IUGOSLAVIA

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1949)

IUGOSLAVIA (XX, p. 15; App. I, p. 767)

Elio MIGLIORINI
Massimo BRUZIO
Luigi MONDINI
Luigi MONDINI

La struttura unitaria dello stato iugoslavo, nella sua ripartizione in banati creata nel gennaio 1929, aveva subìto una fondamentale modificazione in seguito all'accordo stipulato tra il governo di Belgrado ed i rappresentanti della Croazia il 25 agosto 1939. In luogo dello stato unitario, retto prevalentemente dai Serbi, veniva accordata alla Croazia (comprendente i due banati della Sava e del Litorale e inoltre alcuni circondarî degli altri banati vicini, in tutto circa 66.000 kmq. e 4,4 milioni di ab.), una forte indipendenza dal potere centrale per tutto quanto ha rapporto con l'agricoltura, il commercio, l'industria, le foreste, le miniere, i lavori pubblici, la politica sociale, la salute pubblica, l'educazione. Capo del banato avrebbe dovuto essere un bano, nominato dal re, ed a Zagabria avrebbe dovuto funzionare un'assemblea locale (detta Sabor).

Gli eventi bellici dell'aprile 1941, portarono in pochi giorni allo smembramento dello stato iugoslavo, che fu così ripartito:

La Croazia (v. in questa App.) proclamò il 10 aprile 1941 la propria indipendenza, riunendo insieme Croazia, Slavonia, Bosnia ed Erzegovina e una parte della Dalmazia. Il Montenegro (v. in questa App.) deliberò il 13 luglio 1941 di restaurare la monarchia sotto l'egida dell'Italia. L'Italia si annesse la Slovenia meridionale (provincia di Lubiana) e alcuue isole e territorî della Dalmazia (v. in questa App.). La Germania occupò la Slovenia settentrionale. L'Ungheria ricuperò la Bačka, la Baranja e il territorio della Mur. La Bulgaria occupò la Macedonia, il distretto della Morava e il territorio di Caribrod. All'Albania furono uniti i territorî del Kosovo e della Metohija. Quello che rimaneva tornò a formare uno stato serbo. Le lotte intestine, la guerra partigiana e i bombardamenti aerei provocarono gravissimi danni e cospicue perdite alla popolazione: si calcola che circa 1.700.000 persone siano cadute vittime della guerra.

Il 29 novembre 1945 fu proclamata la repubblica popolare iugoslava (Federativna Narodna Republika Jugoslavija: FNRJ), che ha per organo supremo la Skupština, eletta per 4 anni e composta di 2 camere, il Consiglio federale, eletto da tutti i cittadini d'oltre 18 anni, e il Consiglio delle nazionalità, eletto dalle 6 repubbliche federali, dalle provincie e dalle regioni autonome. Le due camere riunite eleggono il Presidium della Skupština (35 persone) e il governo federale.

Ora la Iugoslavia si suddivide, dal punto di vista amministrativo, nel modo seguente:

La superficie della Iugoslavia risulta di circa un sesto inferiore a quella dell'Italia; la popolazione è inferiore alla metà; la densità è circa un terzo di quella italiana. Il confine con l'Austria non è stato ancora fissato in modo definitivo; la Iugoslavia aspira alla Carinzia slovena (2700 kmq. e 190.000 ab.). Da una stima demografica del 1947 risultavano 15.324.500 abitanti.

Il nuovo governo ha dovuto affrontare gravi problemi e, in primo luogo, creare un'amministrazione che garantisse l'ordine e assicurasse al popolo il minimo per vivere. Tra i provvedimenti principali del nuovo governo va ricordata la riforma agraria (per i poderi superiori a 35 ha.), la creazione di fattorie collettive e di cooperative nei terreni della Vojvodina (300.000 ha.) confiscati ai Tedeschi che hanno abbandonato il paese, la nazionalizzazione delle industrie (1946), le disposizioni che fanno rientrare il commercio nella sfera statale. Si è anche provveduto a ricoverare le persone rimaste senza tetto; nuove case, più moderne e spaziose, sostituiscono ora le antiche, fatte di mattoni e coperte di tegole nella pianura pannonica, dove prevale nei villaggi lo schema geometrico, di legno e sparse nella regione montana, di tipo carsico, ammucchiate, nei paesi di SO. Sono state anche agevolate in modo organico le migrazioni interne; da un lato esistono plaghe sovrappopolate (come le zone più alte della regione dinarica, gli alti bacini del Vardar, alcune delle pianure del nord), dall'altro, regioni che si prestano ad accogliere dei coloni (basse pianure del Vardar e pianure della parte meridionale del bacino pannonico).

Poi si è cercato di render più variata l'economia del paese, che finora era prevalentemente agricola, cercando di far in modo che le varie regioni si completino a vicenda. Secondo una statistica del 1938 il 30,8% della superficie territoriale è rappresentato da arativo, il 24, 9% da prati naturali e da pascoli, il 2,7% da colture arboree, il 31,4% da foreste. Durante gli anni di guerra gravi danni ha subìto soprattutto il patrimonio zootecnico a causa delle numerose requisizioni e razzie.

Il 26 aprile 1947 la Skupština ha approvato un piano quinquennale (1947-51) che mira soprattutto a far sviluppare le industrie e ad aumentare la produzione di energia elettrica. Esso prevede un aumento della produzione industriale di 5 volte rispetto al 1939. Nuovi altifomi sorgeranno nei dintorni di Lubiana, fabbriche di macchine nelle vicinanze di Belgrado, impianti per la produzione di alluminio nei dintorni di Mostar. Gli aumenti, che il piano quinquennale prevede per i principali capitoli della produzione industriale, risultano dalla seguente tabella.

La produzione di energia elettrica dovrebbe passare da 1,1 miliardi di kWh. nel 1939 (cifra di nuovo raggiunta nel 1947) a 4,3 miliardi nel 1951; si prevede un aumento della produzione di carbone da 389 kg. nel 1939 a 1031 a persona nel 1951, dell'acciaio da 15 kg. a 48, dell'energia elettrica da 71 kWh. a 272, del cemento da 42 kg. a 137, dei tessili da 8,7 m. a 19,4. Nel 1951 si dovrebbero fabbricare 4500 trattori, 240 mila aratri, 60 mila macchine da semina, e nel campo tessile 250 milioni di m. di stoffe di cotone e 24 milioni di m. di lana. Nel campo agricolo il piano conta su un aumento del 15% del raccolto del frumento, del 20% del mais, del 10-30% delle colture industriali. Si prevede anche la bonifica di 400 mila ha. e l'irrigazione di altrettanti. Il valore dei prodotti industriali dovrebbe passare da 25,5 miliardi a 126 miliardi di dinari e quello dei prodotti agricoli da 64 a 97 miliardi, per cui la percentuale della produzione industriale aumenterebbe dal 45 al 64% e quella agraria diminuirebbe dal 55 al 36%.

