CALVINO, Italo

Dizionario Biografico degli Italiani (2013)

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CALVINO, Italo

Domenico Scarpa

Nacque a Santiago de Las Vegas, nell'isola di Cuba, il 15 ottobre 1923, figlio primogenito di Mario, agronomo, e di Giulia Luigia Evelina (Eva) Mameli, botanica.

Il padre era nato a Sanremo nel 1875 da genitori sanremesi. Già titolare della cattedra ambulante di agricoltura di Porto Maurizio, l'attuale Imperia, tra il 1909 e il 1917 risiedette in Messico dove collaborò alla riforma agraria voluta dal dittatore Porfirio Díaz. Sul finire del 1917 si spostò a Cuba per dirigere la Stazione sperimentale di agricoltura all'Avana. La madre, nata a Sassari nel 1886, discendente di Goffredo Mameli, era stata la prima donna in Italia a ricoprire una cattedra di botanica generale. Mario Calvino la sposò a Pavia il 30 ottobre 1920.

Immagini di una giovinezza

«Sono ligure, mia madre è sarda: ho la laconicità di molti liguri e il mutismo dei sardi, sono l'incrocio di due razze taciturne», avrebbe confessato lo scrittore (L’occhio e il silenzio [intervista, 1983]; poi in Sono nato in America…, 2012, p. 553), che di Cuba non serbava ricordi: i suoi genitori rientrarono già nell'autunno 1925 a Sanremo, dove Mario era stato nominato direttore della Stazione sperimentale di floricultura Orazio Raimondo; a Sanremo nacque nel 1927 Floriano, unico fratello di Italo. La famiglia si stabilì presso Villa Meridiana, edificio in posizione dominante sulla città, introducendo nel vasto giardino piante esotiche come l'avocado, la papaya, la guayaba, il pompelmo rosa. Proprio a loro si dovette la trasformazione di Sanremo in «città dei fiori». Italo era destinato a essere unico letterato in una famiglia di scienziati: come tale si considerò sempre, in maniera non del tutto scherzosa, la 'pecora nera' della sua stirpe.

I genitori di Calvino, che provenivano da famiglie di tradizione repubblicana e mazziniana, erano antimonarchici e anticlericali. Il padre, già testimone e sostenitore della rivoluzione di Pancho Villa in Messico, era massone e socialista riformista, mentre in gioventù era stato anarchico kropotkiniano. Provò ugualmente per qualche tempo, senza troppo successo, a mettere la sua competenza al servizio del fascismo appena consolidato in regime. In seguito fu chiamato a coprire (1936-38) la cattedra di agronomia tropicale e sub-tropicale all'Università di Torino, e nel 1939 diventò membro del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).

Più intransigente appariva, agli occhi di suo figlio Italo, «il disadorno rigore antifascista o prefascista, impersonato dalla severità moralistica laica scientifica umanitaria antibellicista zoofila» della madre (cfr. Autobiografia politica giovanile [1960]; in Saggi, 1995, II, p. 2740). Crocerossina volontaria durante la Grande Guerra, Eva Mameli era stata decorata con medaglia d'argento. Al rientro in Italia rifiutò la cattedra di botanica a Cagliari per dedicarsi alla famiglia, alla ricerca e alla sperimentazione, soprattutto in floricoltura, materia sulla quale pubblicò centinaia di articoli. Ebbe una forte e duratura influenza sul primogenito: severa e austera, non poteva ammettere «che la vita fosse anche spreco [...] cioè che fosse anche passione. [...] Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva» (La strada di San Giovanni [1962], in Romanzi e racconti, III, 1994, p. 15). Calvino evocò spesso questa «repressione laica, più interiorizzata e da cui è meno facile liberarsi» (Autobiografia di uno spettatore [1974], ibid., p. 48). Dei suoi genitori disegnò un divertente ritratto immaginario nei probi inflessibili ugonotti della favola araldica Il visconte dimezzato (Torino 1952).

I fratelli Calvino non ricevettero educazione religiosa. Italo, che frequentò un asilo infantile inglese e scuole elementari valdesi, crebbe con la precoce consapevolezza di una differenza rispetto ai coetanei e con l’imperativo di essere all’altezza di questo anticonformismo. Fu il genius loci della Riviera di Ponente a fare il resto. In Liguria il fascismo non aveva attecchito in profondità e Sanremo era da tempo una stazione turistica internazionale. Al suo sfarzo il giovane Calvino preferiva comunque la città vecchia o l'entroterra spigoloso e secco. Nel 1933, saltata la quinta elementare, entrò al ginnasio-liceo G.D. Cassini, dove ebbe come compagno di banco il futuro fondatore del quotidiano la Repubblica Eugenio Scalfari con il quale, negli anni universitari, intrecciò una fitta corrispondenza intellettual-goliardica.

La prima educazione estetica di Calvino non si svolse sui libri, bensì sui fumetti del Corriere dei piccoli, di cui, precocissimo quanto inconsapevole strutturalista, scomponeva, ricomponeva e contaminava le trame. Durante l’adolescenza oppose al fascismo non una definita ideologia antagonista bensì una malevola insofferenza verso il suo stile solenne e ridicolo insieme. L’altrove in cui trovò rifugio fu il cinema, che occupò gran parte dei suoi pomeriggi, mentre a casa si dedicava a una diversa passione visiva leggendo i settimanali umoristici di quegli anni e coltivando un talento per il disegno: con lo pseudonimo Jago alcune sue vignette trovarono posto nella rubrica «Il cestino» del Bertoldo. Le prime letture di Calvino si posarono dunque su un sedimento primario di immagini, disegnate o proiettate. Si spiega forse così la germinazione da un'immagine ossessiva di molte sue storie a venire: un uomo tagliato in due, un ragazzo che sale su un albero, un'armatura vuota che va per il mondo.

I pilastri della biblioteca giovanile di Calvino sono quattro sostantivi – avventura, energia, esotismo, mistero – che descrivono una formazione letteraria inarcata fra i 6 e i 23 anni di età, fra Pinocchio, «il libro che già conoscevo capitolo per capitolo prima d’imparare a leggere» (Il fantastico nella letteratura italiana [1984]; in Saggi, 1995, II, p. 1682) e America di Kafka, «"il romanzo" per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in quella» (Intervista di Maria Corti [1985], ibid., p. 2921).

