro, minando sensibilmente la credibilità concessa dall'opinione pubblica alla compagine governativa. Gli attacchi dei partiti di sinistra si facevano frattanto sempre più decisi, specialmente all'indomani del congresso socialista di Genova (8-14 novembre 1972) che chiariva la situazione interna del PSI: in virtù della confluenza delle correnti di Nenni e De Martino si costituiva una maggioranza del 58%, mentre le sinistre di Mancini e Lombardi restavano in minoranza. Con il successo di De Martino si creavano le premesse per il rilancio del centro-sinistra; la posizione del PSI veniva di nuovo ribadita nel corso della sessione del comitato centrale (febbraio 1973), conclusa con la proposta di sostituzione del ministero in carica con uno di transizione e la contemporanea ripresa del dialogo con le altre forze politiche per il rilancio della precedente coalizione.

La dichiarata disponibilità socialista veniva presa in considerazione dai partiti. In un'intervista rilasciata a fine marzo a Panorama il vicepresidente del Consiglio Tanassi denunciava la necessità di un cambiamento di rotta, ritenendo esaurito ormai il compito del governo Andreotti; era dunque opportuno avviare trattative bilaterali con i partiti della maggioranza e coi socialisti, su temi specifici quali l'economia, l'ordine pubblico, i rapporti col partito comunista. Dopo la presa di posizione del leader socialdemocratico, anche la sinistra DC esprimeva il suo dissenso nei confronti del ministero, che - in numerose votazioni in aula, particolarmente sui decreti delegati della scuola al Senato - finiva in minoranza per opera dei "franchi tiratori"; leggi a carattere sociale furono varate al prezzo di emendamenti che ingigantivano la spesa inizialmente prevista (per le pensioni da 1972 a 4543 miliardi). Alla pressione delle sinistre si aggiungeva quella dei sindacati, che avevano seguito un comportamento moderato nell'autunno, in occasione del rinnovo dei contratti di lavoro: gli aumenti salariali allora conseguiti erano adesso vanificati dall'inflazione e dal precipitoso aumento dei prezzi, che riducevano il potere d'acquisto, soprattutto delle masse popolari. Già a fine gennaio la federazione unitaria sindacale CGIL-CISL-UIL chiedeva in una lettera al presidente del Consiglio che il confronto sindacati-governo per le riforme venisse intensificato.

Si diffondeva così nel paese l'impressione che il governo Andreotti e la formula della "centralità democratica" non sarebbero durati a lungo; ne è prova il limitato interesse con cui furono seguite le visite del presidente del Consiglio negli Stati Uniti (16-20 aprile) e in Giappone (23-27 aprile). Momento chiave per le sorti del governo era il congresso nazionale della DC che si doveva svolgere nella capitale dal 6 al 10 giugno; ma già all'immediata vigilia il leader repubblicano La Malfa annunciava il disimpegno del suo partito dalla maggioranza che sosteneva il governo, dopo le insoddisfacenti motivazioni addotte dal presidente del Consiglio alla Camera sull'inserimento del veto alla TV via cavo nella disciplina del codice postale (un anno più tardi, fra l'altro, la Corte costituzionale riterrà legittimi i ripetitori e la TV-cavo, in quanto reti a raggio limitato con costi economici sostenibili da singole imprese e quindi non esposte al rischio di gestione da parte di oligopoli privati). La crisi era virtualmente aperta. All'interno della DC si registrava intanto la confluenza della corrente di Taviani (pontieri) in quella di Rumor (dorotei), che diveniva leader della corrente più numerosa del partito, agevolando un riavvicinamento fra Moro e Fanfani. L'accordo di palazzo Giustiniani e il costituirsi della "trojka di ferro" ponevano in minoranza il segretario uscente Forlani, che non ripresentava la propria candidatura alla guida del partito. Confermando piena fiducia nella "centralità democratica" egli esprimeva seri dubbi sulla opportunità di rilanciare il centro-sinistra. Al suo posto il consiglio nazionale della DC eleggeva per acclamazione Fanfani, che lasciava così la presidenza del Senato (17 giugno) ove gli succedeva Spagnolli (27 giugno).

L'incarico di formare il nuovo governo veniva conferito a Rumor, che impostava il suo quarto ministero su una maggioranza "autonoma ed autosufficiente" composta da DC, PSDI, PSI e PRI, partiti che entravano tutti nel governo; i liberali passavano dunque all'opposizione, mentre il segretario comunista Berlinguer annunciava per il suo partito un tipo di opposizione diverso da quello attuato nei confronti di Andreotti, una "opposizione flessibile", più "elastica", adeguata cioè alle soluzioni proposte per i singoli problemi. Il nuovo atteggiamento del partito comunista rientrava nella politica generale di "avvicinamento verso l'area del potere" portata avanti da Berlinguer. Nel dicembre del 1972 la direzione del partito si era espressa per una politica più costruttiva nei confronti di un governo di centro-sinistra che subentrasse al centrismo di Andreotti, mentre sul piano internazionale il PCI accentuava l'impegno per l'Europa, che doveva essere "né antisovietica né antiamericana"; all'interno, gli attacchi del partito contro gli estremismi del movimento studentesco e le violenze degli extra parlamentari si facevano sempre più decisi. Quando, nel settembre del 1973, i fatti del Chile e la fine del governo Allende, con l'uccisione del suo capo, ebbero un'eco così profonda in I., il PCI sostenne la necessità dell'unione tra le forze di sinistra e la Democrazia cristiana per evitare colpi di stato "eversivi e fascisti": Berlinguer, in un articolo apparso nell'ottobre su Rinascita, proponeva un "grande compromesso storico", l'incontro fra comunisti e cattolici (senza più porre la pregiudiziale, tipicamente togliattiana, della spaccatura in due della DC).

Il programma di Rumor mirava a riforme "possibili anziché mitiche", volte alla soluzione dei problemi più gravi, in primis l'economia. Giolitti, La Malfa e Colombo (la trojka alla guida dei dicasteri chiave dell'economia nazionale) si accordavano sulla difesa della lira, punto fermo qualificante della partecipazione repubblicana e delle successive battaglie di La Malfa, approntando rigide e coerenti misure anti-inflazionistiche, dal contenimento dei prezzi alla stretta creditizia, al rigido controllo della spesa pubblica e del deficit del bilancio. Altri obiettivi di grande rilievo erano i provvedimenti urgenti per l'università, che entrarono in vigore con l'inizio dell'anno accademico, in cui determinante fu l'influenza del PRI, e quelli per l'edilizia abitativa, scolastica e ospedaliera. Primo provvedimento varato dal nuovo governo, che ricorse frequentemente all'uso del decreto, fu il blocco per novanta giorni dei prezzi al dettaglio di un'ampia gamma di generi alimentari e di altri prodotti di largo consumo, e degli affitti fino al dicembre.

La normativa a effetto immediato non mancò di esercitare conseguenze positive, dalla ripresa della produzione industriale al contenimento del processo inflativo, al recupero della lira nei confronti delle altre monete della CEE. Una volta superato il periodo di emergenza, allorché si trattava di avviare riforme di più ampio respiro, dall'edilizia ai problemi del Mezzogiorno, il governo tornò a muoversi fra le consuete difficoltà, difficoltà tali da frenarne l'azione. Difficoltà accresciute - a partire dal mese di ottobre - dalla "crisi energetica" dovuta alle misure restrittive adottate dai paesi arabi produttori del petrolio, dopo il riaccendersi del conflitto arabo-israeliano: la drastica riduzione del greggio del 25% prima, l'eccezionale aumento del prezzo poi. La guerra del Kippur e la successiva "politica del petrolio" colpiva duramente i programmi economici dei paesi europei, che cercavano invano di contenerne gli effetti imponendo misure restrittive ai consumi (la cosiddetta austerity che caratterizzò il lungo inverno del 1973). A livello europeo, i "nove" della Comunità erano costretti a rivedere la posizione di neutralità in Medio Oriente e a iniziare, con una dichiarazione congiunta, un graduale avvicinamento alle posizioni filo-arabe.

Sul piano interno, un contrasto su scelte di politica economica portava a una crisi di governo che prendeva avvio dalle dimissioni del ministro del Tesoro La Malfa - in dissidio con Giolitti e il suo partito sulla natura del prestito richiesto al Fondo monetario internazionale - e dal conseguente ritiro della delegazione repubblicana dal governo. La crisi si risolveva il 14 marzo con la formazione del quinto governo Rumor; il PRI faceva parte della maggioranza, ma appoggiava il governo dall'esterno: la proposta repubblicana di formare un "direttorio", inteso come presenza dei segretari politici dei quattro partiti nel gabinetto con assunzione di dirette responsabilità di governo, era rimasta una volta di più inascoltata. Gli obiettivi del nuovo ministero, presentati alla Camera e al Senato il 21 marzo, ponevano in primo piano l'economia e la moralizzazione della vita pubblica, fronteggiando con adeguate misure il dilagare della delinquenza e della criminalità.

L'interesse dei partiti e dell'opinione pubblica era attratto dalla prossima scadenza elettorale del referendum abrogativo della l. 1° dicembre 1970, n. 898, avente per oggetto la "disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio". Per la prima volta nella storia nazionale si faceva ricorso a questo istituto previsto dall'articolo 75 della costituzione e regolato con legge del maggio 1970, che sostituisce la volontà diretta del popolo a quella del normale organo legislativo, il parlamento. Dopo successivi rinvii dovuti alle elezioni anticipate e al superamento di scadenze temporali, erano risultati vani i tentativi compiuti dai partiti per un accordo su un nuovo testo sostitutivo della legge Fortuna-Baslini che facesse venir meno la prova referendaria. Il 2 marzo il quarto governo Rumor, appena dimissionario, fissava per il 12 maggio la giornata elettorale.

La campagna fu aspra e polemica, e monopolizzò in un clima di tensione l'interesse del paese. Nell'intento di dare una maggiore moralità al delicato settore del finanziamento dei partiti, investito proprio allora da rivelazioni scandalistiche, fu varata la legge che ne stabiliva il finanziamento pubblico (45 miliardi annui, accresciuti di 15 per ogni consultazione), approvata in via definitiva al Senato il 18 aprile, con la sola opposizione dei liberali. Fra i partiti rappresentati al parlamento si schierarono per il mantenimento della legge Fortuna-Baslini il PSDI, il PSI, il PRI, il PLI e il PCI, mentre la DC veniva affiancata dal solo MSI-Destra nazionale in favore dell'abrogazione: davanti al fronte compatto dei partiti laici la democrazia cristiana veniva a trovarsi in una posizione difficile, allineata con l'estrema destra e obbligata a difendere una posizione che era in contrasto con la tradizione laica e risorgimentale dello Stato italiano. La percentuale dei votanti fu elevata: 88,1%. La vittoria del "no" dei divorzisti fu netta: 19.093.929 voti (59,1%) contro 13.188.184 voti (40,9%) raccolti dagli antidivorzisti. DC e MSI scesero di circa il 6,5% rispetto al loro elettorato politico del 1972. (per questo e per i referendum dell'11-12 giugno 1978, v. referendum, in questa Appendice).

Dopo la parentesi referendaria i partiti della maggioranza ripresero l'attuazione del programma concordato in sede di formazione del governo, ma i problemi dell'ordine pubblico (è del 29 maggio la strage di Brescia) e il perdurare della crisi economica ne mettevano in serio pericolo la sopravvivenza. L'impossibilità di superare divergenze insorte in seno al gabinetto in materia di politica economica fra DC e PSDI da un lato e PSI dall'altro costringeva il presidente del Consiglio - che aveva invano cercato un compromesso - a rassegnare infine le dimissioni (10 giugno 1974). Ma proprio per il delicato momento economico attraversato dal paese, il presidente della Repubblica Leone respingeva le dimissioni, con una procedura senza precedenti dalla Costituente in poi, e invitava Rumor a cercare un chiarimento e un accordo con le altre forze della maggioranza. Il compromesso fu raggiunto, non solo sulla politica economica ma anche sui rapporti fra maggioranza e opposizione: la proposta di "innovazione" avanzata dai socialisti fu accantonata e nel discorso alle camere il presidente del Consiglio parlò di "confronto aperto ad ogni contributo positivo nella ferma salvaguardia della omogeneità e dell'autonoma responsabilità della maggioranza, quale base per lo svolgimento del suo stesso programma". Programma che riprendeva le linee generali fissate nel marzo e che si trovava a fronteggiare una situazione economica sempre più difficile.

Il ritmo dell'inflazione e il disavanzo della bilancia dei pagamenti - si legge nella relazione previsionale per il 1975, presentata al Parlamento a fine settembre del 1974 - erano fra i più elevati nell'area dei paesi industrializzati. I moniti elevati da La Malfa apparivano adesso in tutta la loro drammatica attualità. Le cause di fondo della maggiore ampiezza degli squilibri erano da ricercare nelle carenze della struttura produttiva, del commercio estero e dell'apparato pubblico; carenze esistenti da sempre, ma che nel difficile momento internazionale risultavano accentuate. Le tensioni inflazionistiche avevano raggiunto un'intensità inconsueta nel corso del 1974, con l'aumento del 20% dei prezzi al consumo. Più elevati erano i valori delle importazioni, mentre salari e scala mobile costituivano una causa autonoma di inflazione. Il meccanismo inflazionistico, già in moto prima della guerra del Kippur, risultava accentuato dalla crisi petrolifera (l'80% dei consumi energetici in I. era costituito da consumi petroliferi). Fra i settori inflazionistici di origine interna era da considerare l'eccezionale dilatazione delle occorrenze del Tesoro, per le quali negli ultimi due anni si era provveduto attraverso la creazione di mezzi monetari; il saldo della bilancia dei pagamenti era passato dai novecento miliardi in attivo del 1972 a un passivo di oltre cinquemila miliardi nel 1974.

L'impegno del governo italiano per fronteggiare la crisi dell'economia era stato seguito con interesse dalla comunità internazionale: la visita del presidente Leone negli Stati Uniti (25-29 settembre) accertava un clima di chiara disponibilità verso l'I., e il presidente Ford parlava di "ruolo adeguato, costruttivo e responsabile" degli Stati Uniti per il ripristino dell'equilibrio economico italiano. D'altra parte la politica d'inasprimenti fiscali programmata dal governo Rumor nell'estate (aumento del prezzo della benzina, imposta straordinaria sulle auto e sulle case, rincaro delle tariffe elettriche) al fine di rastrellare tremila miliardi, aveva provocato decise reazioni nella sinistra e nei sindacati: il segretario del partito comunista Berlinguer, a metà luglio del 1974, traendo spunto dalla polemica sull'ONMI e gli enti inutili e dispendiosi tenuti in vita per motivi clientelari, annunciava la fine della "opposizione morbida o flessibile" e il ritorno alla linea dura, a una "opposizione senza aggettivi".

Di fronte alle maggiori difficoltà di dialogo coi sindacati e le opposizioni, il quadripartito si mostrava tutt'altro che compatto. A metà settembre la direzione del PSI denunciava la necessità di "mutamenti profondi d'indirizzo nella politica economica, sociale e civile" con un documento che rappresentava una sostanziale apertura a sinistra della formula stessa di governo. I dirigenti socialdemocratici allora, premesso che col PSI non era possibile costituire un governo stabile, ritenevano esaurito il centro-sinistra e prospettavano la necessità di elezioni anticipate.

Con le dimissioni di Rumor (3 ottobre) si apriva una delle crisi di governo più lunghe e tormentate del secondo dopoguerra. Dopo una fitta serie di consultazioni il capo dello stato affidava al presidente del Senato Spagnolli l'incarico di "procedere a un approfondito esame degli orientamenti delle varie forze politiche in ordine alla formazione del governo " (10 ottobre). Il rifiuto del ricorso a elezioni politiche anticipate - specialmente da parte delle sinistre - e le profonde divergenze esistenti nel quadripartito rendevano la crisi di difficile soluzione. Il 14 ottobre Leone affidava a Fanfani "l'incarico di formare il governo"; la "lettera ai quattro partiti" della vecchia maggioranza inviata dal presidente del Senato offriva molti punti d'intesa, ma restava inaccettabile per Fanfani la pregiudiziale avanzata dal PSI di concordare coi sindacati le principali questioni del programma. A seguito della sua rinuncia al mandato, lo stesso veniva conferito a Moro (29 ottobre) che - dopo complesse trattative - dava vita a un governo bicolore (DC + PRI) sorretto dalla maggioranza quadripartita. Apparsa infatti irrealizzabile la possibilità di un governo a quattro, per le ribadite divergenze fra PSI e PSDI, tramontata per l'opposizione socialdemocratica la proposta di monocolore DC, la direzione del partito di maggioranza relativa aveva suggerito la soluzione del bicolore: la presenza del PRI al governo avrebbe garantito i partiti laici da ogni pericolo d'integralismo da parte del partito cattolico. Il PRI accettava la responsabilità, PSI e PSDI si esprimevano subito a favore e con loro votava la fiducia al governo (2 dicembre) la SVP, mentre i liberali, preso atto del programma, si astenevano. Il PCI, pur votando contro, annunciava una "opposizione democratica", nella ricerca del confronto più aperto fra le forze del paese.

Accanto ai grandi temi economici, alla difesa dell'ordine pubblico e all'europeismo, trovavano spazio nel documento programmatico di Moro provvedimenti di rilievo che avrebbero avuto nei mesi successivi effettiva attuazione, dalla definitiva approvazione della riforma del diritto di famiglia, alla concessione dei diritti politici ai diciottenni, alla legge per gli aiuti all'editoria giornalistica a garanzia dell'informazione. Primo e qualificante atto del nuovo governo fu l'istituzione di un ministero autonomo per i beni culturali e ambientali, per la difesa, il recupero e l'incremento del patrimonio artistico e culturale del paese per tanti anni trascurato e negletto. Nel settore scolastico entravano in vigore, a partire dal novembre, i decreti delegati - varati dal precedente governo Rumor e dallo stesso ministro della P. I. Malfatti - che tendevano a introdurre nella scuola italiana una democrazia rappresentativa di tipo anglosassone.

Per le persistenti difficoltà incontrate nell'avviare la ripresa economica il governo Moro era costretto a decidere aumenti di fatto di beni di consumo popolare, solo in parte compensati da provvedimenti di ordine sociale (pensioni) o di rilancio dell'agricoltura (sostenuta da uno stanziamento di alcune centinaia di miliardi a fine gennaio del 1975, ma colpita un paio di mesi più tardi dalla "guerra del vino" avviata dalla Francia nei confronti delle importazioni dall'I.) o di un graduale ma continuo allentamento della stretta creditizia. All'aumento del canone televisivo e del prezzo degli olii combustibili stabilito alla fine del 1974, facevano seguito il rincaro dello zucchero e di altri prodotti alimentari, l'aumento delle tariffe elettriche, postali, telefoniche, il maggior costo dei trasporti e del gas metano. L'attenzione del governo oltre che all'economia, si volgeva ai problemi dell'ordine pubblico, sempre più minacciato da violenze e rapimenti, estorsioni e attentati. Proprio in occasione del varo delle norme contro la criminalità la maggioranza rischiava più volte di andare in crisi, e i "vertici" del quadripartito furono frequenti nella primavera del 1975. Finalmente la legge per la difesa dell'ordine pubblico fu definitivamente approvata dalla Camera il 21 maggio, dopo le modifiche apportate dal Senato al testo già passato a Montecitorio con il voto contrario dei soli comunisti.

Nella primavera del 1975 il dibattito politico risultava condizionato dalla prospettiva delle imminenti elezioni amministrative, per il rinnovo della quasi totalità dei consigli regionali, provinciali e comunali. La polemica tra le forze contrapposte fu viva e la campagna elettorale fu condotta con lo stesso spirito delle consultazioni politiche. Alle ripetute avances del PCI per il "compromesso storico" si contrapponeva l'intransigente rifiuto della segreteria DC, impegnata nel recupero di voti e di credibilità nel suo stesso elettorato, dopo le defezioni del 12 maggio.

Le elezioni svoltesi nel Trentino - regione a statuto speciale - il 17 novembre del 1974 avevano fatto registrare un'evidente perdita in voti e in seggi della stessa DC, la flessione del PSDI e del PLI, la conferma sostanziale del PRI già salito nelle elezioni del 1972, (che si presentava alla consultazione del 15 giugno con O. Biasini alla segreteria e La Malfa alla presidenza del partito) e l'avanzata del PSI e del PCI. Era una tendenza a sinistra che veniva confermata o accentuata dal voto di metà giugno, che dava nelle quindici regioni a statuto ordinario questi risultati complessivi: il PCI passava da 7.586.983 voti (27,9%) del 1970 a 10.149.135 voti (33,4%) del 1975 e da 200 a 247 seggi; il PDUP (nato dalla fusione del partito socialista di unità proletaria col gruppo del Manifesto e presentatosi solamente in dieci regioni) otteneva 411.725 voti (1,4%, 8 seggi); il PSI saliva da 2.837.451 (10,4%) a 3.636.647 voti (12,0%) e da 67 a 82 seggi; il PRI da 707.011 voti (2,9%) a 961.016 (3,2%) e da 18 a 19 seggi. Il PSDI scendeva invece da 1.897.034 voti (7,0%) a 1.700.983 voti (5,6%) e da 41 a 36 seggi; la DC da 10.303.236 passava a 10.707.682 perdendo in percentuale (da 37,9 a 35,3) e in seggi (da 287 a 277). Più sensibile il calo del partito liberale: da 1.290.715 voti (4,7%) a 749.749 (2,5) e da 27 a 11 seggi. In lieve aumento la Destra nazionale, da 1.621.180 (MSI+PDIUM, nel 1970), (5,9%), a 1.951.011 (6,4%) e da 34 a 40 seggi. Altre regioni, oltre Emilia e Romagna, Toscana e Umbria, passavano così sotto l'amministrazione di giunte di sinistra.

Il successo di questi partiti trovava piena corrispondenza nei risultati delle provinciali e delle comunali. Nel complesso di 86 province, in percentuale e in seggi si avevano dal 1970 al 1975 questa variazioni: PCI da 26,7 a 32,7%, e da 701 seggi a 860 (al PDUP andavano lo 0,5% e 4 seggi); PSI da 11,1% a 12,7%, e da 247 a 330 seggi; PRI da 3 a 3,4%, e da 60 a 73 seggi; PSDI da 7,3 a 5,8%, e da 177 a 142 seggi; DC da 37,3 a 34,8% e da 1023 a 946 seggi; PLI da 4,9 a 2,7%, e da 101 a 43 seggi; MSI da 6 a 6,8% e da 139 a 161 seggi. Limitandoci ai comuni capoluogo, i seggi risultavano così assegnati: PCI da 839 a 1139 (e 15 andavano al PDUP); PSI da 382 a 498; PRI da 129 a 145; PSDI da 283 a 220; DC da 1400 a 1394; PLI da 179 a 84; MSI da 224 a 265. Il PCI conquistava dunque 300 seggi in più rispetto al 1970, il PSI 116, il PRI 16, la DC ne perdeva 6, il PLI 95 e il PSDI 63. Anche in sede locale molti centri passavano ad amministrazioni frontiste, pur essendo talvolta possibile - sulla carta - un'alternativa di centro-sinistra.

I risultati elettorali imponevano un attento esame all'interno di tutti i partiti. Il governo Moro continuava a restare in carica sostenuto dal quadripartito, mentre sul piano delle amministrazioni locali la formula di centro-sinistra veniva sostituita, da forze spesso caotiche o improvvisate, con tutta una serie di nuove maggioranze. Frattanto il governo continuava la propria azione. Nell'agosto, in una riunione del Consiglio dei ministri, veniva varato il piano anticongiunturale, vasto complesso normativo che interessava alcuni fra i maggiori settori della vita economica del paese: con seicento miliardi veniva rifinanziata la legge per l'edilizia, 650 miliardi erano stanziati per interventi nell'agricoltura; incrementati anche i finanziamenti per le esportazioni e il plafond assicurativo mentre altri interventi riguardavano i trasporti, gli ospedali e i porti. Alla piccola industria venivano infine concesse agevolazioni. In politica estera il governo Moro apriva la via alla definitiva soluzione della questione di Trieste, previa intesa bilaterale con la Iugoslavia. La base della trattativa, autorizzata dal Parlamento dei due paesi, prevedeva il riconoscimento della sovranità italiana sulla zona A e di quella iugoslava sulla zona B in via definitiva; ritocchi di confine intorno a Gorizia a favore dell'I.; diritto di opzione per i cittadini italiani e iugoslavi nelle due zone. Era prevista pure la creazione di un canale di passaggio, in acque profonde, per permettere l'accesso delle navi di grosso tonnellaggio al porto di Trieste senza passare per acque iugoslave e l'ipotesi di dar vita a una zona franca di Trieste.

