Italiano

Libro dell'anno 2003

Italiano

"Sao ko kelle terre per kelle fini

que ki contene trenta anni le

possette parte Sancti Benedicti"

(Placito di Capua)

Italiano, oggi: l'antico, il nuovo

di Gian Luigi Beccaria

14 marzo

Si apre a Firenze, alla Galleria degli Uffizi e alle Reali Poste, la prima grande mostra sulla storia della lingua italiana, intitolata con espressione dantesca Dove il sì suona. Ideata dalla Società Dante Alighieri e promossa dall'Ente Cassa di Risparmio di Firenze in collaborazione con la Soprintendenza speciale per il Polo museale fiorentino e con Firenze Musei, si propone di ricostruire l'evoluzione dell'italiano dal primo documento conosciuto, il Placito di Capua, a oggi, nonché delineare il quadro della sua diffusione nel mondo.

L'antico e il nuovo

Siamo entrati nel Duemila, i modi di vita stanno cambiando velocemente, ma la lingua italiana è sì in movimento, come tutte le lingue del resto, ma in sostanza è mutata assai poco, continua ad aprirsi al nuovo restando saldamente ancorata al passato. L'italiano dell'età della globalizzazione a volte sembra ancora vivere nei campi. La civiltà contadina sepolta resiste, sopravvive tenace nelle frasi idiomatiche d'uso. Continuiamo a rimuovere secoli di pensieri e di metafore rurali: manteniamo verbalmente in vita i modi di una vita defunta, continuando - faccio qualche esempio - a 'cercare l'ago nel pagliaio' (anche se di pagliai non c'è più ombra nelle nostre campagne) e a 'essere dritti come fusi' anche se non si fila più a mano. Carri e buoi sono ormai ricordo, ma, ancora si 'ungono le ruote', si è 'l'ultima ruota del carro', si 'mette il carro davanti ai buoi', si va a 'chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati'. E, come se si fosse pastori intenti a mollare la corda a una pecora o a una capra perché bruchi man mano sempre più erba intorno, si continua a 'dar corda', a 'dar spago' a qualcuno, e ... si 'piange come un vitello', si 'scrive come una gallina', c'è chi ben 'conosce i propri polli', chi 'alza la cresta', c'è la mamma che 'fa la chioccia', c'è chi è 'un pulcino bagnato', chi 'rompe le uova nel paniere', chi si 'dà la zappa sui piedi', chi 'dorme della grossa', che era l'ultima profonda dormita, la più lunga, dei bachi da seta, quelli che le nostre nonne un tempo allevavano in casa (Beccaria 20022, p. 117). Un italiano nato in cascina, e destinato a durare: perché continueremo a essere 'menati' o a 'menare per il naso' qualcuno, senza pensare più alla fonte campestre dell'immagine, presa non certo da qualche anello nasale di piercing, ma dall'usanza di mettere un anello di ferro alle narici di animali irrequieti come tori o bufali, per tenerli a freno e condurli, come bestie rese mansuete. Così, continueremo per l'eternità a 'prendere due piccioni con una fava', locuzione anch'essa di origine contadina, dal tempo delle trappole per la caccia ai colombi selvatici, con le fave usate come esca. Un fondo casalingo, popolare e contadino pervade questo tipo di espressioni ancora del tutto correnti, in molta parte diffuse dalla Toscana nell'italiano nazionale ottocentesco. Ora l'apporto del mondo rurale-casalingo si è interrotto. Altre le fonti moderne per nuovi apporti. Nel nostro tempo 'ammotorato' (come lo ha chiamato Giorgio Caproni) l'auto, entrata a far parte della vita quotidiana, pervade il linguaggio corrente, in specie quello informale, o giovanile. Il lessico del motore a scoppio si è fatto rapidamente metafora usuale: chi non è perfettamente a suo agio non 'ingrana', non 'carbura bene', 'batte in testa', è 'sfasato', ha le 'batterie scariche', chi si eccita più del dovuto può 'imballarsi', essere 'su di giri'; c'è chi 'parte in quarta', chi 'ha una marcia in più', chi va 'in presa diretta', o 'a tutto gas', chi 'sbiella', chi 'sballa', o è 'fuso', o ha 'grippato'. Chi si innamora perdutamente prende una 'sbandata', il buon bevitore 'fa il pieno', c'è chi necessita di una 'iniezione di super', c'è la ragazza 'super', per essa si possono avere 'ritorni di fiamma'. Ma oggi navighiamo nella rete. Il computer è diventato come una parte dell'arredo, usiamo tutti un PC, e il linguaggio dell'informatica pervade il linguaggio corrente, non solo quello degli utenti di un personal. Tra i più giovani già ho sentito "non me ne importa un bit", o "in un bit" 'in un attimo', e cliccare nel senso di puntare, toccare, con allusione sessuale, o "imellami quel file", cioè spediscimelo per e-mail. L'informatica introduce nella nostra lingua grande quantità di anglismi. Unico elemento non inglese è proprio la parola "informatica", traduzione del francese informatique, proposta che risale al 1962. Ma per la stragrande maggioranza dei casi, gli anglismi celebrano il loro trionfo: bit, byte, chip, file e non "filza", come si sarebbe anche potuto dire, mouse (e non "topo"; i francesi dicono la souris), e poi input, software, scanner, modem, data base, floppy, password ecc. ecc. Sono già di largo uso adattamenti tipo editare, printare, inputare, runnare, settare, formattare, o riformattare, e tempo e metodo di accesso, suicciare (da to switch "commutare"), scrollare (to scroll "arrotolare"), processare, hackeraggio, resettare, settare, cioè "preparare", per es. una stampante, fare in modo che funzioni, scannerizzare, o il più truculento sostituto scannare (nei gerghi giovanili di area romana ho sentito il termine scannerata riferito a una ragazza, "passata allo scanner", cioè molto truccata, quasi rifatta col bisturi). E poi: masterizzare, craccare (da crack), duplicare un cd che ha una protezione, quel cd che poi si dice craccato; e da random, che vuole dire "casuale", riferito alla ricerca, ecco quella sorta di sodomizzazione della nostra lingua riscontrabile nel terrificante verbo randomizzare. A testimoniare l'influsso di questo nuovo linguaggio settoriale sul linguaggio corrente basterebbe notare come alcune parole già esistenti (compatibile, intelligente, virtuale, interattivo) abbiano subito in tempi recenti rapide estensioni semantiche. E si pensi a interfaccia, che da specialistico che era è rapidamente diventato metaforico: per es., nell'espressione 'interfaccia fra i livelli direttivi e gli organismi sindacali', si nota come il già metaforico significato di 'collegamento', 'punto di contatto' si sia ulteriormente allargato ad assumere il significato di 'intercomunicazione fra gruppi sociali o fra enti'; ma ora il neologismo ha ormai raggiunto il livello dell'italiano medio: ho già sentito usare il verbo interfacciare nel senso di "lavorare in stretto collegamento con qualcuno o qualche cosa". E potremmo vedere ancora implementare, che nel linguaggio corrente si comincia a usare in senso molto più vago.

Le parole dell'informatica e dell'elettronica si affacciano sulla scena come le nuove 'parole potenti'. Un alone magico le contorna. Tutto ciò che è computerizzato, elettronico, digitale non rappresenta forse la perfezione, l'assoluto, di per sé?