Il partigiano Santiago

Nel 1941, in un’Italia lanciatasi in una guerra sempre più disastrosa, i primi articoli del giovane Calvino furono brevi recensioni cinematografiche, mentre i primi tentativi letterari toccarono generi frequentati da molti suoi coetanei: teatro, racconti, versi ermetici. Ma era insofferente verso la critica letteraria, e sviluppò invece una singolare propensione per l’apologo «a morale vagamente politica, anarcoide e pessimista» (Autobiografia politica giovanile, cit., ibid., p. 2744). I tre che pubblicò in Roma fascista nella primavera 1943, tramite Scalfari che si era trasferito a Roma, suscitarono le obiezioni di qualche gerarca. Una raccolta di racconti gli fu rifiutata da Einaudi, suo futuro editore, mentre nel 1942 la Commedia della gente (a tutt’oggi inedita) vinse un concorso letterario fiorentino. Dopo il liceo, intanto, si era iscritto alla facoltà di agraria, dapprima a Torino e poi a Firenze: ma controvoglia, come volendo saldare un debito morale verso suo padre; gli esami sostenuti furono appena sette, con voti mediocri. Illustrate da disegni spiritosi, accompagnate da poesie e scherzi in rima, le sue lettere di allora a Scalfari parlano con una voce bizzosa e in falsetto che già annuncia il futuro scrittore: un ragazzo che non sa fare a meno di fare sul serio anche quando scherza, un giovane di vent’anni che lancia parole intorno a sé come fossero biglie, come a voler colpire un bersaglio ancora invisibile.

Il 25 luglio 1943 cadde il regime fascista, ma Calvino si sentì defraudato dal suo epilogo dovuto a una congiura di palazzo. Con alcuni amici fondò il Movimento universitario liberale (MUL), e dopo l'8 settembre prese a orientarsi verso i comunisti che erano il gruppo più attivo e organizzato. Nascosto in casa dei genitori, renitente alla leva della Repubblica di Salò, chiese l’iscrizione al Partito comunista italiano (PCI). Nella primavera 1944 dovette prestare servizio militare sedentario come scritturale al tribunale di Sanremo, cominciando però a fare propaganda comunista tra gli studenti. In giugno si arruolò nel XVI distaccamento della IX brigata garibaldina (comunista) Felice Cascione e si diede alla macchia scegliendo il nome di battaglia Santiago in omaggio al proprio luogo di nascita.

Il suo distaccamento si sciolse a fine giugno dopo una sconfitta a Sella Carpe. Trascorse in estate alcune settimane al riparo nei poderi di famiglia, si arruolò di nuovo, stavolta col fratello Floriano e in una banda 'azzurra', cioè badogliana, che dopo due scontri con i nazifascisti (Coldirodi e Baiardo) si sciolse il 20 settembre. Tra ottobre e novembre 1944 fece parte, sempre con Floriano, della brigata garibaldina sanremese Giacomo Matteotti. I tedeschi presero in ostaggio entrambi i loro genitori, simulando per tre volte la fucilazione di Mario Calvino sotto gli occhi della moglie. Catturato in un rastrellamento, Italo evitò la fucilazione immediata grazie a un foglio di licenza militare contraffatto. Messo in carcere, fu costretto ad arruolarsi per la Repubblica sociale italiana (RSI) ma riuscì a fuggire dopo tre settimane e si rifugiò nella tenuta famigliare di San Giovanni, in collina, restandovi fino al febbraio successivo. Tra il febbraio e l’aprile 1945 militò con suo fratello nella 2ª divisione d’assalto garibaldina Felice Cascione; partecipò a più battaglie, tra cui quella vittoriosa di Bregalla e quella infruttuosa di Baiardo, che nel 1974 avrebbe rievocato nel racconto Ricordo di una battaglia. Tra i suoi compagni, alcuni futuri personaggi del Sentiero dei nidi di ragno: Giuseppe Vittorio Guglielmo e Ivar Oddone (rispettivamente, nel romanzo, il comandante Ferriera e Kim).

Molti esordi a Torino

In un’Italia sconfitta e in rovina, la piccola minoranza attiva che aveva combattuto la Resistenza si sentiva vittoriosa, energica, convinta delle proprie idee, e così fu per il giovane Calvino, che in seguito definì lo «spirito partigiano» come una «attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e di autoironia […], un piglio talora un po' gradasso e truculento ma sempre animato da generosità […]» (Autobiografia politica giovanile, 1962,  in Saggi, 1995, II, p. 2751).

Subito dopo la Liberazione, Calvino fu attivista del PCI, prima in provincia di Imperia e poi tra gli studenti di Torino: dove, abbandonata agraria, s'iscrisse direttamente, grazie alle facilitazioni per i reduci, al terzo anno di lettere avendo fra gli insegnanti i filosofi Nicola Abbagnano e Luigi Pareyson, il francesista Ferdinando Neri, il poeta Francesco Pastonchi. La laurea (103/110) arrivò il 4 novembre 1947, la tesi discussa era su Joseph Conrad. A Torino entrò in amicizia fra gli altri con Cesare Pavese ed Elio Vittorini, cominciando presto a collaborare al Politecnico, la celebre rivista milanese diretta dal secondo. In Liguria magra e ossuta, che fu il suo primo contributo (1° dicembre 1945; poi in Saggi, pp. 2363-2370), s'intrecciavano gli studi di agraria e la storia sociale d'impronta progressista, il reportage e l'autoritratto morale dissimulato; protagonista, come più volte sarebbe accaduto, era il paesaggio della sua regione.