Sul piano degli schieramenti e delle forze politiche, mentre il PSI proclamava una linea di autonomia e di equidistanza sia dal PCI che dalla DC, la reazione più immediata al voto del 15 giugno si aveva nella Democrazia cristiana: nel mese di luglio si riuniva il consiglio nazionale del partito, in un clima teso e di sfiducia per la segreteria: i dorotei e i gruppi di Andreotti e Colombo uscivano dalla direzione e il 22 luglio la relazione di Fanfani veniva respinta con 103 voti contrari e 69 favorevoli. Venuta meno la candidatura Piccoli, sostenuto dai dorotei, era chiamato alla guida del partito, per tentarne il rilancio, B. Zaccagnini. Quanto al partito liberale, il segretario Bignardi e il presidente del partito Malagodi presentavano le dimissioni al consiglio nazionale riunito nel mese di ottobre, fissato già in quello del mese di luglio, che aveva constatato la spaccatura del partito. La mancanza di un'intesa con le opposizioni portava nel consiglio autunnale allo scontro direttto fra maggioranza e minoranza: nella votazione del 12 ottobre Malagodi e Bignardi venivano confermati nelle rispettive cariche, con un margine esiguo di maggioranza, a conferma della grave spaccatura esistente all'interno del partito e dell'impossibilità di raggiungere un'intesa fra le correnti.

Per tutti gli ultimi mesi dell'anno 1975, il governo Moro s'impegnava in un tentativo organico di affrontare i più drammatici problemi dell'occupazione. Veniva raggiunta in ottobre una piattaforma di negoziato globale coi sindacati per il pubblico impiego; in novembre approntata una nuova disciplina dell'uso dei suoli e varato il complesso dei decreti delegati per l'ordinamento dei beni culturali e ambientali al centro e alla periferia; in dicembre il Consiglio dei ministri approvava, sia pure in mezzo a ricorrenti polemiche e tentativi di differenziazione da parte del PSI, un vasto complesso di provvedimenti per la riconversione industriale e per il rifinanziamento delle leggi sul Mezzogiorno. Come già ai tempi di De Gasperi, il bicolore DC-repubblicani sembrava quasi incarnare e rappresentare l'estrema forma di collaborazione fra forze cattoliche e forze laiche nella crescente crisi delle istituzioni, ritmata da una trasformazione radicale delle strutture dei modi di vita e dei costumi della società italiana. Una trasformazione che non poteva passare senza adeguati riflessi nella composizione e nell'equilibrio delle forze politiche di maggioranza e di opposizione.

L'opera paziente e coraggiosa del bicolore DC-PRI, presieduto dall'on. Moro, per arginare gli effetti disastrosi della drammatica crisi economica italiana, veniva bruscamente interrotta, proprio all'inizio del 1976, dalla decisione del PSI di togliere l'appoggio parlamentare al governo. Prima, un articolo del segretario on. De Martino, pubblicato sull'Avanti! del 31 dicembre 1975, poi, una presa di posizione formale del comitato centrale del 7 gennaio, precisavano i termini di un dissenso col governo, che aveva come immediati punti di riferimento la recente proposta di un piano di rilancio dell'economia nazionale e le scelte in materia di interventi finanziari a favore del Mezzogiorno, giudicate dai socialisti inadeguate e troppo vantaggiose per gl'imprenditori. Ma assai più complesse e sfumate erano le cause profonde del malessere del PSI, che avevano consigliato il suo segretario a una decisione improvvisa, severamente giudicata da tutti gli altri partiti dell'arco costituzionale, comunisti compresi. Malumore serpeggiante fin dalle amministrative del giugno precedente per i risultati non conformi alle speranze; sensazione di essere progressivamente emarginati dalla guida del paese, a causa dei sempre maggiori consensi che l'azione del gabinetto Moro-La Malfa riusciva a raccogliere fra le forze sociali (dai ceti imprenditoriali alle centrali sindacali) e nell'ambito del PCI, attentamente partecipe dell'opera di risanamento economico intrapresa; certezza dell'esistenza nell'opinione pubblica di una vasta "area socialista", desiderosa di esprimere il proprio appoggio a un PSI non subalterno ai due maggiori partiti, ma esso stesso protagonista tanto del loro avvicinamento, quanto di un'eventuale futura svolta politica che portasse le sinistre al potere, relegando la DC all'opposizione. Erano questi alcuni dei più importanti motivi che avevano determinato l'iniziativa del partito di De Martino, tutti recanti sullo sfondo il desiderio, più o meno confessato, di riproporre al paese un nuovo appello alle urne per il rinnovo anticipato delle Camere.

Spettava ancora all'on. Moro tentare di ricucire le fila di una coalizione di governo, che si scontrava subito con la perentoria richiesta socialista di coinvolgere direttamente nelle responsabilità governative anche il PCI: una condizione che la DC non era certo in grado di accogliere e che lo stesso Partito comunista riteneva prematura. Mentre il paese reagiva negativamente a questa nuova assenza di guida politica in un momento così grave per l'economia, la lira precipitava in una caduta vertiginosa dei propri termini di cambio nei confronti del dollaro e delle altre valute forti, obbligando il governo dimissionario a prendere immediati provvedimenti restrittivi della liquidità monetaria. E il disagio e la sfiducia erano resi più acuti dall'ondata di scandali, che si abbatteva su alcuni settori di vertice della classe politica e dell'industria di stato (C. Crociani, presidente della Finmeccanica, una delle maggiori finanziarie del gruppo IRI, travolto dalle accuse di corruzione, era costretto a dimettersi), toccando ministri in carica, o che lo erano stati nel più recente passato e giungendo a sfiorare lo stesso Quirinale.

Dopo 34 giorni di crisi confusa e tormentata, l'11 febbraio, A. Moro scioglieva positivamente la riserva e sottoponeva al presidente della Repubblica la lista dei ministri di un nuovo gabinetto monocolore DC, che ricalcava la precedente compagine governativa salvo la sostituzione dei ministri repubblicani e il passaggio degl'Interni da Gui, coinvolto nei recenti scandali, a F. Cossiga. Dieci giorni dopo, il governo riceveva la fiducia della Camera con il sì della DC e del PSDI e l'astensione di PSI, PRI e PLI.

Si apriva in marzo un'intensa stagione di congressi di alcuni partiti della maggioranza: cominciava il PSI, il giorno 3, con la sua 40ª assise nazionale, che vedeva il partito unanime concordare sulla mozione presentata dal suo segretario implicitamente orientata a un nuovo confronto elettorale, ritenuto utile per rafforzare il partito in vista di un suo rapporto immediato con la DC meno subordinato e in preparazione di un futuro governo delle sinistre. Proseguiva l'11 marzo il PSDI con il suo XVII congresso, svoltosi a Firenze, dal quale usciva una nuova maggioranza che scalzava Tanassi (anch'egli implicato negli scandali) dalla segreteria e offriva la guida del partito di nuovo al suo antico capo storico, G. Saragat.

Ma era il XIII congresso della DC, convocato a Roma per il 18 marzo, a catalizzare l'attenzione di tutto il mondo politico italiano. Imperniata sullo scontro tra quanti, sostenendo il segretario B. Zaccagnini, volevano rinnovare in profondità il partito negli uomini e nei metodi e coloro che (scegliendo a loro leader A. Forlani) intendevano riconfermare l'immagine della DC come partito di centro, rigorosamente chiuso verso sinistra non meno che sulla destra, l'assemblea congressuale raggiunse toni polemici vivacissimi e decise di eleggere direttamente, modificando il regolamento, il segretario del partito. Fu riconfermato Zaccagnini col 52% dei voti; una maggioranza assai risicata che lasciava all'opposizione dorotei, fanfaniani e andreottiani e che consigliava ai sostenitori della segreteria maggiore prudenza nei loro progrmmmi innovativi (tanto che a metà aprile Fanfani era rieletto alla presidenza del Consiglio nazionale del partito).

Il 7 aprile, a Napoli, toccava al PLI affrontare, nell'ambito del XV congresso nazionale, i problemi del proprio assetto organizzativo e del proprio ruolo politico. Leader per anni della minoranza di sinistra, a gennaio V. Zanone era stato eletto segretario, dopo un accordo con le correnti di maggioranza che assegnava a Bignardi la presidenza effettiva e a Malagodi quella onoraria del partito. Il distacco del PLI dalle tradizionali posizioni di centro-destra veniva confermato dall'esito congressuale, che dava al gruppo Zanone la maggioranza assoluta.

Il governo, intanto, si vedeva costretto dalla gravità della situazione economica a imporre al paese nuove misure fiscali, che colpivano beni di largo consumo (benzina, auto, alcolici), ma era di nuovo U. La Malfa a comprendere la precarietà di simili provvedimenti frammentari e disorganici: il leader repubblicano a fine marzo proponeva agli altri partiti democratici di tentare la via di un concreto accordo su di un programma globale di ripresa economica del paese. Il 1° aprile, però, il quadro politico veniva improvvisamente scosso da un voto a sorpresa della Camera sull'art. 2 della proposta di legge per l'aborto. Modificando i termini del compromesso raggiunto tra laici e cattolici nelle commissioni Sanità e Giustizia, i deputati DC, insieme con i rappresentanti del MSI-Destra nazionale, facevano passare un emendamento restrittivo dei casi in cui era consentita l'interruzione volontaria della gravidanza. La reazione dei partiti laici, e particolarmente del PSI, era immediata: l'ipotesi di un ricorso anticipato alle urne tornava di nuovo attualissima, mentre il paese assisteva con crescente preoccupazione a un rincrudirsi di azioni terroristiche compiute da centrali eversive del terrorismo rosso e nero. In una simile atmosfera di emergenza nessun partito voleva, però, assumersi direttamente la responsabilità di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere.

Per tutto aprile si tentò vanamente di ricomporre un accordo di maggioranza attorno al governo Moro, prendendo come base di discussione proprio la proposta La Malfa di poche settimane prima. Il 30, però, nel corso di un dibattito parlamentare, il presidente del Consiglio prese atto dello sfaldarsi della coalizione che sosteneva il monocolore e rassegnò le dimissioni. Al presidente della Repubblica non restava che accettare la fine anticipata della sesta legislatura e indire nuove elezioni per il 20 giugno.

Dopo una campagna elettorale tesa e drammatica, caratterizzata da una ripresa nella DC dei tradizionali accenti anticomunisti, che contribuì a polarizzare l'attenzione dell'elettorato sui due maggiori partiti (la violenza politica raggiungeva, intanto, il proprio apice a pochi giorni dalle elezioni con l'assassinio del procuratore generale di Genova), il responso delle urne segnava una netta sconfitta di tutte le forze politiche intermedie (con l'eccezione della sostanziale tenuta del PRI, il quale in alcuni collegi senatoriali si era anche presentato unito, in un'alleanza laica, con PLI e PSDI) e deludeva quanti avevano puntato a un ridimensionamento della Democrazia cristiana. Questi i risultati in percentuale di voti e in seggi conseguiti: Camera, DC, 38,7%, 263 (−4); PCI, 34,4%, 227 (+48); PSI, 9,6%, 57 (−4); PCI-PSI-PDU, 0,1%, 1; PSDI, 3,4%, 15 (−14); PRI, 3,1%, 14 (−1); PLI, 1,3%, 5 (−15); MSI-DN, 6,1%, 35 (−21); SVP, 0,5%, 3 (−); DP, 1,5%, 6; PR, 1,1%, 4. Senato: DC, 38,9%, 135 (−); PCI, 33,8%, 116 (+22); PSI, 10,2%, 29 (−4); PCI-PSI, 0,2%, 1; PSDI, 3,1%, 6 (−5); PRI, 2,7%, 6 (+1); PLI, 1,4%, 2 (−6); PLI-PRI-PSDI, 1,1%, 2; MSI-DN, 6,6%, 15 (−11); DC-PRI-UV, 0,1%, 1 (−); SVP, 0,5%, 2 (−).

Con un parlamento nel quale non esisteva più neppure numericamente alcuna possibilità di formare maggioranze di centro-destra, la nuova legislatura si apriva con un avvenimento politico denso di significati per il futuro del paese. Ai primi di luglio, infatti, tutti i sei partiti dell'"arco costituzionale" dopo trent'anni tornavano a sedersi intorno allo stesso tavolo, per concordare la ripartizione degl'incarichi parlamentari. A un comunista, P. Ingrao, andava così la presidenza della Camera dei deputati, mentre quella del Senato era riservata alla DC, che vi nominava A. Fanfani. Gravissime erano le ripercussioni dei risultati elettorali sul PSI: tutte le previsioni e le speranze dei mesi precedenti erano risultate errate, frutto di un'analisi non sufficientemente approfondita delle esigenze e della composizione della società italiana di questi anni. Nel corso del comitato centrale di metà luglio, la vecchia maggioranza demartiniana si sfaldava, provocando un confuso rimescolamento delle correnti che portava alla segreteria B. Craxi, il fedelissimo di P. Nenni, appoggiato dalla sinistra e dal gruppo di G. Mancini.

La tendenziale bipolarità del Parlamento uscito dal 20 giugno rendeva estremamente difficile la formazione di un governo a maggioranza precostituita, tanto più dopo un dibattito pre-elettorale caratterizzato dalla contrapposizione frontale fra i due maggiori partiti. Il 13 luglio il presidente della Repubblica affidava l'incarico per la creazione di un nuovo ministero a G. Andreotti, il quale nel giro di due settimane dava vita a un gabinetto di soli democristiani, privo di maggioranza parlamentare e la cui sopravvivenza era affidata alle astensioni, nel momento del voto di fiducia, di tutti i partiti dell'arco costituzionale. Per la prima volta, dunque, dal 1947, il PCI, sia pure attraverso questa formula provvisoria, era chiamato a sostenere un governo e ad assumere un ruolo determinante nell'attuazione del suo programma. Il 6 agosto al Senato e l'11 alla Camera, il monocolore Andreotti otteneva il consenso del Parlamento sulle sue proposte di governo con il sì dei democristiani, l'astensione di PCI, PSI, PRI, PSDI, PLI e il voto contrario dei soli missini, radicali e demoproletari. Situazione anomala e di estrema debolezza, ma che comunque consentiva di rimandare lo scioglimento del nodo fondamentale che gravava sulla politica italiana dopo il 20 giugno, quello del rapporto tra DC e PCI. Il governo, nel tentativo di fronteggiare un drammatico processo inflattivo e d'impedire il tracollo della lira nei confronti delle altre valute, chiamava il paese a nuovi sacrifici, tali da ridurre i consumi privati, consentire un rilancio degl'investimenti, abbassare il livello eccessivo della spesa pubblica (si cercava soprattutto d'incidere sul costo del lavoro, mitigando gli effetti inflazionistici dell'indennità di contingenza, ma la resistenza su questo punto da parte dei sindacati era durissima). Successivamente la lotta politica in I. è stata caratterizzata dal graduale accostamento del PCI nell'area di governo e dal correlativo dinamismo dei gruppi extraparlamentari (movimento degli "autonomi"), che hanno contestato le istituzioni fondamentali della sinistra sindacale e politica: tanto che si è parlato dell'insorgere di una seconda "società", composta da elementi emarginati ed estranei alla cultura politica derivante dalla tradizione delle lotte operaie. I partiti intermedi, e soprattutto i repubblicani, hanno continuato a svolgere un ruolo essenziale nel quadro parlamentare e a influire in misura determinante sulle vicende della coalizione di governo. Il 16 gennaio 1978, delineandosi ormai chiaramente il passaggio all'opposizione dei gruppi che avevano fino a quel momento sostenuto con l'astensione il monocolore democristiano, le dimissioni di G. Andreotti hanno aperto una difficile crisi governativa, motivata essenzialmente dalla necessità di un'azione più energica per affrontare i problemi economici. Dopo rapide consultazioni, il presidente Leone ha affidato il reincarico allo stesso Andreotti, nuovamente impegnato a edificare una più salda convergenza di forze politiche sulla base dell'arco costituzionale e dell'intesa raggiunta nel luglio 1976. Poi la crisi è stata risolta con un accordo fra cinque partiti (questa volta i liberali hanno preferito passare all'opposizione): a differenza del precedente, fondato sull'astensione, il quarto governo Andreotti, giustificato anch'esso con la situazione di emergenza in cui versa il paese, è passato in Parlamento con una larghissima maggioranza il 16 marzo, giorno del sequestro di A. Moro (v.): hanno votato a favore i democristiani, i comunisti, i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, e anche i demonazionali. Il 15 giugno si è dimesso G. Leone (v.); è stato eletto (8 luglio) presidente della Repubblica Sandro Pertini (v. anche partiti politici italiani).

Elenco dei ministeri dal 21 febbraio 1962.

1. - (21 febbraio 1962 - 21 giugno 1963): Presidente, Fanfani Amintore; Vicepresidente, senza portafoglio, Piccioni Attilio (dal 29 maggio 1962 ministro degli esteri); Senza portafoglio, Codacci Pisanelli Giuseppe (rapporti col parlamento), Medici Giuseppe (riforma della burocrazia), Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse); Esteri, Segni Antonio, Piccioni Attilio (dal 29 maggio 1962); Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Bosco Giacinto; Bilancio, La Malfa Ugo; Finanze, Trabucchi Giuseppe; Tesoro, Tremelloni Roberto; Difesa, Andreotti Giulio; Pubblica Istruzione, Gui Luigi; Lavori Pubblici, Sullo Fiorentino; Agricoltura e Foreste, Rumor Mariano; Trasporti, Mattarella Bernardo; Poste e Telecomunicazioni, Spallino Lorenzo; Industria e Commercio, Colombo Emilio; Lavoro e Previdenza Sociale, Bertinelli Virginio; Commercio Estero, Preti Luigi; Marina Mercantile, Macrelli Cino; Partecipazioni Statali, Bo Giorgio; Igiene e Sanità, Jervolino Angelo Raffaele; Turismo e Spettacolo, Falchi Alberto.

2. - (21 giugno 1963 - 4 dicembre 1963): Presidente, Leone Giovanni; Vicepresidente e Esteri, Piccioni Attilio; Senza portafoglio, Codacci Pisanelli Giuseppe (rapporti col parlamento), Lucifredi Roberto (riforma della burocrazia), Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse); Interni, Rumor Mariano; Grazia e Giustizia, Bosco Giacinto; Bilancio, Medici Giuseppe; Finanze, Martinelli Mario; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Andreotti Giulio; Pubblica Istruzione, Gui Luigi; Lavori Pubblici, Sullo Fiorentino; Agricoltura e Foreste, Mattarella Bernardo; Trasporti, Corbellini Guido; Poste e Telecomunicazioni, Russo Carlo; Industria e Commercio, Togni Giuseppe; Lavoro e Previdenza Sociale, Delle Fave Umberto; Commercio Estero, Trabucchi Giuseppe; Marina Mercantile, Dominedò Francesco; Partecipazioni statali, Bo Giorgio; Igiene e Sanità, Jervolino Angelo Raffaele; Turismo e Spettacolo, Folchi Alberto.

3. - (4 dicembre 1963 - 22 luglio 1964): Presidente, Moro Aldo; Vicepresidente, Nenni Pietro; Senza portafoglio, Piccioni Attilio (rapporti col parlamento), Preti Luigi (riforma della burocrazia), Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Arnaudi Carlo (ricerca scientifica), Delle Fave Umberto (incarichi speciali); Esteri, Saragat Giuseppe; Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Reale Oronzo; Bilancio, Giolitti Antonio; Finanze, Tremelloni Roberto; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Andreotti Giulio; Pubblica Istruzione, Gui Luigi; Lavori Pubblici, Pieraccini Giovanni; Agricoltura e Foreste, Ferrari-Aggradi Mario; Trasporti e Aviazione Civile, Jervolino Angelo Raffaele; Poste e Telecomunicazioni, Russo Carlo; Industria e Commercio, Medici Giuseppe; Lavoro e Previdenza Sociale, Bosco Giacinto; Commercio estero, Mattarella Bernardo; Marina Mercantile, Spagnolli Giovanni; Partecipazioni Statali, Bo Giorgio; Igiene e sanità, Mancini Giacomo; Turismo e Spettacolo, Corona Achille.

4. - (22 luglio 1964 - 23 febbraio 1966): Presidente, Moro Aldo; Vicepresidente, Nenni Pietro; Senza portafoglio, Scaglia Gian Battista (rapporti col parlamento), Preti Luigi (riforma della burocrazia), Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Arnaudi Carlo (ricerca scientifica), Piccioni Attilio (incarichi speciali); Esteri, Saragat Giuseppe (fino al 28 dicembre 1964), Moro Aldo ad interim; Fanfani Amintore, (5 marzo - 28 dicembre 1965), Moro Aldo ad interim; Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Reale Oronzo; Bilancio, Pieraccini Giovanni; Finanze, Tremelloni Roberto; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Andreotti Giulio; Pubblica Istruzione, Gui Luigi; Lavori Pubblici, Mancini Giacomo; Agricoltura e Foreste, Ferrari Aggradi Mario; Trasporti e Aviazione Civile, Jervolino Angelo Raffaele; Poste e Telecomunicazioni, Russo Carlo; Industria e Commercio, Medici Giuseppe, Lami Starnuti Edgardo (dal 5 marzo 1965); Lavoro e Previdenza Sociale, Delle Fave Umberto; Commercio Estero, Mattarella Bernardo; Marina Mercantile, Spagnolli Giovanni; Partecipazioni Statali, Bo Giorgio; Igiene e Sanità, Mariotti Luigi; Turismo e Spettacolo, Corona Achille.

5. - (23 febbraio 1966 - 24 giugno 1968): Presidente, Moro Aldo; Vicepresidente, Nenni Pietro; Senza portafoglio, Scaglia Giovan Battita (rapporti col parlamento), Bertinelli Virginio (riforma della burocrazia), Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Rubinacci Leopoldo (ricerca scientifica), Piccioni Attilio (incarichi speciali); Esteri, Fanfani Amintore; Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Reale Oronzo; Bilancio, Pieraccini Giovanni; Finanze, Preti Luigi; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Tremelloni Roberto; Pubblica Istruzione, Gui Luigi; Lavori pubblici, Mancini Giacomo; Agricoltura e Foreste, Restivo Franco; Trasporti e Aviazione Civile, Scalfaro Oscar Luigi; Poste e Telecomunicazioni Spagnolli Giovanni; Industria e Commercio, Andreotti Giulio; Lavoro e Previdenza Sociale, Bosco Giacinto; Commercio Estero, Tolloy Giusto; Marina Mercantile, Natali Lorenzo; Partecipazioni Statali, Bo Giorgio; Igiene e Sanità, Mariotti Luigi; Turismo e Spettacolo, Corona Achille.

6. - (24 giugno 1968 - 12 dicembre 1968): Presidente, Leone Giovanni; Senza portafoglio, Mazza Crescenzo (rapporti col parlamento), Tessitori Tiziano (riforma della burocrazia), Caiati Italo Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Piccioni Attilio (incarichi speciali); Esteri, Medici Giuseppe; Interni, Restivo Franco; Grazia e Giustizia, Gonella Guido; Finanze, Ferrari Aggradi Mario; Tesoro e Bilancio e Pianificazione Economica ad interim, Colombo Emilio; Difesa, Gui Luigi; Pubblica Istruzione, Scaglia Giovan Battista; Lavori Pubblici, Natali Lorenzo; Agricoltura e Foreste, Sedati Giacomo; Trasporti e Aviazione Civile, Scalfaro Oscar Luigi; Poste e Telecomunicazioni, De Luca Angelo; Industria e Commercio, Andreotti Giulio; Lavoro e Previdenza Sociale, Bosco Giacinto; Commercio Estero, Russo Carlo; Marina Mercantile, Spagnolli Giovanni; Partecipazioni Statali, Bo Giorgio; Igiene e Sanità, Zelioli Lanzini Ennio; Turismo e Spettacolo, Magrì Domenico.

7. - (12 dicembre 1968 - 5 agosto 1969): Presidente, Rumor Mariano; Vicepresidente, De Martino Francesco; Senza portafoglio, Russo Carlo (rapporti col parlamento), Gatto Eugenio (riforma della burocrazia), Taviani Paolo Emilio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Lauricella Salvatore (ricerca scientifica), Bosco Giacinto e Mazza Crescenzo (incarichi speciali); Esteri, Nenni Pietro; Interni, Restivo Franco; Difesa, Gui Luigi; Grazia e Giustizia, Gava Silvio; Bilancio, Preti Luigi; Tesoro, Colombo Emilio; Finanze, Reale Oronzo; Pubblica istruzione, Sullo Fiorentino; Lavori pubblici, Mancini Giacomo; Agricoltura e Foreste, Valsecchi Athos; Trasporti e Aviazione Civile, Mariotti Luigi; Poste e Telecomunicazioni, Ferrari Aggradi Mario; Industria e Commercio, Tanassi Mario; Lavoro e Previdenza Sociale, Brodolini Giacomo; Commercio Estero, Colombo Vittorino; Marina Mercantile, Lupis Giuseppe; Partecipazioni Statali, Forlani Arnaldo; Igiene e Sanità, Ripamonti Camillo; Turismo e Spettacolo, Natali Lorenzo.