Novità apparenti

Abbiamo dunque la sensazione di vivere in un momento di grande mutamento e arricchimento della nostra lingua, anche per gli apporti esterni. Si pensi al massiccio afflusso dei neologismi anglo-americani. C'è chi ne è preoccupato al punto da temere una perdita di identità, un inquinamento fatale, e già paventa la fine addirittura, il giorno non lontano in cui la nostra lingua potrebbe essere sommersa. Fantalinguistica, direi, perché non ci troviamo affatto in un periodo di rivolgimento che possa essere paragonato alla fine dell'Impero, quando morì il latino, con l'arrivo dei barbari, i Longobardi alle porte… L'italiano è una forte lingua di cultura (e non solo), gode di ottima salute, è parlato da una comunità di quasi 60 milioni di persone, amato e studiato fuori d'Italia come lingua dell'arte, della musica, della letteratura, e ora della moda, della gastronomia, del made in Italy. Ma parlavamo delle novità, del mutamento. L'italiano non è una di quelle lingue che abbiano subito sia nel lungo sia nel breve periodo dei cambiamenti importanti o radicali. Qualche tempo fa, mentre vedevo il bellissimo film di Ermanno Olmi, Il mestiere delle armi, notavo quanto l'italiano cinquecentesco richiamato nelle frequenti didascalie fosse così poco distante da noi, chiaro ancora e parlante alle orecchie di un italiano del Duemila. Rispetto all'italiano antico, il moderno è certo cambiato in modo apprezzabile nell'ordine delle parole, ma sulla mobilità vistosa tutto sommato prevalgono gli elementi di continuità e persistenza. In una recente statistica Tullio De Mauro notava che "quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%", e "alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo al 90%" (De Mauro 1999). Ma a parte il lessico, straordinaria soprattutto è la stabilità morfologica, se si pensa per es. alla morfologia del verbo. Noi continuiamo a dire faccio, come Dante, e non fo, come i fiorentini oggi. Dante non è poi così lontano, e per questo non troppo difficile da leggere per un lettore moderno (si pensi invece alla situazione francese o spagnola: il Cid e la Chanson de Roland vanno tradotti perché uno spagnolo o un francese d'oggi li possa capire). La lingua d'oïl, fase medievale del francese, è un sistema linguistico diverso dal francese moderno. Dante non è difficile da capire, neppure la sublime poesia dell'ineffabilità dell'ultimo canto del Paradiso che Roberto Benigni ha fatto di recente ascoltare a una larghissima platea di telespettatori.

Con tutto ciò, non intendo tacere sui cambiamenti notevoli che ci sono stati, in specie negli ultimi decenni. Ho appena citato il caso dell'informatica, ma basti pensare all'aumento dei neologismi tecnico-scientifici nei vari ambiti, dall'astronautica alla genetica, dalla fisica all'ecologia. Un articolo di Giorgio Calcagno, su La Stampa del 9 ottobre 2002, che presentava l'imminente Zingarelli 2003, evidenziava come qualche parola sette-ottocentesca sia stata espulsa, perché non più in uso: chiucchiurlaia 'schiamazzo di molte persone che parlano insieme', materassabile 'donna che consente facilmente agli inviti amorosi', prête-à-coucher direbbero oggi i francesi; tra qualche po' toccherà a toscanismi ottocenteschi come passeraio 'schiamazzo', scozzonare 'ammaestrare'. Tuttavia, come sempre capita anno per anno, sono accolte nella nuova edizione del Dizionario molte parole nuove: dalla politica no global, antiglobalizzazione, bioterrorismo (manca girotondino), al calcio curvaiolo 'tifoso fanatico e turbolento', ecc. E basterebbe soltanto elencare i neologismi con prefissoide tele- (Beccaria 2002).

Comunque sia, ribadisco, la novità fa segnare una percentuale relativamente bassa rispetto alla tenuta, al corpo tradizionale del nostro lessico. La novità è spesso apparente: ci sembra nuovo ciò che è talvolta documentato da tempo. Perché le parole seguono un percorso carsico. Penso a quando cadde il primo governo Berlusconi, e si parlò di ribaltone, voce che parve ai più ingegnosa invenzione, mentre in realtà era parola radicata già nell'Ottocento, caduta per un po' in disuso (si veda il vocabolario del Tommaseo) e poi ripescata. E penso a globalizzazione, vocabolo che prima di indicare la tendenza dei mercati e delle imprese ad assumere una dimensione mondiale superando i confini nazionali, era già di largo uso sia pure nella cerchia ristretta degli specialisti: nasce dal francese globalisation, dove indicava quel particolare processo cognitivo tipico dei bambini che consiste nel cogliere una determinata realtà, un oggetto per es., prima nel suo insieme, nella sua globalità, poi nei singoli elementi che lo compongono. Per quanto attiene il cambiamento, Lorenzo Renzi ha suggerito di andare a rivedere qualcuno dei primi film sonori (il sonoro arriva in Italia nel 1930): chi lo fa, non resta affatto colpito da novità vistose; anche se sono passati settant'anni, l'italiano parlato di oggi non pare così distante da quello degli anni Trenta, come ci si aspetterebbe (Renzi 2000). Rispetto ad altre lingue, la nostra è cambiata di meno, è restata molto vicina alle sue origini. Ho già detto che l'elaborazione letteraria trecentesca del dialetto fiorentino le ha fornito le strutture fondamentali, e in esse ancora ci riconosciamo. Tanta stabilità è dovuta al fatto che nei secoli passati l'italiano non è mai stato una lingua popolare, molto parlata, ma una lingua destinata alle scritture, lingua per pochi, lingua in parte estranea ancora a chi nell'Ottocento aveva contribuito a fare l'Italia (è noto che Camillo Cavour era incapace di sostenere un discorso parlamentare in italiano senza lasciar cadere qua e là qualcosa del nativo piemontese o del francese), lingua per secoli quasi 'straniera' per la maggioranza degli italiani, da impararsi sui libri, sul vocabolario, come aveva fatto (per venire a secoli non molto lontani) il piemontese Alfieri, che il vocabolarietto se l'era fabbricato da solo, e girava con in tasca quel quadernetto di Appunti, che si trova presso la Laurenziana a Firenze e di cui anni fa curai la stampa per l'Edizione Nazionale delle Opere (Alfieri 1983). Alfieri vi appuntava su tre colonne prima il noto, vale a dire la voce francese, poi la piemontese, infine l'ignoto, la 'conquista', la voce italiana. Dal noto all'ignoto trascorreva faticosamente anche il lombardo Manzoni, sconciatore del Vocabolario della Crusca al punto che quel suo esemplare (ora è alla Braidense) l'aveva ridotto in modo da non lasciarlo più vedere (diceva proprio così), tant'era crivellato di appunti, aggiunte, sottolineature, postille (quelle poi pubblicate da Dante Isella nel 1964). Entrambi, oltre al dialetto, conoscevano meglio il francese della propria lingua. Manzoni, quando si accinge più di un secolo e mezzo fa a scrivere un romanzo nazionale, sa di avere tra le mani una 'lingua morta', non già uno strumento vivo e parlato. Di qui il suo lungo cammino in cerca di una lingua (tra l'altro, questo che dico fa sempre una certa impressione quando lo si racconta in Francia, oppure in Gran Bretagna, paesi dove da molti secoli si ha la conoscenza di una lingua come bene comune per un'intera popolazione e dove, a dispetto delle divergenze regionali, la maggioranza usa la lingua in ogni situazione, per cui trovano singolare una condizione come l'italiana con parlanti che hanno usato per secoli più della lingua nazionale i loro dialetti, e ancora li usano, in un paese insomma dove Torino e Potenza sono meno vicine per quanto riguarda la mutua intelligibilità, di quanto non lo siano toscano e castigliano).

Ma a parte la lingua per scrivere romanzi, era proprio la lingua della quotidianità che mancava. Ancora nell'Ottocento, non esisteva un italiano di conversazione comune a tutta la penisola. Avevamo fatto l'Italia, ma non l'italiano. L'unificazione linguistica dell'Italia era stata lenta, era mancato per quasi mille anni un potere politico (e quindi linguistico) centrale e l'affermarsi di un dialetto su tutti gli altri (il fiorentino) era stato il prodotto di fattori esclusivamente culturali. Difatti, più che a un popolo di parlanti, la diffusione della lingua fu dovuta per molta parte alla Commedia di Dante, al Canzoniere del Petrarca, al Decameron del Boccaccio, presi a modello di lingua da parte dei letterati toscani e non toscani, e sminuzzati in lemmi da proporre per norma (il Vocabolario della Crusca): un modello dunque fondato non su un toscano vivo e parlato, quindi mobile nel tempo, ma su un fiorentino scritto di autori sommi, fissato nella sua esemplare perennità in venerabili pagine. Di qui dunque la relativa immobilità della nostra lingua, il compiacimento (anche in prosa) per i tratti arcaici più di quanto sia successo in altri paesi d'Europa, la stabilità prevalsa sulla variabilità.