Dall’anno successivo lavorò soprattutto per l'edizione torinese de l'Unità; tra il 1948 e l'estate 1949 fu il successore di Raf Vallone, passato alla carriera cinematografica, come responsabile della pagina culturale, per la quale scrisse cronache, recensioni (fu tra i primi ad accorgersi del valore di Primo Levi e di Elsa Morante), note polemiche, racconti brevi, apologhi: prove d'esordio impressionanti per la lucidità perentoria, la sicurezza e la vastità dei riferimenti culturali, la precisione e lo humour, la velocità della sintassi e la versatilità del lessico.

Tra la fine del 1945 e il 1946 pubblicò, inoltre, alcuni dei racconti brevi poi raccolti in Ultimo viene il corvo (Torino 1949). Con Campo di mine vinse a pari merito un premio indetto dall'Unità di Genova, ma fu Andato al comando, apparso nel Politecnico, a scatenare con la sua suspense geometrica e ossessiva la corsa all'imitazione tra i coetanei. Per un giovane esordiente, Torino significava soprattutto la casa editrice Einaudi: nel suo staff Calvino entrò dapprima come venditore di libri a rate, poi come redattore, infine (dal 1949, dopo la parentesi giornalistica) come responsabile dell'ufficio stampa.

Conquistò rapidamente stima e autorevolezza e stilò pareri di lettura, risvolti e quarte di copertina. Fu il lavoro meno appariscente e più impegnativo della sua vita. Durante 35 anni inviò circa 5000 lettere ad autori, traduttori, consulenti e critici. Avrebbe detto nel 1980: «ho dedicato più tempo ai libri degli altri che ai miei. Non lo rimpiango: tutto ciò che serve all'insieme d'una convivenza civile è energia ben spesa» (cfr. Nota autobiografica, in Album Calvino, 1995, pp. 7 e 9).

Furono Pavese e il critico Giansiro Ferrata a spingerlo a tentare il romanzo. Il 31 dicembre 1946 scadevano i termini del Premio Riccione, indetto dalla Mondadori: in venti giorni Il sentiero dei nidi di ragno fu portato a termine. Vinse ex aequo ma non piacque né a Ferrata né a Vittorini, e anche Pavese avanzò riserve; ma Giulio Einaudi se ne entusiasmò, stampandolo nell’autunno 1947.

Il primo problema di Calvino scrittore era stato scegliere la giusta posizione per raccontare: la prima persona e l’autobiografia gli davano disagio, coartandogli la voce verso i toni gravi. Trovò velocità e chiarezza nell’uso della terza persona e in uno stile a volte lavorato e minuzioso, altre volte guizzante e ventilato. Il sentiero dei nidi di ragno sfruttò sia questi talenti sia l’immaturità che li aveva preceduti. Calvino raccontò la Resistenza con gli occhi di Pin, un bambino di dieci anni, dunque sotto forma di fiaba: ma una fiaba acre, crudele, distorta come la percezione di un ragazzino cresciuto nei vicoli della vecchia Sanremo, tra uomini adulti e accanto a una sorella prostituta. Pin si ritrova in montagna tra i partigiani che combattono, dentro un gioco meraviglioso ma troppo grande per lui, e guarda ogni cosa con stupore e dolore perché a nulla può dare spiegazione. Per lui come per i grandi, del resto, i rapporti umani sono un mistero, così come lo sono la guerra, la politica, il sesso, il tradimento, l’amicizia, il bisogno di uccidere e il desiderio di farsi uccidere. Trovare un modo per stare nell’universo e spiegarselo – e spiegare sé stessi nell’universo – è l’orizzonte intellettuale che Calvino disegnò in quel suo libro di esordio, e che in maniera ogni volta diversa si sarebbe riproposto fino alle sue ultime opere. Qui nel Sentiero venne fissata anche una visione della storia, dove casualità e responsabilità delle scelte si tenevano in fluttuante equilibrio. Il commissario partigiano Kim, un comunista, ne era consapevole: «Gli uomini combattono tutti, c'è lo stesso furore in loro, cioè non lo stesso, ognuno ha il suo furore, ma ora combattono tutti insieme, tutti ugualmente, uniti. […] Basta un nulla per salvarli o per perderli… […] Non ne vogliono sentir parlare di ideali, gli ideali son buoni tutti ad averli, anche dall'altra parte ne hanno di ideali. […] E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima, e ci si trova dall'altra parte, […] dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio» (Romanzi e racconti, I, 1991, pp. 104-106). Ma se uguali erano l'odio, la spietatezza, il rischio, e ininfluenti gli ideali e fortuite le scelte, dov'era la differenza essenziale tra fascisti e partigiani? Ecco la spiegazione fornita da Kim: «c'è la storia. C'è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall'altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, mi intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un'umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L'altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare, ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell'odio» (ibid., p. 106). Questo discorso avrà una lunga eco nella vita civile italiana e nel dibattito sulla moralità nella Resistenza; mai più Calvino ne pronuncerà uno altrettanto acceso.

Il grigio e i colori degli anni Cinquanta

Calvino attraversò gli anni della guerra fredda da militante comunista, da brillante funzionario dell’industria editoriale in una casa editrice di sinistra, da scrittore giovane il cui talento era stato immediatamente notato e apprezzato. Ciò malgrado si trovò a scontare una lunga crisi creativa: non aveva smesso di scrivere racconti di città e di bosco, di fabbrica e di scoglio, e apologhi in chiave politica, ma i suoi tentativi di romanzo corale e realista fallivano uno dopo l’altro, troppo superficiali (Il bianco veliero, 1947) o troppo grigi (I giovani del Po, 1950-51). Nel 1949 i 30 testi brevi che raccolse in Ultimo viene il corvo chiusero la sua prima stagione.

L’anno seguente morì suicida Pavese, che per lui era stato un maestro e un fratello, maggiore o minore a seconda delle circostanze ma sempre in un rapporto di robusta franchezza reciproca. Fu un periodo di viaggi all’estero: due volte tra i 'partigiani della pace', nel 1947 a Praga e due anni più tardi a Budapest, poi come giornalista nel 1951 in URSS e all’Olimpiade di Helsinki nel 1952, mentre nel 1948 era andato a Stresa con la sua collega Natalia Ginzburg per incontrare Hemingway, che entrambi veneravano. Benché la politica fosse cupa e gretta, tanto tra gli avversari (la Democrazia cristiana aveva la maggioranza assoluta in Parlamento) quanto nel suo partito (imperavano i precetti del 'realismo socialista'), Calvino seppe raccontare il lavoro nelle fabbriche con un’ansiosa attenzione umana. Uno dei suoi racconti più riusciti, La formica argentina (1952), era narrato appunto con gli occhi e la voce di un operaio e si svolgeva, lasciandoli innominati, nei suoi paesi di riviera.