Il piano prevede pure un miglioramento delle vie di comunicazione. La Iugoslavia presenta a questo riguardo una posizione favorevole, dato che essa è traversata dalla strada NS. (Pannonia-Morava-Vardar), che collega l'Europa occidentale e centrale all'Europa meridionale, e dalla strada OE. (Sava-Danubio), che unisce l'Europa centrale all'Europa orientale. Ora si cerca di perfezionare e di sviluppare le comunicazioni, completando i collegamenti meridiani col rendere navigabile il corso della Morava e del Vardar, col costruire un secondo binario ferroviario, coll'affiancare alla ferrovia già esistente una strada automobilistica; al miglioramento delle comunicazioni tra occidente e oriente si pensa di provvedere con la costruzione d'una strada lungo la Sava e il Danubio e d'una linea ferroviaria a S. del Danubio. Nel piano è prevista la costruzione di 1900 km. di nuove linee ferroviarie. Intanto si è provveduto a ricostruire un gran numero di ponti, a riattare le linee che erano state interrotte, a riparare locomotive e vagoni, di cui si ha ancora penuria. Nel 1940 è stato aperto il tronco Brčko-Banovići (92 km.) che serve alle miniere di carbone della Slavonia e nel 1947 la linea Sarajevo-Samac.

Finanze (XX, p. 38; App. I, p. 768). - Il sistema di economia nazionalizzata ha avuto larga applicazione nella Iugoslavia del dopoguerra; il commercio estero e interno, l'industria, le banche e le assicurazioni sono praticamente monopolio dello stato. Il piano quinquennale 1947-51 per lo sviluppo dell'economia iugoslava, approvato nell'aprile 1948, prevede nuovi investimenti di capitali per 278,3 miliardi di dinari. La sua attuazione è affidata alla Commissione federale del piano.

Il bilancio dello stato nelle previsioni per il 1947 aveva raggiunto il pareggio.

Al momento della liberazione, nel territorio iugoslavo, avevano corso 8 tipi diversi di monete, che rappresentavano una circolazione complessiva di circa 290 miliardi di dinari, di fronte ai 9.698 milioni del 1939.

Nell'aprile 1945 tutte le monete esistenti furono sostituite con il nuovo "dinaro della Iugoslavia democratica federale". Il cambio fu effettuato con tassi diversi per ciascuna moneta; per la lira fu applicato il saggio di 30 dinari nuovi per ogni 100 lire. Le obbligazioni e i debiti contratti durante la guerra furono convertiti agli stessi saggi. Sono state emanate norme restrittive per i pagamenti in contanti, che non potevano superare i 5000 dinari; per le cifre superiori era obbligatorio il trasferimento in conto bancario. Prezzi e salarî furonoconvenientemente adeguati. Il cambio ufficiale del dollaro S. U. è rimasto invariato dal 1945: 50 dinari = 1 $. Al momento della conversione furono posti in circolazione 6.179 milioni di dinari nuovi, corrispondenti, grosso modo, alla circolazione prebellica; alla metà del 1947 si stimava che il volume della circolazione fosse salito a 20 miliardi circa. Il controllo sui cambî, affidato precedentemente alla Banca nazionale, è stato trasferito nel maggio 1947 al Ministero delle finanze. La Banca nazionale della Repubblica federale popolare di Iugoslavia esercita il monopolio dell'emissione di biglietti; raccoglie il risparmio nazionale distribuendolo nel quadro del piano; funziona da tesoreria dello stato.

Tutte le banche iugoslave sono state nazionalizzate. Il sistema del credito è stato riorganizzato con la legge del 25 settembre 1946 sulla fusione degli istituti di credito del settore pubblico: con essa fu ordinata tra l'altro la fusione con la Banca nazionale delle banche delle repubbliche federali. Il credito a lungo termine è stato affidato alla Banca di stato per gli investimenti della Repubblica federale popolare iugoslava. Per armonizzare l'attività creditizia con il piano quinquennale, le due suddette banche sono divenute proprietà dello stato che esercita su di esse pieno controllo.

Storia (XX, p. 39; App. I, p. 768).

Il dinamismo espansionistico tedesco, così mal contenuto dalle altre potenze europee, e dall'Italia, anzi, piuttosto assecondato che frenato, non poteva non scuotere la linea tradizionale della politica iugoslava, fondata sull'accordo con la Francia e sulla Piccola Intesa. L'Anschluss dell'Austria (marzo 1938) faceva della grande Germania un vicino inquietante della Iugoslavia, rispetto al quale le aspirazioni revisionistiche magiare e il pericolo di una restaurazione asburgica, motivi che avevano dato vita alla Piccola Intesa, erano ben poca cosa. Il 21 marzo il primo ministro M. Stojadinović dichiarava, sì, ancora, che il fondamento della politica estera iugoslava era l'accordo con la Francia; ma d'altra parte, per il mutato rapporto delle forze, non poteva non mettere in rilievo anche l'accostamento, già molto progredito, verso le potenze totalitarie, Germania ed Italia, a cui del resto era spinto anche dalle sue personali inclinazioni autoritarie. I suoi colleghi di ministero erano molto divisi sulla linea politica da seguire, e non solo nella politica estera, ma anche in quella interna, specie rispetto ai Croati, fra i quali alcune correnti erano, manifestamente, non insensibili alle suggestioni di fuori, in cui potevano trovare l'occasione e il mezzo per risolvere il problema croato e, in genere, il problema dei rapporti fra i varî gruppi etnici in Iugoslavia. Quest'ultima inquietudine si manifesta anche nei frequenti rimaneggiamenti del ministero Stojadinović: il 27 agosto 1938, il 10 ottobre, il 21 dicembre, ossia anche dopo che le elezioni dell'11 dicembre avevano sembrato rafforzare la posizione di Sitojadinović, dando alla lista governativa il 54 per cento dei voti e 306 seggi e all'opposizione il 46 per cento dei voti, ma solo 67 seggi, per determinate disposizioni della legge elettorale intese a favorire la maggioranza.

In seguito alle dimissioni di cinque ministri, il 4 febbraio 1939 anche Stojadinović rassegnava il mandato ed era sostituito da D. Cvetković, più aperto all'idea di un compromesso con le correnti moderate croate, ma non meno di Stoiadinović convinto della necessità di non scontentare Germania e Italia, specie dopo l'insediamento dell'Italia in Albania (aprile 1939), pur rimanendo fuori dai blocchi ideologici, come tenne ad accentuare il reggente principe Paolo nel viaggio politico che nel maggio lo portò in Italia e in Germania e che seguiva all'incontro (che ebbe luogo a Bucarest, il 5 novembre 1938) col re Carol, quest'ultimo tuttavia in un'atmosfera politica internazionale non ancora così arroventata come sarà nella primavera ed estate del 1939.