Comunque, a parte la storia nostra, c'è da dire che ogni lingua (qualsiasi lingua) è conservatrice per definizione. Si prenda un evento recente, il passaggio dalla lira all'euro. La lira, dopo secoli di vita, è morta e seppellita. Sennonché, a farla rivivere (verbalmente) ci penserà la lingua, che quasi tutto conserva, poco o nulla distrugge. Così come continuiamo a chiamare parrucchiere chi non fabbrica più le parrucche, e candela quella dell'auto che di cera non è più, e carrozza quella del treno, anche se i cavalli non la trainano, e penna quella che più d'oca non è, così non succederà di sentir dire 'non vali proprio un euro', e continueremo per l'eternità a essere 'senza una lira', a 'non guadagnare una lira', 'non vali una lira' si ripeterà ancora, o 'è un affare da poche lire'. Anche i soldi non esistono più, ma continuiamo a 'essere senza un soldo', chi accumula un capitale per continui risparmi 'aggiunge soldo a soldo', e diciamo 'soldo su soldo' nel senso di 'poco per volta', o 'hai qualche soldo in tasca?', 'quel tizio non vale quattro soldi', 'sei alto quanto un soldo di cacio', qui con due tratti conservativi, perché giammai potrò dire 'alto quanto un euro di formaggio'. Cambiano e passano gli uomini, i tempi, le cose e le lire, ma la lingua conserva.

Le voci perdute

Alle cose che sono cambiate ho dedicato i miei due ultimi libri, I nomi del mondo, uscito da Einaudi, e Sicuterat, uscito da Garzanti, entrambi dedicati non alle novità, ma al perduto, anche ai suoni, ai ritmi, alle voci scomparse, finite in tempi rapidissimi. Pure i bambini hanno cambiato i loro giochi e le loro cantilene, le filastrocche e i ritmi che facevano da contorno a quei giochi. I giochi finiti, occorrerebbero volumi per descriverli. Già prima della globalizzazione, erano uguali dappertutto. Più volumi ancora ci vorrebbero per raccogliere le cantilene oggi non più in corso che accompagnavano i giochi. Dappertutto si giocava a far uscire le corna alle chiocciole, e i ritmi e le parole si ripetevano quasi uguali in regioni tra loro non comunicanti, in questa "internazionale dei bambini", come la chiamò Primo Levi. Già nel Pentamerone, nella settima novella del XII libro, la fanciulla che va a cercare lumachine recita: "iesce, iesce, corna / ca mammata te scorna, / te scorna 'ncoppa l'astreco / che fa lo figlio mascolo"; due generazioni or sono in Piemonte si cantava ancora la filastrocca-minaccia: "lümassa, lümassora, / tira fora i to corn, / dass no, i vad dal barbé / e it je fass tajé", vado dal barbiere e ti faccio tagliare le corna, e così in Sicilia: "Nesci li corna cha mamma veni / e t'adduma lu cannilari", una minaccia di bruciare le corna con una candela, e in Toscana: "Chiocciola marinella / tira fuori le tue cornella / e se tu non le tirerai / calci e pugni tu buscherai". Ritmi e voci definitivamente perduti.

Numerose sono anche le conte defunte che i bambini recitavano per i giochi a nascondino. Chi ricorda più la filastrocca veneta: "Daghe la gianda / a la bissa boranda / de lo re, / quante feste, / trentatre! / sonaremo la campanela / per andare in pescaria. / Cíchete, cióchete fora via"? Ci vogliono i poeti in dialetto a ricordarle, lo fa Fernando Bandini che nei versi di Vento in Valsugana trascrive i ritmi del vicentino: "Sécio, secélo, oro pu belo, / oro pu fin, secondo marín, / tre naranze, tre limoni / per andare in becaría, / cíchete, cióchete, volta via". Galleggiano come relitti, nella loro assurdità semantica, sequele di segmenti non-senso, che celano però tra le righe, corrotte dall'usura del tempo e delle false equivalenze, qualche vago ricordo storico: "Pumpundoro la lire lancia / questo è un gioco che si fa in Francia / lo re, lo ro mi, lo re, lo ro ti, / Pumpundoro va fora ti", con infinite varianti: "Pim pum d'oro lalí lo lancia / questo è un gioco che si fa in Francia / leroleromí lerolerotí / pim pum d'oro sta fora ti", ecc., che proporrei di tradurre con un probabile "La Pompadour ed il re di Francia, questo è un gioco che si fa in Francia, il re sono io, il re non sei tu, Pompadour vattene tu".

Insomma, a voler cercare, s'alza ancora oggi uno sciame, un volo perduto di ritmi e cantilene. Ce n'erano di recitate anche dai più grandicelli. Un numero infinito era rivolto agli animali, per ingraziarseli, alla coccinella, alla lucciola. Il cucù era il più gettonato, in specie dalle ragazze, che chiedevano previsioni su quando avrebbero trovato marito, su quanti anni di vita erano loro riserbati.

Ma la scomparsa più evidente, si sa, tocca i dialetti. I rilevamenti statistici condotti dalla Doxa e dall'ISTAT confermano di anno in anno la tendenza espansiva dell'italiano, che si va stabilizzando in tutta la penisola a scapito dei dialetti. Assistiamo all'abbandono del dialetto come codice esclusivo, nei rapporti soprattutto extrafamiliari. È vero che in certe aree della penisola troviamo livelli sempre alti di dialettofonia, per es. nel Veneto, e al Sud, in Campania, Calabria, Sicilia, ma l'eccezione conferma la regola: l'uso del dialetto cala giorno dopo giorno. La scomparsa comunque è ancora lontana. Personalmente ne sono lieto. Ma soprattutto sono lieto che in molte scuole d'Italia, più che insegnare dialetto, come alcuni vorrebbero, si facciano utili ricerche sulle proprie radici, la storia locale, l'architettura, i toponimi, usi e costumi, fiabe, canti e proverbi, leggende e credenze, inchieste sulle parole perdute, insomma su tutte le forme culturali del passato legate al luogo in cui culturalmente e sentimentalmente si è radicati. I ragazzi sono sempre molto interessati a queste cose: intervistano la nonna, la vicina anziana, si divertono, si stupiscono, ricostruiscono.