Riuscì a riprendersi la propria libertà d’invenzione scrivendo, quasi di nascosto da sé stesso, un breve romanzo fantastico ambientato nel Seicento, al tempo delle guerre con i Turchi: Il visconte dimezzato era semplice, divertente, nitido, pensoso, e pieno soprattutto di trovate, malgrado alcune avessero un’intenzione pedagogica. Apparve nel 1952 nei «Gettoni», collana sperimentale diretta da Vittorini per Einaudi. Nel frattempo, mentre era in viaggio nell’URSS, era morto suo padre: il Visconte fu anche un omaggio alla sua caratura morale, così come lo sarebbero state alcune pagine del trittico narrativo (direttamente autobiografico) L’entrata in guerra, uscito nel 1954 nuovamente nei «Gettoni». Nello stesso 1954 avviò un’importante collaborazione (saggi letterari, reportage da fabbriche e risaie, apologhi satirico-politici) al settimanale comunista romano Il Contemporaneo.

Era ormai pienamente riconosciuto, anche dai critici più anziani e (precocemente) dalla critica accademica. Possedeva inoltre una sfaccettata visione della letteratura – maturata nel lavoro come editor e in vaste letture, più da studioso che da scrittore – che trovò sintesi nel saggio del 1955 Il midollo del leone (in Saggi, 1995, I, pp. 9-27). Fu quando ne diede lettura a Firenze che incontrò l’attrice Elsa de’ Giorgi, con la quale avviò una relazione destinata a durare quattro anni e testimoniata da un epistolario (inedito, salvo frammenti) in cui la passione si manifestava senza difese psicologiche e senza precauzioni di stile.

Il 1954 fu anche l'anno in cui la casa editrice Einaudi affidò a Calvino il lavoro di compilazione e riscrittura di un corpus di 200 Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti (questo il titolo completo del libro), che per due anni lo tennero impegnato in studi filologico-folklorici per lui insoliti. L’esercizio di stile riscosse lodi quasi unanimi per la felicità e il respiro del linguaggio, mentre nel saggio introduttivo, densissimo e insieme scanzonato, si depositarono gli umori di un anno difficilissimo – quale fu il 1956 che vide la pubblicazione del volume – segnato dal 'Rapporto Krusciov' sui crimini di Stalin, dalle rivolte operaie in Polonia e in Ungheria, dai carri armati sovietici a Budapest, da una crisi profonda nel PCI, che alcuni mesi più tardi (era l’estate 1957) Calvino decise di abbandonare.

I due testi che segnarono il 1957 di Calvino, Il barone rampante e La speculazione edilizia, rispettivamente il suo secondo romanzo storico-fantastico, slanciato nel grande Settecento, e una cronaca narrativa socio-realistica, impantanata nel meschino presente di quegli anni, sembravano disporsi l'uno agli antipodi dell'altro, accomunati soltanto dal paesaggio della Riviera di Ponente di cui il Barone narrava il passato immaginario e la Speculazione un oggi stravolto.

A ben guardare gli approcci alla realtà dei due protagonisti, Cosimo Piovasco di Rondò e Quinto Anfossi, si rivelano complementari: la vita appassionata di Cosimo mostra come ci si possa lasciar coinvolgere fino allo strazio nelle vicende della vita a partire da un primo, paradossale quanto irrevocabile gesto di distacco dal mondo (salire su un albero pur di non mangiare un piatto di lumache cucinate dalla efferata sorella, e poi non scenderne mai più), mentre il puntiglio intellettuale di Quinto («Tutto insomma sapeva, maledetto lui!», sbotta Calvino contro il proprio personaggio già al capitolo due: Romanzi e racconti, I, 1991, p. 785) non è che un debole tentativo di tenersi a galla tra le sabbie mobili della realtà nelle quali si è tuffato deliberatamente.

Ma il tema principale comune ai due libri era il rapporto con la realtà in un'epoca di disillusioni e di crisi pubbliche e private, che si traduceva a sua volta in quello che Calvino considerava il suo «vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe sé stesso né per sé né per gli altri» (Nota 1960 a I nostri antenati, ibid., p. 1213).

Con le sue 500 pagine suddivise in quattro sezioni (Gli idilli difficili, Le memorie difficili, Gli amori difficili, La vita difficile), la raccolta I racconti (Torino 1958) ratificò la vocazione di Calvino alle storie brevi, così come la versatilità dei suoi talenti immaginativi, imperniata sull’aggettivo «difficile». Fu l’autoritratto di uno scrittore engagé certo, ma in modo indiretto e senza compromessi con l’attualità giornalistica.

Le novità più cospicue dei Racconti furono le prime dieci storielle di Marcovaldo, cui peraltro nessuno dei recensori prestò attenzione, la serie degli Amori che si presentava come un’opera nell’opera, di patinatura narrativa sardonicamente ottocentesca (sulla linea Maupassant-Čechov), e il romanzo breve La nuvola di smog, un nuovo catalogo di atteggiamenti per misurarsi con una realtà greve e insieme impalpabile come polvere. L’opera vinse il premio Bagutta nel 1959.