L'evolversi della situazione internazionale accelerò la conclusione delle conversazioni per un compromesso con i Croati di V. Maček; concluso il 25 agosto, nei giorni in cui l'Europa precipitava verso la guerra, ebbe il significato di un rafforzamento della compagine statale in presenza dei pericoli della situazione; e riconoscendo alla Croazia (v. in questa App.) una larghissima autonomia, anche con un proprio organo legislativo (Sabor), sembrò essere il primo avviamento dello stato unitario iugoslavo verso forme federali, in cui anche le altre unità etniche potessero comporsi. Ma per allora, accontentate le correnti moderate croate (non quelle, oltranziste fino al separatismo, capeggiate da A. Pavelić, che rimaneva in Italia) non si andò oltre quella prima premessa, sanzionata anche con la costituzione (27 agosto) di un nuovo gabinetto Cvetković di coalizione serbo-croata, in cui Maček ebbe la vicepresidenza. Andare oltre, in quel momento si pensava, sarebbe stato compromettere, indebolendola, la posizione internazionale della Iugoslavia, intorno alla quale i pericoli infittivano. Sotto gli auspici della Germania già le aspirazioni revisionistiche ungheresi avevano avuto soddisfazione a spese della defunta Cecoslovacchia; non era affatto da escludersi che, in seguito, non potessero trovare soddisfazione anche a spese della Iugoslavia. L'allargarsi, poi, della guerra al Mediterraneo, in seguito all'intervento dell'Italia (10 giugno 1940) e più in seguito alla campagna intrapresa da questa, partendo dall'Albania, contro la Grecia (28 ottobre 1940), non facilitava certo la posizione della Iugoslavia, che vedeva oramai le fiamme del conflitto lambire i suoi confini e truppe tedesche insediarsi, sotto i più speciosi pretesti, tutt'intorno, in Ungheria, in Romania, in Bulgaria. Alla forza schiacciante delle potenze dell'Asse, anche se momentaneamente compromessa dalle serie difficoltà militari degli Italiani in Grecia ed Albania, non si vedevano contrappesi: prostrata a terra la Francia, tutta intesa alla sua sola difesa l'Inghilterra, enigmatica la Russia, benché non avara di simpatie verso la Iugoslavia in ragione diretta dell'espansionismo tedesco nei Balcani, che non poteva non preoccuparla; lontanissimi, ufficialmente neutrali, gli Stati Uniti. Perciò il gabinetto Cvetković-Maček dovette raddoppiare in cautele per non irritare la Germania, per non darle il pretesto di porre la Iugoslavia di fronte all'aut aut: o con essa o contro di essa. Le proteste, da parte iugoslava, di volere la più rigorosa neutralità erano continue, e non soltanto per placare la suscettibilità tedesca, ma anche quella di forti correnti interne, specialmente serbe (si era formato, nel febbraio 1940, sotto la guida di D. Jovanović, un notevole partito agrario serbo di sinistra, che si proclamava federalista, neutralista, favorevole ai paesi democratici e alla Russia) le quali accusavano il governo di scivolare sempre più verso l'Asse. Il che trovava conferma non solo nella fornitura di generi alimentari e di materie prime alla Germania e all'Italia, ciò che poteva anche essere una necessità, essendo chiuse le vie di scambio con altri paesi, ma anche in altri provvedimenti di indubbio significato: tali ia soppressione della massoneria, i provvedimenti razziali contro i circa 70.000 ebrei di Iugoslavia (ottobre 1940), la visita a Berchtesgaden di Cvetković e del suo ministro degli Esteri Cincar-Marković (14 febbraio 1941).

Un tentativo reciproco di sottrarsi alla pressione tedesca poteva interpretarsi, d'altra parte, il patto di amicizia con l'Ungheria, sottoscritto a Belgrado il 12 dicembre 1940; e tuttavia si vedeva con terrore avvicinarsi il momento in cui la Germania, nell'esecuzione del suo progettato "ordine nuovo" in Europa, avrebbe invitato - vale a dire costretto - anche la Iugoslavia ad inserirvisi. Il momento temuto venne l'11 marzo 1941: il governo tedesco invitò quello iugoslavo ad aderire al Tripartito, offrendo come contropartita la garanzia delle frontiere iugoslave. Fu l'inizio di due settimane di passione, di campagne di stampa, di dimostrazioni popolari, di petizioni alla reggenza perché risparmiasse al paese quell'umiliazione; vi presero parte ardente tutte le classi della popolazione, ma specialmente gli studenti, il clero (quello ortodosso più che il cattolico), gli ufficiali di carriera e di complemento; e non solo a Belgrado, ma anche a Zagabria, a Spalato, a Lubiana, in città minori. Il gabinetto era diviso; vi si susseguivano sedute tempestose; tre ministri si dimisero, uno anche del partito di Maček. Infine prevalse il partito di piegarsi: col consenso del reggente, il 25 marzo Cvetkoviće Cincar-Marković firmavano a Vienna l'adesione al Tripartito. Un'ondata di indignazione si sollevò nel paese, della quale si fecero forti gli ambienti militari per provocare un colpo di stato: nella notte fra il 26 e il 27 marzo il gen. D. Simović, col concorso soprattutto di ufficiali dell'aeronautica, faceva occupare i principali ministeri, le sedi della polizia e della radio, arrestare i ministri responsabili e allontanare il reggente. Nel cuor della notte il giovane principe, che fra qualche mese doveva raggiungere la maggiore età, assumeva i poteri regali col nome di Pietro II e lanciava un appello alla nazione, mentre il nuovo governo da lui nominato (presidente il gen. Simović, vicepresidenti Maček e Sl. Jovanović, esteri M. Ninčić) provvedeva febbrilmente alla mobilitazione generale. La guerra si presentava infatti inevitabile; mai la Germania hitleriana, allora strapotente in Europa, avrebbe tollerato questa che era la prima sfida che le veniva lanciata. In quel momento pareva, da parte iugoslava, una follia, ed anche più grande di quel che gli stessi Iugoslavi, inclini un po' a sopravvalutare la forza delle loro armi, dovevano pur essere portati a riconoscere. Le ostilità, aperte dalla Germania senza previa dichiarazione di guerra la mattina del 6 aprile, si conclusero con la totale occupazione della Iugoslavia nel giro di due settimane.