Insisto sulle radici perché mi paiono fondamentali oggi più che mai, in un mondo che tende a farci perdere nell'indifferenza di una cultura anonima, senza memoria: e senza memoria il senso della pienezza e della complessità della vita va inesorabilmente perduto. Lo spaesamento, lo sradicamento, sono tra gli aspetti più nefasti della globalizzazione, della 'macdonaldizzazione' del mondo, la normalizzazione planetaria che cancella tradizioni e memoria storica. Già gli oggetti nelle vetrine del globo intero sono tutti gli stessi. A Shangai mangerò le stesse cose di Piazza di Spagna. C'è una splendida poesia del nostro già citato poeta di Vicenza, Fernando Bandini (s'intitola Negozi di uccelli) che recita: "Quando mi trovo in città sconosciute / cerco negozi di uccelli: / l'ho fatto a Ginevra a Londra / a New York ad Hong Kong / (dentro c'è un piccolo vento, nervosi / colori saettano in angoli d'ombra). // Ma non ho visto / in Asia shama d'Asia / in Europa cutrettole d'Europa / in America mimi poliglotti d'America: / sempre la stessa alata confraternita / di ogni parte del mondo / in gabbie made in Japan". È cambiata la considerazione del dialetto da parte del parlante. Quando negli anni Cinquanta il miraggio era la fabbrica, e in fabbrica si parlava italiano, il contadino inurbato s'impegnava a dimenticare la sua lingua da povero, il dialetto, del quale in fondo si vergognava. Oggi invece è in atto un recupero delle proprie radici, che non è soltanto linguistico, ma tocca com'è giusto la storia locale, le tradizioni ecc. Parallelamente assistiamo però a una rivendicazione spinta delle specificità e delle alterità etniche: penso alle varie richieste di autonomia di gruppi locali, di indipendenza dal potere centrale, la 'devoluzione' spinta. Da noi sta riprendendo quota, accanto a posizioni antieuropee, la considerazione (pericolosa) del dialetto come 'autenticità popolare', un'autenticità ritenuta 'tagliata', 'oppressa' dal peso di un italiano imperante. Si rivendica la tutela della 'lingua' locale da opporre alla nazionale. Così che, in nome della rivendicazione di una identità culturale, per es. in aree periferiche del Nord, molto sviluppate sul piano socioeconomico, si è finito con il rivendicare un'autonomia che a mio avviso esalta irrazionalmente una risibile 'padanità', una inesistente 'Padania'. Sta riprendendo nuova forza l'intolleranza, il mettere in rilievo ciò che distingue, che è certamente la strada peggiore per ricomporre tensioni e contrasti. L'apologia della 'comunità' chiusa e del bene 'particulare' non vorremmo che si rovesciasse contro la 'società'.

Il giornale

Ma sono argomenti intorno ai quali ruotano problemi di politica nazionale e internazionale più che di lingua italiana. Torniamo perciò al tema, l'antico e il nuovo nell'italiano oggi. Abbiamo detto ancora poco di che cosa è cambiato. Ma basta aprire i giornali per vedere quanto il lessico contemporaneo si stia arricchendo a getto continuo attraverso i mezzi derivativi o compositivi: prefissoidi a iosa (eco-, tele-, ciber-, euro- ecc.) e suffissoidi a gogò (penso ai fortunati -poli o -gate), per formare neologismi vistosamente espressivi, ma spesso effimeri. Il termine tangentopoli, per es., ha cominciato a proliferare in composti che hanno rifunzionalizzato l'elemento -poli per formare grappoli di voci (molto spesso occasionali, del tutto prive di tenuta) adatte a indicare l'esistenza di fenomeni di corruzione nell'ambito denominato nella prima parte della parola. Da tangentopoli sono di seguito rapidamente nati sui giornali concorsopoli, usato per designare i concorsi truccati, cantantopoli, scandalo per tangenti che si sarebbero sborsate per poter partecipare al festival di Sanremo, e terremotopoli, affittopoli, invalidopoli, mafiopoli, rifiutopoli, e chi più ne ha più ne metta. Così è successo e succede per -gate (Irangate, Iraqgate). Si è innescato un meccanismo (quasi una comoda marcia automatica) per cui sono sorte una dopo l'altra proposte tipo Atlantagate, Dublingate, Mitterrandgate, Hillarygate, Camillagate (su Il Mattino del 30 gennaio 1993 si leggeva per es.: "dopo il 'Camillagate' che ha coinvolto il principe Carlo"), e ancora, negli anni Novanta, Irpiniagate, riferito allo scandalo della corruzione fiorito nel periodo della ricostruzione dopo il terremoto in Irpinia del 1980. Il suffissoide -gate, nato nel 1974 con la vicenda Watergate, scandalo sorto ai tempi della presidenza Nixon, ha cominciato ad appiccicarsi a svariate parole senza legami con il senso letterale di -gate "cancello", che sottoposto a mutazione è diventato regolarmente sinonimo di 'scandalo'. Nel 1998, per Bill Clinton, si fece un gran parlare di sex-gate (la gente diceva spesso, erroneamente, sexy-gate). È tipico del giornale, una volta coniato un prototipo, riprodurlo in serie, per catene neologistiche, dando dimostrazione evidente che l'antico gusto del plurilinguismo e dell'edonismo verbale da noi non è mai morto.

Però non diamo troppo credito al giornale come specchio fedele dell'italiano oggi, un giornale che da noi, specie nei titoli, non fa da magnetofono all'esistente, ma è una sorta di 'teatrino' verbale, una vetrina acchiappalettori. Non rispecchia l'italiano standard. Non è il registratore fedele delle effettive novità di una lingua realmente parlata. Anche se, comunque, al di là delle punte edonistico-espressive, il giornale va tenuto in conto primario per mettere in evidenza le tendenze dell'italiano.

L'italiano parlato influisce sullo scritto

Non è possibile, nello spazio a disposizione di un breve intervento, indicare tutte le novità. Mi limiterò a indicare quella che mi pare una tra le più vistose. Interessa l'italiano scritto, oggi orientato verso l'oralità, guidato dall'oralità. Un tempo la lingua era intessuta da pochi grammatici e scrittori, adesso da una folla innumerevole di tessitori che sulle trame antiche tessono fili nuovi. E la tinta di questi fili ha un colore in genere 'parlato'. Stiamo assistendo a un assestamento dell'italiano verso una norma orientata sempre di più sull'oralità. Vedi appunto il giornale, non tanto le sezioni in cui prevale un modello di scrittura formale, i luoghi conservativi di moduli espositivi tradizionali e propri di un codice rispettoso della norma grammaticale (pagina culturale, articolo di fondo ecc.); mi riferisco invece alle sezioni più aperte verso quella scrittura soggettiva, che è attratta dai moduli della comunicazione reale e quindi più disponibile a staccarsi dal rispetto rigido della norma scritta. Si noterà che nelle pagine dei giornali loro dativo plurale è scomparso, sostituito da gli, che egli è usato sempre meno di fronte a lui soggetto (che è di ascendenza 'parlata'), che non è mai usato nelle interviste, quasi mai nel discorso diretto, qualche volta nelle parti espositive, ma in queste più spesso come svolgente funzione di ripresa anaforica nel contesto neutro e referenziale di articoli di cronaca (per es,: "La missione di Prodi presenta alcuni problemi. Egli deve..."). Per non dire di ella, totalmente assente, da almeno trent'anni: nei giornali degli anni Settanta faceva registrare ancora una sia pur scarsa vitalità, ora è stato definitivamente soppiantato da lei; e così vale per essa (salvo che in sintagmi fissi come 'anch'essa'). Pensiamo poi al che polivalente, un caso evidentissimo di coloritura 'parlata' (tralascio gli esempi). Sono tutti modi colloquiali che stanno penetrando nell'italiano scritto, lo stanno cambiando.

Oggi ha maggior peso l'oralità della scrittura. I libri, gli scrittori influiscono di meno sulla lingua rispetto a quanto succedeva nell'Ottocento e ancora nel secolo scorso. Il posto ora è stato preso da tecnici e scienziati. E dai mass-media. Non più a intellettuali e a scrittori (poeti, romanzieri), bensì a giornali e televisione tocca il compito di diffondere le parole nuove. In passato, e fino a un passato non lontano, era compito dei libri suggerire neologismi, lasciare nel linguaggio comune dei resti vistosi e duraturi. L'ultimo grande scrittore che ha introdotto nell'italiano parole che hanno avuto corso nella lingua comune è stato D'Annunzio. Sua la paternità di voci (alcune non più vulgate) come teoria, nel senso di 'lunga fila', e velivolo, o malioso; suo il lancio di una parola di Wagner, golfo mistico; è stato D'Annunzio a proporre fusoliera, a diffondere neologismi dell'auto come cerchione o cofano.