Sempre nel 1959, terminata la storia d'amore con Elsa de’ Giorgi, cominciò le pubblicazioni una nuova rivista di ricerca e sperimentazione, il menabò di letteratura, che Calvino diresse con Vittorini pubblicandovi alcuni fra i suoi saggi più notevoli di quegli anni, strategiche letture della realtà che spesso esorbitavano dalla letteratura per misurarsi con la politica, l’antropologia, l’economia, e con un tessuto sociale in rapido mutamento; i tre più importanti furono Il mare dell'oggettività (1960), La sfida al labirinto (1962) e L'antitesi operaia (1964; poi in Saggi, 1995, II, rispettivamente alle pp. 52-60, 105-123, 127-142). Ma in quello scorcio di decennio, alla sua necessità di strumenti intellettuali nuovi si presentò l’occasione – grazie a un grant della Ford Foundation – di trascorrere sei mesi negli Stati Uniti, senza altri obblighi se non viaggiare e osservare. Il soggiorno durò dal novembre 1959 al maggio 1960, fece scoccare il suo innamoramento per New York e lo portò a conoscere realtà divaricate quanto il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston e il Sud dove Martin Luther King si batteva contro la segregazione dei neri. Il cavaliere inesistente, terza e ultima delle sue favole araldiche, uscì da Einaudi quando era appena partito: Calvino si volatilizzava duplicando l’essenza del suo protagonista, il cavalier Agilulfo che al tempo di Carlo Magno attraversava il mondo in un’armatura vuota, tenuta insieme solo dalla sua immateriale forza di volontà.

Il Cavaliere per un verso metteva allo scoperto l'intelaiatura dell'apologo, l'eleganza un po' fredda delle sue linee da arredamento quacchero. Ma era anche un libro divertente e divertito, dove il caratteristico falsetto di Calvino si scioglieva in una voce duttile, agile, puntuta d'ironia sprizzante ovunque. Un libro bicipite, scritto da un uomo di 36 anni che aveva chiuso bruscamente un amore, si accingeva a partire per un lungo viaggio, si trovava a un bivio della sua esistenza: non era più (non se la sentiva più di essere) l'arrembante paladino Rambaldo, emblema della gioventù vorace e indeterminata, che non si conosce e va alla ricerca di sé stessa tra amori e duelli, ma non era ancora (non se la sentiva ancora di essere) Agilulfo, cioè la maturità esatta, risolta per sempre in sé medesima e dunque capace di fare a meno del corpo come dell'anima.

La nuova voce degli anni Sessanta

Dal suo soggiorno Calvino ricavò un libro intitolato Un ottimista in America ma ne annullò la pubblicazione quando era già in bozze. Come nel finale del Cavaliere inesistente Agilulfo si dissolveva entro la sua armatura, così al principio degli anni Sessanta parve dissolversi il Calvino narratore. Nel 1960 il volume I nostri antenati si limitò a riunire le tre storie araldiche scritte nel precedente decennio. Ma Calvino attraversava una nuova crisi di scrittura, o piuttosto di assestamento verso una nuova maturità in un paese e una letteratura profondamente mutati. Cambiavano l’economia, la società, la politica e infine la cultura. Affluivano nuove tecnologie e nuove discipline intellettuali. Calvino rifletteva, aggiornava la sua biblioteca, prestava la massima attenzione, pubblicava il meno possibile: poche collaborazioni ai giornali e pochissime con il cinema, a differenza di gran parte dei suoi colleghi. «Io forse non scrivo più e vivo bene lo stesso», confidò nel 1961 a Natalia Ginzburg (v. I libri degli altri, 1991, p. 367).

Nel territorio dei nuovi saperi Calvino diede la preferenza all'antropologia e alla cosmologia, cioè a strumenti che lo aiutassero a ripensare il mito e l'universo. Avvertiva una segreta incrinatura nel mondo, tale da indurlo a paragonare quel periodo di boom economico a una «“belle époque” inaspettata» (nel saggio omonimo del 1961, poi in Saggi, I, pp. 90-95) e a ricordare che ogni belle époque finisce con le rivoltellate di Sarajevo. Da due esperienze dirette ricavò, con un lavoro di scrittura protrattosi dieci anni, un breve racconto «più di riflessioni che di fatti», La giornata d’uno scrutatore (Torino 1963), ambientato nel seggio elettorale insediato presso l’istituto torinese Cottolengo. Fu una riflessione sulla storia, sul sacro e sui limiti di ciò che è umano, l’equivalente per Calvino di ciò che la scrittura di Se questo è un uomo era stata per Primo Levi. Alla fine del 1963 pubblicò anche un libro assai più leggero, destinato a diventare uno dei più duraturi successi di vendita nella letteratura italiana per ragazzi: Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, 20 storie brevi – scritte anch’esse nel corso di un decennio – che si potevano leggere come altrettante amarognole tavole a fumetti.

Nell'aprile 1962 aveva incontrato a Parigi Esther Judith Singer, detta Chichita. Argentina di origine russa, lavorava come traduttrice dall'inglese per l'UNESCO e l' Agenzia atomica internazionale (IAEA). Si sposarono a Cuba nel gennaio 1964 durante un viaggio nei luoghi natali dello scrittore; nell’estate di quell’anno si trasferirono a Roma con Marcelo, il figlio sedicenne di lei. Nella primavera 1965 nacque la loro unica figlia, Giovanna. Due volte al mese Calvino saliva a Torino per sbrigare il lavoro editoriale all'Einaudi. La Prefazione che nel 1964 scrisse per una ristampa del Sentiero è il suo autocommento più citato: una riflessione sulla memoria, sull’esperienza, sul panorama letterario e civile al tempo del suo esordio. Tra molte altre cose, Calvino vi si rammaricava di aver detto in maniera goffa, distorta e incompleta la sua prima parola letteraria.

Il desiderio di rompere il silenzio creativo tornando come a esordire una seconda volta fu soddisfatto dall’invenzione del «racconto cosmicomico», un genere letterario destinato a rimanere per un quinquennio, fino al 1968, l'occupazione esclusiva del Calvino narratore. Da Einaudi uscirono nel 1965 la raccolta di 12 racconti Le Cosmicomiche e nel 1967 gli 11 testi di Ti con zero, mentre apparve nel 1968 una silloge fuori commercio destinata a un club del libro, La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche.