Le forze d'invasione si erano affacciate alle frontiere della Iugoslavia lungo tutta la loro estensione, da Fiume al confine greco. Gli attaccanti si prefissero di separare gli Iugoslavi dalla Grecia e dal mare impedendo loro di ricevere aiuti e di annientarne l'esercito con un'azione concentrica. Per la prima volta, dallo scoppio della seconda Guerra mondiale, la Germania dimostrò che anche in terreni montani si potevano impiegare i carri armati ed era possibile far operare l'aviazione in stretto collegamento con le forze terrestri. Essa agì con la 2ª armata (gen. von Weichs) dall'Austria meridionale e dall'Ungheria e con la 12ª (gen. List) dalla Romania e dalla Bulgaria: complessivamente 21 divisioni, delle quali 6 corazzate e 2 motorizzate. L'aviazione, agli ordini diretti del maresciallo Göring intervenne con due squadre, comandate rispettivamente dai generali Löhr e Richthofen.

L'esercito iugoslavo contava 21 divisioni "quaternarie" di fanteria e 3 di cavalleria; complessivamente 250.000 uomini che, mediante richiami, durante il rapido svolgimento del conflitto, furono portati a circa 650.000 (con la mobilitazione generale si calcolava di poter metterne in campo 1.800.000); era disteso a cordone dietro le frontiere, irrazionalmente, come già aveva fatto la Polonia, e con scarse riserve.

Le ostilità furono aperte dall'aviazione tedesca che martellò nodi di comunicazioni, concentramenti di truppa, città, fra le quali pesantemente Belgrado. Il piano tedesco si sviluppò con un attacco concentrico su Belgrado ed una puntata nella Serbia meridionale. Questa fu condotta dal corpo d'armata del gen. Stumme (della 12ª armata List), forte di due divisioni corazzate, due divisioni di fanteria ed una motorizzata di SS: la "Adolf Hitler". Partito dalla zona ad occidente di Sofia, il corpo d'armata Stumme raggiunse, la sera del 7 aprile, la valle del Vardar, a Skoplje, e distaccò una colonna verso Tetovo, mentre un'altra proseguì verso sudovest, occupò Veles e, il 10, Monastir; spinse allora parte delle due divisioni in Grecia e con le altre, si collegò, l'11, con le truppe italiane della 9ª armata, provenienti dall'Albania, a Struga e a Dibra. Con questa operazione venivano eliminate quattro divisioni iugoslave e la Grecia, tagliata dal collegamento con la Iugoslavia, vedeva aprire un'ampia breccia sul suo schieramento dall'Epiro alla Tracia.

Contemporaneamente, si sviluppava l'azione su Belgrado che seguì, di massima, le valli dei maggiori fiumi, uniche zone in cui fosse facile l'impiego di mezzi motorizzati. La 2ª armata, dalla Carinzia, occupò Marburgo, scese nelle vallate della Drava e della Sava; si impadronì, l'11, di Zagabria, raggiunse il Danubio e diresse parte delle sue forze su Sarajevo (che fu occupata il 16), ed il 1° corpo d'armate su Belgrado. Sulla capitale, frattanto, puntava velocemente il corpo d'armata di destra (generale Kleist) della 12ª armata che, partito dalla Bulgaria nord-occidentale, risalì la Morava, conquistò Niš il 9 aprile, Kragujevac il 10, si congiunse a sud di Belgrado, il 12, con elementi del 1° corpo d'armata e l'indomani entrò nella città. Gli Ungheresi, radunatisi fra il Tibisco e il Danubio, occuparono, fra l'11 e il 15, il Banato.

L'Italia partecipò alla campagna, oltre che con i già ricordati elementi della 9ª armata, con la 2ª armata, della Venezia Giulia, con le truppe di Zara e col XVII corpo d'armata dell'Albania settentrionale. Quest'ultimo ebbe inizialmente un compito difensivo, che assolse brillantemente, benché disteso su ampio fronte, contro tentativi di invasione iugoslava nello Scutarino. Poscia, passò all'attacco, raggiunse Cettigne, si divise in due colonne e proseguì su Podgorica, su Cattaro e Ragusa. Le truppe di Zara, dopo aver anch'esse respinto deboli tentativi avversarî, presero l'iniziativa e conquistarono, il 14, Knin. Ma il compito più importante fu assolto dalla 2ª armata che, dopo aver eseguito - secondo il piano concordato col comando tedesco - forti ricognizioni offensive, passò decisamente all'offensiva l'11 aprile: con una colonna occupò, il 12, Lubiana, incontrandosi con l'ala destra dell'armata Weichs, proveniente da Klagenfurt. Un'altra colonna motorizzata sfrecciò lungo il litorale, sorpassò Segna, si collegò il 14 a Knin con le truppe di Zara, il 15 raggiunse Sebenico e Spalato, il 16 Mostar e il 17 Ragusa e Trebinje, dove avvenne la saldatura col XVII corpo d'armata.

La Iugoslavia era stretta in un cerchio continuo ed il suo esercito già reputato uno dei migliori fra quelli balcanici, appariva tagliato in tronconi che non davano più alcun segno di vitalità; l'ex ministro degli Esteri Cvetković riconobbe non esservi altra alternativa che firmare un armistizio (ore 12 del 18 aprile), che però re Pietro e il suo governo, rifugiatisi in Atene, non vollero riconoscere.

La Iugoslavia cessò di esistere come entità statale. Fra aprile e maggio, e per qualche questione più spinosa nei mesi successivi, ne fu regolato lo smembramento fra i vincitori (v. sopra) i quali consentirono (15 aprile) alla creazione di una Croazia indipendente sotto la guida del poglavnik Ante Pavelić (v.), mentre in Serbia, pur occupata dai Tedeschi, fu instaurato, per economia di forze, un comodo governo "Quisling" locale, presieduto dal gen. M. Nedić (v. serbia, in questa App.).

Ma se la Iugoslavia, come entità statale e territoriale, era scomparsa, essa sopravviveva in due modi: come entità giuridica e come idea da restituire nella realtà; sopravviveva nel governo esule e nel movimento di resistenza contro gli occupanti.