8. - (5 agosto 1969 - 7 febbraio 1970): Presidente, Rumor Mariano; Senza portafoglio, Russo Carlo (rapporti col parlamento); Gatto Eugenio (riforma della burocrazia), Taviani Paolo Emilio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Bo Giorgio (ricerca scientifica), Forlani Arnaldo (incarichi speciali); Esteri, Moro Aldo; Interni, Restivo Franco; Grazia e giustizia, Gava Silvio; Bilancio e Programmazione Economica, Caron Giuseppe; Finanze, Bosco Giacinto; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Gui Luigi; Pubblica Istruzione, Ferrari Aggradi Mario; Lavori Pubblici, Natali Lorenzo; Agricoltura e Foreste, Sedati Giacomo; Trasporti e Aviazione Civile, Gaspari Remo; Poste e Telecomunicazioni, Valsecchi Athos; Industria, Commercio e Artigianato, Magrì Domenico; Lavoro e Previdenza Sociale, Donat Cattin Carlo; Commercio estero, Misasi Riccardo; Marina Mercantile, Colombo Vittorino; Partecipazioni Statali, Malfatti Franco Maria; Igiene e Sanità, Ripamonti Camillo; Turismo e Spettacolo, Scaglia Giovanni Battista.

9. - (27 marzo 1970 - 5 agosto 1970): Presidente, Rumor Mariano; Vicepresidente, De Martino Francesco; Senza portafoglio, Ferrari Aggradi Mario (rapporti col parlamento), Gaspari Remo (riforma della burocrazia), Taviani Paolo Emilio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Ripamonti Camillo (ricerca scientifica), Bosco Giacinto (incarichi speciali), Gatto Eugenio (attuazione delle regioni); Esteri, Moro Aldo; Interni, Restivo Franco; Grazia e Giustizia, Reale Oronzo; Bilancio e Programmazione economica, Giolitti Antonio; Finanze, Preti Luigi; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Tanassi Mario; Pubblica Istruzione, Misasi Riccardo; Lavori Pubblici, Lauricella Salvatore; Agricoltura e Foreste, Natali Lorenzo; Trasporti e Aviazione Civile, Viglianesi Italo; Poste e Telecomunicazioni, Malfatti Franco Maria; Industria, Commercio e Artigianato, Gava Silvio; Lavoro e Previdenza Sociale, Donat Cattin Carlo; Commercio Estero, Zagari Mario; Marina Mercantile, Mannironi Salvatore; Partecipazioni Statali, Piccoli Flaminio; Igiene e Sanità, Mariotti Luigi; Turismo e Spettacolo, Lupis Giuseppe.

10. - (6 agosto 1970 - 17 febbraio 1972): Presidente, Colombo Emilio; Vicepresidente, De Martino Francesco; Senza portafoglio, Russo Carlo (rapporti col parlamento), Gaspari Remo (riforma della burocrazia), Taviani Paolo Emilio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Ripamonti Camillo (ricerca scientifica), Lupis Giuseppe (incarichi speciali), Gatto Eugenio (rapporti con le regioni); Esteri, Moro Aldo; Interni, Restivo Franco; Grazia e giustizia, Reale Oronzo (dimissionario il 1 marzo 1971, sostituito ad interim da Colombo Emilio); Bilancia e Programmazione Economica, Giolitti Antonio; Finanze, Preti Luigi; Tesoro, Ferrari Aggradi Mario; Difesa, Tanassi Mario; Pubblica Istruzione, Misasi Riccardo; Lavori Pubblici, Lauricella Salvatore; Agricoltura e Foreste, Natali Lorenzo; Trasporti e Aviazione Civile, Viglianesi Italo; Poste e Telecomunicazioni, Bosco Giacinto; Industria, Commercio e Artigianato, Gava Silvio; Lavoro e Previdenza Sociale, Donat Cattin Carlo; Commercio Estero, Zagari Mario; Marina Mercantile, Mannironi Salvatore (morto il 7 aprile 1971) poi Attaguile Gioacchino; Partecipazioni Statali, Piccoli Flaminio; Igiene e Sanità, Mariotti Luigi; Turismo e Spettacolo, Matteotti Gianmatteo.

11. - (18 febbraio 1972 - 13 luglio 1972): governo di affari: Presidente, Andreotti Giulio; Senza portafoglio, Russo Carlo (rapporti col parlamento e con l'ONU), Gaspari Remo (riforma della burocrazia), Caiati Giulio (Cassa per il Mezzogiorno e zone depresse), Sullo Fiorentino (ricerca scientifica), Gatto Eugenio (rapporti con le regioni); Esteri, Moro Aldo; Interni, Rumor Mariano; Grazia e Giustizia, Gonella Guido; Bilancio e Programmazione Economica, Taviani Paolo Emilio; Finanze, Pella Giuseppe; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Restivo Franco; Pubblica Istruzione, Misasi Riccardo; Lavori Pubblici, Ferrari Aggradi Mario; Agricoltura e Foreste, Natali Lorenzo; Trasporti e Aviazione Civile, Scalfaro Oscar Luigi; Poste e Telecomunicazioni, Bosco Giacinto; Industria, Commercio e Artigianato, Gava Silvio; Lavoro e Previdenza Sociale, Donat Cattin Carlo; Commercio Estero, Ripamonti Camillo; Marina Mercantile, Cassiani Gennaro; Partecipazioni Statali, Piccoli Flaminio; Igiene e Sanità, Valsecchi Athos; Turismo e Spettacolo, Scaglia Giovan Battista.

12. - (13 luglio 1972 - 7 luglio 1973): Presidente, Andreotti Giulio; Vicepresidente, Tanassi Mario; Senza portafoglio, Taviani Paolo Emilio (Mezzogiorno), Colombo Emilio (rapporti con l'ONU), Sullo Fiorentino (Regioni), Gava Silvio (riforma della pubblica amministrazione), Romita Pierluigi (ricerca scientifica), Bergamasco Giorgio (rapporti col parlamento), Caiati Giulio (problemi della gioventù); Esteri, Medici Giuseppe; Interni, Rumor Mariano; Grazia e Giustizia, Gonella Guido; Bilancio e Programmazione, Taviani Paolo Emilio; Finanze, Valsecchi Athos; Tesoro, Malagodi Giovanni; Difesa, Tanassi Mario; Pubblica Istruzione, Scalfaro Oscar Luigi; Lavori Pubblici, Gullotti Antonino; Agricoltura e Foreste, Natali Lorenzo; Trasporti e Aviazione Civile, Bozzi Aldo; Poste e Telecomunicazioni, Gioia Giovanni; Industria, Commercio e Artigianato, Ferri Mauro; Lavoro e Previdenza Sociale, Coppo Dionigi; Commercio con l'Estero, Matteotti Gianmatteo; Marina Mercantile, Lupis Giuseppe; Partecipazioni Statali, Ferrari Aggradi Mario; Sanità, Gaspari Remo; Turismo e Spettacolo, Badini Confalonieri Vittorio.

13. - (7 luglio 1973 - 13 marzo 1974): Presidente, Rumor Mariano; Senza portafoglio, Gava Silvio (organizzazione della pubblica amministrazione), Corona Achille (ambiente), Ripamonti Camillo (beni culturali), Lupis Giuseppe (rapporti con l'ONU), Donat Cattin Carlo (Cassa per il Mezzogiorno), Gioia Giovanni (rapporti con il parlamento) Coppo Dionigi (enti vigilati dalla presidenza del consiglio), Toros Mario (regioni), Bucalossi Pietro (ricerca scientifica); Esteri, Moro Aldo; Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Zagari Mario; Bilancio e Programmazione, Economica, Giolitti Antonio; Finanze, Colombo Emilio; Tesoro, La Malfa Ugo; Difesa, Tanassi Mario; Pubblica Istruzione, Malfatti Franco Maria; Lavori Pubblici, Lauricella Salvatore; Agricoltura e Foreste, Ferrari Aggradi Marco; Trasporti e Aviazione Civile, Preti Luigi; Poste e Telecomunicazioni, Togni Giuseppe; Industria, Commercio e Artigianato, De Mita Ciriaco; Lavoro e Previdenza Sociale, Bertoldi Luigi; Commercio con l'Estero, Matteotti Gianmatteo; Marina Mercantile, Pieraccini Giovanni; Partecipazioni Statali, Gullotti Antonino; Sanità, Gui Luigi; Turismo e Spettacolo, Signorello Nicola.

14. - (14 marzo 1974 - 22 novembre 1974): Presidente, Rumor Mariano; Senza portafoglio, Gui Luigi (organizzazione della pubblica amministrazione), Lupis Giuseppe (ambiente e beni culturali), Mancini Giacomo (Mezzogiorno), Gioia Giovanni (rapporti col parlamento), Toros Mario (regioni), Pieraccini Giovanni (ricerca scientifica); Esteri, Moro Aldo; Interni, Taviani Paolo Emilio; Grazia e Giustizia, Zagari Mario; Bilancio, Giolitti Antonio; Finanze, Tanassi Mario; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Andreotti Giulio; Pubblica Istruzione, Malfatti Franco Maria; Lavori Pubblici, Lauricella Salvatore; Agricoltura e Foreste, Bisaglia Antonio; Trasporti e Aviazione Civile, Preti Luigi; Poste e Telecomunicazioni, Togni Giuseppe; Industria, Commercio e Artigianato, De Mita Ciriaco; Lavoro e Previdenza Sociale, Bertoldi Luigi; Commercio con l'Estero, Matteotti Gianmatteo; Marina Mercantile, Coppo Dionigi; Partecipazioni Statali, Gullotti Antonino; Sanità, Colombo Vittorino; Turismo e Spettacolo, Ripamonti Camillo.

15. - (23 novembre 1974 - 7 gennaio 1976); Presidente, Moro Aldo; Vicepresidente, La Malfa Ugo; Senza portafoglio, Pedini Mario (ricerca scientifica), Morlino Tommaso (regioni), Cossiga Francesco (problemi della pubblica amministrazione), Spadolini Giovanni (beni culturali unificati, con competenza anche per lo spettacolo; dal 23 dicembre 1974 titolare del nuovo ministero per i Beni culturali e ambientali); Esteri, Rumor Mariano; Interni, Gui Luigi; Grazia e Giustizia, Reale Oronzo; Bilancio, Programmazione Economica e Cassa per il Mezzogiorno, Andreotti Giulio; Finanze, Visentini Bruno; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Forlani Arnaldo; Pubblica Istruzione, Malfatti Franco Maria; Lavori Pubblici, Bucalossi Pietro; Agricoltura e Foreste, Marcora Giovanni; Trasporti e Aviazione Civile, Martinelli Mario; Poste e Telecomunicazioni, Orlando Giulio Cesare; Industria, Commercio e Artigianato, Donat Cattin Carlo; Lavoro e Previdenza Sociale, Toros Mario; Commercio con l'Estero, De Mita Ciriaco; Marina Mercantile, Gioia Giovanni; Partecipazioni Statali, Bisaglia Antonio; Sanità, Gullotti Antonino; Turismo, Sarti Adolfo.

16. - (11 febbraio 1976 - 28 luglio 1976): Presidente, Moro Aldo; Senza portafoglio, Morlino Tommaso (regioni); Esteri, Rumor Mariano; Interni, Cossiga Francesco; Grazia e Giustizia, Bonifacio Franco; Bilancio, Programmazione Economica e Cassa per il Mezzogiorno, Andreotti Giulio; Finanze, Stammati Gaetano; Tesoro, Colombo Emilio; Difesa, Forlani Arnaldo; Pubblica Istruzione, Malfatti Franco Maria; Lavori Pubblici, Gullotti Antonio; Agricoltura e Foreste, Marcora Giovanni; Trasporti e Aviazione Civile, Martinelli Mario; Poste e Telecomunicazioni, Orlando Giulio Cesare; Industria, Commercio e Artigianato, Donat Cattin Carlo; Lavoro e Previdenza Sociale, Toros Mario; Commercio con l'Estero, De Mita Ciriaco; Marina Mercantile, Gioia Giovannini; Partecipazioni Statali, Bisaglia Antonio; Sanità, Dal Falco Luciano; Turismo, Sarti Adolfo; Beni Culturali e Ambientali, Pedini Mario.

17. - (29 luglio 1976 - 16 gennaio 1978): Presidente, Andreotti Giulio; Senza portafoglio, De Mita Ciriaco (Mezzogiorno); Esteri, Forlani Arnaldo; Interni, Cossiga Francesco; Grazia e Giustizia, Bonifacio Franco; Bilancia e Regioni, Morlino Tommaso; Finanze, Pandolfi Filippo; Tesoro, Stammati Gaetano; Difesa, Lattanzio Vito (poi Ruffini Attilio); Pubblica Istruzione, Malfatti Franco Maria; Lavori pubblici, Gullotti Antonino; Agricoltura e Foreste, Marcora Giovanni; Trasporti e Aviazione Civile, Ruffini Attilio (poi Lattanzio Vito); Poste e Telecomunicazioni, Colombo Vittorino; Industria, Commercio e Artigianato, Donat Cattin Carlo; Lavoro e Previdenza Sociale, Anselmi Tina; Commercio con l'Estero, Ossola Rinaldo; Marina Mercantile, Fabbri Francesco (poi Lattanzio Vito); Partecipazioni Statali, Bisaglia Antonio; Sanità, Dal Falco Luciano; Turismo, Antoniozzi Dario; Beni Culturali e Ambientali, Pedini Mario.

18. - (dal 17 marzo 1978): presidente, Andreotti Giulio; Esteri, Forlani Arnaldo; Interni, Cossiga Francesco (poi Rognoni Virginio); Grazia e Giustizia, Bonifacio Francesco; Bilancio, Morlino Tommaso; Finanze, Malfatti Franco Maria; Tesoro, Pandolfi Filippo M.; Difesa, Ruffini Attilio; Pubblica Istruzione, Pedini Mario; Lavori Pubblici, Stammati Gaetano; Agricoltura, Marcora Giovanni; Trasporti e Marina mercantile, Colombo Vittorino; Poste, Gullotti Antonino; Industria, Donat Cattin Carlo; Lavoro, Scotti Vincenzo; Commercio Estero, Ossola Rinaldo; Partecipazioni statali, Bisaglia Antonio; Sanità, Anselmi Tina; Beni culturali, Antoniozzi Dario; Turismo e Spettacolo, Pastorino Carlo; Mezzogiorno, De Mita Ciriaco.

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Problemi economici e sindacali: U. La Malfa, La politica economica in Italia 1946-1962, Milano 1963; D. Horowitz, Il movimento sindacale in Italia, Bologna 1966; L'economia italiana 1945-1970, a cura di A. Graziani, ivi 1972; S. Turone, Storia del sindacato in Italia. 1943-1969, Bari 1973; N. Andreatta, Cronache di un'economia bloccata, Bologna 1973; R. Prodi, Sistema industriale e sviluppo economico in Italia, ivi 1973; A. Forbice, la federazione CGIL, CISL, UIL fra storia e cronaca, Verona 1973.

Lingua. - In quest'ultimo mezzo secolo l'italiano parlato si è diffuso largamente a spese dei dialetti, in particolar modo nelle grandi città. L'alfabetizzazione, più intensamente curata, la diffusione dei giornali e specialmente i grandi mezzi di comunicazione quali la radio e la televisione, operano in maniera massiccia, anche naturalmente nel diffondere l'italiano scritto. Basti ricordare appena qualche dato. Se ancora nei primi del Novecento la metà dei giovani non s'iscriveva alle scuole elementari, verso il 1950 la percentuale dei non iscritti era scesa a meno di un sesto, per quasi annullarsi ai nostri giorni; se, sempre all'inizio del secolo, la metà della popolazione poteva essere considerata analfabeta, verso il 1950 gli analfabeti erano circa il 10%, per scendere a circa il 5% nel 1975. Si tenga tuttavia conto di difformità impressionanti sia per quel che riguarda le zone urbane e quelle agricole, sia per quel che riguarda il Nord e il Sud: nel 1951 la percentuale degli analfabeti nei capoluoghi di provincia è del 7,46%, quella delle zone agricole del 18,17%; quella della Calabria è del 32%, quella della Lombardia è del 3% (T. De Mauro).

Naturalmente l'alfabetizzazione non può essere presa senz'altro come parametro di uso effettivo della lingua, ma certamente come indice di conoscenza di essa, magari piuttosto approssimativa. E l'estensione della scuola dell'obbligo a otto anni, per cui dall'anno scolastico 1963-1964 la scuola media inferiore diventa gratuita (mentre i libri della scuola elementare sono pagati dallo stato), ha come sicuro effetto il continuo, progressivo rafforzamento dell'uso sia della lingua parlata, sia della lingua scritta. I dati statistici della stampa sono equipollenti: ormai si può presumere che più dei due terzi della popolazione adulta venga raggiunta dal quotidiano o dal settimanale. È appunto dopo la seconda guerra mondiale che esplode il boom dei rotocalchi, della stampa femminile, dei giornali a fumetti, dei settimanali gialli e di fantascienza: tutti assolvono una funzione importante nella diffusione, anche in ambienti di modesta cultura, di una lingua modestamente comune. I grandi mezzi di comunicazione verbale e audiovisiva, dalla radio al cinema parlato, alla televisione, hanno avuto, specialmente quest'ultima, una diffusione enorme fra tutti gli strati della popolazione, in tutti gli ambienti sociali e regionali: fra le regioni e fra i vari ceti sociali sono assai limitate le differenze di ascolto e di visione radio-televisiva rispetto alla media nazionale, che per altro probabilmente supera il 90% della popolazione. Si tenga poi ben conto che tali mezzi di comunicazione superano il limite dell'analfabetismo proprio e quello assai più vasto dell'analfabetismo di ritorno.

Contemporaneamente, l'industrializzazione, che diviene rilevante specialmente dopo la seconda guerra mondiale, determina una gigantesca emigrazione dalle campagne e dai piccoli centri alle grandi città industriali, sradicando milioni di italiani dalle loro sedi secolari. Il dialetto, che era strumento linguistico sufficiente nelle comunità chiuse e stabili, non serve più: l'unica possibilità d'intendersi fra i vecchi e i nuovissimi cittadini è la lingua nazionale, sia pure in versioni più o meno provinciali.

L'urbanizzazione ha sconvolto cioè l'assetto secolare della società italiana anche da un punto di vista linguistico, avviando fortemente masse sempre più fitte di Italiani verso l'italiano comune. Il processo non è uniforme, ma varia da città a città, da regione a regione, a seconda della massa immigrante, della tradizione anche culturale del dialetto, dello stato linguistico della classe dirigente. Comunque, tale massiccio spostamento ha determinato appunto un doppio effetto, in quanto nei centri d'immigrazione i parlanti di antica tradizione sono costretti a intendersi con i nuovi sul piano dell'italiano comune, mentre i centri di emigrazione hanno perduto parlanti, risentendone la forza e la compattezza del dialetto.

La diffusione della lingua comune e il contemporaneo stemperarsi dei dialetti favoriscono l'affermazione delle varietà regionali dell'italiano, che risultano dall'adozione appunto della lingua comune attraverso una continua mediazione di elementi dialettali. In particolare, nelle varietà regionali dell'italiano parlato la realtà fonologica dei sottostanti dialetti è fortemente presente, anche perché, per secoli e secoli, la lingua comune ha assolto quasi soltanto la funzione di lingua scritta.

In Toscana la crisi si avverte di meno: tuttavia la sempre più forte diffusione della s sonora intervocalica, che si coglie anche a Firenze, può essere vista come azione dell'italiano parlato a livello letterario che tende a unificarsi appunto sulla s sonora intervocalica (se non anche come azione del tipo settentrionale di maggior prestigio). In Lombardia si diffondono largamente le occlusive sorde (t, k) in posizione intervocalica, in dialetti appunto ove erano soltanto le sonore (o il dileguo). Per quello che è della morfologia e della sintassi, in Sicilia, per es., in molti parlanti il passato composto prevale sul semplice, in altri quest'ultimo è tenacissimo, secondo l'uso dialettale, mentre larghissimo è l'uso delle reduplicazioni del tipo quando saremo vecchi vecchi e del gerundio del tipo non mi sta piacendo (F. Tropea); in Lombardia là dove era obbligatorio l'uso del pronome soggetto, si tende a conformarsi alla libertà dell'italiano comune. Il processo d'italianizzazione dei dialetti e il formarsi delle varietà regionali si colgono anche più evidentemente nel lessico: per es., a Roma, anche chi usa un vernacolo più tradizionale ha ormai sostituito addormisse, bricoccola, imbertà con addormentasse, arbicocca, intascà, e così via; in Piemonte, fratèl, sorèla, aqua rapidamente sopraffanno, anche nei dialetti delle zone montane,frèl, seuri, èva, e così via. In Sicilia asciari, bbadduzza, bbunaca, cattiva, custureri, maruggia, santiari, vengono ormai di regola sostituiti dagli equivalenti rispettivi truvari, purpetta ("polpetta"), giacca, vìdua ("vedova"), sartu, mànicu, bbistimiari.

Le varietà regionali fornite di maggior forza espansiva sono il romanesco e il tipo settentrionale (specialmente lombardo), per le ben note ragioni socio-culturali, com'è dimostrato dalla diffusione nazionale di parole romanesche (o meridionali ma di diffusione romanesca), quali cinematografaro, pataccaro, iella, abbuffarsi, borgata, beccamorto, caciara, fasullo, lagna, lenza, ciriola, padroncino, puzzone, sfondone, tardona, frocio; e di termini settentrionali, specialmente attraverso il commercio e l'industria, come fustella, spumone, scaldiglia, menabò, lavello (che sta soppiantando acquaio, lavabo e anche lavandino), insiemino, balera, barbone.

Bisogna tuttavia tener sempre ben presente che se l'apporto dei dialetti alla lingua comune è stato in questi ultimi decenni abbastanza rilevante, scarsissima è stata l'influenza dei dialetti sulla morfologia e sulla sintassi della lingua: l'uso più limitato del congiuntivo, l'ulteriore restrizione dell'uso del passato remoto possono essere soltanto parzialmente deferiti alle strutture di molti dialetti della penisola. Per di più, anche l'apporto lessicale non è certo tale da cambiare l'aspetto generale del lessico italiano, anche perché di solito le parole dialettali sono di ambito e di uso assai ristretto, diversamente dalle parole di origine straniera.

In conclusione, si può ben affermare che ancora meno di un secolo fa, anche per la maggior parte degli italiani colti, immersi nella realtà viva dei loro dialetti, l'italiano era specialmente la lingua letteraria della loro cultura scritta. Ora, sotto i nostri occhi, la lingua di un grande passato si apre a lingua popolare, sia pure attraverso un processo difficile, talora traumatico.

In quest'ultimo mezzo secolo, le lingue delle tecniche politiche, amministrative e finanziarie, che già avevano assunto tanto rilievo nel secolo scorso, e nei primi di questo, dilatano a dismisura la loro azione sulla lingua comune, proprio attraverso i grandi mezzi di comunicazione. Il linguaggio burocratico, sindacale, socio-economico, giuridico si diffonde con tutte le sue formule stereotipate, sia lessicali sia sintattiche.

Per altro, la stessa enorme fortuna di un termine o di un modo linguistico ne causa, in un secondo tempo, il rapido invecchiamento: "una sciagura è sempre agghiacciante; un tonfo è sempre sordo; l'arrivo o meglio l'intervento della polizia, tempestivo; il funzionario, solerte; l'operazione, brillante; l'evento, atroce e raccapricciante" (Dardano); e ancora: si verifica un incidente, con due auto coinvolte nel sinistro; una persona ha perso la vita, e altre due sono state ricoverate con prognosi riservata; le autorità, dopo una serie di rinvii, hanno deciso gravi provvedimenti contro il medico, da tempo al centro di polemiche; e tali provvedimenti avranno effetto immediato, e magari si giungerà ad associare alle carceri il colpevole, se intanto non si è reso irreperibile. Ciò accade nella cronaca cittadina, come in quella politica e in quella sportiva, nei discorsi sindacali come nella pubblicistica economica e scientifica, fin nella critica artistica e letteraria.

La continua ripetizione di formule sclerotizzate porta all'impoverimento standardizzante, al rifuggire dalle parole comuni e concrete, "come se fiaschi stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi" (Calvino), termini appunto che possono essere tradotti nel linguaggio burocratico-giornalistico rispettivamente in quantitativo di prodotti vinicoli, impianto termico, combustibile, recarsi, casualmente incorrere, essere a conoscenza. Come si è detto, procedimenti del genere sono propri già della lingua ufficiale e burocratica dell'Ottocento e di prima, ma ora investono in maniera travolgente le masse popolari, appunto attraverso i grandi mezzi di comunicazione.