L’universo più i comics, cioè i fumetti, era la formula-base di quelle storie: «Combinando in una sola parola i due aggettivi cosmico e comico ho cercato di mettere insieme varie cose che mi stanno a cuore. Nell'elemento cosmico per me non entra tanto il richiamo dell'attualità “spaziale”, quanto il tentativo di rimettermi in rapporto con qualcosa di molto più antico. Nell'uomo primitivo e nei classici il senso cosmico era l'atteggiamento più naturale; noi invece per affrontare le cose troppo grosse abbiamo bisogno d'uno schermo, d'un filtro, e questa è la funzione del comico» (Premessa a La memoria del mondo [1968]; in Romanzi e racconti, II, 1992, pp. 1300 s.). A legare i due elementi era l’ubiquo Qfwfq: questa petulante voce-personaggio, che in ciascuna storia prende la parola raccontando di aver attraversato tutte le galassie e gli stadi dell'evoluzione, è un’entità che risiede nell'universo offrendosi al lettore come un modello di ogni universo, reale o possibile o improbabile.

Il 12 febbraio 1966 morì Vittorini. Un fascicolo in sua memoria concluse l’esperienza del menabò e nel luglio 1967 Calvino si trasferì a Parigi con la famiglia, in una villetta multilivello nel XIV Arrondissement. L'intenzione era di restare per cinque anni, ma il soggiorno si sarebbe protratto fino al 1980.

Calvino si allontanava dall’attualità e dagli ambienti intellettuali italiani senza per questo entrare in eccessiva confidenza con quelli francesi: seguì i seminari di Roland Barthes e di Claude Lévi-Strauss, fu reciproca la stima con il filosofo Michel Foucault, con il semiologo Algirdas Julien Greimas e con François Wahl (un dirigente delle Éditions du Seuil, che pubblicavano varie sue opere), ma frequentò soprattutto «un gruppo che nessuno sa che esista, l'Ou-li-po, amici di Raymond Queneau, poeti e matematici che hanno fondato questo Ouvroir de Littérature Potentielle, un po' nello spirito di Jarry e di Roussel. [...] Quello che me li rende vicini è il loro rifiuto della gravità, questa gravità che la cultura letteraria francese impone dappertutto, anche dove sarebbe necessaria un po' di autoironia» (Colloquio con Ferdinando Camon [1973]; in Saggi, 1995, II, p. 2789). Di Queneau, Calvino tradusse nel 1967 il romanzo I fiori blu.

A cavallo tra gli anni Sessanta e il decennio successivo il giovane scrittore Gianni Celati fu l’interlocutore più assiduo di Calvino. Con alcuni amici (il filosofo Enzo Melandri, il francesista Guido Neri, il saggista Lino Gabellone, lo storico Carlo Ginzburg) progettò una nuova rivista che non fu realizzata ma che si sarebbe forse chiamata Alì Babà: «la caverna dei tesori dell'intellettualismo», chiosò Celati (Il progetto «Alì Babà», trent'anni dopo, in «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, 1998, p. 320).

Nel 1968 le settimane di contestazione giovanile del 'Maggio francese' entusiasmarono Calvino, che in seguito tuttavia addebitò ai movimenti studenteschi il non aver rinnovato né il linguaggio né l'agire politico, lasciandosi al contrario irrigidire e disperdere dai settarismi. L’unico suo clamoroso atto di contestazione fu, nel luglio 1968, il rifiuto del premio Viareggio assegnatogli per Ti con zero, «ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari», come scrisse nel suo telegramma (Cronologia, in Romanzi e racconti, I, 1991, p. LXXX).

Con più ponderatezza andava invece enucleando nella letteratura italiana una linea di forza Ariosto-Galileo-Leopardi, innervata da sicure competenze scientifico-immaginative; per la stessa ragione volle contribuire al pensiero di quegli anni curando una scelta di testi dell’utopista francese Charles Fourier (Torino 1971), che ebbe però scarsa eco. Nello stesso anno avviò per Einaudi «Centopagine», collana di testi narrativi brevi, soprattutto dell’Ottocento europeo. Non fu la sua unica iniziativa nel campo della divulgazione: aveva infatti collaborato a progettare un'antologia per le scuole medie (La lettura, Bologna 1969) e aveva antologizzato e ri-narrato l'Orlando Furioso, nel 1967 per la radio e tre anni dopo in un volume Einaudi.

Nel 1968 smise di scrivere racconti cosmicomici e cominciò esperimenti di narrativa combinatoria la cui base figurativa furono le carte dei tarocchi. Ne nacque un testo, La taverna dei destini incrociati, che gli pose ardui problemi di struttura e che fu completato solo nel 1973, ma ne nacque anche una prima versione de Il castello dei destini incrociati, stampata nel 1969 in un lussuoso volume d'arte.

Si può affermare che, almeno a partire dal 1970, tutti i libri di Calvino siano tra loro contemporanei. In un medesimo istante andavano prendendo forma nella sua bottega manufatti diversissimi, così come in un capitolo autobiografico della Taverna, intitolato Anch'io cerco di dire la mia, Calvino si specchiava simultaneamente in tre figure emblematiche: il Cavaliere di Spade, l'Eremita, il Bagatto. Se nel guerriero rivedeva la cifra della sua giovinezza stendhaliana, nell'Eremita contemplava il volto ombroso della propria maturità; ma all'ultimo momento, con uno scarto, faceva convergere le linee del proprio autoritratto nell’ultima figura, quella del Bateleur o Bagatto: «Forse è arrivato il momento d'ammettere che il tarocco numero uno è il solo che rappresenta onestamente quello che sono riuscito a essere: un giocoliere o illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero d'effetti» (Romanzi e racconti, II, 1992, p. 596).

Anni Settanta-Ottanta: silenzi e discorsi interrotti

Le città invisibili uscirono nel novembre 1972, dopo un iter di scrittura durato circa sei anni: 18 brevi dialoghi ironico-sapienziali tra un Marco Polo di multiforme ingegno e un Kublai Kan di sfaccettate malinconie incorniciavano 55 descrizioni, brevi anch’esse, di città immaginarie che portavano esotici nomi di donna, e che dagli effluvi di un lontano Oriente si corrompevano di odori e miasmi sempre più moderni, sempre e comunque però con effetti di deriva visionaria; «poemetto in prosa o apologo o onirigramma» erano i generi letterari evocati nel risvolto di copertina, ma si può parlare più semplicemente di un diario di viaggio alla ricerca di più identità – reali oppure virtuali, desiderate oppure temute – coese in una struttura di nitida complessità combinatoria; non per nulla Calvino fu nominato nel febbraio 1973 membre étranger dell’Ou-li-po. Per molti anni, avrebbe continuato a definire le Città come il suo ultimo libro.