Avvenuto il crollo militare, il giovane sovrano e il gabinetto Simović, cui era stato di conforto solo platonico, anche se molto significativo, l'appoggio del governo sovietico che poche ore avanti l'apertura delle ostilità, nella notte fra il 5 e il 6 aprile, aveva pubblicato la notizia della firma di un patto di amicizia con la Iugoslavia, avevano riparato prima ad Atene, poi a Gerusalemme e infine (21 giugno 1941) a Londra.Maček aveva preferito restare a Zagabria, forse pensando di poter salvare il salvabile senza pregiudicare il futuro; ma, scavalcato da Pavelić con la proclamazione dello stato indipendente di Croazia, rimase fuori da ogni attività politica, sospetto tanto ai Tedeschi quanto agli ustascia. Il gabinetto Simović era sempre un gabinetto di coalizione sulla base dell'accordo Maček-Cvetković; ma tagliato fuori da ogni effettiva attività di governo, occupava il suo tempo, principalmente, a formulare piani per l'avvenire della Iugoslavia e sul modo di ricostituirla con la esperienza del recente passato. Mentre per Simović, esponente dei circoli militari serbi, la situazione stabilita con l'accordo Macek-Cvetković rappresentava il punto estremo oltre il quale non si doveva andare, per altri membri del gabinetto esso non doveva esser che il primo passo verso un'evoluzione federalistica dello stato iugoslavo. Il 12 gennaio 1942 Simović si dimise e lo sostituì un gabinetto presieduto da Jovanović; ma i contrasti su questi punti non si placarono, sicché, il 26 giugno, anche Jovanović si dimise, succedendogli il radicale serbo M. Trifunović, col quale si fece piuttosto un passo addietro, verso forme meno accette a Croati e a Sloveni. Non erano questioni puramente accademiche, che li dividevano, in vista di un lontano e problematico futuro. Ormai la guerra aveva preso decisamente una svolta favorevole agli Alleati e la liberazione della Iugoslavia rientrava negli eventi previsti a non lontana scadenza. A rendere ciò possibile aveva contribuito moltissimo il movimento di resistenza in Iugoslavia.

Ciò aveva riconosciuto anche il govemo esule di Londra riservando costantemente il portafoglio della guerra a un singolare ministro sempre assente: a quel gen. D. Mihajlović, intorno al quale, già nel maggio 1941, a un mese dal crollo, si erano riuniti i primi soldati della resistenza, nella Ravna Gora, presso Valjevo, nella Bosnia e nel Montenegro: i cetnici. La rapidità con cui l'esercito iugoslavo si era sfasciato, aveva reso più facili le premesse e le condizioni per la guerriglia; i Tedeschi avevano fatto relativamente pochi prigionieri di guerra, perché la maggior parte dei reparti iugoslavi si erano volatilizzati; i componenti erano tornati alle case con le armi proprie e spesso anche con gli armamenti saccheggiati nei depositi militari; così ogni casolare era diventato un piccolo arsenale. D'altra parte, per Tedeschi ed Italiani, il settore balcanico aveva importanza strategica solo in quanto era sottratto agli Alleati; perciò essi si limitavano a presidiarne i centri principali e le vie vitali di comunicazione. Che vaste zone impervie e di scarsa importanza economica rimanessero, praticamente, in balia di sé stesse, non li preoccupava troppo, tanto più che sulle prime il movimento di resistenza iugoslavo si presentò col carattere di lotta civile dei cetnici più contro gli ustascia "traditori" che non contro gli occupanti stranieri, di Serbi contro Croati, di ortodossi contro cattolici. Abbandonata a sé stessa, sotto il tallone straniero, tutta la Iugoslavia ribolliva dei rancori accumulati fra i suoi figli. Altri gruppi di insorti, fra l'estate e l'autunno 1941, andavano raccogliendosi attorno al capo comunista croato Tito e, ben presto, fra cetnici e partigiani (seguaci di Tito) sorsero aspre rivalità e aperti conflitti (novembre 1941).

Lentamente, ma continuamente l'organizzazione partigiana comunista progredì, incrementata dall'afflusso di giovani che si sottraevano al servizio militare obbligatorio croato e alla cattura e deportazione tedesche, nonché dalla precettazione dei comandi militari partigiani. La situazione divenne caotica, perché gli Italiani, nella lotta anticomunista, si appoggiavano sui cetnici, mentre i Tedeschi, venivano spalleggiati dagli ustascia, i quali combattevano, ad un tempo, i comunisti e i cetnici, in lotta fra di loro.

Oltre ai normali rastrellamenti, vennero effettuati, nell'inverno-primavera 1942-43, due cicli operativi antipartigiani, denominati Weiss e Schwarz. Vi parteciparono 3 divisioni tedesche e alcuni battaglioni croati; agli Italiani spettò un compito di fiancheggiamento. L'operazione Weiss fallì completamente, poiché le formazioni partigiane riuscirono a filtrare attraverso le truppe che avrebbero dovuto rinchiuderle in un cerchio di fuoco, e si ricomposero alle loro spalle. Col ciclo Schwarz, nella primavera 1943, riuscì ai Tedeschi di sospingere le masse di Tito dalla Bosnia centro-meridionale verso l'Erzegovina. Le divisioni partigiane travolsero sulla Narenta i cetnici e passarono in Montenegro, dove, però, subirono una dura sconfitta ad opera delle divisioni tedesche, croate e italiane. Tuttavia, la guerriglia continuò vivace, assumendo aspetti sempre più balcanicamente feroci: sevizie, soppressioni di prigionieri, uccisioni di ostaggi, distruzioni di villaggi, scempî di ogni genere divennero sempre più frequenti.

Nel settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia, le divisioni "Tridentina" e "Venezia" costituirono la divisione "Garibaldi", nella quale affluirono militari di altri reparti, sottrattisi alla cattura tedesca; essa partecipò attivamente alla lotta partigiana. Il battaglione "Gramsci" venne costituito con Italiani accorsi dall'Italia, che ebbero un primo addestramento, alla speciale forma di lotta, nell'isola di Lissa. I battaglioni "Matteotti" e "Mazzini", pure costituiti da Italiani, furono fra i primi ad entrare a Belgrado e diedero vita alla divisione "Italia", che venne inquadrata nel I corpo iugoslavo.