Per altro verso, si assiste a un'enorme dilatazione del lessico per la continua derivazione nel vocabolario comune di termini scientifici e tecnici, appunto per il preminente prestigio della scienza e della tecnica nella vita moderna; anche tale processo è antichissimo, e già nel Settecento aveva assunto una vastità notevolissima, ma non comparabile con le dimensioni contemporanee. Si pensi allo sfruttamento quasi illimitato, proprio a rispondere alla proliferazione tecnica, di prefissi di tipo aero-, moto-, foto-, auto-, radio-, tele-, e così via. Si pensi all'uso generico e metaforico di termini quali immunizzare, diagnosi, sintonizzare, sterilizzare, terapia, salasso, referto, sindrome, capillare, quoziente, impatto, saturazione, equilibrio, pressione, dinamica, flusso, infiltrazione.

L'origine di molti dei citati prefissoidi e della maggior parte della terminologia scientifica è di origine anglosassone, più spesso americana: l'anglismo procede da tutti i punti dell'orizzonte della lingua italiana, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, per le note ragioni storiche. Oltre una gigantesca penetrazione di anglo-latinismi (del tipo acculturazione, pubbliche relazioni, colloquiale), imponente è l'accoglimento, a tutti i livelli, di parole anglosassoni, che ormai, insieme ad alcuni più vecchi francesismi, hanno costituito una nuova categoria grammaticale, definibile come "sostantivi che finiscono in consonante"; qualsiasi esemplificazione sarebbe insufficiente, per cui si citano appena jet, transistor, flipper, jeep, juke-box, blue-jeans, hostess, big, out, staff, gag, gap, boom, test, computer, pacemaker.

Data la differente struttura fonetica e grammaticale delle due lingue, particolarmente grave è il problema dell'adattamento, a meno che non si tratti di latinismi già in inglese. Per le parole del fondo anglosassone, alcune volte si ricorre al calco (call-girl in ragazza-squillo; fine-settimana che convive con week-end); più spesso si prende la parola di peso e si pronunzia secondo una gamma piuttosto vasta di approssimazioni, che sarà massima in ambienti di notevole cultura (baby-sitter, glamour), minima nel caso inverso (terminal, adoperato in Italia col valore di air-terminal). Del resto forme nominali, costruzioni sintattiche giustappositive, spesso di origine anglosassone, sono massicciamente usufruite dalla pubblicità e largamente ridiffuse: sapore-primavera, bagnoschiuma, cucinapranzo, modamaglia, cinturato Pirelli; mentre si divulgano, per altra strada, industria-chiave, bene-rifugio, impianto-pilota, terra-aria, testa-coda, e anche il tipo Brindate-Gancia (satireggiato da un umorista in Suicidatevi Breda), Votate socialista, camminate Pirelli, vestitevi giovane.

Si ricorda che proprio in relazione alla grande diffusione (già intorno alla prima guerra mondiale) di parole straniere in italiano, si ebbe nel periodo fascista una vera e propria lotta contro le forme esotiche, raggiungendo il massimo di violenza specialmente in seguito alle sanzioni economiche all'Italia, determinate dalla guerra in Etiopia. Nel quadro della lotta alle parole straniere, venne proibito il Lei, come forma allocutiva perché sentito (erroneamente) come riflesso della dominazione spagnuola ("femmineo, sgrammaticato, straniero"). L'azione antilei durò appena un quinquennio, per cui non si ottenne il risultato sperato, anzi fu accelerato il processo di crisi del voi, dato che la società moderna non può gradire una forma di cortesia, largamente connotata in senso classista; per contro si assiste oggi a una forte dilatazione dell'uso del tu. La lotta alle parole straniere nella maggior parte dei casi non ha avuto effetto; in molti casi tuttavia ne ha limitato l'espansione e ne ha diffuso equivalenti italiani, come nella terminologia dello sport più popolare in Italia (calcio, calcio d'angolo, rete, e così via).

La lingua letteraria riflette, naturalmente in maniera assai mediata, tutto quanto si è detto della lingua parlata e scritta comune. Così, per es., l'abbandono del lessico arcaizzante nella poesia è effetto non solo delle varie poetiche di tipo impressionistico e realistico, ma anche del sentimento di una lingua usata da masse sempre più larghe della popolazione, di una lingua cioè ben esistente al di fuori dei libri e dell'uso appunto letterario.

Per quello che è della prosa più propriamente letteraria, fra le due guerre domina la prosa d'arte, la "bella pagina", il "capitolo" dei rondisti, fitti di stilemi letterari (aggettivo che precede il sostantivo, procedimento ternario, allitterazione, lessico astratto e intellettualistico, sia pure in una sintassi sostanzialmente moderna); intanto, Pirandello giunge a una grande sveltezza di linguaggio teatrale, instaurando una tradizione di "parlato", che avrà largo seguito sia nel teatro sia nel cinema: si pensi ai fitti ammiccamenti del tipo debbo dirlo?, siamo giusti, ma vedete un po'! La nuova narrativa che si avvia verso il 1930, ponendo l'accento sempre più risolutamente sulla realtà morale e sociale della vita quotidiana, si spinge a soluzioni linguistiche e stilistiche medie e popolari: si affrontano i rapporti fra lingua e dialetti, con un'estrema serietà nei confronti della scrittura. Da una parte, si rifiuta il dialetto, sentito come la soluzione più ovvia nel tendere al popolare, ma anche come la più facile e magari la più evasiva, nella sua possibilità di giungere a una nuova arcadia; dall'altra parte, si vuole esprimere la natura e la realtà popolare in una continua opera di elaborazione linguistica delle radici appunto popolari del linguaggio. Il fatto è che c'è ormai (come si è visto) sempre più evidente un parametro popolare di lingua parlata (e non soltanto di dialetto), sia pure quanto mai incerto, oscillante, non omogeneo, a cui lo scrittore può, non certo immediatamente, riferirsi.

Le realizzazioni di una lingua umile e colloquiale, talora dimessa e trita, è senza dubbio di decisiva importanza e di effetto duraturo: la sintassi nominale s'impianta ormai a tutti i livelli della prosa italiana, mettendo in rilievo i sostantivi con i più vari procedimenti tecnici, dal porli a inizio di periodo, all'uso di con + sostantivo in funzione modale-associativa, mentre i verbi largamente appaiono nelle loro forme più invariabili (infinito, gerundio, participio). È opportuno ricordare, anche in questo rapido profilo, che già la parte più nuova del Notturno (1921) di D'Annunzio è strutturata in maniera assolutamente nominale. Lo sperimentalismo invece incardinato sulla mescidanza di dialetti, di lingue tecniche, di gergo, di forme letterarie, ha avuto (indipendentemente dalle sue intenzioni e dai suoi risultati) scarsa rilevanza sul farsi della lingua italiana contemporanea: "la rottura delle convenzioni linguistiche della società neocapitalista porta solo ad esperimenti tra gruppi di iniziati uniti da legami spesso precari" (Stussi). Del resto, negli articoli polemici di P. P. Pasolini, fra il dicembre 1964 e il febbraio 1965, si coglie assai bene il suo sentimento del "ritardo" delle sue esperienze prosastiche nei confronti appunto del tendere di tutta la situazione italiana verso un tipo linguistico comune e popolare.

In quest'ultimo mezzo secolo muore quasi di colpo la lingua della poesia come lingua speciale che si contrappone coscientemente nello stesso scrittore alla lingua della prosa. Com'è ben noto, ancora in Carducci e in D'Annunzio si colgono le forme e le parole che erano da secoli sentite come proprie della poesia (lunge, speme, beltà, alma, imago, gire, volea, saria, e così via). La sottile satira crepuscolare al linguaggio poetico tradizionale (per es., il porre in rima il meriggiar sonnolento con cera da pavimento, l'età passata con insalata, il cimitero pendulo fra i paschi con il pianto sopra i baffi maschi, citati in Altieri-Biagi), e la violenza verbale futuristica premettono ai più concreti risultati linguistici e stilistici della poesia dell'ultimo mezzo secolo, che tende, nel suo complesso, a immettere la realtà quotidiana, scarna ed essenziale, anche nella lirica di più alto respiro ("Addii, fischi nel buio, cenni, tosse / e sportelli abbassati...", di Montale). La presenza letteraria in Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo è certamente assai notevole (senza tuttavia arcaismi poetici), ma va giudicata in un contesto di parole-chiave tratte di solito dal lessico comune e giornaliero. Dopo la seconda guerra mondiale, lo studio calibrato della parola tenderà ad aprirsi verso forme più discorsive, per giungere ai migliori poemetti popolari di Pasolini incardinati su un vero e proprio recitato. Per contro, le soluzioni della neo-avanguardia, per quello che è della lingua, producono un linguaggio estremamente artificioso e convenzionale, con risultati purtuttavia notevoli nei collages di frasi fatte, di brani della conversazione, di lingua della pubblicità, punto estremo dell'assunzione alla letteratura del magma informale linguistico che ci assedia.

Per quello che è della situazione della lingua italiana sul piano più propriamente linguistico-territoriale, si ricorda che, in conseguenza dell'esito della seconda guerra mondiale, la massima parte degli abitanti di lingua italiana dell'Istria si rifugia in I.; massiccio il ritorno degl'italiani dalla Libia e dall'Africa Orientale. Soltanto in Somalia la lingua italiana conserva ancora qualche posizione di prestigio: vistoso è stato l'accogliemento di parole italiane nel somalo, divenuta lingua ufficiale dal 1973. Nell'ultimo mezzo secolo non poche parole italiane entrano in lingue straniere: fascismo, antifascismo, calchi vari su Duce; espresso, pizza, pizzeria, vespa, lambretta, antiprotone, tecneto, dolce vita.

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Letteratura. - Le soluzioni e le risposte dell'ultimo quindicennio rappresentano la maturazione delle discussioni e dei problemi che erano stati sollevati e si erano sviluppati nella seconda metà degli anni Cinquanta a partire dalla constatazione della crisi e del fallimento del neorealismo. In particolare permaneva quell'esigenza di contatto con la realtà, quel bisogno conoscitivo che si era manifestato nel dopoguerra e al quale il neorealismo aveva dato una risposta, più che inadeguata, errata. L'insofferenza per il codice retorico del neorealismo aveva dato vita a una situazione di ricerca di sbocchi operativi che si concretava in una prevalente attività polemica cui non corrispondeva un'adeguata capacità progettatrice. Le soluzioni proposte infatti muovevano o da un puro e semplice recupero di moduli già sfruttati e logori, o dalla rielaborazione di correttivi funzionali a una ripresa neorealistica.

Le riviste letterarie sostennero, in questo lavoro di ricerca e di analisi, un ruolo decisivo sia come banco di prova, come tribuna di dibattito e di chiarificazione di dati già acquisiti, sia come officina di sperimentazione aperta su materiali eterogenei.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta si assiste così a un tentativo di riorganizzazione della proposta letteraria legata alla tradizione colta novecentesca con il neoermetismo della Chimera (1954-55) e a un rilancio della poetica neorealista, attraverso l'eclettismo di La Situazione (1955-1961) e, attraverso un processo di chiarificazione e di definizione teorica del concetto di realismo, con Il Contemporaneo (1954-57; 1958-64). Una precisa individuazione del neorealismo come codice retorico analogo, seppure di segno rovesciato rispetto a quello del ventennio fascista, muove tuttavia la più decisa azione di Officina (1955-58; 1959) che, definendo in termini di neosperimentalismo il carattere della propria azione, indicava nella strada della ricerca la soluzione più corretta del problema, data l'impossibilità di accettare le formule precostituite legate alle dogmatiche certezze di una visione ideologica del mondo. Ma, se in questo senso Officina seppe effettivamente offrire un punto d'incontro e di confronto attivo con esperienze diverse ed eterogenee, non riuscì però a superare la fase della giustapposizione delle tendenze, cioè a compiere un'opera di organizzazione della cultura attraverso l'elaborazione di un progetto positivo a partire dal censimento e dalla registrazione dei più diversi contributi. In definitiva l'incompiutezza dell'esperienza di Officina fu il risultato del mancato riconoscimento della natura linguistica dell'operazione letteraria e quindi del livello al quale andava riferita l'elaborazione del concetto di realismo.

A questa prospettiva approda invece Nuova Corrente (fondata nel 1954) come risultato di una ricerca orientata fin dall'inizio verso il recupero dell'oggetto. Di fondamentale importanza appare infatti, in tal senso, il riferimento alla lezione di E. Pound che la rivista seppe dare con notevole anticipo, sin dal 1956, e la capacità di utilizzare, in forme duttili e articolate, le possibilità offerte dall'integrazione nel discorso "estetico" delle acquisizioni desunte da un vasto arco di metodi e dei loro campi di applicazione. Intorno alla scelta prevalentemente fenomenologica di Il Verri (1956) si raccoglieva e prendeva corpo, intanto, una delle tendenze più rappresentative della neoavanguardia volta al recupero del reale quale oggetto del processo linguistico, e impegnata in un'azione di ricostruzione consistente nell'individuazione della natura strutturale del "caos" che, come già in T. W. Adorno, l'arte nel mondo attuale ha il compito di introdurre nell'ordine.

Gli anni Sessanta sono caratterizzati dunque dalla prosecuzione di una ricerca già vivacemente avviata nel quinquennio precedente ma che si va progressivamente precisando nelle proprie ragioni, mentre sostituisce una forte spinta realizzatrice alle prevalenti intenzioni polemiche della prima fase. Viene oramai alla luce, e penetra problematicamente nelle coscienze, la natura strutturale della mutata situazione dell'arte nel paese e, di conseguenza, l'urgenza di cogliere e di analizzare le analogie con i processi che si svolgono parallelamente nel mondo occidentale. Dalla constatazione del cambiamento della struttura economica italiana da agricola a industriale, sia pure nel permanere di radicati squilibri tra zone, scaturiva la coscienza delle modificazioni che il fenomeno introduceva anche al livello della comunicazione. Un posto centrale occupano quindi, nei primi anni Sessanta, le discussioni sulla letteratura industriale e sull'alienazione e il dibattito sulla lingua, per quanto ancora in parte ipotecate dai residui dell'ideologismo ereditato dal neorealismo.

In questo quadro Il Menabò (1959-1967) svolge una funzione centrale di proposta e di stimolo. La distinzione tra un'assunzione del mondo industriale come oggetto, tema, contenuto e un'operazione di adeguamento linguistico alla nuova realtà prodotta dalla società neocapitalistica, era infatti già alla base del numero dedicato dal Menabò (1961, fasc. 4) al tema dei rapporti fra letteratura e industria. Allo stesso modo, sempre Il Menabò, indicava nell'alienazione il dato fondamentale della condizione umana nella società industriale, percepibile e rappresentabile, anche in questo caso, non come nuovo contenuto ma, al livello linguistico, come blocco della comunicazione, come "afasia dell'incomunicabilità". Toni più accesi ebbe la discussione sulla lingua, iniziata da un intervento di Vittorini il quale si volgeva contro la pretesa di ridurre l'intervento del fatto letterario a una pura operazione mimetica di registrazione della lingua parlata, nelle varianti del semplice parlato quotidiano o del dialetto e del gergo, precisando che solo nell'articolazione del discorso in figure consiste l'operatività specifica dell'espressione artistica e la possibilità di garantirne la funzione comunicativa. Il Menabò tentava inoltre una prima sistemazione storica del problema lingua-dialetto nella letteratura dell'I. del Novecento, individuando nell'utilizzazione del dialetto durante il ventennio un'implicita carica di demistificazione destinata a ridursi con il neorealismo, quando l'impiego dell'impasto dialettale era venuto di fatto a coincidere con una sorta di regionalismo meridionalista. La rottura di questo rapporto esclusivo tra utilizzazione del dialetto e questione meridionale cominciava invece a realizzarsi in una fase ancora in gestazione. A una periodizzazione analoga, ma riferita alla lingua in generale, e non solo al rapporto lingua-dialetto, aveva del resto già provveduto P. P. Pasolini (in Ulisse, 1956-57, fasc. XXIV-XXV) delineando un primo momento, con una lingua media di tipo manzoniano, un secondo momento, caratterizzato da una koiné risultante da un impasto generico interregionale, e un terzo momento neorealistico aspirante all'impiego mimetico di un parlato quotidiano ma sostanzialmente fermo al reimpiego della koiné. Qualche anno dopo anche Pasolini, tuttavia, registrava (Rinascita, 24 dicembre 1964) positivamente l'avvento di una lingua "tecnico-scientifica" che, non allineandosi alle stratificazioni precedenti, "si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all'interno dei linguaggi". Le affermazioni di Pasolini, con cui si salutava la nascita dell'italiano come "lingua nazionale", ebbero il merito di dare vita a un dibattito estremamente acceso e ricco di chiarimenti indubbiamente produttivi anche sul piano della sperimentazione. Un'estrema importanza inoltre ha rivestito, nel dibattito letterario degli anni Sessanta, la lettura e la diffusione degli scritti di G. Lukàcs e degli autori della scuola di Francoforte, come pure la sistemazione e la rilettura del corpus degli scritti gramsciani. Determinante è stato, per es., nel dibattito sul realismo svoltosi negli anni Cinquanta, un certo tipo di diffusione dell'opera di Lukàcs, limitata per molti anni alla traduzione degli scritti appartenenti alla fase più recente del suo pensiero, cioè al Lukàcs del materialismo dialettico inteso come fondamento dell'estetica, al Lukàcs del realismo socialista e della teoria del rispecchiamento; come per altro verso fondamentale è stata, nella formazione della neoavanguardia, la conoscenza dell'analisi dei rapporti arte-società in epoca di tardo-capitalismo permessa dalla diffusione delle opere di W. Benjamin e di T. W. Adorno. La situazione della produzione letteraria in versi nell'ultimo quindicennio affonda le sue radici nelle proposte e nelle esigenze manifestatesi negli anni Cinquanta, in particolare con l'esperienza di Officina. Molti elementi di confusione e di ambiguità erano infatti impliciti, nell'impegno sotteso al neosperimentalismo pasoliniano di Officina quale elemento di continuità, anziché di rottura, rispetto ai logori codici tardo-ermetici e neorealisti. L'assenza di una volontà di distacco totale degli istituti espressivi della poesia del dopoguerra comportava una forte limitazione del campo di ricerca e una sostanziale permanenza, al fondo di ogni dichiarazione programmatica di distruzione dei dogmi, di un'equivoca istanza di "impegno", collocato non più nel sostegno alle ideologie ufficiali, ma in una generica funzione conoscitiva. Tuttavia la volontà, chiaramente espressa, di ristabilire un contatto autentico con la realtà, cioè non modellato su schemi precostituiti, si muoveva nella direzione di quell'approfondimento del problema del realismo, che costituisce la richiesta più ricca di conseguenze della ricerca letteraria degli anni Sessanta. Tale istanza tuttavia era già presente per es. nella prefazione di L. Anceschi a un'antologia poetica dei primi anni Cinquanta (Linea lombarda, 1952), in cui si parlava appunto di "poetica degli oggetti" come di una linea che attraversa il Novecento a partire da G. Gozzano e da E. Pound.

Così, per la poesia, è possibile tracciare approssimativamente tre direzioni principali riferibili in primo luogo a modelli post-ermetici, in secondo luogo a una linea di oggettivismo antilirico e infine all'area della neoavanguardia.

Il clima post-ermetico, definibile attraverso un comune riferimento su cui impostare variazioni eclettiche di moduli stilistici in una molteplicità di direzioni eterogenee, manifesta negli anni Sessanta il proprio esaurimento. In questo senso lo sforzo di ricerca di nuove direzioni antiliriche, evidente per es. nelle più recenti poesie di E. Montale attraverso il ricorso a moduli satirico-epigrammatici, appare sostanzialmente fallito.

Così, all'ermetismo più o meno lineare di S. Solmi, di L. Sinisgalli, di M. Luzi, di P. Bigongiari, di A. Gatto, di L. De Libero, di V. Sereni, di A. Borlenghi, si affianca il prolungarsi del descrittivismo di L. Fallacara o del realismo impressionistico di S. Penna, o dell'intimismo di G. Caproni, l'emergere di una sorta di anticalligrafismo in chiave populista in C. Betocchi, il placarsi dell'ossessivo onirismo di L. Piccolo (in Plumelia). Quella volontà di rompere il metafisico isolamento dagli oggetti, che aveva costituito la cifra distintiva dell'ermetismo, già presente in molti degli autori già menzionati, continua a determinare l'immissione di significati civili, politici e sociali in una struttura che rimane fondamentalmente elegiaca, come avviene per es. nei versi di F. Fortini (Una volta per sempre; L'ospite ingrato; Questo muro).

Analogamente, dall'impiego di significati spostati sul piano dell'analisi della condizione umana colta non in un tempo metastorico ma nell'attualità del mondo contemporaneo, nasce la poesia di B. Cattafi (L'osso, l'anima; L'aria secca del fuoco), di G. Orelli (Nel cerchio familiare; L'ora del tempo).

Quanto alla linea che si è definita dell'oggettivismo antilirico va avvertito che essa si esprime al livello di tensione, di ricerca, cioè a un livello di sperimentalismo programmatico, piuttosto che al livello delle compiute realizzazioni. Si trattava d'intervenire su moduli letterari precostituiti, crepuscolari ed ermetici, alla luce di istanze mutuate dal neorealismo, alla ricerca cioè di un diverso contatto con la realtà. Nella varietà degli esiti questo è il punto di partenza comune per L. Erba (Il male minore), per G. Giudici (La vita in versi; Autobiologia), per G. Raboni (Il catalogo è questo; L'insalubrità dell'aria; Le case della Vetra; Festa romanorum; Economia della paura), per R. Crovi (Fariseo e pubblicano; Elogio del disertore), per N. Risi (Pensieri elementari; Dentro la sostanza; Di certe cose), per R. Roversi (Dopo Campoformio; La descrizione in atto). In questo senso va letta l'opera in versi di P. P. Pasolini (La religione del mio tempo; Poesia in forma di rosa; Trasumanar e organizzar), in cui però la volontà di recupero della realtà determina, al livello espressivo, una contraddizione di fondo tra moduli elegiaci e moduli discorsivo-raziocinanti d'ispirazione civile.

Un'impostazione del problema del realismo in termini linguistici, a partire da una considerazione dell'istituto linguistico come "mediazione tra poesia e cultura", è all'origine della produzione in versi della neoavanguardia (v. in questa App.) e di autori che battono vie affini, raggiunte attraverso un lavoro di elaborazione del tutto indipendente o più o meno correlato all'esperienza neoavanguardista.

Appartengono in vario modo a questa area influenzata dai procedimenti della neoavanguardia C. Villa (Il privilegio di esser vivi; Siamo esseri antichi), G. Musa (La notte artificiale; Berliner Mauer), C. Marsan (La condizione marginale), C. Vivaldi (Dettagli) e molti altri. Sul piano di una personalissima invenzione di uno stile comico-patetico, in cui l'utilizzazione del non-sense costituisce elemento strutturale, si collocano le Poesie della fine del mondo di A. Delfini. Da un lavoro di selezione dei materiali linguistici sulla base della mimesi dei procedimenti e dei messaggi dell'inconscio, nasce la più recente poesia di A. Zanzotto (IX Ecloghe; La beltà; Gli sguardi fatti e senhal; A che valse?). Analogamente appartata e costruita sull'originale piano d'invenzione "gnomico-metaforica" già sperimentato con La restituzione, nasce la produzione più recente di E. Cacciatore (Lo specchio e la trottola; Tutti i poteri).