Il burocratese

Oggi le parole d'autore sono parto piuttosto di tecnici, e molto viene dai politici e dai giornalisti. Ma il linguaggio settoriale che da ultimo ha pesantemente influenzato la nostra lingua, sia scritta sia parlata, è il linguaggio dell'amministrazione, della burocrazia. Per un verso ciò è dovuto anche a una tendenza generale, tipica dell'oggi, vale a dire la singolare incidenza del termine genericamente tecnico sulla lingua del quotidiano. Non più la letteratura o il popolaresco ma la tecnologia e le scienze costituiscono gli attuali modelli di riferimento. La cultura delle nazioni cosiddette 'civilizzate' è diventata, da prevalentemente umanistica che era, prevalentemente scientifica e tecnologica. Le lingue del mondo stanno subendo un rapido processo di 'disumanisticizzazione' e di tecnificazione. Anche le persone di media cultura, quando possono, finiscono con il preferire enucleare o estrapolare a 'tirare una conclusione', pensano che erogare (l'energia elettrica, o il gas) sia meglio di 'fornire', e cefalea o emicrania più appropriato di 'mal di capo', e tachicardia di 'palpitazioni' o 'batticuore', ematoma di 'livido', e così via. Certo, il linguaggio dell'ufficialità sui parlanti meno colti ha sempre avuto un grande potere trainante. Ma in Italia il modello ufficiale-burocratico si impone con tecnicismi molto spinti, a volte ai limiti del grottesco. Potremmo qui divertirci a segnalare obbrobri e deviazioni a non finire. Gli uffici partoriscono una parola al giorno. Nella mia città (Torino) sono comparsi da qualche tempo gli utilissimi distributori di sacchetti per deiezioni canine. L'USSL, se ha bisogno di un muratore, bandisce il concorso per un operatore tecnico, celando, chissà perché, una nobilissima, onesta, per nulla opaca parola, muratore, con la quale per secoli ci siamo capiti tutti.

È tipico dell'uomo di scrivania il buttarsi, quando può, sui termini più paludati, su quelli il più possibile distanti dall'uso comune. Si dà la preferenza alle forme che paiono più neutrali e distaccate, quasi che ottemperare fosse più appropriato di rispettare, pervenire di arrivare, oblazione di pagamento, diniego di rifiuto, condizione ostativa di impedimento. Dicevo prima che a molte persone farmaco sembra più appropriato di medicina, terapia più prestigioso di cura, sedativo o analgesico più efficaci di calmante. Si tratta di parole che paiono incutere un maggiore rispetto verbale. Non è forse di una ineluttabilità irreplicabile il modo 'aeroportuale', così neutro, asettico, ma anche così persuasivo, quando annuncia il "ritardato arrivo dell'aeromobile in transito"? Ti rassegni, e aspetti. I linguaggi ufficiali sterilizzano l'enunciato, lo fanno avanzare con passo prudente, circospetto, ma perentorio: modi come procedere all'arresto, trarre le conclusioni rispetto ad arrestare, o concludere sembra che facciano riferimento ad atti più ponderati, a decisioni più meditate, definitive. Sembra: in realtà l'adagiarsi nel formulismo, nell'impersonale routine di provata ufficialità, più che alla volontà di essere chiari e precisi, è molto spesso dovuto all'umana pigrizia. Le parole neutre, analgesiche, librate in un cielo immateriale, si impongono nell'uso generale, ed emarginano le parole tradizionali, che al parlante sembrano più banali, meno efficaci. Così la saporosa parola popolare, giorno dopo giorno, si avvia al tramonto. Lo stesso capita alla culta, che muore per incultura dell'utente. La tendenza generale va verso lo stereotipo, la parola senza risonanze. Si lascia colare la lingua come in stampi prefabbricati. Vorrei in proposito ricordare quella domenica dell'alluvione di un anno fa, quando Lombardia, Valle d'Aosta, Piemonte stavano sotto l'acqua. Al TG3 della sera (erano giorni in cui i fiumi non straripavano più come avevano sempre fatto, ma 'tracimavano', o 'esondavano') mi è tanto piaciuta, a contrasto del formulario, la durezza e l'autenticità popolaresca della lingua di una contadina anziana intervistata che serenamente, tra mezzo al grigio dei comunicati e degli interventi ufficiali, disse: "Voglio bene al Ticino, anche se quel porco ogni tanto viene a lavarmi i piedi".

L'italiano neutro e grigio, che sempre di più si sente in giro, o fuoriesce da TV e TG e comunicati vari dell'ufficialità, è molto contagioso, è l''epidemia', la 'pestilenza' di cui parlò Calvino nelle Lezioni americane. Si ha l'impressione (per riandare a una stupenda pagina di Rabelais nel Gargantua) che le parole si siano raggelate in candelotti di ghiaccio che pendono dal cielo, parole che non hanno più suono, tanto sono ripetute e ripetute, sempre quelle. Calvino scriveva: "L'automatismo [tende a livellare] l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze" (1988, pp. 58-59). Egli concludeva con un'appassionata esaltazione della letteratura, forse la sola - diceva - che potrebbe ancora creare degli anticorpi che contrastino l'espandersi di una lingua soprattutto strumentale, 'segnaletica', che tende a sostituire l'efficacia comunicativa all'efficacia espressiva. Oggi anche questa speranza di Calvino comincia a sembrarmi illusione.

L'italiano nel mondo

Cenni storici

La genesi e l'evoluzione dell'italiano dalle sue origini, fra gli ultimi decenni del 12° secolo e i primi del 13°, fino a oggi, rappresentano un fenomeno estremamente complesso. Sono necessari secoli di storia prima di approdare, nell'Ottocento, alla formazione di una lingua di conversazione che, al di là delle differenze regionali e dei tanti dialetti, cominci ad assumere una sua interna e compatta unità e sia parlata in tutta la penisola. Nel corso di questa vicenda fu inizialmente predominante il ruolo dell'Italia centrale. Accanto a una serie di testi documentari (fra cui il Placito di Capua, del 960, che definisce una controversia territoriale legata al monastero benedettino di Montecassino ed è considerato l'atto di nascita del volgare), provengono dalla zona compresa fra Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo molti dei testi letterari arcaici, come il Ritmo cassinese, il Ritmo di Sant'Alessio, la Lamentatio Mariae, il Pianto delle Marie ecc., e soprattutto le Laudes creaturarum, o Cantico di frate Sole, composto da san Francesco (1224 circa), con l'esplicito proposito di utilizzare una lingua accessibile agli illetterati. La Scuola Siciliana, del 1230-1250, aprì ulteriormente la via del volgare come lingua letteraria, esercitando anche un'importante funzione aggregante per numerosi poeti del centro Italia, soprattutto toscani. Alla fine del 13° secolo e nei primi decenni del 14° un complesso di circostanze (la preminenza politica, la diffusione delle compagnie commerciali in tutta l'Europa occidentale, la straordinaria fioritura artistica) fece sì che Firenze assumesse, anche dal punto di vista linguistico, una posizione di assoluto predominio sulle altre città italiane. Naturalmente fattore determinante in questo processo fu l'importanza assunta dall'opera di Dante prima, di Petrarca e Boccaccio poi. Ed è Dante che nel XXXIII canto dell'Inferno dà la prima definizione unitaria della nostra lingua, chiamando gli italiani "le genti del bel paese là dove 'l sì suona".