Per intendere appieno il significato del movimento interno di resistenza in Iugoslavia, non solo da un punto di vista militare, ma soprattutto politico, va ricordato che mentre Mihajlović era in Iugoslavia il rappresentante del governo esule di Londra, e portato quindi a vedere i fini della resistenza come restaurazione della monarchia dei Karagjorgjević, in una Iugoslavia molto simile all'antica, i partigiani si sentivano assai più sciolti verso il passato, che, anzi, sottoponevano ad aspra critica, investendo non soltanto il centralismo belgradese e della cricca monarchico-militare, ma anche la struttura sociale ed amministrativa del vecchio stato. Non si può dire, tuttavia, che fra essi prevalessero le idee comunistiche e nemmeno i Croati o altre nazionalità più che i Serbi. Si contavano, fra i partigiani, e Serbi e Croati e Sloveni, cattolici e ortodossi, preti dell'una e dell'altra confessione; il capo del loro comitato politico era allora uno sloveno liberale, I. Ribar. Invece si può dire che, mentre i cetnici ispiravano la loro azione militare piuttosto ai fini della guerra degli Anglosassoni, più proclivi a restaurare la Iugoslavia secondo il vecchio tipo, i partigiani guardavano piuttosto alla Russia, ancora lontana tuttavia, ma portatrice di spiriti profondamente innovatori e vessillifera di una nuova missione slava nel mondo. Nel settembre-ottobre 1941, e poi, fra l'aprile e l'agosto 1943, auspice una missione militare inglese, invano furono tentate intese fra Mihajlović e Tito, che sembravano tanto più necessarie quanto più si avvicinava il momento in cui, dati i progressi degli Anglosassoni in Italia, e dei Russi, le operazioni militari avrebbero verisimilmente coinvolto di nuovo anche i Balcani. Per essere più vicino al teatro d'azione il nuovo gabinetto, formato nell'agosto da B. Purić, si era trasferito il 29 settembre 1943 da Londra al Cairo. Ma la situazione si veniva rapidamente spostando a favore dei partigiani di Tito, i quali - come si è visto - dopo l'8 settembre avevano ricevuto il non affatto trascurabile rinforzo in uomini ed armi, di divisioni italiane stanziate nei Balcani che non avevano voluto arrendersi né aggregarsi ai Tedeschi. Ormai emissarî militari alleati si trovavano tanto presso i cetnici quanto presso i partigiani; ma reparti cetnici, presi nel groviglio della lotta, ad un tempo, contro gli ustascia e contro i partigiani, non disdegnarono talvolta di farsi strumento anche dei Tedeschi, sicché l'8 novembre 1943 il generale inglese Henry Maitland Wilson dovette pubblicamente diffidarli e denunziare il loro tradimento dalla radio del Cairo.

Ciò che poi diminuiva la posizione dei cetnici rispetto ai partigiani, era che i cetnici si presentavano come organizzazione unicamente militare, esecutrice della politica, invero molto incerta, del governo regio, mentre i partigiani di Tito passarono presto ad organizzarsi anche come forza politica autonoma. Il passo più importante, in questo senso, fu compiuto il 29-30 novembre 1943, allorché in una riunione a Jajce (Bosnia), l'AVNOJ (Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo), aderente al movimento partigiano, decise di creare un CLN con funzioni di governo provvisorio ed approvò un progetto di costituzione federale e democratica per la futura Iugoslavia, con ampio riconoscimento dei diritti dei varî gruppi etnici; prendeva, cioè, un grande vantaggio sul governo del Cairo, che non era mai uscito dal vago di astratte promesse, e senz'altro lo scavalcava, come risultava del resto a chiare note dal divieto posto al re di tornare in Iugoslavia prima della totale liberazione del paese e prima che le stirpi iugoslave si fossero pronunziate sulla futura forma istituzionale. Il governo del Cairo protestò facendosi forte della sua qualità di unico governo legale, riconosciuto per tale dagli Alleati, Russi compresi, ma il governo inglese - per bocca del ministro Eden - tenne anche a dichiarare che il futuro era riservato alla libera volontà degli Iugoslavi e che, ad ogni buon conto, esso si proponeva di prestare il maggior aiuto, con rifornimenti d'armi, ecc., ai partigiani di Tito, come a quelli che si mostravano assai più efficienti nella lotta contro i Tedeschi. Sintomo chiarissimo di questa evoluzione del favore inglese (e, anche se non ancora così esplicitamente, di quello americano) da Mihajlović a Tito e che del resto si conformava alle conversazioni dei tre Grandi a Teherān (dicembre 1943), fu l'arrivo a Londra di una missione militare partigiana, il cui capo, gen. V. Velebit, croato, si rifiutò di entrare in contatto col governo del re, tornato intanto a stabilirsi a Londra (11 marzo 1944), smentendo insieme la voce che il governo di Tito fosse comunista. Il governo del re, impedito dalla distanza, dalle difficoltà di comunicazione, di agire sugli avvenimenti in Iugoslavia, compromesso dall'equivoco atteggiamento dei cetnici, era paralizzato, e lo scontento e il malumore cominciavano a serpeggiare fra i suoi seguaci; personalità eminenti del fuoruscitismo iugoslavo simpatizzavano per Tito; uomini come M. Simić, ambasciatore a Mosca, come I. Cankar, ministro al Canada, come il gen. Simović, autore del colpo di stato del 27 marzo 1941, aderivano a Tito e lanciavano appelli perché tutti gli Iugoslavi si schierassero attorno a lui. Tuttavia, non tutti i ponti erano rotti. Re Pietro credette di avere trovato il suo uomo nel croato I. Subašić, già primo bano della Croazia nel 1939. Da metà maggio 1944 furono continue le conversazioni e le trattative fra l'uomo del re e gli esponenti dei varî partiti e specialmente dei partigiani; subito dopo la caduta di Roma nelle mani alleate (4 giugno) le trattative furono trasferite in Italia, dove anche il re si trattenne per qualche settimana, e nel territorio liberato della Iugoslavia, a Lissa, direttamente con Tito, col quale Subašić strinse infine un accordo il 16 giugno 1944. Pur sotto l'apparenza di un compromesso, l'accordo significava la capitolazione del re: Mihajlović e i suoi cetnici erano abbandonati alla loro sorte; si sarebbe costituito un nuovo governo, espressione delle "forze democratiche progressive", cioè degli elementi estremisti partigiani; non si eliminava il dualismo fra il governo regio e quello dei CLN e si ipotecava il futuro con l'impegno di una costituzione democratica e federale per la futura Iugoslavia. Al re rimaneva la magra consolazione di formare, sulla base degli accordi, un nuovo gabinetto, presieduto dallo stesso Subašić (8 luglio) e composto pariteticamente di due Serbi, due Croati, due Sloveni e due rappresentanti di Tito. Intanto la liberazione del paese progrediva, ma si presentava come opera esclusiva di Tito e dei suoi seguaci, senza che il re e la vecchia classe politica iugoslava vi avessero parte alcuna.

Il 14 settembre 1944 le forze partigiane entravano in contatto con le truppe sovietiche presso Negotin (vicino al Danubio), e mentre fino a quel punto l'azione partigiana era stata piuttosto disorganica, mirando essenzialmente a impegnare forze tedesche e a logorarle con la guerriglia, in punti diversi e distanti del territorio, da allora essa si coordina alle operazioni sovietiche in Romania e Ungheria e imprende la liberazione sistematica del paese; cadono le isole dalmate (tranne Lesina, per allora), il nodo ferroviario di Pančevo (5 ottobre), Kragujevac (15 ottobre), illustre nel martirologio iugoslavo per avere subìto, nell'ottobre 1941, una atroce rappresaglia tedesca: il massacro di 5000 cittadini, 100 Serbi per ogni tedesco ucciso; cadono Ragusa e, col concorso delle truppe sovietiche, la capitale Belgrado il 20 ottobre; Šabac il 26, Spalato il 28, Traù il 30, Zara il 2 novembre, Bitolj il 6, Cattaro il 24.