Anche la situazione della narrativa italiana all'inizio degli anni Sessanta si muove nell'ambito di esigenze espresse negli anni immediatamente precedenti attraverso una serie di proposte e di esperienze estremamente significative. La pubblicazione del Metello di V. Pratolini aveva segnato, col dibattito che si era acceso sul romanzo, la crisi definitiva del neorealismo. Metello infatti, salutato da certi settori come esempio di un superamento del neorealismo nella direzione del realismo, aveva offerto l'occasione per un recupero di quella teoria dell'arte impegnata in senso immediatamente politico che aveva costituito il tema centrale, esplicito o latente, della problematica artistica dell'immediato dopoguerra. Battuta, nella formulazione zdanoviana, la teoria del realismo socialista, essa veniva ora riproposta in una versione che mutuava dall'ultimo Lukàcs la definizione del realismo come linea maestra di un'arte progressiva e positiva. Una simile risposta alla situazione della narrativa in I. non poteva che rivelarsi del tutto inadeguata al livello di consapevolezza critica effettivamente raggiunta nel campo della letteratura nel dopoguerra, in particolare attraverso le esperienze di C. Pavese ed E. Vittorini. Il tentativo di recupero della realtà, attuato da Pavese attraverso il rifiuto della storia e della ragione, e il riferimento all'essere, alla natura, al mito come ordine oggettivo universale, e da Vittorini attraverso un procedimento di generalizzazione del dato empirico in chiave allegorica, aveva infatti inequivocabilmente indicato alla narrativa italiana la strada da percorrere, nonostante le incertezze e i ritardi che avevano caratterizzato le stesse esperienze dei due scrittori. Dopo Pavese e Vittorini, insomma, fu chiaro che il problema del realismo in letteratura andava impostato come ricerca nella direzione dei livelli espressivi e non come reperimento di nuovi contenuti. È proprio in questo senso che va intesa la funzione storica della collana di narrativa i Gettoni diretta da E. Vittorini per Einaudi nel corso degli anni Cinquanta, non esente a sua volta da contraddizioni generate da una certa rigidezza astrattamente programmatica che insidiava talvolta le scelte dello scrittore. È comunque proprio a partire dallo "sperimentalismo" dei Gettoni che viene impostato il problema del realismo in letteratura come capacità di aderire non a nuovi dati ma a un rapporto nuovo con i dati, a un rapporto cioè fra "novità responsabile di linguaggio" e "novità specifica del tempo". La riprova della rispondenza di questa linea alla situazione culturale italiana si ha analizzando il destino di due romanzi, Il Gattopardo e Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, pubblicati quasi contemporaneamente alla fine degli anni Cinquanta. Mentre la pubblicazione in volume del Pasticciaccio di C. E. Gadda (uscito sin dal 1946 in rivista) apriva in I. una nuova fase della narrativa avviandola, per varie strade, a modi di sperimentazione antitradizionale, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa riproponeva, nella formula del romanzo storico, il vecchio modello naturalistico. Proprio a questo carattere dell'opera, apparsa in un momento cruciale dell'elaborazione letteraria in I., vanno riportati i termini reali di una polemica che vide divisa la cultura italiana, in apparenza sulla valutazione del romanzo, ma in effetti sullo sviluppo e gli esiti futuri della narrativa.

La reale portata della polemica su Il Gattopardo è confermata dal gran numero di inchieste sul romanzo che vennero svolte in quegli anni da numerosi periodici (da Ulisse a Il paese, Nuovi Argomenti, Il Verri, ecc.) in cui, e sarà questa la caratteristica del dibattito letterario degli anni Sessanta, il progetto e la proposta positiva prevalevano ormai sulla critica distruttiva. Indubbiamente anche questa accesa discussione sul genere romanzo svolse un suo ruolo nel determinare quella serie di movimenti volti in tre principali direzioni che caratterizza la produzione narrativa italiana nell'ultimo quindicennio.

Si assiste infatti in primo luogo a un tentativo di recupero della forma classica del romanzo ottocentesco fondato sul nesso personaggio-vicenda, nelle diverse ma affini articolazioni del racconto tradizionale basato sul personaggio quale tramite per il ritratto sociale contemporaneo, o del romanzo storico. Queste forme, che come si è detto rappresentano sostanzialmente un prolungamento e un recupero dell'oggettivismo ottocentesco, vengono in genere riproposte in una rielaborazione che alterna la rappresentazione diretta alla rappresentazione mediata attraverso la memoria, o il monologo interiore. Il tema dell'infanzia, il paesaggio interiore, l'espressione contraddittoria di una realtà ambigua, a due dimensioni difficilmente conciliabili, spesso risolta nella facile formula del contrasto tra storia e individuo, tra sentimento e ideologia, appaiono i percorsi obbligati di gran parte della narrativa degli anni Sessanta, nata sulla crisi del neorealismo e risolta spesso in un moralismo di maniera o in una sorta di descrittivismo esemplificativo.

In questo senso, pur nella diversità dei tentativi, vanno ricordati A. Barolini, per la ripresa di un gusto psicologistico (Una lunga pazzia; La memoria di Stefano), P. M. Pasinetti (Rosso veneziano; Il ponte dell'Accademia) e F. Cialente (Ballata levantina; Un inverno freddissimo; Interno con figure) per il tentativo di rappresentazione al livello analitico di contrasti storici e sociali, L. Santucci (Il velocifero; Orfeo in paradiso; Non sparate sui narcisi) per una riduzione bozzettistica del modulo narrativo di stampo naturalista; M. Pomilio (La compromissione; Il quinto evangelio) e G. Saviane (Il passo lungo; Il mare verticale) volti in vario modo all'indagine sul tema delle angosce esistenziali, in parte individuabili anche nell'ultimo Parise (Il crematorio di vienna; Sillabario n. 1), interessato a una contrapposizione tra biologia ed etica. Il tema del sesso, ma rappresentato in termini sdrammatizzati di recupero oggettivizzato o di nevrosi, è al centro della narrativa di E. Siciliano con Racconti ambigui e Rosa (pazza e disperata) e D. Bellezza (Lettera da Sodoma; Il carnefice). Residui di un tipico realismo meridionalista ispirano in vario modo le pagine di M. Prisco (La dama di piazza; Una spirale di nebbia) complicate da sottili analisi psicologiche, di S. Strati (Mani vuote; Il nodo), di C. Bernari (Era l'anno del sole quieto) già più inquieto e volto alla sperimentazione di soluzioni stilistiche mutuate dal romanzo-saggio (Un foro nel parabrezza). I moduli di un realismo complicato dal presentimento di irresolubili ambiguità danno vita all'opera di F. Tomizza (da Materada a La miglior vita) e di N. Palumbo (Le giornate lunghe; Il treno della speranza), mentre una ricerca di oggettività depurata dal lirismo è alla base dei romanzi di M. Cancogni (Il ritorno), e di A. Benedetti (Il Passo dei Longobardi).

Un superamento del neorealismo si realizza in L. Romano (La penombra che abbiamo attraversato; Le parole tra noi leggere), in R. Rosso (La dura spina), in A. Vigevani (Un certo Ramondès; Fata morgana) con il ricorso al romanzo d'analisi variamente articolato, dalla mimesi del procedimento psicoanalitico allo scontro sottile della sensibilità adolescenziale con le ossessioni della realtà adulta e con le ambiguità della coscienza. Nella direzione del romanzo psicoanalitico si è avviato in particolare G. Berto con Il male oscuro (1964), sostenuto dall'impiego di una sorta di monologo interiore le cui possibilità di disarticolazione del reale s'infrangono tuttavia sull'affiorare di una sorta di tesi mascherata rapportabile al tema dello scontro ideale fra generazioni.

La storia di una generazione, quella tra fascismo e resistenza, è invece sottesa all'ispirazione sostanzialmente autobiografica di N. Ginzburg (Lessico famigliare; Le piccole virtù) e l'autobiografismo sia pure meno esibito ispira anche le pagine di G. Bassani (Il giardino dei Finzi Contini; L'airone) arricchite da un'intenzione polemica di denuncia e di condanna. Una volontà di diseroicizzazione, in polemica con la retorica esemplare degl'intrecci neorealisti, determina l'opzione di C. Cassola per un mondo umile, dimesso, quotidiano (La ragazza di Bube; Un cuore arido); che si trasforma però rapidamente nel recupero di un bozzettismo minore costantemente insidiato da uno stereotipato intimismo e da un sentimentalismo moralistico (L'antagonista). Allo stesso modo, ma con un maggiore carico di patetico, si risolve l'ambiziosa costruzione di E. Morante (La storia), in cui il tentativo d'introdurre più piani narrativi non riscatta la ripetitività di una trama basata su un tardivo recupero del tema del conflitto storia-individuo esemplato sul motivo topico della guerra e della resistenza viste sullo sfondo di un destino individuale. Eclettiche le scelte di G. Arpino che, superato un facile schema neorealistico, ha tentato prima la formula della denuncia, nel romanzo di costume (Un delitto d'onore) o nel racconto più direttamente impegnato in senso etico-sociale (Una nuvola d'ira), per passare poi al modulo del romanzo di analisi nella versione più aggiornata dell'angoscia, dell'ossessione, della nevrosi (Un'anima persa; Il buio e il miele). Incerto tra il recupero dello schema neorealista che aveva dato vita a Metello, rilevabile in La costanza della ragione, e il superamento di questo impianto narrativo sentito ormai come insufficiente a riflettere i dati di una realtà non più percepibile direttamente se non nei suoi aspetti più immediati e superficiali, appare V. Pratolini. Gli ultimi due volumi (Lo scialo; Allegoria e derisione) della trilogia dal titolo Una storia italiana, appaiono infatti fortemente orientati verso l'impiego di moduli espressivi tipici di un certo tipo di romanzo di analisi caratterizzato in particolare dall'iterazione ossessiva del monologo interiore.

La nuova impostazione del problema del realismo, inteso non più come riflesso fotografico dell'apparenza degli oggetti ma come recupero di un diverso rapporto con i dati dell'esperienza, quale scaturiva in sostanza dal lavoro di Pavese e di Vittorini, ha dato invece origine a una sorta di "sperimentalismo" di notevole importanza, non tanto nei suoi frutti immediati, di valore eterogeneo, quanto nelle conseguenze, e cioè nella ricchezza delle strade e delle proposte operative che implicitamente contribuiva ad aprire e a sviluppare. In questo senso, e cioè come volontà di superare il blocco dei significati trasferendoli su un piano di desuetudine che ne consenta una nuova articolazione, va letta la ripresa dell'opzione per lo schema favolistico compiuta da I. Calvino con le Cosmicomiche e con Ti con zero, dopo una serie di tentativi orientati verso un recupero diretto dell'oggetto. Anche La giornata di uno scrutatore infatti, che rappresenta per un altro verso il punto di arrivo del versante "saggistico" della narrativa di Calvino, tende ormai a superare la semplice espressione di un giudizio critico sulla società reso nei termini polemici della denuncia esplicita e circostanziata, e appare invece il risultato di un lavoro di violenta deformazione del dato reale resa funzionale all'introduzione del tema ormai topico della crisi delle ideologie.

Un diverso tipo di deformazione, volta a un'operazione mimetica condotta attraverso un'alterazione esclusivamente linguistica del reale, dà origine alla narrativa di L. Bianciardi (La vita agra) e, ancora più coerentemente, all'opera di L. Mastronardi (Il calzolaio di Vigevano; Il maestro di Vigevano) con il quale ci si trova già su un versante che confina con le opzioni della neoavanguardia.

A un'operazione narrativa basata su una manipolazione dell'istituto linguistico s'ispirano in vario modo anche G. Testori (Il fabbricone e i più recenti La cattedrale e Passio letitiae et felicitatis) e S. D'Arrigo (Orcynus Orca), ma in ambedue i casi si tratta di uno sfruttamento in direzione fondamentalmente anti-mimetica, e cioè di un'elaborazione di un gergo astratto e decorativo.

La volontà di aprire le strutture narrative, liberandole dal condizionamento di uno schema precostituito, giustifica le diverse esperienze presenti nel lavoro di R. La Capria (Ferito a morte; Amore e psiche) e di O. Del Buono (Facile da usare; La terza persona) unificate da un comune riferimento alle tecniche del nouveau roman in un tentativo di oggettivazione ottenuta attraverso l'impersonalità della registrazione.

All'utilizzazione delle possibilità implicite nell'impiego di una sintassi deformata come filtro narrativo funzionale alla resa di diversa articolazione del reale, ricorre P. Volponi (Memoriale; La macchina mondiale; Corporale). Produttivo di un'analoga deformazione, rivelatrice di un diverso volto degli oggetti, è l'humour grottesco di A. Frassineti mosso da un fondo di moralismo che non di rado ricorre a veri e propri moduli satirici (Un capitano a riposo; Il tubo e il cubo; Tre bestemmie uguali e distinte). Appartiene alla stessa matrice, critica nei confronti dei facili contenuti della retorica neorealista, un secondo versante di quello "sperimentalismo" che trova le sue radici più profonde nell'esperienza dei Gettoni. Qui il documento, articolato in un ampio arco di possibilità, ma inteso come contatto diretto, depurato dagli schemi, con il dato reale, domina l'orizzonte delle scelte. Si ha così il rilancio dell'autobiografia come recupero di un grado minimo della realtà sufficiente, secondo la definizione di Vittorini, ad "affermare i colori di un'epoca, di un anno, di una stagione", in opere in cui il dato dell'esperienza viene in vario grado rielaborato, con M. Cancogni (La linea del Tomori), M. Tobino (Il clandestino), P. Levi (La tregua), S. Ceccherini (La traduzione). A un tentativo di trasferire la materia autobiografica nei moduli di una cronistoria secca e asciutta di eventi privati colti sullo sfondo della storia recente, corrisponde l'esperienza narrativa di B. Fenoglio (Un giorno di fuoco; Il partigiano Johnny; La paga del sabato). O. Ottieri, L. Davì, G. Bufalari, G. Pirelli documentano invece in vario modo i riflessi indotti nelle esistenze individuali dalle trasformazioni strutturali della società italiana del dopoguerra, la dispersione dei valori della civiltà contadina e l'alienazione della vita di fabbrica.

Un diverso modo di registrazione della realtà in cui lo scrittore limita il proprio intervento alla semplice scelta della materia, dà vita all'opera di D. Montaldi (Autobiografie della leggéra; Militanti politici di base) che s'impianta originalmente su un filone già vivo nei racconti-inchiesta negli anni Cinquanta (si pensi ai saggi di D. Dolci, a I minatori della Maremma di Bianciardi e Cassola, a Operai del Nord di E. Vallini, e più ancora a Contadini del sud di R. Scotellaro). Da Scotellaro Montaldi assume la tecnica della trascrizione del racconto orale, ma volgendosi in modo del tutto innovatore agli strati emarginati del mondo rurale settentrionale, gli strati subalterni agrari e gli strati sottoproletari della città. In questo senso l'opera di Montaldi riveste un valore esemplare e un ruolo di fondamentale importanza nella direzione di una definizione esatta del problema, oggi attualissimo, della cosiddetta "Letteratura selvaggia", da recuperare non come mimesi colta di modi stilistici o di contenuti "bassi", ma come allargamento dell'area della letteratura scritta nella riconsiderazione di ruoli e di processi di elaborazione inerenti a una funzione di fabulazione propria di culture orali, intesi come perduti ma ancora vivi nel cuore dell'emarginazione, laddove cioè "la mancata assimilazione ha favorito il mantenimento di tutte le forme di vita e gli atteggiamenti relativi e le mitologie tradizionali dell'ambiente".

Riconducibile alla stessa matrice di "sperimentalismo" realistico è il filone che si potrebbe definire quale "saggismo di denuncia", in cui la rappresentazione dei rapporti tra istituzioni e individuo viene affrontata con una lucida volontà classificatoria ispirata a una sorta di razionalismo di matrice illuministica, come avviene nell'opera di L. Sciascia (Il giorno della civetta; Il consiglio d'Egitto; Il contesto). Un caso a parte è dato dalla narrativa di A. Moravia che nei romanzi più recenti (tra cui La noia; L'attenzione; Io e lui; La vita interiore) tenta di attuare una conciliazione tra moduli stilistici propri della tradizione del realismo ottocentesco e una materia aggiornata riferibile in vario modo alla "fenomenologia della crisi".

Un terzo filone individuabile nella produzione narrativa dell'ultimo quindicennio nasce da un ulteriore approfondimento del problema del realismo, cioè da una "riduzione della realtà al grado zero" e da una sua emancipazione dalla falsificazione della storia, dei suoi valori e dei suoi significati. Di qui il concentrarsi di questa narrativa sull'elaborazione di adeguati mezzi espressivi e il suo articolarsi in strutture aperte, la sua capacità di reperire e inglobare materiali eterogenei, a partire dall'impiego della lingua, che va colto esattamente a questo livello, cioè come materiale e non nella sua funzione comunicativa. Un ruolo di fondamentale importanza per il sorgere e lo svilupparsi di questo indirizzo narrativo, in cui la neoavanguardia occupa un posto di primo piano, ha avuto l'opera di C. E. Gadda non solo con la pubblicazione in volume del Pasticciaccio (1958), ma con La cognizione del dolore e La Meccanica.

A un certo tipo di "realismo informale" è da ricollegarsi anche l'eccezionale esperienza di A. Pizzuto che, da una situazione di totale isolamento, si è mosso proprio nella direzione di uno scardinamento degl'istituti formali e di un'atomizzazione del tessuto narrativo che giunge fino all'elaborazione, nelle sue opere più recenti, di una sintassi nominale dominata dall'abolizione della distinzione tra nome e verbo (Sinfonia; Testamento; Pagelle). E all'informale, sia pure raggiunto per vie diversissime, è approdato in una certa misura anche l'ultimo Landolfi (Rien va; Racconti impossibili; Des mois) attraverso l'impiego ossessivo del dialogo nutrito di un linguaggio volutamente artificioso utilizzato come veicolo di una disintegrazione delle residue strutture narrative. Gli strumenti per l'attuazione di quelle strutture aperte postulate dalla corrente che si può definire per comodità del "realismo informale", vengono reperiti in varia misura nell'impiego dei procedimenti di destrutturazione logica e linguistica tipica del sogno, della "anormalità" psichica o dell'emarginazione (si pensi per tutti alla narrativa di G. Celati, con Comiche e Avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri); oppure, al livello linguistico, attraverso le combinazioni di dialetto e lingua e la deformazione sintattica, come avviene in S. Bruno, T. Guerra, S. vassalli, L. Malerba; o ancora al livello dell'accumulazione proliferante di materiali eterogenei, come in primo luogo avviene nello sfruttamento delle possibilità derivanti dalla mescolanza degli stili (si pensi a F. Leonetti con Conoscenza per errore; L'incompleto; Tappeto volante).

Durante gli anni Sessanta l'attività critica in I. amplia sensibilmente l'arco delle proprie prospettive metodologiche grazie all'utilizzazione e all'approfondimento di singole discipline e metodi di ricerca colti spesso in una dimensione interdisciplinare. Il vecchio tronco della critica idealistico-storicista, che nell'immediato dopoguerra aveva lavorato a un innesto di Gramsci su Croce allo scopo di recuperare una continuità fino a De Sanctis, si frammenta in varie direzioni. Emerge da questo processo uno dei filoni della critica sociologica più direttamente legato al marxismo e soggetto in particolare all'influenza dell'ultimo Lukàcs; ma più fecondo appare il tentativo recentemente compiuto di recuperare Gramsci nella direzione della sociologia della letteratura, cioè nell'analisi delle implicazioni sociali, "produzione, circolazione, consumo", dell'opera. Comunque di gran lunga più importante appare l'influenza esercitata dagli scritti di W. Benjamin e degli autori della scuola di Francoforte (T. W. Adorno in particolare) nell'orientare in direzione prevalentemente anti-lukacsiana una serie di ricerche che, grazie alla ricchezza delle implicazioni contenute in questa area, escono dall'ambito della critica sociologica in senso stretto.

L'utilizzazione dei moduli offerti dalla psicanalisi, dopo un periodo d'iniziale diffidenza per i rischi "contenutistici" impliciti in un'assunzione in chiave tematica di questa disciplina, conosce oggi un certo risveglio d'interesse grazie a una lettura in senso semiologico, tale da consentire un confronto tra il linguaggio della letteratura e il linguaggio dell'inconscio. È anche probabile che un certo sviluppo della critica simbolica, che si è avuto in I. negli anni più recenti, sia da attribuirsi più all'influenza della psicanalisi, attraverso la lettura di C. G. Jung e degli storici delle religioni di area junghiana come K. Kerényi e di area fenomenologica come M. Eliade, che alla diffusione della critica archetipica nord-americana o della critica tematica francese.

Ma il settore della critica che appare destinato a un più ampio e originale sviluppo è quello influenzato da altre discipline come la semiologia, lo strutturalismo e la linguistica, e dalla conoscenza della critica formalista, passata in I. più attraverso le opere dei formalisti russi che tramite gli scritti del New criticism nord-americano.

Anche in questo settore tuttavia non ha mancato di manifestarsi, talora negativamente, quell'elemento di continuità con la tradizione culturale che già aveva caratterizzato nel periodo precedente l'incontro del marxismo con lo storicismo desanctisiano e crociano. Ricompare cioè, anche nella critica strutturalista, semiologica, formalista, l'assillo dello storicismo, il problema del rapporto tra opera e storia visto non più come "reperibile in forma immediata, spontanea nell'opera d'arte" ma mediato in modo che "gli ideali e i contenuti pragmatici del momento storico sono modulati in termini di letterarietà o di artisticità". Comunque un dato evidenziabile attraverso l'analisi della più recente produzione critica in questo settore è quello del progressivo distacco dai modelli, cioè di una progressiva acquisizione di autonomia dalle fonti e di una crescente capacità d'interpretarle e di portare nella discussione e nella definizione dei metodi contributi e apporti originali al livello internazionale.

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Critica: G. Della Volpe, Critica del gusto, Milano 1960; G. L. Beccaria, Ritmo e melodia nella prosa italiana, Firenze 1964; Autori vari, strutturalismo e critica, a cura di C. Segre, Milano 1965; L. Rosiello, Struttura, uso e funzioni della lingua, Firenze 1965; M. David, la psicanalisi nella cultura italiana, Torino 1966; id., Letteratura e psicanalisi, Milano 1967; A. Guiducci, Dallo zdanovismo allo strutturalismo, ivi 1967; M. Pagnini, Struttura letteraria e metodo critico, Messina-Firenze 1967; E. Raimondi, Tecniche della critica letteraria, Torino 1967; U. Eco, La struttura assente, Milano 1968; F. Jesi, Letteratura e mito, Torino 1968; C. Segre, I segni e la critica, ivi 1969; M. Corti, Metodi e fantasmi, Milano 1969; L. Baldacci, I critici italiani del Novecento, ivi 1969; G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino 1970; M. Pagnini, Critica della funzionalità, ivi 1970; I metodi attuali della critica in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Roma 1970; La critica forma caratteristica della civiltà moderna, a cura di V. Branca, Firenze 1970; D. S. Avalle, L'analisi letteraria in Italia, Milano-Napoli 1970; Sociologia della letteratura, a cura di G. Pagliano Ungari, Bologna 1972; F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino 1973; C. Segre, Le strutture e il tempo, ivi 1974; E. Raimondi, L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975; U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano 1975; Attualità della retorica, Atti del I Convegno italo-tedesco (Bressanone 1973), Padova 1975.

Arti figurative. - Pittura. - Alla data del 1960 l'itinerario creativo dei protagonisti delle vicende dell'arte in I. nella prima metà del secolo poteva considerarsi concluso da tempo, salvo qualche rara eccezione; e della eredità culturale, ovviamente molto composita, che quei maestri lasciavano, la parte più vivace e stimolante, nei confronti delle tendenze nuove, appariva il contributo che essi avevano dato all'avanguardia storica. Il futurismo, la metafisica, il dadaismo, l'astrattismo milanese degli anni Trenta, che l'azione di Lucio Fontana verrà prolungando verso nuove ipotesi affascinanti, costituiscono in tal modo la tradizione recente cui attingere. Anche la critica contribuiva a chiarire sempre meglio la posizione degli innovatori e degli anticipatori, compiendo altresì opportune indagini su personalità non ancora esplorate nella pienezza delle loro ricerche molteplici e cariche di avvenire.

Per il futurismo è abbastanza recente la riscoperta di G. Balla (1871-1958) nella intera fecondità della sua inventiva in tanti campi e tanto diversi; e anche più lo è quella di F. Depero (1892-1960) venuto in luce con la ricognizione di tutto il movimento futurista, non soltanto del futurismo degli anni "eroici" e dei famosi firmatari dei primi manifesti. Lo stesso E. Prampolini (1894-1956) riceve un'agnizione equa, e abbastanza tardiva, del contributo originale di riflessione critica e di estensione con cui aveva arricchito tempestivamente i temi formali dell'astrattismo europeo; e analogo riconoscimento toccherà a due dei nostri artisti più geniali, tuttora operanti nel campo del neoplasticismo e del formalismo più rigoroso: M. Reggiani (1897) e M. Radice (1900). La ripresa in esame delle origini dell'astrattismo in Italia riporta l'attenzione debita su A. Soldati (1896-1953) e su O. Licini (1894-1958) che pure fino dal 1930, elaborando insieme con Fontana, e con lo scultore F. Melotti e con altri le ragioni profonde dell'avanguardia, avevano gettato le premesse lontane per il rinnovamento dell'arte nel secondo dopoguerra. E quanto all'area della metafisica e del surrealismo - della quale anche Soldati e Licini parteciparono - appena oggi si può dire che cominci a rivelarsi integralmente il peso di A. Savinio (1891-1952) nella storia della mitografia contemporanea: sia come espressione di una visionarietà metamorfica, autonoma rispetto al magistero di De Chirico, sia come precorrimento di quella figuralità nuova, immaginosa e mostruosa, che non è tuttavia definibile come strettamente surreale nell'accezione storicizzata dell'attributo. Dal riesame del futurismo - specie dell'ottica di Balla e di Boccioni - l'indagine, degli artisti come degli studiosi, risale quindi a precedenti impostazioni del problema della luce e della percezione visiva, dei rapporti tra arte e scienza e tra arte e produzione industriale; e pertanto si recuperano, con sensibili mutazioni delle vecchie prospettive storiografiche, tanto il divisionismo quanto il liberty con tutta la loro complessa problematica morale e sociale. Mentre si saldano così gli anelli di un'evoluzione che per l'innanzi sembrava aver proceduto con intervalli ampi d'inerzia, tramonta definitivamente la polemica tra rappresentatività e astrazione, o tra natura e idea come si diceva una volta. La questione ora non è più di sapere se l'arte sia una mimesi o una creazione ex nihilo, o se la sua tradizionale organicità non possa essere anche risolta o dissolta nella "forma informe"; ma se l'arte abbia ancora un senso nel mondo di oggi, o se non sia invece destinata a scomparire per lasciare il posto ad altre manifestazioni dell'esteticità. Da ciò, naturalmente, una pluralità e vitalità straordinarie di orientamenti e di esperienze, di opere e di progetti.