Nei secoli successivi, come si è accennato, l'italiano si afferma soprattutto come lingua scritta e di cultura, aprendosi progressivamente tuttavia a possibilità di utilizzo sempre più ampie. Parallelamente si rafforza il processo della sua diffusione nel mondo, inizialmente circoscritto al campo delle attività marittime e commerciali, e poi dilagato in molti altri settori durante il Rinascimento, quando l'Italia rappresenta uno dei poli essenziali della cultura europea e i prestiti dall'italiano pervadono il lessico intellettuale, letterario, artistico, nonché quello della moda e della cucina. L'importanza delle Repubbliche marinare di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia aveva fatto sì che già a partire dal 10° secolo molti italianismi penetrassero in altre lingue, soprattutto il neogreco e il francese, e attraverso di esse in altri paesi, anche non in contatto con l'Italia. Come conseguenza della impareggiabile mole di traffici gestiti dai mercanti e dai banchieri italiani in epoca medievale, soprattutto senesi, fiorentini, veneziani e lombardi, la terminologia europea commerciale si arricchì ulteriormente di termini derivati dall'italiano: la parola lombard, in Inghilterra, Belgio e Francia, prese il significato di 'banchiere', la maison de lombard era la banca di prestito, e tuttora esiste Lombard Street, nella city di Londra; il termine 'fiorino', la moneta coniata a Firenze nel 1252 e utilizzata per i pagamenti internazionali, entrò, insieme a 'ducato', in diverse lingue europee già nel 14° secolo. Ma si trattava di un fenomeno marginale, che soltanto in epoca rinascimentale assunse caratteristiche di notevole portata e di forte impatto, anche in seguito all'immediata traduzione e divulgazione di opere come il Principe di Machiavelli o il Cortegiano del Castiglione, fondamentali nel delineare la nuova concezione dell'uomo sulla quale si improntava la cultura europea in quel periodo. Per questo tramite in tutte le lingue europee si trovano espresse con parole di origine italiana nozioni di vita di corte (cortigiano, favorito, soldato), di tradizione letteraria (sonetto, madrigale), di belle arti (modello, profilo, busto, fresco), di architettura civile e militare (facciata, arcata, casamatta, balcone), così come di moda (profumo, cappuccio) e di gastronomia (maccheroni). Importante veicolo dell'espansione dell'italiano in Francia, Inghilterra, Spagna, nel mondo di lingua tedesca è la letteratura. La Divina Commedia, il Canzoniere, il Decamerone, l'Orlando Furioso, la Gerusalemme Liberata, e altre opere ancora vengono letti in lingua originale da coloro che la conoscono, dagli altri in traduzione, costituendo comunque in tutti e due i casi un modo di accedere alla cultura italiana. Alcuni autori assurgono a modello per tutte le letterature europee. È il caso soprattutto di Dante, Petrarca e Boccaccio, precocemente conosciuti e imitati in tutta Europa, dove le loro opere continueranno a esercitare un'influenza duratura. Questo vale in particolare per Petrarca: la poesia d'amore europea risentirà per tre secoli del modello del petrarchismo, anche dal punto di vista del lessico. Nel Rinascimento, dunque, tutte le biblioteche degli intellettuali europei sono piene di libri italiani, mentre si afferma la nozione dell'italiano come lingua dal suono dolce, adatta alla poesia d'amore e al linguaggio galante. Sempre nel Quattro-Cinquecento, l'italiano diviene una delle lingue centrali della diplomazia e della scienza. Si può ricordare come le università italiane richiamino numerosi filosofi e scienziati stranieri, come il tedesco Niccolò Cusano (1401-1464), che studia a Heidelberg e a Padova, o il polacco Nicola Copernico (1473-1543) che frequenta le università di Cracovia e Bologna.

Il modello teatrale italiano, con gli scritti di Bibbiena, Ariosto, Aretino, Machiavelli è ammirato dovunque ed esercita una influenza notevole sul teatro elisabettiano inglese. Nel Seicento è da segnalare l'influsso esercitato dalla Commedia dell'Arte e dalle sue maschere (Pantalone, Pagliaccio, Pulcinella ecc.), già note a Parigi alla fine del 16° secolo e poi diventate famose in tutta Europa. Ma è soprattutto la tradizione musicale italiana e in particolare quella operistica e violinistica a essere esportata all'estero, per opera anche di maestri italiani divenuti docenti apprezzati, come per es. Antonio Salieri (1750-1825). Il lessico musicale è costellato di termini italiani: da opera e pianoforte a cantata, canzonetta, capriccio, concerto, fantasia, fuga, sinfonia, sonata solo per citarne alcuni, mentre adagio, allegro, presto, accelerando, legato, staccato ecc. entrano nella terminologia del bel canto come indicazioni agogiche universali. In campo musicale, è soprattutto grazie all'opera, promossa in Francia dal Mazzarino a partire dal 1645 e da lì diffusasi nei maggiori teatri europei, che tutto il mondo comincia a parlare italiano, essendo italiani i librettisti che collaborano con i grandi musicisti ed essendo i libretti scritti appunto prevalentemente in italiano.

Nel Settecento ha inizio l'abitudine di studiare l'italiano a fini 'turistici': l'Italia diviene infatti la meta privilegiata del Grand Tour, il viaggio di formazione compiuto dai giovani benestanti inglesi, francesi, tedeschi, fiamminghi. Insieme ai grandi stranieri, come Goethe e Stendhal, questa miriade di turisti colti contribuisce a diffondere un atteggiamento di grande entusiasmo per l'Italia e per tutte le cose italiane, una vera e propria 'italomania'. Insieme al francese e, anche se in misura decisamente minore, allo spagnolo, l'italiano continua a essere la lingua internazionale di cultura. Sotto gli Asburgo, l'italiano è, con il latino e il tedesco, la terza lingua ufficiale nella quale, per es., si potevano redigere i testamenti. Parlato dai tedeschi assume un carattere più pratico, che si differenzia notevolmente dall'italiano aulico e letterario parlato dai francesi. A partire dall'Ottocento, parallelamente a un declino sostanziale dell'influenza italiana sulla cultura europea, il numero degli italianismi adottati in altre lingue si riduce (vale comunque la pena di ricordare l'uso internazionale del termine pila, per designare l'invenzione di Alessandro Volta). Nel Novecento, più che alla vita culturale, la diffusione dell'italiano è fortemente legata al movimento migratorio. Per questo tramite diventano internazionali parole della cucina (pizza, pasta, spaghetti, espresso) e altre di ben più triste significato (mafia). Il fenomeno degli italianismi si è riproposto negli ultimi decenni su basi del tutto nuove, anche se in qualche modo connesse all'idea, nata nel Rinascimento, che mette in relazione l'Italia e l'italiano al bello. Questa nuova diffusione di termini italiani all'estero è legata al boom dei prodotti italiani, specialmente nei settori dell'abbigliamento, dell'arredamento e più in generale dei beni di lusso. Sono spesso italiani per es. i nomi con cui le case automobilistiche straniere battezzano i nuovi modelli (per es. Concerto, Carina, Corolla, Stanza) o quelli dei negozi di moda che gremiscono le principali strade delle grandi capitali, da Berlino a New York, a Tokyo, a Sydney (Bellezza, Creazione, Fascino) o dei ristoranti (Aboccaperta o Dolcevita; l'espressione 'dolce vita' peraltro è diffusa ormai in tutto il mondo a significare un certo stile di vita, un sogno, un'epoca). Ancor più notevole risulta l'utilizzo di termini o frasi in italiano nella comunicazione pubblicitaria vera e propria, perché mostra come la lingua italiana possa veicolare valori positivi e quindi promuovere un prodotto: un esempio è lo slogan in olandese adottato qualche anno fa da una nota marca di automobili, nel quale era stata inserita la parola italiana amore: Amore, op het eerste zicht, che significa letteralmente "Amore a prima vista". Per concludere si può ricordare come la tipica formula di saluto italiano ciao di antica origine veneziana (da sciao "schiavo" [vostro]) si sia anch'essa diffusa in tutto il mondo, come una sorta di 'parola bandiera' dell'italiano all'estero.