La preoccupazione costante del re e del suo governo, durante questi rapidi progressi delle armate partigiane, era di non doversi trovare di fronte al fatto compiuto di governi che i CLN potessero insediare di loro iniziativa nelle regioni liberate, come infatti avvenne a Belgrado (22 ottobre) per la Serbia liberata. Perciò, attraverso continue conversazioni a Napoli e altrove, Subašić cercò di mantenere i contatti con Tito, di impegnarlo all'osservanza degli accordi. Ma era evidente anche il desiderio di Tito di maggiore scioltezza di movimenti: un suo viaggio a Mosca, ai primi di novembre 1944, suscitò sospetti, sicché fu subito seguito, alla fine dello stesso mese, da un viaggio di Subašić che, insieme con Simić e con E. Kardelj, sloveno e delegato di Tito, ebbe colloqui con Stalin e con Molotov: di qui l'accordo da lui raggiunto con Tito il 1° novembre uscì ribadito, nel senso che il potere regio era accantonato e che per il periodo intercorrente fra la liberazione del territorio e la convocazione di una costituente si prevedeva l'istituzione di una reggenza di tre membri, simbolo e organo dell'unità federale della nuova Iugoslavia, da nominarsi dal re, su proposta del governo di Londra, d'intesa con Belgrado. Si prevedeva la formazione di un governo provvisorio, con la rappresentanza di ognuna delle unità federali, e di un organo legislativo provvisorio impersonato dall'AVNOJ.

La liberazione totale del territorio nazionale era, oramai, questione di tempo: subì qualche arresto nei mesi invernali, ma fu ripresa energicamente verso la fine del marzo 1945: il 6 aprile era occupata Sarajevo; il 15 l'importante centro ferroviario di Vinkovci; e mentre le truppe tedesche in Italia si preparavano alla resa, i partigiani di Tito entravano il 24 aprile a Fiume, il 30 a Trieste, il 2 maggio a Gorizia e a Monfalcone, il 3 a Tolmino, il 7 a Lubiana, l'8 a Zagabria, portandosi fino ed oltre (nella Venezia Giulia e nella Carinzia) i confini della Iugoslavia d'anteguerra.

Seguendo l'esempio della Serbia, anche le altre previste unità federali formavano proprî governi sulla base dei CLN: il 17 aprile a Spalato, quello della Croazia, che poi si trasferì a Zagabria liberata; il 18 a Skoplje, quello della Macedonia, e a Podgorica quello del Montenegro; il 2g a Sarajevo, quello della Bosnia-Erzegovina; il 15 maggio a Lubiana quello sloveno. Il governo regio era, così, posto davanti al fatto compiuto, sia pure con riserva delle decisioni della futura costituente. L'11 gennaio il re aveva espresso gravi riserve sull'accordo Tito-Subašić, specie per quanto riguardava il consiglio di reggenza e le attribuzioni dell'AVNOJ, inficiato, secondo lui, di totalitarismo, e il 22 dimetteva Subašić, il quale, tuttavia, facendosi forte dell'opinione pubblica, poco ben disposta verso il re (ci furono in quei giorni dimostrazioni popolari contro il re e dichiarazioni dei capi del partito dei contadini croati di volere schierarsi con Tito, contro il re e contro Maček), non tenne conto dello sfavore regio. Il re dovette subire l'umiliazione di riprendersi Subašić come primo ministro (29 gennaio), di vedersi rifiutati due fra i tre nomi da lui proposti per il consiglio di reggenza, che poi, costituito secondo i desiderî di Tito, con S. Budisavljević, serbo, con A. Mandić, un croato d'Istria, e con D. Sernec, sloveno, entrò in funzione il 5 marzo. Ai reggenti, come convenuto, Subǎsić rassegnò il mandato, ed essi ne investirono Tito, il quale formò il nuovo gabinetto, in cui, oltre la presidenza, egli tenne il portafoglio della Difesa nazionale, Subašić quello degli Esteri, Kardelj la vicepresidenza. Volle essere un governo rappresentativo di tutte le varietà etniche e religiose della Iugoslavia: 8 croati, 6 Serbi della Serbia e altri 6 di altre regioni, un Montenegrino, 2 Macedoni, 4 Sloveni, un Musulmano. Così, ancora prima della totale liberazione del paese, la monarchia era praticamente liquidata: le elezioni per la costituente, tenute l'11 novembre 1945, non fecero che confermarlo. I partiti seguaci di Tito, uniti nelFronte nazionale, presentarono una lista unica, che ebbe la maggioranza schiacciante dei suffragi, in un clima certamente arroventato, ma che non offrì fondati motivi per contestare la validità della consultazione popolare. Il 29 novembre l'assemblea, ravvisando nella monarchia l'ostacolo principale alla creazione di una nuova Iugoslavia federale, basata sulla "fraterna comunità ed eguaglianza dei suoi popoli", la dichiarava decaduta e passava alla discussione di una costituzione (poi approvata il 31 gennaio 1946) che molto si modellava su quella dell'URSS.

Concluse le operazioni militari, il problema più acuto rimase quello dei confini verso l'Italia (v. trieste; venezia giulia; istria, in questa App.) che ebbe il suo momento saliente fra il 15 maggio e il 9 giugno 1945, quando, di fronte all'atteggiamento risoluto degli Angloamericani, le truppe iugoslave dovettero essere ritirate da Trieste e da Pola; ma Tito mantenne le sue rivendicazioni (discorsi del 1° aprile e 27 giugno 1946) e, per protesta, si rifiutò di firmare, nell'ottobre, il progetto di trattato di pace degli stati vincitori con l'Italia (ma poi firmò, come gli altri, il trattato, il 10 febbraio 1947), perché di quelle rivendicazioni non teneva conto completamente; come, in segno di protesta per l'atteggiamento ritenuto poco amichevole delle potenze anglosassoni verso la Iugoslavia, aveva respinto l'invito del governo inglese di mandare un reparto rappresentativo di truppe iugoslave alla celebrazione della vittoria a Londra, l'8 giugno 1946. Anche i rapporti con gli Americani ebbero un momento di acuta tensione, fra il 9 e il 20 agosto 1946, in seguito all'abbattimento in territorio iugoslavo di un aeroplano americano. Per contrasto, nel quadro sempre meglio definito della scissione dell'Europa in due blocchi contrapposti, si facevano sempre più cordiali ed intime le relazioni con l'URSS e con gli altri stati orbitanti intomo ad essa. Tutta una serie di patti d'amicizia e di mutua assistenza, esemplati su un medesimo tipo, sanzionava quest'orientamento politico: già l'11 aprile 1945, a operazioni militari non ancora concluse, trattato con l'URSS; il 19 marzo 1946 con la Polonia; il 9 maggio con la Cecoslovacchia; il 2 luglio con l'Albania; e poco dopo l'entrata in vigore del trattato di pace (15 settembre 1947) con i paesi ex-nemici: con la Bulgaria il 27 novembre 1947; con l'Ungheria e con la Romania il 19 dicembre; trattati generalmente seguiti da accordi commerciali, politici, culturali. Peggiorarono invece i rapporti con la Grecia, mal vista per essere l'unica pedina degli Angloamericani nello scacchiere balcanico. Nonostante le proteste ufficiali, non sembra si sia molto lontani dal vero ammettendo che i guerriglieri greci di Markos ottennero appoggi e rifornimenti in territorio iugoslavo. Una speciale commissione d'inchiesta, nominata dalle N. U., non vi fu ammessa.