Quando nel 1965 muore M. Mafai, al termine di un'angosciosa, insoddisfatta e insoddisfacente crisi "informale", il suo caso diventa quasi l'esponente di un disagio, che proprio allora cominciava a delinearsi nelle coscienze, e sarà poi sempre maggiormente avvertito e diffuso: un bisogno di interrogarsi sulla natura e l'ufficio dell'arte; di compiere analisi e verifiche degli strumenti linguistici, tanto di quelli ritenuti tradizionalmente specifici alle arti singole (già posti in discussione dal primo futurismo) quanto degli altri che sempre più numerosi vengono messi a disposizione dell'esperienza artistica dalla tecnologia e sono sollecitati dall'urgenza - tuttavia non chiarita - di nuove possibilità di comunicazione culturale; e una tendenza a considerare l'artista non già come un creatore individuale di forme (ché non sarebbero gli uomini a far la storia, ma le idee) sibbene un "operatore", un tecnico impegnato nella realizzazione di una cultura "proletaria", senza però che muti sostanzialmente il carattere personalistico - pertanto evasivo, quanto alle responsabilità sociali - sia delle indagini di laboratorio che dei risultati (v. oltre, La ricerca estetica).

Nel 1968 muore L. Fontana; all'inizio degli anni Settanta, rispettivamente nel 1971 e nel 1972, A. Magnelli e G. Capogrossi. Magnelli aveva realizzato composizioni assolutamente astratte fino dal 1915, con intuizioni analoghe e contemporanee a quelle di Kandinsky, di van Doesburg, di Moholy-Nagy, di Delaunay, ma ricollegando la "concezione architettonica del quadro" - come egli stesso diceva - alla razionalità dei toscani del Quattrocento (Piero della Francesca), e senza esercitare - al pari di Prampolini e di Reggiani - un peso effettivo sullo svolgimento dell'arte italiana. Capogrossi, al contrario, era giunto tardi alla pittura di segno, abbandonando bruscamente, poco prima del 1950, la figuralità e il tonalismo della scuola romana per tentare la possibilità di una terza via, tra la figuratività e l'astrazione, proliferando il suo notissimo segno, ripetuto ma sempre diverso, e analogo in certo modo alla parola, che sempre muta di significato quando è vissuta e dunque incessantemente ricreata (la ricerca di Capogrossi - accostabile nelle intenzioni al segno-gesto, ai "buchi", ai "tagli", negativi ma tuttavia conoscitivi, di Fontana - si pone contemporaneamente alla divulgazione delle analisi strutturalistiche e semantiche del linguaggio).

Naturalmente, negli anni Sessanta è da registrare l'attività di pittori, d'altronde ben conosciuti, i quali proseguono un discorso diverso, e chiaramente avviato in anni antecedenti, ma portato avanti con nuovi sviluppi: come F. Pirandello (1899-1975) che posto fin dall'esordio, lucidamente, il suo problema in termini dialettici, di sensualità sanguigna che si oggettiva con impeto e di raziocinio che quell'impeto contempla e critica, ci darà immagini sempre più allucinate e rifratte, colme di angoscia esistenzialistica. O come C. Cagli (1910-1976) che nel suo percorso avventuroso - unitario malgrado la molteplicità delle ipotesi e pertanto l'apparente eclettismo - allinea una serie incredibile di esperienze, dalla figurazione più patente e classicheggiante all'astrazione, sempre ricercando accanitamente il senso del primordio, e perciò una verità umana, col far tesoro delle fonti più disparate di cultura antica, barbarica e popolare (in analoga posizione ideale, il sentimento del mito nella scultura di Mirko). Avevano partecipato entrambi, Pirandello e Cagli, in gioventú, alla posizione antinovecentista della cosiddetta "scuola romana" del Trenta, che non era stata mai una vera "scuola" ma un incontro di idee, e prima di tutto un movimento di indipendenza morale, come il coevo gruppo milanese di Corrente. E in quella scuola, o piuttosto in quella cerchia, avevano compiuto i primi passi anche Capogrossi, e Afro e Guttuso e Gentilini ed altri. R. Guttuso (1912) sviluppa il suo realismo di narratore "impegnato", che si vale di un disegno energico a grandi falcate e spezzature di linea, e di un cromatismo appassionato e aggressivo, penetrando la realtà per conoscerla fino in fondo, modificarla ed esserne modificato. La sua pittura, che ambisce a farsi "di storia", o almeno di cronaca in funzione di una sollecitudine responsabile per il destino dell'uomo, sfocia nella concretezza vitalistica, nella violenza percettiva e perfino, diremmo, nella provocazione dei grandi dipinti La "Vuccirìa" (1975) e Caffè Greco (1976). Di Afro (Afro Basaldella, 1912-1976) che veniva attenuando progressivamente i dati dell'esperienza, lasciandone nondimeno superstite qualche labile traccia, ricorderemo le raffinatezze dell'astrattismo lirico (prossimo, talvolta, alla forma informe) cui arrivò esprimendo le suggestioni dell'inconscio, riscaldato dalla partecipazione sentimentale. Così faranno altri pittori, formatisi fuori dall'ambiente romano: per esempio G. Santomaso (1907) con la proiezione, sullo schermo della memoria, dei pretesti offertigli dall'oggettività. Mentre F. Gentilini (1909) approfondisce una narrativa intessuta di candori popolareschi e di referenze culturali, sia della pittura trecentesca (di cui ambisce anche le superfici aride, come di affresco) sia dell'arte contemporanea, a mezzo di deliziosi montaggi, T. Scialoja (1914) e G. Turcato (1912), in origine anch'essi partecipi della scuola romana, nelle sue punte espressionistiche, abbandonano la figurazione nei primi anni del secondo dopoguerra. Scialoja, conosciuti direttamente l'action-painting e il new-Dada, approda ai dipinti di "impronte", che vogliono documentarci - al di là dell'edonismo materico e dell'esibizione gestuale - lo scorrere di un "tempo personale" come percezione e proiezione dell'esistere. Turcato si affida invece totalmente alla libertà estrosa del segno dinamicizzato; e anche quando recupera occasionalmente tracce di eventi figurativi, o incorpora oggetti, o sembra sul punto di dissolversi nell'informale, celebra con felicità inventiva, e valendosi di tutti i mezzi, la stessa "pittoricità" della pittura. D'altronde il problema di questi artisti, romani o no, non era (come non lo è stato mai per nessuno) una scelta tra rappresentazione e astrazione, ma un impegno per la sincerità emotiva e l'autonomia espressiva; ciò che spiega come spesso (e fortunatamente) sia arduo classificarli per poetiche. In posizioni di pensiero consimili sono gli espressionisti milanesi del gruppo Corrente: R. Birolli (1906-1959) col suo lirismo vorticoso di segni e di colori, inteso a una paesistica tutta rivissuta dall'interno; e B. Cassinari (1912) ed E. Morlotti (1912) i quali allargano il dialogo con la cultura europea (come avevano fatto un Prampolini, un Magnelli o un Reggiani) non già importando le idee forestiere ma confrontandole con le proprie e con le tradizioni, recenti o no, e ripigliando le fila dell'avanguardia. Se Cassinari abbrevia in una sintesi immediata e folgorante di colore-luce le occasioni naturalistiche, innalzandole a verità fantastica per virtù di una materia cromatica rutilante, da antica vetrata, Morlotti sembra condurre quasi al limite dell'informale la propria discesa nel segreto della carne del mondo. ("Mi sento come un insetto dentro le cose", dice di sé il pittore). E sono maniere diverse d'interrogare l'organicità della natura, secondo un'attitudine - insieme sperimentale e fantastica - tipica del pensiero e della scienza italiani. Ad essi si può avvicinare, per una certa affinità di propositi, il neoromanticismo di M. Moreni (1920) ancora oggettivistico ma fortemente visionario, intriso di umori nordici e indiretto ammonitore delle minaccie che incombono su noi.

Ma l'interprete della condizione culturale e umana del secondo dopoguerra diventa subito A. Burri (1915), di cui le materie povere e i segni (poterono essergli inizialmente di stimolo, più che di esempio, le ricerche di Fontana e quelle di Cy Twombly, che a Roma ebbe un'influenza notevole negli anni Cinquanta) appaiono documenti e moniti di violenze patite: lacerazioni, bruciature, degradazioni, altrettante metafore dello stesso conoscersi come uomini nel tormento dell'esistenza. Dai sacchi e dagli stracci (rammendati e "rialzati" con poche note di colore vivo) ai legni bruciati e ai ferri, dalle plastiche aggrinzite e squarciate con la fiamma ai grandi cretti recenti, promana, col senso della precarietà, quello della riflessione pietosa sui naufragi della realtà; e vi sopravvivono i valori della pittura, del timbro e del tono, benché non ottenuti con i colori tradizionali. Con Burri, e con Fontana, si compie la rottura definitiva col concetto storicizzato di "quadro" e si crea l'oggetto-immagine che non è la riproduzione della realtà né l'astrazione da essa. Si è usciti dalle classificazioni scolastiche delle arti singole (distinzioni sempre meno definibili già nelle proposte del futurismo) e si tende a nuove interpretazioni dello spazio, della luce e del colore. Ciò non significa, beninteso, che la pittura muoia; né sono pochi i pittori della nuova generazione, che si valgono tuttora degli strumenti propri della pittura, sia muovendo dalla interrogazione dei testi del futurismo, sia sperimentando ogni possibilità materica e segnica, sia rimettendo capo al surrealismo, sia infine ritornando ad una figurazione esplicita, carica di messaggi, ma senza le manipolazioni e le mistificazioni dell'iperrealismo che, come già l'informale e la pop-art, ha poca presa in Italia.

Partono dalla riscoperta del vitalismo futurista gli "astratti" Crippa, Vedova e Dorazio, e il "figurativo" Calabria. R. Crippa (1921-1972), firmatario con Fontana del manifesto dello Spazialismo, passa attraverso numerose esperienze - di pittura e di scultura - caratterizzate tutte da un dinamismo aggressivo che tende alla costituzione di un misterioso universo di immagini. E. Vedova (1919) che esordisce rielaborando impetuosamente motivi di Balla, arriva poi a una pittura gestuale, carica di forza cromatica anche quando riduce il colore alla semplice opposizione di bianco a nero; e denuncia con eloquenza gli aspetti violenti e tumultuosi della vita odierna. P. Dorazio (1927) che in difesa dell'arte astratta sottoscrisse nel 1947 con Perilli, Turcato, Consagra e altri il manifesto Forma 1, contro i limiti illustrativi e didascalici del "realismo socialista", si riconnette idealmente, con il rigore e il lirismo della sua poetica della luce-colore-movimento, a tutto un lungo e complesso filone dell'arte moderna, dall'analisi scientifica del divisionismo alle intuizioni di Balla, e lo prolunga verso nuove ipotesi. E. Calabria (1937) vuole rimanere invece rappresentativo, ma valendosi della compenetrazione boccioniana di figura e di ambiente, trasposta in termini di polemica sociale e politica. "Segnica" può considerarsi la pittura di E. Scanavino (1922) la quale non si risolve però nel solo vigore grafico o nella pura materia; ma al di là della materia e del segno, che sono dunque mezzi e non fini, tende ad oggettivare un mondo oscuro e grave, che affiora faticosamente dall'io profondo. Tra i "segnici" è G. Novelli (1925-1968) che ebbe negli anni Sessanta, a Roma, una parte di protagonista con le sue "scritture" poeticamente suggestive. A. Perilli (1927) muove dalle ricerche del neoplasticismo, come rivelano le partizioni del campo d'immagine, dove il pittore svolge un "racconto" meramente formale, condotto con ritmi grafici nella chiara luminosità degli scomparti. Quella dei cartoons è in apparenza una delle componenti di V. Adami (1935), anzi la più evidente, insieme con la scomposizione spaziale di origine cubista; ma Adami è interessato a un surrealismo moralistico, che analizza e trasforma con crudeltà gli oggetti di uso quotidiano facendone entità cariche dei nostri ricordi. Amaro e fantastico anche il mondo figurale di G. Dova (1925) di cui sono palesi le ascendenze surrealiste nell'invenzione di una fauna e di una flora spigolose, lanceolate, quasi a significare le membra disgiunte e disperse dell'uomo (fonti in Picasso e in Ernst, e nell'angoscia di Kafka). E qui possono essere menzionati, benché molto diversi anche tra loro, L. De Vita (1925) ed E. Baj (1924), entrambi con excursus nella scultura o, quanto meno, nella creazione di oggetti plastici: vetrine, altari profani, mobili, fantocci, giocattoli. Inventore di lemuri grotteschi e funerei, con una lunga tradizione europea alle spalle, De vita sprigiona, specie nelle acqueforti, un pessimismo anarchico di grande impeto; mentre Baj, più vicino di umori al Dada, di cui utilizza con disinvoltura gl'impulsi e le trovate, punta i propri montaggi beffardi contro gl'istituti, la rispettabilità, il perbenismo, il genio dei maestri di ieri e di oggi, i luoghi comuni della cultura e della vita, riducendo a kitsch tutto l'oro vero o falso del mondo contemporaneo (ma è anche serio, volendo: v. l'enorme composizione Morte dell'anarchico Pinelli).

Tra i neo-oggettivisti, che si muovono sul terreno dell'angoscia esistenzialistica (e anche della lotta contro la civiltà dei consumi) spiccano le personalità di Cremonini, Vespignani e Guerreschi, cui sarà utile accostare gli scultori Perez, Bodini, Trubbiani e Vangi (v. oltre, Scultura), mentre D. Gnoli ha costituito un caso a sé. All'origine delle affinità elettive di questi pittori e scultori si intravedono le proposte della metafisica, ma senza la malinconia aristocratica di De Chirico, sostituita dalla volontà di battersi contro modi di vita mortificanti. Al di là della loro rispettiva posizione morale, è indubbia l'alta qualità delle loro opere. D. Gnoli (1933-1970), tuttora più conosciuto all'estero che in Italia, con la sua "metafisica dell'oggetto", e del particolare, ha dimostrato esemplarmente come possa diventare vera pittura la scoperta, generatrice di stupore, delle "cose", e dei loro dettagli, su cui l'occhio si concentra, limitante e perlucido come un obbiettivo fotografico, e con analoga facoltà d'impiccolire il grande e d'ingrandire il piccolo (che è operazione propria della macchina fotografica, ma altresì proposito delle poetiche decadentiste). La problematica dell'oggetto, uno degli stimoli primari della fantasia figurativa contemporanea (pop-art, new-Dada, nouveau réalisme ecc., v. oltre, La ricerca estetica) ha avuto in Gnoli un interprete umanistico eccezionale; e la sua inclusione, come talvolta è accaduto, nella preistoria degli sperimentalismi estetici appare infine arbitraria. In questo senso appartiene alla pittura anche C. Pozzati (1935) malgrado le diversioni brillanti e irriverenti, cui lo porta la propria inventiva esuberante. R. Vespignani (1924) esprime con un mestiere virtuoso, che non sdegna di accogliere suggerimenti dal liberty ed eleganze decadentistiche, la consapevolezza dell'esistenza come ingiustizia e dolore, che domandano di essere riscattati. Dalle impietose anatomie psicologiche delle periferie urbane e poi degl'interni freddi e bianchi, come di cliniche o di uffici anonimi, il pittore è passato a più complesse narrazioni civili, di cronaca e di storia. In L. Cremonini (1925) i personaggi, sperduti nel deserto dei vagoni ferroviari o nell'intimità precaria delle stanze, riflessi negli specchi o fuggevolmente intravisti di là da una vetrina, sono gli esempi di un'incomunicabilità sofferta, ma non rassegnata, di cui i colori acidi, stridenti, da Luna Park (e talvolta da pop-art) e le illuminazioni artificiali accrescono l'impressione di una folgorante immediatezza di frammenti di dramma. Evidente l'aggancio col problema di F. Pirandello fino dagli anni Trenta; ma Cremonini esplode con rabbia contro le immagini del falso umanesimo borghese. Così G. Guerreschi (1929) che compenetrando i personaggi con le troppe "cose" che oggi ci condizionano, ci pone innanzi i "mostri" - i prodotti di una società senza grazia - col sussidio di tutti gli strumenti visuali: da quelli tradizionali, del mestiere di pittore o di incisore, a quelli presi in prestito da altre tecniche della visione. Alla linea di tali nuove ricerche di realtà appartengono G. Ferroni (1927) che talvolta sembra accostarsi agli effetti dell'iperrealismo con la sapienza dei mezzi oggettivanti e prospettici (ma la sua osservazione del reale è semplicemente il canto sommesso dell'esistenza, su cui scorre il fiato luminoso della rievocazione); P. Guccione (1933) con la sua paesistica assorta, e come sospesa tra l'estasi e il terrore; F. Mulas (1938) che ripropone un'arte di contenuti (illustrativa, storica, didascalica) metallicamente perspicua ed estremamente nitida nei profili, nei volumi, nelle illuminazioni; mentre R. Tommasi Ferroni (1934) recupera di proposito la grande maniera italiana ed europea, innestando maliziosamente interi brani di Caravaggio o di Reni o di Ingres nelle distese invenzioni capricciose, vagamente surreali, da cui si direbbe che abbia preso spunto, non di rado, la cinematografia di Fellini (la virtuosa tangibilità dei suoi dipinti trova una particolare ragione di fascino nel continuo, ma sostenutissimo gioco di mitografia e di demistificazione). Anche G. Pompa (1933) rivisita il passato (specie il grottesco e il demoniaco dell'arte romanica e gotica del Settentrione) con un favolismo gremito di cose, immerse in un'aura remota dove spesso compaiono, camuffati, personaggi, episodi e macchine della storia odierna. E naturalmente gli artisti citati, con i brevi accenni alle loro predilezioni contenutistiche e formali, dànno un'idea soltanto approssimata, e assolutamente incompleta, del panorama della pittura italiana, ricchissimo di orientamenti e di personalità.

Scultura. - Le proposte, molteplici e perfino contraddittorie, di A. Martini; le ipotesi di L. Fontana vistosamente avveniristiche; la riscoperta di M. Rosso (il "ricordo visivo", il valore dell'ombra, lo "stato d'animo" al posto della natura) e l'interrogazione del futurismo influenzano il cammino della scultura, che ha svolgimenti analoghi a quelli della pittura, con eccezionale vivacità e varietà di forme (che difatti le hanno acquistato un indiscusso credito internazionale) tanto nella scelta della rappresentazione o dell'astrazione - dove l'antropocentrismo rimane spesso il motivo primario - quanto nell'invenzione di oggetti plastici inediti.

Dei "maestri" a cui Martini era stato di esempio vicino, anche come consapevole ma libero elaboratore della tradizione, F. Messina (1900) continua un'idealizzazione del vero in modi quasi neoellenizzanti nella equilibrata armonia tra la fedeltà al modello e l'autonomia dei ritmi. M. Marini (1901) e G. Manzù (1908) dànno, intorno al 1960 e oltre, prove ulteriori, e nuove per molti aspetti, della loro personalità. Dopo la carnalità terrestre e grave delle Pomone e la monumentalità tragica e grottesca dei Cavalieri, cominciati a realizzare negli anni Quaranta, Marini accentua in direzione espressionistica la spinta dinamica contenuta fin dall'esordio nel suo sentimento del volume, impennando o inclinando fortemente la forma che, talora franta, coinvolge con violenza lo spazio. Comincia così, tra il 1955 e il 1958, la serie dei Miracoli, cui segue quella non meno splendida dei Guerrieri e dei Gridi. Manzù, del quale sono altrettanto celebri alcuni soggetti più volte ripresi con soluzioni diverse - i Cardinali, i Passi di danza, i bassorilievi delle Deposizioni e Crocifissioni, che esprimono angosciosamente i temi della guerra e del dolore - conduce a effetti sempre nuovi di vibrazione luministica (grazie a un modellato sensibile entro il limite fermo di un disegno inciso e veloce, e su una struttura volumetrica nondimeno salda) tutto un percorso di civiltà figurale, da Fidia a Donatello, che parrebbe altrimenti perduto come nostra possibilità di proposta figurativa. Nel gruppo degli scultori anziani ricorderemo L. Broggini (1908) per la materia impressionistica, grumosa, dei nudi immersi in una luce crepuscolare; O. Gallo (1909) attento a tornire nella contemplazione assorta la fisicità dei modelli; M. Mascherini (1906) evoluto da una stilizzazione raffinata, arcaicizzante, verso strutture più autonome, partecipi dell'architettura; e M. Mazzacurati (1908-1969) che, superata un'esperienza neocubista del dopoguerra, concludeva nel realismo socialista, in direzione parallela a quella indicata in pittura da Guttuso. L. Minguzzi (1911), compiuta negli anni Cinquanta una ricerca piuttosto paesistica che astrattista (Gli "aquiloni", 1957; Luci nel bosco, 1961), concentra la propria indole espressionistica in vaste composizioni drammatiche di personaggi e di ambienti (v. Uomini, 1970, opera esposta nella X Quadriennale Romana). E sulla linea di un realismo espressionista anche più scopertamente impegnato, che talora sboccherà nell'angoscia informale, si colloca A. Fabbri (1911) che dopo una serie di terrecotte policrome, delle quali è dato di cogliere le fonti in un ritorno a Giovanni Pisano, arriva a immagini tra le più icastiche dei deboli martoriati e dei persecutori, con una plastica sofferta, solcata da segni e da squarci di rude immediatezza. Di qualche anno più giovani, P. Fazzini, E. Greco e V. Crocetti, nati tutti nel 1913. Del primo sono famose la fertilità di invenzioni e la felicità narrativa fino dagli anni della scuola romana. Da allora egli ha prodotto, continuamente rinnovandosi, un gran numero di opere tra le più alte della nostra scultura. Dei suoi ultimi lavori citeremo l'immenso rilievo della Resurrezione (1975; nell'Aula delle Benedizioni in Vaticano, costruita su prog. di P. Nervi) ideato come un uliveto dai tronchi e dalle chiome che arretrano creando irrequieti golfi d'ombra profonda, o emergono avventandosi contro lo spettatore, in un'improvvisa emergenza di volumi e luci al cui centro svetta, come una spiga, il Cristo "gotico". Non meno conosciuta la scultura di Greco (insieme con la sua grafica, tra le più nobili del nostro tempo), specie per la squisita fluenza neomanieristica dei nudi muliebri, elaborati secondo corrispondenze geometriche nelle quali si oggettivano le occasioni o le memorie del vero; e la luce che li avvolge lentamente ci persuade ancora della decantazione intellettualistica della loro bellezza carnale, di cui si avverte all'origine la presenza perentoria. Gli anni Sessanta sono stati fecondi anche per Crocetti, di cui citiamo ritratti e nudi e animali e cavalieri, portati ad affiorare alla luce in sensuosi, ma anche risoluti abbandoni. Sempre nel filone della scultura memore della maggiore tradizione figurativa italiana s'iscrivono G. Mazzullo (1913), lapicida robusto così nella ritrattistica di semplificato realismo come nelle pietre di più scoperte aspirazioni narrative; e M. Negri (1916) con le sue "metope" essenziali, e personaggi e torsi (che guardano alle impaginazioni sobrie della scultura romanica) caratterizzati da profili netti e da forti aggetti geometrizzanti. V. Tavernari (1919) appare talvolta intento a negare il rilievo in superfici bidimensionali, appena modulate per ricevere un'illuminazione radente, altre volte, invece, a restituire solidità alla forma. A molti esempi di antiche civiltà occidentali e orientali - i cui stilèmi sono carpiti e commisti al servizio di una mitografia, che volutamente ripercorre a ritroso, e in funzione del presente, il cammino dell'umanità, in traccia dei suoi primordi - è ricorso Mirko (M. Basaldella, 1910-1969) dandoci del gusto dei primitivi una versione consapevole dei problemi dell'uomo e della sua perdita rischiosa dei miti consolatori e costruttivi. Rivelatosi tra il 1958 e il 1959 con figure monumentali di re e di regine combusti, A. Perez (1929) è venuto realizzando il proprio mondo, prelevato insieme dalla realtà e dal museo, con un modellato definitorio e composito (neobarocco: nella direzione di un Sei e Settecento napoletani, di umori sepolcrali; ma anche in linea con un Vincenzo Gemito, quando si sforzava di stringere in una sintesi di civiltà l'antico e il moderno) e volutamente interrotto, spesso, per l'intervento del frammento improvviso, che è una sospensione cosciente e angosciosa della fiducia e della memoria. Anche F. Bodini (1933) cominciò con sculture dall'apparenza di larve macerate e consunte, coinvolgendo poi la componente espressionistica e deformante in strutture più chiare e articolate, in superfici segmentate, levigate, incise da segni esatti, con effetti di un realismo visionario e grottesco che si fa specchio di un'indagine, perfino impietosa, del costume e della interiorietà. G. Vangi, di due anni più anziano (1931), è comparso un poco più tardi nel panorama della scultura figurativa, dopo fruttuose esperienze materiche e astrattiste. Egli opera nell'ambito di un naturalismo di spiccata impronta metafisico-espressionistica, talora avvicinandosi per la pungente verità esistenziale all'iperrealismo, tal'altra al surrealismo macabro per la fantasia allucinata che elegge i temi della solitudine indifesa dell'uomo di oggi. In problemi consimili, di libertà e d'innocenza, vittime della sopraffazione e del male, è impegnato V. Trubbiani (1937) le cui simbiosi di creature (animali, uccelli) riprodotte con illusoria evidenza, e di strumenti di tortura e di morte, combinati con imprestiti dalla produzione utilitaria, assurgono - oltre le parvenze surreali - a simbolo di un'aspra denuncia morale. Le stesse singolari invenzioni di N. Finotti (1939) che muovono dall'erotismo come ultima barriera possibile contro l'assurdità della vita, e quindi come tramite libertario di comunicazione, concludono il loro procedimento per metafore ardite in un surrealismo amaro e severo. L'operazione di questi scultori, quali Trubbiani e Finotti, già esce dai limiti tradizionali della scultura per coprire uno spazio più aperto d'interventi e di significati, la esteticità invadendo la vita in modi insoliti e diversi. Ancora un passo avanti, ed eccoci di fronte a personalità che partecipano solo parzialmente della storia della scultura: come P. Pascali (1935-1968) che negli anni Sessanta, a Roma, fu un precursore e un protagonista dell'"arte povera" piuttosto che un popartista all'italiana (v. i suoi animali-giocattoli, dinosauri, balene, giraffe, costruiti con sagome di tela, o sezionati secondo un'anatomia tra dilettosa e ironica: con operazione da designer disinteressato, quale poté essere un Bruno Munari al tempo delle sue prime "macchine inutili"); e come M. Ceroli (1938) che, scoperta nel legno grezzo da imballaggio la materia umile, "popolare" a lui congeniale (come era stata per Burri la materia dei "sacchi"), la impiega con intenzioni di ironia, di gioco, di spettacolo, e con un sentimento vivissimo dell'effimero e del teatrale, ossia con due dimensioni - di tempo e spazio - insolite alla tradizione illustre.