Il riavvicinamento all’Italia cominciò con l’acquisto di una villa in Toscana (a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia) e, dal 1974, con una collaborazione assidua al Corriere della sera diretto da Piero Ottone, cui offrì le prime avventure sedentarie del signor Palomar (molte delle quali ambientate a Parigi o a Roccamare) e altri racconti, ma anche saggi letterari, note di costume e commenti di politica interna o estera, spesso impaginati come articoli di fondo.

Intorno alla metà degli anni Settanta molti scrittori, a cominciare da Pasolini, conquistarono una visibilità come commentatori politici. Da parte sua, il Calvino editorialista prendeva la parola in nome di una 'Italia migliore' della cui esistenza era tutt’altro che certo. La sua principale preoccupazione era la debolezza della società civile, la gracilità del senso civico nazionale. Anche per questo non si occupava quasi mai di quanto avveniva ai vertici della politica politicante, compresi i temi che parevano allora d'importanza decisiva, come un possibile accordo di governo tra la DC e il PCI. Più in generale, va sottolineato che da quel momento in poi le principali opere di Calvino, tranne Se una notte d'inverno un viaggiatore (Torino 1979), sarebbero nate sui giornali: il già nominato Palomar (ibid.1983), la raccolta saggistica Collezione di sabbia (Milano 1984) e persino le postume Lezioni americane (ibid.1988), per le quali poté attingere a un corpus di testi nati per il Corriere e per la Repubblica.

Lo stato d'animo sotto il cui segno transitò il Calvino anni Settanta fu il nervosismo: nervoso lui come nervosi erano i suoi alter ego nella fiction, dal romanziere Silas Flannery del Viaggiatore al signor Palomar. Il ricavato netto di questa irrequietudine fu la quantità e varietà di opere che mise in cantiere in quel periodo. Imbastì due serie di racconti, una dedicata ai cinque sensi e l’altra agli oggetti, che non avrebbero fatto in tempo a diventare libri compiuti. I suoi esercizi di memoria si arricchirono nel 1974 di due testi importanti, Ricordo di una battaglia e Autobiografia di uno spettatore; ma il più impegnativo di essi fu La poubelle agréée (1974-76). Le riflessioni sulla storia giunsero invece a maturazione in tre Dialoghi storici (con l'uomo di Neanderthal, con Montezuma, con Henry Ford, 1974-82), ma si registrò anche il riavvicinamento a due passioni remote come il teatro e la fiaba: lo attestano le storie per bambini pubblicate nel Corriere della Sera illustrato e il progetto di un Teatro dei ventagli messo a punto con il poeta-pittore Toti Scialoja. Un Calvino ormai multimediale riprendeva la collaborazione con il musicista Luciano Berio che, avviata fin dal 1959, si concretava ora in due opere, o piuttosto «azioni sceniche»: La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984).

Ma quanto a multimedialità, il lavoro più originale su questo fronte riguardò i suoi scritti sulla pittura, copiosi fino al 1985, fossero testi d'impianto saggistico come quelli su Turner o Arakawa, oppure – più spesso – testi creativi, veri e propri racconti nati dall’impatto con quadri e sculture. Merita un posto a sé La squadratura (1975) dedicata a Giulio Paolini, nella quale venne delineato il programma di lavoro per Se una notte d'inverno un viaggiatore, il libro della molteplicità che avrebbe coronato questo decennio di esperimenti, turbato dal delitto Moro (sulla cui prigionia Calvino scrisse un importante articolo per il Corriere) e rattristato dalla morte di sua madre nel 1978. La mobilità del Calvino scrittore si trasmise al Calvino turista: nel solo biennio 1975-76 tre viaggi, in Iran, Giappone e Messico, destinati a nutrire le pagine di Palomar e Collezione di sabbia.

Dal 1° gennaio 1977 alla primavera 1979 Calvino si dedicò interamente alla stesura di Se una notte d’inverno un viaggiatore, «iper-romanzo» nel quale desiderava conservare intatta dal principio alla fine l'energia della potenzialità, la libertà di un perpetuo incominciare; non per nulla il suo titolo primitivo fu Incipit. Il libro uscì da Einaudi nell’estate 1979, accompagnato da una sagace campagna pubblicitaria: il successo fu immediato, la critica si ritrovò frastornata dalla complessità dell’opera.

Alla fine del 1979, lasciò il Corriere della Sera per la Repubblica, il quotidiano fondato dal compagno di liceo Scalfari. Pochissimi, nella nuova sede, gli articoli di argomento politico; va però segnalato un Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti (15 marzo 1980) che si salda ai primi apologhi giovanili. Quello di Repubblica fu un Calvino enciclopedico e giramondo: un Baedeker di esplorazioni culturali come Collezione di sabbia nacque in massima parte su quelle pagine, e lì sarebbero apparsi anche alcuni brani di Palomar e le ultime due cosmicomiche stese nell'estate 1984, Il niente e il poco e L'implosione. Simultaneamente, Calvino si impegnava in un lavoro di autoriepilogo riunendo in volume una scelta dei suoi saggi dal 1955 in avanti. Per lunghi anni aveva esitato a farlo, e un puntiglio riduttivo e autodenigratorio lo indusse a definire la raccolta che uscì da Einaudi nel 1980, Una pietra sopra (sottotitolo: Discorsi di letteratura e società), come il suo «libro postumo» (lettera a Guido Neri [27 agosto 1980]: in Lettere, 2000, p. 1431).