La diffusione dell'italiano oggi

L'italiano è fra le cinque lingue più studiate al mondo, dopo l'inglese, ancora considerevolmente lontana dal francese e quasi alla pari, invece, con tedesco e spagnolo. È evidente che questo dato non implica che l'italiano sia anche fra le lingue più parlate; naturalmente, in termini assoluti, lingue come il russo, l'arabo o il cinese superano l'italiano, che tuttavia esercita una forte attrazione al di fuori dei suoi confini. La diffusione moderna dell'italiano all'estero è legata soprattutto ai grandi flussi migratori del 20° secolo con la conseguente esigenza di studio della lingua da parte degli emigrati italiani di seconda e terza generazione. Tuttavia le motivazioni che oggi spingono cittadini di tutto il mondo allo studio dell'italiano sono le più svariate. Così come la diffusione dell'inglese non avviene soltanto attraverso il contatto fisico, ma grazie alla sua funzionalità comunicativa, alla sua capacità di varcare i confini dello spazio tramite modelli, prototipi e miti legati all'arte, allo spettacolo, in particolare al cinema e alla musica, e anche alla moda, così anche l'italiano ha una sua forza espansiva, che nasce da ragioni simili, ma anche da altre. Al fine di comprenderle e analizzarle, la Direzione generale per la Promozione e la cooperazione culturale del Ministero degli Esteri si è fatta promotrice dell'inchiesta Italiano 2000, affidata a un gruppo di ricercatori del Dipartimento di studi linguistici e letterari dell'Università La Sapienza di Roma, guidati da Tullio De Mauro, i cui dati sono stati pubblicati nel febbraio 2002. Dalle risposte a un questionario inviato agli Istituti italiani di cultura all'estero è emerso un aumento del 38% degli studenti iscritti a corsi di italiano organizzati dagli Istituti situati nei vari continenti: secondo i dati raccolti, infatti, il loro numero era 45.699, mentre un'analoga indagine pubblicata nel 1981 ne censiva 36.353 e nel 1995 un'inchiesta del Ministero degli Esteri finalizzata alla promozione della cultura italiana all'estero 33.065. Una crescita ancor più significativa (57%) ha fatto registrare nello stesso periodo il numero dei corsi organizzati, saliti da 2346 nel 1995 a 3684 nel 2000, mentre molto più contenuto è risultato l'aumento di quello dei docenti impegnati negli Istituti di cultura, passato dalle 628 unità registrate nel 1995 alle 686 del 2000. Dalla relazione emerge una situazione piuttosto diversificata a seconda delle varie aree geografiche. L'Asia, il Sud America e il Messico sono risultati i paesi con il maggior incremento, mentre in altre zone, in cui pure c'è una presenza 'storica' di immigrati italiani, gli incrementi sono assai modesti. È necessario però precisare che questi dati sono parziali in quanto non tengono conto degli studenti iscritti a molte altre scuole (prime fra tutte quelle della Società Dante Alighieri), dove si tengono corsi particolari, in genere finanziati dall'Italia, cosa che costituisce evidentemente un incentivo, sia per gli organizzatori, sia per coloro che vi si iscrivono. Le ragioni che spingono all'apprendimento dell'italiano sarebbero rappresentate da un inedito legame fra la forza di attrazione artistica e culturale che l'italiano ha sempre esercitato e nuovi fattori di tipo economico e sociale. Se un tempo era soprattutto il fascino culturale, musicale e artistico della nostra civiltà a spingere allo studio dell'italiano, lingua di cultura la cui conoscenza è ancora considerata un profondo arricchimento personale, oggi sono la spendibilità sociale e la possibilità di lavorare con aziende italiane a costituire un'altra rilevante motivazione. Sotto questo aspetto l'inglese esercita un 'effetto traino' positivo su altri idiomi, primo fra tutti l'italiano che sta guadagnando prestigio rispetto al francese, al tedesco e allo spagnolo. Si calcola che il bacino potenziale degli utenti di lingua italiana sia di circa 120 milioni di persone, la metà in Italia e il resto nei paesi di emigrazione più o meno recente. Altri fattori indicati come motivazioni allo studio dell'italiano nei questionari di Italiano 2000 sono la riscoperta delle radici (solo in Argentina oltre il 65% della popolazione ha origini italiane), ragioni personali di varia natura, l'entusiasmo seguito a un viaggio in Italia. Quelli che tendevano a considerare l'italiano come vittima predestinata della globalizzazione, dunque, devo-no ricredersi. L'italiano è la 19a lingua più parlata nel mondo, pur rappresentando la nostra popolazione solo l'1% di quella mondiale; un altro dato interessante riguarda le pagine Internet che, nonostante l'anglofonia pressoché totale della rete, risultano scritte in italiano nella misura del 3%. La ricerca guidata da De Mauro si è avvalsa dei risultati di una serie di altre indagini condotte precedentemente, come per es. quella del 1979 sullo studio dell'italiano all'estero, eseguita tramite le rappresentanze diplomatiche italiane, e poi completata con nuovi dati sul Canada, i cui risultati quantitativi sono stati pubblicati dal Ministero degli Affari Esteri, o quella del 1981 sulle motivazioni all'apprendimento della lingua italiana nel mondo, a cura del Ministero degli Affari Esteri e dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sotto la direzione di Ignazio Baldelli. Quest'ultima era particolarmente esaustiva, prendendo in considerazione tutti i canali di apprendimento dell'italiano, dalle scuole primarie e secondarie, alle università, agli Istituti italiani di cultura, alla Società Dante Alighieri. Le persone impegnate nello studio dell'italiano risultavano allora 688.655, e il numero maggiore di studenti si riscontrava in Francia (142.150), negli Stati Uniti (80.181), in Canada (67.833), in Svizzera (66.604), in Germania federale (64.748), Australia (50.118), Argentina (38.900), Austria (20.383), Iugoslavia (19.250), a Malta (18.642), in Svezia (11.413), Messico (10.550), Danimarca (10.443). Riguardo alle motivazioni venivano individuati tre ordini fondamentali: il prestigio culturale dell'Italia, manifestato anche nell'interesse turistico verso le città d'arte e i beni artistici; ragioni legate al lavoro e all'economia, determinate dalla conquista da parte del made in Italy di mercati sempre più vasti (auto, moda, design, gastronomia, stili di vita ecc.); il legame con le proprie radici. Un dato interessante che emergeva in questa prospettiva era lo studio dell'italiano non solo per motivi professionali ma anche per libera scelta, e da parte di persone relativamente avanti negli anni.

La rete culturale italiana all'estero

La diffusione della lingua italiana all'estero costituisce un'importante area di impegno nel quadro della politica culturale del Ministero degli Affari Esteri, che ha strategicamente scelto di intensificare le proprie iniziative in questo senso utilizzando varie istituzioni, indirizzandone gli interventi ed erogando contributi a università straniere per la gestione di cattedre di lingua italiana. Gli Istituti italiani di cultura promuovono e diffondono la cultura e la lingua italiana negli Stati dove hanno sede avvalendosi di una propria autonomia operativa e finanziaria, fermo restando un quadro di obblighi istituzionali. Tra le attività rilevanti vi è l'organizzazione di corsi di lingua e cultura rivolti in prevalenza ai cittadini del paese ospite, corsi che tuttavia possono rappresentare una proposta interessante anche per gli appartenenti alla comunità italiana. Gli Istituti di cultura attivi nel mondo sono oggi 93, cinque dei quali di nuova istituzione e ancora in fase organizzativa; il 52% di essi è presente nell'Europa occidentale e centro-orientale, il 13% in Nord Africa e Medio Oriente, il 12% in America Latina, con percentuali minori in Nord America, Asia, Africa subsahariana. Allo scopo di sostenere l'italiano a livello universitario, il Ministero degli Affari Esteri invia presso università straniere, assumendone gli oneri di spesa, lettori di italiano di ruolo, selezionati dal personale delle scuole secondarie superiori. Questa iniziativa, che non ha riscontro negli altri paesi, prevede un profilo professionale di 'operatore culturale' nel senso generale del termine, capace anche di collaborare con l'Istituto di cultura presente nell'area. Nell'anno accademico 2000-2001 sono stati inviati all'estero 257 lettori con un aumento di 14 unità rispetto al 1999; nell'anno accademico 2001-2002 sono stati istituiti 266 lettorati presso le università di 87 paesi.