Sono molte, varie, e inoltre intrecciate, le strade che la scultura italiana percorre. A chi voglia o debba servirsi di una classificazione relativamente giustificabile, l'ala dell'astrattismo può apparire preceduta, per così dire, da posizioni intermedie, che non appartengono né allo schieramento rappresentativo né a quello astratto. A. Viani (1906) per esempio continua la semplificazione formale geometrizzante d'una certa avanguardia (da C. Brancusi e H. Arp fino a H. Laurens e H. Moore) ma la sua visione rimane neoumanistica, è quasi neoclassica, benché immune dalla nostalgia dell'antico. Non è certamente astratto il nuorese C. Nivola (1911) seppure non possano definirsi figurativi, ma se mai "segnici" (con ascendenze nella Sardegna primitiva, nuragica e pastorale), i suoi giganteschi "murali" gettati in cemento e sabbia sulle pareti di molti edifici negli Stati Uniti (dove è assai più conosciuto che da noi) dopo che l'incontro con Le Corbusier, nel 1946, ne orientò il lavoro in funzione dell'architettura. Neppure possono dirsi astratti A. Cascella (1920) e P. Cascella (1921) che lavorano quasi esclusivamente le pietre e i marmi: scultore, il primo, di una figuralità emblematica per incastri di forme complementari che si serrano e si aprono per germinare forme ulteriori, quasi in una sorpresa e in un'emulazione del processo generativo (come in certe ricerche di Cagli); orientato, il secondo, in direzione non lontana dai propositi di Nivola nelle scelte di un arcaismo monumentale che rievoca, con accenti epici, età mitiche di re-pastori e di semidei. Perfino F. Somaini (1926) a cui la lezione futurista aveva suggerito le larghe frange astratte di materia, lanciate nello spazio come in esplosioni improvvise (i suoi Feriti e i suoi Naviganti non erano personaggi riconoscibili, ma patenti metafore) da qualche anno approfondisce nel suo antropomorfismo, d'altronde non mai rifiutato, il sentimento di un destino tragico, che rivelano gli squarci della forma traboccanti lava, le dolorose levitazioni, le pieghe, le torsioni, come di carne che si apra e si rapprenda su di sé. Lo stesso Q. Ghermandi (1916) invade frequentemente gli spazi della esuberanza organica, della struttura fisica (di foglie, di giardini, di voli di uccelli); da qui il fascino del suo favoleggiare ornato, arguto e paradossale, e la sua confidenza con la materia che è piuttosto un renderla umana, e sede spontanea dei miti, che non assumerla in quanto di per sé significante.

Con L. Fontana (1899-1968) già intorno al 1930 si profila il percorso della scultura risolutamente astratta. Il suo "spazialismo", risalito alle intuizioni dinamico-plastiche dei futuristi e alle origini del problema della luce quale M. Rosso aveva impostato, finisce per lasciarsi alle spalle ogni distinzione pur tenue tra opera architettonica e opera dipinta o scolpita, per un'interpretazione dello spazio che potremmo già dire non più legato alla visione terrestre ma a quella di un più vasto campo di mondi, e per una ricerca della luce come suggerimento perpetuamente mutevole, e infine per un'impostazione del segno significante unicamente la presenza dell'uomo, concentrata nella violenza elementare del gesto e del grido. Con Fontana ricorderemo i "montaggi" di E. Colla (1899-1969) composti con pezzi di macchine, tubi, ganci, ruote di ferro, trasfigurati in trofei e in personaggi (evidenti i rapporti col dadaismo e anche con la metafisica, grazie a un sentimento, che ne scaturisce, di enigma, d'ironia e di silenzio) e quelli - al contrario - di F. Melotti (1901) così leggeri, quasi imponderabili, da meritare la definizione che lo stesso autore gli ha dato di "anti-scultura". Assimilabili ai segni di P. Klee e di J. Mirò (ma anche di A. Soldati e di O. Licini) o a néumi musicali, questi "oggetti", spesso mobili, rientrerebbero forse meglio nell'area del surrealismo ludico.

E. Mannucci (1904) è il maggiore dei nostri materici e informali, e uno dei più tempestivi; ma senza sacrificio dei diritti della fantasia, la quale signoreggia con la compostezza dei ritmi la stessa dissoluzione dei metalli in muffe, ragne e coaguli di preziosa fragilità e leggerezza. Accanto a lui citeremo (per affinità di poetica, quantunque tanto diversi) Leoncillo (L. Leonardi, 1915-1968) passato dalla ceramica figurativa policroma, di umori popolareschi, ai "grés" informali, simili a tronchi d'albero di una foresta pietrificata; U. Milani (1912-1968) anch'egli tra i primi a tentare, con fine sensibilità luministica e coloristica, l'esperienza materica in bassorilievi articolati da segni; e F. Garelli (1909-1973) che dette un contributo personale alle nuove ricerche d'immagine con l'assunzione di materie non tradizionali. Nell'orientamento geometrizzante, e perciò connesso con l'astrattismo storico, B. Lardera (1911), coordina lamiere di ferro ritagliate e dentate, e tra sé interferenti, in foggia di giganteschi ideogrammi analoghi alla emblematica écriture de bronze di A. Magnelli. Strutture metalliche, per lo più verticali, non senza analogie talvolta col mondo vegetale (e perfino con dichiarati ricordi del folclore siciliano) caratterizzano l'arte di N. Franchina (1912); mentre U. Mastroianni (1910) prolunga con energia la ricerca boccioniana scompositiva e dinamica, aggredendo lo spazio in una pluralità di direzioni e mantenendo tuttavia centripeta l'immagine in un drammatico ventaglio d'ombre e di luci, di vuoti e di pieni. P. Consagra (1920), già ricordato come uno dei fondatori del gruppo romano Forma 1, inizia negli anni Cinquanta la serie dei Colloqui, che sono rilievi frontali, con scorrimento di piani schiacciati e intervallati, incisi nelle superfici, lacerati o bruciati dalla fiamma, e proposti come espressione critica e umanizzante della civiltà meccanica, mediante un linguaggio analogo (di evidente origine futurista) a quello rude e utilitario della macchina. Tra i più rappresentativi e raffinati scultori della generazione di mezzo, Arnaldo e Giò Pomodoro (nati rispettivamente nel 1926 e 1930). Il primo, che ha le sue premesse nell'arte segnica (P. Klee, W. Wols, A. Gorky, M. Tobey) spacca l'involucro geometrico della forma e ne gremisce il nucleo interno con una metafora persuasiva di violenza e di rivelazione; il secondo imprime un'estrema tensione elastica nelle strutture curve, che si snodano fluide, alludendo a contatti o a espansioni, e che diventano altrettanti simboli di una vitalità scavata nei meandri dell'inconscio e colta nel suo divenire.

Concorrono ad arricchire il panorama della scultura non figurativa A. Calò (1910) elaboratore di forme astratte (nella direzione di un Arp e di un Moore) o convulse e frante (v. le piastre squarciate) e indagatore dei valori delle singole materie; C. Cappello (1912) con la squisita eleganza delle ellissi avventate nello spazio e rotanti; Pierluca (P. Degli Innocenti, 1926-1968) e A. Rambelli (1924-1976) scomparsi al colmo di interessanti ricerche "organiche": autore l'uno di lacerazioni della materia, trattata come una carne ferita in più strati; inteso il secondo a saldare in unità il mondo rigoroso e gelido della tecnologia con quello imprevedibile e pulsante delle creature. A ricerche di possibilità di nuova congiunzione, e dunque di recuperabile armonia dei due termini, natura e artificio, organicità naturale e organizzazione tecnologica, attendono altri scultori della medesima generazione, come, tra i più noti, M. Guasti (1924), G. Benevelli (1925), C. Ramous (1926), G. Sangregorio (1930), N. Cassani (1930), L. Gheno (1930), G. Marchese (1931), sia che interpretino gli artifici tecnologici come possibili surrogati della natura, sia che si propongano d'inserire in questa forme autonome ma non estranee, anzi plausibili. Altri appaiono invece più interessati ai valori architettonici della forma, come L. Tiné (1932) i cui rilievi si presentano quali progetti di piani urbanistici del futuro: ancora un atteggiamento, in aderenza con la realtà attuale, di critica costruttiva nei confronti della tecnocrazia.

La ricerca estetica. - Sotto questa denominazione, impropria nella sua stessa ambiguità, si conviene di raccogliere un gran numero di manifestazioni che propongono un concetto dell'arte così estensivo (parallelamente a quello che si tende a imporre della cultura) che tutto diventa arte perché nulla si vuole che lo sia. Il fenomeno, che si rivela in Italia di proporzioni assai notevoli negli anni Sessanta (benché preceduto da tentativi anteriori), è comune al mondo intero, ma con più precoce e vistosa costituzione nei paesi industrialmente più progrediti, dai quali è rapidamente rimbalzato sugli altri a carattere tuttora paleoindustriale, determinandovi propaggini che possiamo considerare, in un certo senso, "provinciali". Questa ricerca estetica trova spunti, e riconosce una sua tradizione, nel moralismo negativo e dissacrante del dadaismo (massime in M. Duchamp) e, in Italia, anche in postulati del futurismo.

Non mancano di tale ricerca ragioni profonde, che si annidano principalmente nell'insoddisfazione della persona oppressa o, come si suol dire, "alienata" dalla organizzazione tecnocratica e burocratica, cui non hanno corrisposto le libertà che l'ottimismo ottocentesco sperava dall'avvento della macchina, e un adeguato progresso etico e sociale; nel tramonto dei valori tradizionali, cui non si sono sostituiti valori nuovi appaganti; e nella conseguente e crescente separazione dell'arte dalla società, dove l'attività dell'artista può apparire meno che superflua rispetto ai problemi più urgenti. Da ciò un bisogno di smitizzare, demistificare, rimettere tutto in discussione ripartendo da zero; di rifiutare la mercificazione e il collezionismo privato (almeno negl'intendimenti) e di preferire perciò materiali poveri e di conservazione precaria; o addirittura di trasporre l'esteticità nell'azione (invece che nelle opere): nell'irripetibilità dello happening, dell'intervento improvvisato, dell'ostentazioue comportamentale, che esige l'espressione mimica, facendosi a suo modo teatro, e che entra risolutamente, e meramente, nella sfera della volizione, pertanto della pratica e della politica. Da ciò, inoltre, uno spostamento dei propositi, dal quadro e dalla scultura tradizionali, all'ambiente: anzitutto la città, dei cui aspetti tipici, ossessivamente ripetitivi, imposti dalla tecnologia e dall'industria, si cerca, come che sia, l'appropriazione personale e collettiva. Vedi, in merito, già le operazioni della pop-art (e di altre correnti) quando appuntano il proprio interesse sulla pubblicità, sul cartellonismo (anche i décollages di un M. Rotella rientrano in questa linea di intenzioni) ovvero sugli oggetti di uso quotidiano, ricalcati, parodiati, ingranditi paradossalmente, trasferiti in materie differenti da quelle originali e loro proprie (i telefoni "molli", per esempio) o distolti dal contesto abituale per essere presentati in sé e per sé come scoperti allora, quindi inaspettatamente godibili sotto altra luce, sorpresi e rivelati da angolazioni psicologiche inedite. Quest'ultima operazione (che del resto compiva da tempo l'obbiettivo fotografico e compirà poi con frequenza la cinematografia) è largamente condotta da molti ricercatori estetici, rivolti al cosiddetto recupero dell'oggetto: sia che lo assumano senza alcuna modifica sia che lo elaborino o lo collochino, insieme con altri, in assemblages, o in vetrine, che sono quasi reliquiari profani (come fa L. Del Pezzo). Anche qui è da scorgere, nel fondo, una non immotivata reazione alla crescita abnorme delle troppe "cose" che, come diceva Giacomo Devoto (ma già lo aveva notato Gasparo Gozzi nell'Osservatore Veneto), ci assediano e ci banalizzano senza mai diventare "parole". Dal campo urbano la ricerca passa a un'ipotesi, ben più sottile, di spazio strettamente attinente alla persona nel suo rapporto con la realtà totale, mirando a costituire una spazialità estetica nuova, che non è però l'ambiente comunemente inteso, e che è arduo discernere quanto ancora rimanga, in definitiva, l'indicazione di uno spazio fisico (fino al limite, talvolta, del "contenitore biologico") e quanto aspiri a diventare, invece, una misura astrattamente umanistica (quasi un indefinito "contenitore ideologico"). Sempre con la medesima oscillazione, di pensieri e di progetti, tra spazialità materiale e dimensione mentale, il problema, che affatica molto i ricercatori e gli operatori culturali, verte inoltre sullo spazio come complementare dell'espressione, o addirittura come sostitutivo di essa per cui si fa "scena": proprio nel senso della finzione evocativa e surrettizia del teatro, del film, e dell'immagine speculare: uno spazio (e un tempo) che scompongono e ribaltano i significati consueti della realtà (v. le "azioni", i film, le anatomie di testi letterari, o di semplici parole, con i susseguenti anagrammi e "rebus" di L. Patella). La ricerca estetica si dirige poi in molti settori di una tecnologia elementare, dando luogo a macchinismi ludici (per esempio: proiezioni di raggi che attraversano una stanza buia; o pareti respiranti per congegni elettrici che ne sommuovono ritmicamente le piastrelle sui loro perni e giunti) ovvero allestisce ambienti pseudo-ecologici, come prati di erba plastica su cui passeggiano tortore vive; o realizza strutture "primarie", con quel sentimento di primitivismo riduttivo che sembra compiere una scelta, forse volendosi contrapporre alla pigra attitudine inventariale, che registra - quando non addirittura storicizza - tutto ciò che esiste per il semplice fatto che esiste. È così che propone un igloo di fango, o un cumulo di foglie o detriti; ma già M. Duchamp, nel 1920, aveva realizzato un "allevamento di polvere" e dunque il fenomeno non è nuovo (come non appaiono senza precedenti tante trovate "minimali" e "oggettuali"). Anche compie simboliche fatiche, altrettanto primarie: come tracciare cerchi concentrici in terra, allineare filari di sassi, scavare tratturi da pastori, conficcare cunei e chiodi in tronchi d'albero (lo fa Giuseppe Penone) intendendo di richiamare con tali interventi - di "arte povera" o "concettuale", quale è detta - l'amore per la natura agreste e la memoria di un'esistenza primitiva, travolta e cancellata dal progresso. Certo è pressoché impossibile dare un'idea anche soltanto approssimata delle quasi innumerevoli manifestazioni che tentano, con ogni genere di propositi e di strumenti, un'alternativa alle arti del disegno (e anche alla letteratura, al linguaggio e alla scrittura) sotto la spinta del desiderio di nuove comunicazioni culturali e sociali. Neppure sarebbe di grande utilità elencare le diverse denominazioni (la maggior parte di lingua inglese) che la ricerca riceve a seconda del campo cui più specificamente si rivolge, o dei mezzi di cui più abitualmente si serve: art-language, body-art, conceptual-art, minimal-art, mec-art, e via dicendo. Ma citeremo alcuni precorritori e protagonisti, includendo tra i primi, meno arbitrariamente di quanto potrebbe apparire, F. Lo Savio (1935-1963) il cui purismo neocostruttivista lo condusse all'estrema semplicità delle superfici e dei filtri che intendevano di raggiungere la sintesi assoluta di materia, di spazio e di luce. Le stesse ricerche neo-gestaltiche e quelle visivo-cinetiche (opart) condotte da gruppi (T e Mid a Milano, Uno a Roma, N a Padova, ecc.) o da operatori indipendenti (quali per es. G. Alviani, E. Castellani) vi rientrano col loro ricorso a tecnologie non utilitarie, nel cui fondo, a volte, sembra riaffaccarsi il concetto salvifico della scienza e delle sue applicazioni, già affermatosi negli anni del divisionismo, seppure non si tratti di tentativi di esorcizzarle, la scienza e la tecnica, con quell'ambiguità di comportamento e di fini della quale tali operazioni si compiacciono. Oltre ai ricordati P. Pascali e M. Ceroli (anche quest'ultimo partecipa, almeno parzialmente, ai propositi della ricerca estetica) citeremo tra i più originali e ricchi di inventiva P. Manzoni (1933-1963) noto per gli achromes ("dipinti bianchi") e per le proposte dissacranti e canzonatorie, che fecero scandalo al loro apparire; P. Scheggi (1940-1971); gli oggettuali G. Colombo e A. Bonalumi, ideatori di spazialità ambigue, otticamente ingannevoli (e Bonalumi anche di oggetti plastici "gonfiati", analoghi ai giocattoli di Pascali). M. Pistoletto con le sue auto-immagini speculari (sempre nella direzione dell'inganno ottico-percettivo) e V. Pisani, tra i più noti comportamentisti d'intonazione erotico-surreale. Vedi tav. f. t.

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Architettura. - In conseguenza delle trasformazioni economiche della società italiana si è domandato ai progettisti di tener conto di forti disparità esistenti fra diverse aree geografiche, fra vari luoghi di una medesima area, fra centro e periferia di una città. Lo sviluppo industriale ha reso più acuto il problema di mettere in rapporto modernità e tradizione, nuovi interventi e ambiente preesistente, che molto spesso in I. è di qualità straordinaria. Inoltre si è richiesto di adeguare metodi progettuali e tecniche costruttive ai mezzi che lo stesso sviluppo industriale ha reso disponibili.

La preoccupazione di cercare soluzioni appropriate alla vita d'immigrati e sottoproletari - ben diversi dai lavoratori delle fabbriche ai quali era principalmente destinata l'edilizia pubblica in quella parte d'Europa che era stata culla del rinnovamento architettonico - aveva già costituito il motivo conduttore delle esperienze di maggior rilievo almeno per un decennio dopo la guerra. Un interesse per l'architettura minore di quartieri antichi o di vecchi paesi e villaggi, allo scopo di ritrovarvi punti d'appoggio per operare nei nostri tempi, era rintracciabile addirittura prima della guerra in una mostra e un libro preparati per la Triennale milanese da G. Pagano, leader del rinnovamento architettonico italiano, caduto nel campo di sterminio di Mauthausen. Era rintracciabile ancora durante quegli anni in proposte schiettamente moderne di architettura mediterranea avanzate dal napoletano L. Cosenza insieme con B. Rudofsky, in qualche intervento specifico come gli edifici per aziende agricole realizzati in Lombardia da M. Asnago e C. Vender e da P. Bottoni, G. Mucchi e M. Pucci. Un tale interesse diveniva dominante nei complessi di alloggi economici costruiti dall'Ina-casa a partire dal 1949; si riduceva in molti casi a superficiale ripresa di motivi formali, ma si caricava, sia pure un po' artificiosamente, di molteplici intenzioni in esempi quali i nuclei di case a Cerignola di M. Ridolfi, a Gavorrano in Maremma di E. Sgrelli, o i quartieri Falchera a Torino (arch. G. Astengo, N. Renacco e altri) e Tiburtino a Roma (arch. Ridolfi, L. Quaroni, F. Gorio, M. Fiorentino e altri). Alcuni membri dell'équipe del Tiburtino (Quaroni, Gorio, P. M. Lugli, M. Valori) sono progettisti dell'esempio più emblematico degli orientamenti seguiti allora, il borgo La Martella presso Matera, destinato ad accogliere contadini provenienti dai Sassi, l'agglomerato di abitazioni semicavernicole descritto da C. Levi in Cristo si è fermato a Eboli. C'era un legame tra quel genere di ricerca progettuale e il neorealismo. Il tempo lungo per passare dall'ideazione al compimento di un'architettura contraddiceva all'immediatezza tipica degl'interventi neorealisti. Questi erano caratterizzati da una forte volontà di denuncia, alla quale era impossibile assegnare altrettanto valore nel campo dell'urbanistica e dell'edilizia, poiché qui la presa di coscienza delle condizioni da trasformare deve accompagnarsi immediatamente a proposte per trasformarle.

Per varie ragioni - dall'agire in condizioni più simili al Mezzogiorno, fino all'aver più contatti con i centri della vita politica e della produzione culturale, nel cinema e in altri settori, analogamente orientata - fra i gruppi di progettisti d'idee avanzate, quello romano assumeva in quel periodo un ruolo di guida, sostenuto con vigore dal lavoro di organizzazione culturale e propaganda a favore di F. L. Wright e dell'architettura organica condotto appassionatamente da B. Zevi, apertamente critico nei confronti di W. Gropius e Le Corbusier. I progettisti che viceversa allora non prendevano le distanze dalle esperienze dell'architettura funzionale, si contavano come poche eccezioni. A Roma A. Libera (l'autore della casa di Malaparte a Capri) per l'unità di abitazione orizzontale nel quartiere Tuscolano si richiamava a una proposta già avanzata da I. Diotallevi, F. Marescotti e Pagano. A Genova i complessi residenziali progettati, insieme con altri, da L. C. Daneri erano caratterizzati dalla ricerca tipologica e dalla standardizzazione degli elementi costruttivi. A Milano, in coincidenza con la prima Triennale del dopoguerra, Bottoni aveva promosso la costruzione del QT8 secondo schemi razionalisti, ai quali si richiamava in maniera meno diretta il quartiere Ina-casa "Harrar", dove progettisti abbastanza eterogenei, capeggiati da L. Figini e G. Pollini e da G. Ponti, anticipavano il criterio del mixed development, cioè la combinazione di case basse unifamiliari e case alte ad appartamenti anche "duplex", che sarebbe stata largamente adottata dal London County Council.