Nel 1980 la famiglia Calvino, pur senza abbandonare del tutto la casa parigina, tornò a stabilirsi in Italia, a Roma, in un grande appartamento in piazza Campo Marzio. Nel 1981 giunsero a Calvino due riconoscimenti, la Legion d'onore e la nomina a presidente di giuria della XXIX Mostra del Cinema di Venezia. Al principio del 1983 fu nominato per un mese directeur d’études alla École des Hautes Études di Parigi, e in quella veste tenne una lezione su Science et métaphore chez Galilée. Qualche mese più tardi tenne la James Lecture alla New York University, dove lesse in inglese il suo saggio più importante di questi anni, Mondo scritto e mondo non scritto: «Quando mi stacco dal mondo scritto per ritrovare il mio posto nell'altro, in quello che usiamo chiamare il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili, questo equivale per me ogni volta a ripetere il trauma della nascita […]» (Saggi, 1995, II, p. 1865). Nel 1983 uscì anche Palomar, che Calvino definì come un quaderno di esercizi (Sono nato in America…, 2012, p. 639). Fu l’ultimo libro pubblicato presso Einaudi, a causa del dissesto finanziario della casa editrice. Le 27 brevi avventure del protagonista – un incrocio tra Leopardi e Buster Keaton – che portava il nome di un famoso telescopio erano dichiaratamente autobiografiche.

Calvino scelse come nuovo editore il milanese Garzanti, presso il quale uscirono quell’anno due libri, Collezione di sabbia e la raccolta delle Cosmicomiche vecchie e nuove. Sempre nel 1984 gli giunse l'invito a tenere a Harvard, per l'anno accademico 1985-86, un ciclo di sei conferenze, le Charles Eliot Norton poetry lectures; era il primo invitato italiano. Si mise subito al lavoro, e al principio del settembre 1985 aveva completato la stesura di cinque conferenze su sei: Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità. L'ultima, destinata a intitolarsi Consistency, l’avrebbe scritta a Harvard. Durante l'estate la scrittura di quelle che sarebbero uscite postume nel 1988 col titolo Lezioni americane si alternò con un difficile esercizio di traduzione, Le chant du styrène di Queneau.

Fu il suo ultimo lavoro: nel primo pomeriggio del 6 settembre 1985, nella villa di Roccamare, fu colpito da ictus cerebrale. Si spense all’ospedale di Siena nella notte tra il 18 e il 19 settembre e fu sepolto nel cimitero di Castiglione della Pescaia.

Opere

Edizioni postume: Romanzi e racconti, I-III, a cura di C. Milanini - M. Barenghi - B. Falcetto, Milano 1991-94; I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino 1991; Fiabe italiane, a cura di M. Lavagetto, Milano 1993; Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, ibid. 1994; Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, ibid. 1995; Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, ibid. 2000; Il libro dei risvolti, a cura di C. Ferrero, Torino 2003; Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano 2012. Da considerare inoltre gli scritti sparsi contenuti in Album Calvino, a cura di L. Baranelli - E. Ferrero, ibid. 1995, e in «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, a cura di M. Barenghi - M. Belpoliti, Milano 1998.

Fonti e bibliografia

La più ricca bibliografia ragionata della critica resta D. Scarpa, Bibliografia della critica calviniana 1947-2000, in Il fantastico e il visibile. L’itinerario di I. C. dal neorealismo alle «Lezioni americane», Giornata di studi… 1997, a cura di C. De Caprio - U.M. Olivieri, Napoli 2000, pp. 289-373; per i testi primari si veda invece: L. Baranelli, Bibliografia di I. C., Pisa 2007. Fra le testimonianze biografiche: P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano 1986; G. Einaudi, Frammenti di memoria, Milano 1988; S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Roma-Napoli 1991; P. Ferrua, I. C. a Sanremo, Sanremo 1991; E. de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Milano 1992; L. Guglielmi - I. Pizzetti, Libereso, il giardiniere di C., Padova 1993; T. Schiva, Mario Calvino. Un rivoluzionario tra le piante, suppl. a Flortecnica, 1997, n. 12; Encuentro con I. C. (catal.), Milano 1999; L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino 1999; N. Ginzburg, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di D. Scarpa, Torino 2001; C. Fruttero - F. Lucentini, I Nottambuli, a cura di D. Scarpa, Cava de’ Tirreni 2002; G. Davico Bonino, Alfabeto Einaudi, Milano 2003; E. Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Milano 2005; C. Milanini, Appunti sulla vita di I. C., 1943-1945, in Belfagor, LXI [2006], 1, pp. 43-61; E. Macellari, Eva Mameli Calvino, Perugia 2010. Fra i saggi critici si rimanda innanzitutto agli apparati bibliografici che corredano ciascun volume delle opere di C. pubblicate nella collana «Oscar» Mondadori, suddivisi in una parte di carattere generale e una specificamente dedicata all’opera. In questa sede ci si è limitati alle maggiori monografie apparse dopo la pubblicazione delle opere di C., fra cui: M. Belpoliti, L’occhio di C., Torino 1996; M. McLaughlin, I. C., Edinburgh 1998; S. Perrella, C., Roma-Bari 1999; D. Scarpa, I. C., Milano 1999; A. Asor Rosa, Stile C., Torino 2000; J.-P. Manganaro, I. C. romancier et conteur, Paris 2000; A.M. Jeannet, Under the radiant sun and the crescent moon. I. C.’s storytelling, Toronto-Buffalo-London 2000; M. Lavagetto, Dovuto a C., Torino 2001; F. Ricci, Painting with words, writing with pictures: word and Image in the works of I. C., Toronto 2001; M. Schilirò, Le memorie difficili. Saggio su I. C., Catania 2002; M.J. Calvo Montoro, I. C., Madrid 2003; F. Serra, C., Roma 2006; M. Barenghi, I. C., le linee e i margini, Bologna 2007; M. Bucciantini, I. C. e la scienza. Gli alfabeti del mondo, Roma 2007; R. Donnarumma, Da lontano. C., la semiologia, lo strutturalismo, Palermo 2008; M. Barenghi, C., Bologna 2009; E.M. Ferrara, C. e il teatro: storia di una passione rimossa, Oxford 2011; V. Santoro, C. e il cinema, Macerata 2012.

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