Per quanto riguarda la rete scolastica all'estero, questa risulta composta da 181 scuole italiane, oltre alle 116 sezioni italiane presso scuole straniere (bilingui o a carattere internazionale) e presso scuole europee, per un totale di 297 istituzioni, nell'ambito delle quali operano 493 unità di personale di ruolo, che gravano sul bilancio del Ministero degli Affari Esteri. Altri 113 insegnanti italiani di ruolo operano nelle scuole europee. L'utenza è di circa 30.000 alunni che frequentano scuole italiane o sezioni italiane presso scuole straniere ed europee, dalle materne alle secondarie superiori. In prospettiva, si prevede di utilizzare la formula biculturale sia nelle scuole italiane sia in quelle straniere, iniziativa peraltro già adottata negli anni Novanta in numerose scuole italiane, ma soprattutto nelle scuole straniere di vari paesi europei. In particolare nell'Europa centro-orientale e nei Balcani, a seguito di accordi culturali conclusi o in via di definizione, si è dato vita a istituzioni bilingui riconosciute dalle autorità locali e da quelle italiane (i dati relativi alla diffusione dell'italiano nell'Europa dell'Est, forniti dall'Accademia delle Scienze di Kiev, rilevano che in Ucraina è la prima lingua straniera studiata, in Ungheria è la seconda dopo l'inglese, in Russia contende il secondo posto a francese e tedesco). Un altro servizio reso alle collettività italiane nel mondo al fine di favorire la loro crescita culturale e professionale e salvaguardare al tempo stesso la loro identità originaria è stato quello di istituire corsi di lingua e cultura italiana. Nel 2000 il Ministero degli Affari Esteri (Direzione generale per gli Italiani all'estero e per le politiche migratorie) ha realizzato 28.484 attività di insegnamento e di sostegno scolastico in 45 paesi, a beneficio di 500.532 utenti. Negli ultimi anni si è perseguita con risultati rilevanti la politica mirata all'integrazione dei corsi di lingua e cultura italiana nei sistemi scolastici dei paesi di accoglienza nonché al riconoscimento del valore curricolare dell'insegnamento dell'italiano in quei sistemi. Dopo alcune positive esperienze pilota, soprattutto in aree extraeuropee (Nord America, Sud America e Australia), sono state stipulate speciali convenzioni fra i nostri consolati e le autorità locali dei paesi in cui è maggiore la presenza delle comunità italiane (Argentina, Brasile, Canada, Stati Uniti, Australia e Venezuela) e oggi il 59% dei corsi di lingua e cultura italiana è integrato nell'ordinamento scolastico locale (26%) o inserito nell'orario scolastico (33%). Le convenzioni prevedono in genere un impegno economico congiunto da parte delle autorità locali e da parte dell'Italia per l'insegnamento curricolare dell'italiano.

Nel quadro degli enti che diffondono la lingua e la cultura italiana all'estero, va menzionata la Società Dante Alighieri, che dal 1889 opera nel mondo attraverso una rete di circa 500 comitati. Queste strutture organizzano corsi di lingua e promuovono manifestazioni culturali garantendo il funzionamento di 3269 scuole di italiano nel mondo: 75 in Africa, 2100 in America, 42 in Asia, 840 in Europa, 212 in Oceania, per un totale di 100.000 studenti iscritti (3100 in Africa, 60.000 in America, 850 in Asia, 30.000 in Europa, 5850 in Oceania).

La diffusione della produzione libraria italiana attraverso incentivi e premi che il Ministero degli Affari Esteri assegna annualmente per la traduzione di libri italiani in altre lingue è un ulteriore strumento utilizzato al fine di promuovere la lingua e la cultura italiane nel mondo. La somma a disposizione è di circa 500.000 euro all'anno, con la quale viene incentivata la traduzione di più di 100 opere, scelte in genere fra progetti mirati (collane, eventi speciali, testi didattici), significativi ai fini di un percorso che individui nessi storico-culturali e temi della cultura italiana di particolare interesse all'estero.

Un'altra iniziativa di interesse è la 'Settimana della lingua italiana nel mondo', promossa nel 2001 dal Ministero degli Affari Esteri, d'intesa con l'Accademia della Crusca. Le attività che vengono organizzate in questo ambito non solo hanno lo scopo di promuovere la conoscenza di tutto quel mondo complesso e articolato che fa riferimento all'Italia, alla sua cultura e alla sua lingua, pur trovandosi sparso nelle parti più disparate del globo ma, sulla base dei risultati derivanti dal contatto e dallo scambio fra vari gruppi e istituzioni, che in quell'occasione si incontrano fisicamente, danno anche luogo a una sorta di aggiornamento sullo 'stato di salute' dell'italiano, a nuovi dati e ulteriori sintesi. La prima edizione di questa iniziativa si è svolta fra il 15 e il 20 ottobre 2001, con l'appoggio della Fondazione Corriere della Sera. La seconda edizione (14-19 ottobre 2002) è stata sostenuta anche da altre istituzioni, fra cui il Ministero per i Beni e le attività culturali, il Ministero dell'Istruzione e dell'Università, la RAI, la Società Dante Alighieri, l'Unione Latina, la Fondazione Cassamarca e l'Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (AISLLI). Sono state organizzate più di 600 manifestazioni fra conferenze, convegni, seminari, mostre librarie e documentarie e concorsi letterari e artistici. La diffusione dell'italiano nelle università straniere è stato uno degli argomenti cui si è dedicata particolare attenzione, ma il tema centrale, trattato in tutte le sedi coinvolte nell'iniziativa, è stato L'italiano e le arti della parola, riferito agli utilizzi più svariati della lingua in sede artistica e in aree affini, come per es. il teatro musicale (dal melodramma all'opera lirica) e non musicale, le canzoni, il cinema e attraverso i grandi mezzi di comunicazione. Se la lingua del teatro utilizza generalmente un registro di livello piuttosto alto, quella dei film e delle canzoni (entrambi prodotti largamente esportati) è piuttosto legata al contesto del parlato e fruisce di codici e registri linguistici ben più diversificati. La radio e la televisione utilizzano una lingua ancora più varia, nella quale convergono diversi generi comunicativi e un ampio spettro di tipologie linguistiche. Radio, televisione, cinema, teatro e canzoni rispecchiano abbastanza fedelmente la realtà linguistica trascorsa e attuale, mettendo a disposizione materiale ricco di spunti, interessante per illustrare adeguatamente l'evoluzione dell'italiano parlato e i modi in cui la lingua si diffonde nel mondo.

Riferimenti Bibliografici

Italiano 2000. Indagine sulle motivazioni e sui pubblici dell'italiano diffuso fra stranieri, Ministero degli Affari Esteri, Direzione per la Promozione e la cooperazione culturale, La Repubblica Letteraria Italiana. Letteratura e Lingua Italiana online, www.Repubblicaletteraria.net; La lingua nella storia d'Italia, a cura di L. Serianni, Roma, Società Dante Alighieri, 2002; C. Marazzini, Uno studio sì: l'italiano nel mondo, "Letture", 587, 2002.

V. Alfieri, Appunti di lingua e letterari, Asti, Casa d'Alfieri, 1983; G.L. Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Torino, Einaudi, 1995 (20002); Id., Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell'italiano e nei dialetti, Milano, Garzanti, 1999 (20012); Id., Italiano. Antico e nuovo, Milano, Garzanti, 20022; Id., Lingua italiana e televisione, in L'Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, a cura di F. Sabatini, Firenze, Le Lettere, 2002, p. 299; I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1988; T. De Mauro, Grande dizionario italiano dell'uso, Torino, UTET-Paravia, 1999, vol. VI, Postfazione, p. 1166; A. Manzoni, Postille al Vocabolario della Crusca nell'edizione veronese, a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964; L. Renzi, Le tendenze dell'italiano contemporaneo, "Studi di lessicografia italiana", 17, 2000, p. 286.

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