Ma in genere l'influenza dei neorealisti romani si estendeva al Nord, in opere come l'albergo per giovani a Cervinia di F. Albini o la casa per un viticultore a Broni di I. Gardella, ambedue tra i più coerenti assertori dei principi del movimento moderno nelle polemiche precedenti al 1945. Va però sottolineato che nei disegni dei progettisti settentrionali certe soluzioni dell'architettura minore o popolare non venivano riprese con l'immediatezza spesso un po' greve dell'I. centrale o meridionale, ma erano filtrate da un maggior controllo, come nei lavori della Cooperativa architetti e ingegneri di Reggio Emilia, città dove si distingueva anche E. Manfredini, o erano reinterpretate sottilmente attraverso esercizi abili e sofisticati, come in uno dei primi lavori di G. A. e P. Monti, un alloggio-rimessa per pescatori sul lago di Como, o come nelle case di montagna di E. Gellner, che ha compiuto i suoi studi in Austria e che nel paesaggio dolomitico ha saputo inserire anche un complesso di dimensioni e caratteristiche particolari, il villaggio per vacanze a Borca di Cadore costruito dall'ENI, ente per il quale Gellner ha poi redatto un progetto, rimasto purtroppo sulla carta, d'insediamento residenziale connesso con quello industriale a Gela in Sicilia.

Soprattutto va sottolineato che gli sforzi per riallacciarsi alla tradizione nazionale a Roma e nel Mezzogiorno si fondavano in particolare sulla riscoperta di motivi quasi folcloristici e si appoggiavano a interventi promossi da enti pubblici mentre invece nelle regioni dove le condizioni di vita erano meno misere e meno precarie e dove prevaleva l'iniziativa privata puntavano a recuperare valori della cultura borghese, dal neoclassicismo al liberty. Da un tale atteggiamento sono nate opere di L. Caccia Dominioni, V. Magistretti, R. Gabetti, A. d'Isola, G. Raineri, V. Gregotti, L. Meneghetti, G. Stoppino; la manifestazione più vistosa ne è stata la torre velasca, il grattacielo progettato nel centro di Milano dallo studio BPR - L. Belgiojoso, E. Peressutti, E. Rogers - con la memoria rivolta alle immagini della città medievale e con una tensione a ristabilire una continuità con il passato che è rimasta costante nel loro lavoro fino alle opere recenti, come l'edificio per uffici in piazza Meda, sempre a Milano. Altre opere, oltre a quelle ricordate, degli stessi Gardella (la casa veneziana alle Zattere) e Albini (dal palazzo Ina a Parma alla Rinascente di Roma) in duratura collaborazione con F. Helg, hanno sollecitato un simile rapporto verso la tradizione colta. Rispettivamente con la Galleria d'arte moderna nella villa Reale a Milano e con le sistemazioni genovesi di Palazzo Bianco, Palazzo Rosso e del tesoro nella cattedrale di San Lorenzo, Gardella e Albini hanno portato contributi esemplari in un ambito dove la relazione tra architettura contemporanea ed eredità del passato si è posta in termini quanto mai stretti: il nuovo ordinamento di musei. In questo settore in cui hanno operato molti architetti - dai BPR nel Castello Sforzesco a F. L. e V. Passarelli nei Musei vaticani - si è concentrata quasi tutta la straordinaria attività di C. Scarpa, il quale ha allestito fra l'altro le prime mostre italiane di P. Klee e P. Mondrian e ha risistemato il palazzo Abatellis a Palermo, il museo Correr e la biblioteca Querini Stampalia a Venezia, il Castelvecchio a Verona, la gipsoteca canoviana a Possagno e, con Gardella e Michelucci, ha riordinato alcune sale degli Uffizi.

In Toscana, centro originario dell'architettura del Rinascimento, regione nella quale l'agricoltura ha conservato a lungo molta importanza, si sono potuti verificare con particolare chiarezza gli elementi di crisi che il sopravvenire di rapide trasformazioni sociali ed economiche ha introdotto in un metodo progettuale troppo legato alla tradizione. Qui, contro i criteri illustrati dalla predicazione wrightiana, la resistenza opposta in nome di una razionalità costruttiva diffusasi attraverso i secoli persino nei modesti edifici isolati nelle campagne, ha avuto la sua espressione di più alta qualità in una serie di opere di G. Michelucci, già capogruppo nel 1933 dei vincitori del concorso per la stazione ferroviaria di Firenze a Santa Maria Novella, primo esempio di grande edificio costruito secondo principi nuovi e nello stesso tempo architettonicamente (anche se non urbanisticamente) bene inserito in una città antica. A Pistoia una chiesa e la Borsa merci (presto demolita per far posto a un fabbricato su progetto di Michelucci medesimo), altre chiese a Larderello e a Collina, una casa dinnanzi a palazzo Guicciardini e il salone della Cassa di risparmio a Firenze, sono tutte opere sostenute da una chiarezza progettuale che sembra venir meno da quando l'architetto è stato chiamato a disegnare la chiesa sull'Autostrada del sole, nella quale è subentrato un abbandono a motivi irrazionali confermato da opere successive. La vicenda di Michelucci ha trovato riscontro tra coloro, di varia età, che l'hanno circondato. E. Detti, che è stato assessore comunale all'urbanistica, e alcuni che hanno collaborato con lui nei tentativi di rinnovare questo settore - F. Di Pietro, A. Montemagni, P. Sica - sono tra i pochi a mantenere una continuità con le esperienze precedenti al "miracolo economico". La sfiducia nel metodo razionale si è manifestata in molti altri, in un'esasperata ricerca di forme nuove da parte di L. Savioli e L. Ricci (che però ha fatto i suoi progetti probabilmente migliori per una comunità valdese a Riesi in Sicilia), nell'accettazione del prevalere di aspetti tecnologici da parte di I. Gamberini e P. L. Spadolini, nell'eclettismo di M. Dezzi Bardeschi, nelle fantasie avveniristiche di Superstudio e Archizoom.

L'inefficacia degli strumenti progettuali tradizionali rispetto ai problemi posti dall'espandersi della società industriale si era del resto già rivelata quelle volte che, nella stessa Firenze, si erano dovuti affrontare interventi di scala maggiore dell'opera singola. Per ristabilire attraverso l'Arno i collegamenti distrutti dalle truppe tedesche in ritirata, il nuovo ponte Vespucci, progettato da E. e G. Gori, E. Nelli e R. Morandi, si era inserito felicemente nel paesaggio urbano, e quello a Santa Trinita veniva rifatto esattamente com'era e dov'era con la cura amorevole e sapiente di E. Brizzi e R. Gizdulich; invece non si poteva considerare positivo il modo di ricostruire i grossi complessi edilizi che erano stati ridotti a cumuli di macerie sulle testate del Ponte Vecchio per ostruirne il passaggio. I difetti derivanti dall'insufficienza di legame con soluzioni e piani urbanistici moderni si sono manifestati ancora con evidenza nel quartiere di Sorgane, nel quale pure hanno lavorato alcuni dei migliori architetti della città, portando a volte contributi interessanti senza però riuscire a coordinarli fra loro.

Con difficoltà di questa specie, del resto, si sono misurati in genere gli architetti italiani, dopo essersi resi conto che per far fronte a un inurbamento massiccio non bastava il richiamo alle tradizioni dell'edilizia minore e che il rapporto tra parti antiche e nuove delle città andava posto in termini più vasti e complessi di quelli esemplificati dalla polemica accesa dal progetto di F. L. Wright per una piccola costruzione sul Canal Grande. I due problemi si sono intrecciati nel tema di un concorso che è stato bandito appunto per Venezia, per progettare un grosso insediamento (non eseguito) sul limite tra la terraferma e la laguna in vista della città, e che ha segnato una tappa nella vicenda della nostra architettura. Due soluzioni si sono presentate vistosamente notevoli; in una S. Muratori, il rappresentante più coerente e consapevole di una tendenza conservatrice di cui sono stati partecipi fra gli altri L. Moretti e L. Vagnetti, è tornato a usare tipi di case tradizionali aggregati in insulae, mentre un altro gruppo guidato da Quaroni ha disegnato quattro grandi fabbricati a mezzaluna, emergenti al di sopra di un'edilizia minuta, aperti a contemplare l'immagine quasi magica di Venezia verso l'orizzonte. Meno contrastanti di quanto siano apparsi a prima vista, perché ambedue allontanatisi dall'asse principale delle più impegnative contemporanee ricerche europee, cioè dallo studio sulla tipologia degl'interventi di dimensione intermedia tra l'edificio e la sistemazione a grande scala urbana, in quei due progetti non è azzardato rintracciare il principio di quelle vicende che hanno sollecitato A. Rossi a perseguire il recupero di valori perduti nell'architettura della città o hanno indotto altri a conglobare una somma d'interventi in un solo progetto di dimensione inusitata, come quello di V. Gregotti, F. Purini e altri per l'università della Calabria, o come quello per il complesso residenziale di Corviale, opera di un gruppo assai numeroso con alla testa Fiorentino, in corso di realizzazione a Roma. Se si considera poi che nel progetto veneziano Quaroni ha pensato di affidare all'iniziativa privata l'esecuzione dei grandi fabbricati dominanti lasciando il resto agli enti pubblici, con un ribaltamento di ruoli ribadito dai partecipanti a numerosi concorsi per centri direzionali, in quella scelta si avvertono il presentimento del contrarsi degl'interventi statali e municipali - uno dei pochi quartieri costruiti dopo di allora è Spinaceto a Roma di N. Di Cagno, P. Moroni e altri - e lo scetticismo a proposito della mancata riforma urbanistica.

Tali condizioni generali hanno trattenuto dall'estendere a un ambito più vasto il metodo progettuale e i risultati del progresso tecnologico sperimentati nell'attività svolta a contatto diretto con la produzione industriale, per quanto riguarda sia il disegno di oggetti fabbricati in serie, al quale parecchi architetti si sono applicati con successo, sia l'organizzazione spaziale degli ambienti di lavoro e dei relativi servizi. In tutti e due i generi di attività ha meritamente raggiunto un posto di primo piano M. Zanuso, progettista di arredi per la casa e la scuola, di macchine per cucire, telefoni, apparecchi radio e televisivi, di stabilimenti, come le fabbriche Olivetti in Brasile e Argentina, quest'ultima notevole in special modo. Alle costruzioni industriali hanno dedicato particolare attenzione A. Fiocchi, A. Galardi, G. L. Giordani, I. Malaguzzi Valeri, Sgrelli, E. Vittoria, M. Zaffagnini e altri, fra i quali vanno ricordati A. Mangiarotti e B. Morassutti, anche perché sono riusciti a usare bene soluzioni tipiche dell'architettura industriale in edifici di altra specie, rispettivamente nella chiesa di Baranzate e in una villa sulla penisola sorrentina. Riprendere indicazioni da progetti fatti per l'industria è apparso più normale nel caso di edifici abbastanza affini, come i padiglioni per la Fiera di Bologna di L. Benevolo, T. Giura Longo e C. Melograni o il supermercato di Gregotti nella periferia milanese; e ai confini tra architettura e industrial design si è collocato l'allestimento delle stazioni della metropolitana di Milano che Albini e Helg hanno saputo rendere accoglienti usando elementi semplicissimi e nelle quali hanno mostrato magistralmente come fare architettura popolare adeguata alla produzione industriale.

In complesso però il progettare per l'industria ha costituito un settore di lavoro specifico e piuttosto separato. Un personaggio tra i più costantemente e vivacemente presenti in campo architettonico, G. Samonà, il quale con gli scritti e l'insegnamento, le costruzioni e i progetti (da parecchi anni in collaborazione con il figlio Alberto) non ha tralasciato occasioni per intervenire dando un contributo originale, ha realizzato in Sicilia due centrali termoelettriche assai notevoli, che rappresentano un aspetto distinto della sua attività multiforme, orientata verso altre soluzioni già nella sede palermitana della stessa società elettrica, e ancor più in palazzi costruiti a Messina, Venezia, Treviso, Padova e nei disegni per i concorsi veneziani e romani, per la biblioteca Nazionale e per l'ampliamento degli uffici di Montecitorio. Considerazioni analoghe possono riguardare A. Olivetti, il quale non essendo progettista ma capo d'industria, tuttavia ha avuto una parte rilevante nell'architettura italiana del nostro tempo, sia per aver presieduto a lungo l'Istituto nazionale di urbanistica, sia per aver dato incarichi per piani regolatori, edifici industriali e amministrativi, negozi, servizi e abitazioni per lavoratori, disegni di macchine e mobili da ufficio a tanti progettisti, da Figini e Pollini a Cosenza, dai BBPR a Ridolfi, da Gardella a Quaroni, da M. Nizzoli a E. Sottsass, indirizzandoli in maniera contraddittoria a seconda che si sia trattato di lavorare a diretto contatto con la produzione, oppure per i servizi a essa accessori o infine per iniziative indipendenti. L'industria ha reso disponibili nuove soluzioni tecniche, l'uso delle quali non si è però abbastanza sviluppato, ed è stato viceversa limitato a casi particolari, soprattutto a quelli di uffici e organizzazioni che richiedevano sedi di prestigio, come ne hanno progettate P. Barucci, M. Bega, G. A. Bernasconi, L. e P. G. Castiglioni, P. Lingeri, G. Minoletti, i Monti, E. Montuori, M. Olivieri, i Passarelli, E. Zacchiroli. Persino progetti avveniristici o comunque caratterizzati dal disegno di forme senza precedenti - come quelli di M. Sacripanti o di M. D'Olivo, di L. Pellegrin o di G. Canella - piuttosto che assimilare sembrano contestare le proposte e le prospettive dello sviluppo industriale.

I molti autori e le moltissime opere che meriterebbero ancora di essere ricordate, pur con i loro specifici contributi, sarebbero in gran parte riconducibili nelle tre linee principali di ricerca formatesi attorno ai temi che abbiamo sommariamente indicati, cioè i rapporti tra esperienze della cultura europea e condizioni della nostra società, tra nuovi interventi e persistenze storiche, tra pratica progettuale, tecnica costruttiva e sviluppo industriale. Più abbondanti citazioni confermerebbero che sono tre linee tuttora parallele o poco convergenti e che un problema nodale resta quello di ricomporle invece in una risultante unitaria, esaltandone le connessioni e dipendenze reciproche. Se ne ha del resto una conferma di segno diverso dai numerosi giudizi che indicano in G. Valle il miglior architetto italiano della generazione oggi attorno ai cinquant'anni, cioè proprio un progettista che ha compiuto uno sforzo per rendere omogenei i suoi interventi, dal monumento alla Resistenza in Udine a municipi, servizi, abitazioni in Friuli, facendo leva sull'esperienza raccolta nel disegnare per l'industria oggetti, fabbriche, edifici tra cui spiccano gli uffici Zanussi a Pordenone. Ancora un altro genere di conferma della necessità di far confluire le varie linee di ricerca viene dai piani per il centro storico elaborati a Bologna dove, dopo la svolta impressa da G. Campos Venuti nell'urbanistica comunale, l'azione condotta da P. L. Cervellati e R. Scannavini ha segnato un salto di qualità nell'affrontare la questione delle città antiche appunto perché non l'ha più isolata e ne ha considerato assieme molteplici aspetti. Dopo aver compiuto interventi esemplari di restauro e di addizione in un'altra città storica illustre, Urbino, per la quale ha studiato anche il piano regolatore, G. C. De Carlo ha eseguito a Terni un quartiere per addetti alle acciaierie che è il miglior complesso di alloggi per lavoratori finora costruito in Italia; nel progettarlo ha stimolato suggerimenti e verifiche da parte di coloro che vi avrebbero abitato avviando, nelle forme ovviamente discutibili di un'esperienza iniziale, la ricerca di un'architettura che divenga popolare attraverso la partecipazione degli utenti. A Milano, nel quartiere Gallaratese, C. Aymonino, il più noto tra i progettisti romani che abbiano cominciato a lavorare dopo il 1950, ha realizzato accanto a un edificio di A. Rossi un altro grande complesso di alloggi che, concepito come un sol blocco sia pure articolato, potrebbe avere per l'architettura italiana uno dei significati che l'unità lecorbusiana di Marsiglia ebbe per quella europea, nel senso di mostrare in quale misura un intervento coordinato di edilizia residenziale ha possibilità d'incidere nell'ambiente urbano.

Al fine di non disperdere, lasciandoli non collegati, i vari contributi che si sono ricordati e di superare le contraddizioni a cui si è accennato, un aiuto ai progettisti potrà venire dalla critica architettonica, la quale ha avuto da noi una crescita notevole, segnalata innanzi tutto dal fatto che più di un autore si è misurato con il compito di trattare per intero la storia dell'architettura moderna. Il primo era stato B. Zevi, il quale di recente ne ha pubblicato una nuova edizione, e a questo e altri libri ha affiancato la direzione di una rivista e un'attività giornalistica puntualmente svolta per anni. Alla ricerca di contatto col pubblico, anche altri hanno stabilito rapporti di collaborazione con quotidiani e settimanali, e tra questi A. Cederna ha un posto particolare, per la polemica tenacemente volta a salvaguardare e migliorare l'ambiente. Alla storia di Zevi ne sono seguite una di L. Benevolo, con successo pure internazionale, tendente a prospettarla come un aspetto della più generale storia della società contemporanea, una di R. De Fusco e un'altra recentissima di M. Tafuri e F. Dal Co'. Alcuni architetti hanno del tutto abbandonato l'attività progettuale per dedicarsi agli studi critici; in casi come quelli di P. Portoghesi e A. Rossi è difficile dire se essi attribuiscano più importanza ai progetti o agli scritti. Mentre prima rappresentava un'eccezione chi, come Quaroni o G. Samonà, accompagnava con libri e saggi l'attività progettuale e di pianificazione, oggi gli architetti che scrivono sono diventati numerosi: Aymonino, E. Battisti, F. Borsi, S. Bracco, Canella, P. Ceccarelli, C. Dardi, De Carlo, V. De Feo, C. de' Seta, M. Fabbri, V. Gregotti, G. K. Koenig, I. Insolera, M. Manieri Elia, M. Porta, V. Quilici, E. Salzano, A. Samonà, F. Tentori, e si potrebbe seguitare nelle citazioni. Vi sono state ristampe importanti, in particolare la raccolta (a cura di G. Veronesi, attenta commentatrice del rinnovamento della nostra architettura fin dai primi tempi) degli scritti sparsi di E. Persico, che si conferma critico tra i più intelligenti, in campo internazionale, durante il periodo tra le due guerre.

Le numerose traduzioni pubblicate dai nostri editori sono segno di quanto si sia allargato l'orizzonte entro il quale si muovono gli architetti italiani. Spesso però il nostro giudizio sulle esperienze straniere tende a generalizzare considerazioni negative pertinenti allo stato dell'edilizia pubblica e dell'urbanistica nel nostro paese, e sottovaluta certi risultati raggiunti altrove che, anche se sono parziali, vanno commisurati alla complessità e novità dei problemi da affrontare. Alcune ricerche europee non hanno riscosso presso di noi quel seguito che era d'aspettarsi, specie quando esse corrispondevano a contenuti analoghi a quelli che ci hanno interessato. Del cosiddetto "brutalismo", la tendenza più promettente manifestatasi in questi anni, e della quale pure sono rintracciabili anticipazioni nel lavoro di nostri progettisti (forse addirittura in qualche edificio di Gardella dell'anteguerra) sono rimasti a lungo quasi unici esempi italiani, a Milano, la chiesa della Madonna dei poveri di Figini e Pollini e l'istituto Marchiondi di V. Viganò. Gli scambi con l'estero si sono tuttavia molto accresciuti, come dimostrano l'insegnamento affidato nell'università di Bologna a T. Maldonado e ad A. Rossi nel politecnico di Zurigo e gl'incarichi venuti da altri paesi per i nostri progettisti, a cominciare da colui che è internazionalmente più noto, P. L. Nervi. Mentre ha continuato a operare con intensità in I., costruendo grandi impianti indutriali e sportivi ed edifici d'eccezione - dal grattacielo Pirelli, in collaborazione con Ponti, A. Rosselli e altri, alla sala delle udienze papali in Vaticano - Nervi ha realizzato con M. Breuer e B. H. Zehrfuss la sede dell'Unesco a Parigi e con Moretti a Washington il complesso Watergate, celebre anche per la vicenda politica che lì ebbe inizio. Negli SUA, dove di frequente nostri architetti vengono invitati a insegnare per qualche periodo, lavorano stabilmente A. Giurgola e P. Soleri. Altro progettista di strutture di grande interesse, Morandi, al quale si debbono il salone sotterraneo per esposizioni a Torino, le aviorimesse Alitalia a Fiumicino, il viadotto sul Polcevera a Genova, è autore del ponte lungo circa 9 chilometri a Maracaibo in Venezuela. Nel quartiere Hansaviertel a Berlino, una delle case progettate da architetti di varie nazionalità per la mostra dell'Interbau, è di L. Baldessari; e sempre in Germania, Bega ha costruito uffici per l'editore Springer. Sono stati predisposti progetti per un museo al Cairo da Albini, per il centro politico di Tunisi da Quaroni, per la Conference Hall di Amman da Portoghesi; e si potrebbe considerare sintomatico che da parte nostra, nei confronti dei paesi in via di sviluppo dove operano molte imprese italiane, l'impegno più qualificato si rivolga a interventi del genere piuttosto che a iniziative destinate a incidere direttamente nella vita quotidiana di quelle popolazioni. Anch'esso edificio per servizi di carattere eccezionale, ma molto diverso per il disegno architettonico, che si richiama alle costruzioni industriali non solo nella tecnologia, è il centro per ricerche e manifestazioni culturali che, nel cuore di Parigi, spicca nella zona di Beaubourg e che è stato progettato da R. Piano con gli inglesi R. Rogers e O. Arup, nel gruppo vincitore d'un concorso internazionale.

Reciprocamente sono stati eseguiti all'estero vari progetti per l'I., soprattutto per incarico di governi o enti di altri paesi. Tra le sedi delle rappresentanze diplomatiche e delle istituzioni straniere presenti nella capitale, meritano di essere notati l'Istituto di cultura danese a Valle Giulia di Kay Fisker, e l'ambasciata di Gran Bretagna a Porta Pia di Sir B. Spence. Quando l'incarico è venuto da committenti italiani, quasi mai i progetti si sono realizzati; fanno eccezione gli uffici Mondadori a Segrate presso Milano, per i quali O. Niemeyer ha ripreso soluzioni tipiche di Brasilia. Non sono state attuate le idee di K. Tange per Bologna, né i progetti per chiese e altri edifici di A. Aalto, il quale però ha costruito il padiglione finlandese alla Biennale di Venezia, dove quello olandese è stato disegnato da G. Rietveld. Nella stessa Venezia gli stranieri hanno portato a compimento solo incarichi affidati dai loro connazionali, e invece sono rimasti sulla carta sia il già ricordato Masieri Memorial di F. L. Wright, sia un palazzo per congressi di L. Kahn, sia l'ospedale di Le Corbusier. Come tante altre proposte lecorbusiane, anche questa si è presentata in termini provocatoriamente accentuati, tali da alimentare le reazioni che hanno impedito di realizzarla, ma proprio la carica polemica l'arricchisce di spunti che segnalano un orientamento da seguire; l'uso della tecnica costruttiva moderna al servizio di un'organizzazione tipologica tanto originale quanto niente affatto complicata, e l'accordo del progetto per un edificio così nuovo e grande con l'ambiente preesistente, in una città quale Venezia, sembrano insistere sulla necessità che gli architetti italiani giungano a comporre e a verificare in una ricerca unitaria quelle che sinora hanno condotto su problemi separati. Vedi tav. f. t.

Bibl.: G. Boaga, B. Boni, Riccardo Morandi, Milano 1962; C. Blasi, Figini e Pollini, ivi 1963; M. Tafuri, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia, ivi 1964; G. C. Argan e autori vari, Leonardo Savioli, Firenze 1966; Giovanni Michelucci, a cura di F. Borsi, ivi 1966; L. Lugli, Giovanni Michelucci, il pensiero e le opere, Bologna 1966; A. Galardi, Architettura italiana contemporanea (1955-1965), Milano 1967; M. Garimberti, G. Susani, Sacripanti architettura, Venezia 1967; V. Gregotti, Orientamenti nuovi nell'architettura italiana, Milano 1969; G. C. Argan, Franco Albini, ivi 1969; E. Bonfanti, M. Porta, Città, museo e architettura. Il gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Firenze 1973; C. Aymonino e autori vari, Giuseppe Samonà 1923-1975. Cinquant'anni di architetture, Roma 1975; V. Savi, L'architettura di Aldo Rossi, Milano 1976; Autori vari, Il dibattito architettonico in Italia 1945-1975, Roma 1977.

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