Concomitante con questo netto orientamento verso la Russia, era, nella politica interna, la preminenza del Partito comunista e l'avviamento verso un tipo di stato decisamente totalitario. Non che, dopo le elezioni del novembre 1945, fossero stati soppressi gli altri partiti uniti nel Fronte nazionale; ma la loro individualità sempre più impallidì di fronte al Partito comunista, vero protagonista della vita politica iugoslava; e non che questa evoluzione non rispondesse abbastanza alla reale situazione del paese. I vecchi partiti erano stati espressione, in parte, di esigenze etniche minoritarie, che ora trovavano soddisfazione nelle autonomie federali, in parte, di posizioni personali tramontate. Conviene anche riconoscere che le idee e i sistemi comunisti, con quella loro ansia di rinnovamento ab imis, rispondevano a un vago stato d'animo di rinascita in un paese reso squallido dalla guerra e dalla guerriglia, spogliato di tutto, e in cui tutto era da rifare.

La guerra col suo milione e mezzo di vittime (il 10% della popolazione) aveva pareggiato in gran parte, su un piano di comune miseria, le differenze sociali già prima non molto accentuate in un paese capitalisticamente arretrato e in cui la guerra civile aveva quasi interamente distrutto la vecchia classe politica: quanto ne sopravviveva era fuoruscita o variamente compromessa col passato. Una febbre di rinascita, sostenuta da un vigoroso ottimismo nell'avvenire, prese larghi strati della popolazione; e in questo clima lo spirito di organizzazione del Partito comunista e la mimetica dei sistemi pianificatori russi poterono avere larga parte, ed anche sotto molti aspetti benefica, come stimolo e come realizzazione, sia pure drastica e poco riguardosa delle libertà individuali, scuotendo l'atavica apatia ed inerzia di popolazioni rimaste fino allora fuori del circolo della vita moderna. Pur nel quadro di un sistema "democratico progressivo", furono rispettate certe esigenze elementari del ceto contadino, nerbo della Iugoslavia: la piccola proprietà terriera fu conservata, anche se controllata, disciplinata, ristretta. La produzione alimentare fece progressi assai lenti, anche nel 1947, che pure rappresentò un miglioramento sotto questo riguardo; la scarsità o addirittura la mancanza, anche dei più indispensabili prodotti industriali e manufatti, rimase acutissima, e vi contribuì certo l'avere voluto tenere la Iugoslavia appartata dai benefici del piano Marshall. Il Partito comunista (circa mezzo milione di iscritti nel 1948, operanti in 25.635 cellule, oltre a quasi un milione e mezzo di appartenenti alla gioventù comunista), la polizia di stato e le forze armate (in cui quasi il 90% degli ufficiali è comunista e proveniente in buona parte dalle formazioni partigiane) sono i veri sostenitori del regime. Una opposizione, anche se avesse tentato di rialzare il capo, non ne avrebbe avuto il tempo, perché fu sgominata e distrutta con una serie di processi, sotto l'accusa, spesso molto elastica, di collaborazionismo: processi che andarono da Mihajlović e suoi seguaci (luglio 1946) fino ai reali o sospettati oppositori nel campo cattolico, come l'arcivescovo di Zagabria A. Stepinac (settembre 1947). Nel febbraio 1948 un'amnistia fu emanata a favore delle migliaia e migliaia di fuorusciti politici iugoslavi viventi in Italia, specialmente, e in Austria, e nella Germania occidentale; ma pochissimi diedero seguito all'invito di tornare in patria.

Il segno probante della posizione di primo piano che la Iugoslavia di Tito aveva fra i paesi aderenti a Mosca, fu, nell'ottobre 1947, la scelta di Belgrado come sede del neonato Cominform. Le relazioni con gli stati occidentali si facevano sempre più difficili: il 14 gennaio 1948 Marshall respingeva la richiesta iugoslava di disgelamento dei fondi depositati durante la guerra nella Federal Reserve Bank (circa 70 milioni di dollari) e, a sua volta, presentava i conti per le forniture a titolo di Affitti e prestiti e dell'UNRRA; il 17-18 febbraio in una conferenza a Praga i tre stati slavi (Cecoslovacchia, Polonia e Iugoslavia) cercavano di creare difficoltà al piano angloamericano di una bizona in Germania; il 20 marzo una dichiarazione congiunta anglo-americano-francese annunciava la volontà di restituire all'Italia il Territorio libero di Trieste, ciò che sollevava la formale protesta iugoslava.

Ma ecco, imprevisto, un colpo di scena: il 28 giugno 1948 il Cominform scagliava la scomunica maggiore contro Tito e i suoi più stretti collaboratori, soito una valanga di accuse, che investivano tutta la politica, interna ed estera, della Iugoslavia: accuse di deviazione ideologica e pratica dalla linea ortodossa del marxismo-leninismo; accuse di nazionalismo e trotzkismo; accuse di ostilità verso l'URSS; accuse di colpevole tolleranza e incoraggiamento dei kulaki (contadini proprietarî benestanti).

Ancora oggi, a sei mesi di distanza, non è possibile penetrare, oltre i termini delle accuse e delle difese, se non con ipotesi tutte poco consistenti, nel mistero di questo colpo di scena, né dedurne le ragioni dai successivi sviluppi. Certo, le ragioni dovettero essere molto gravi se il Cominform si indusse a denunziare così clamorosamente il caso di eresia nel proprio seno. La sede del Cominform si trasferì da Belgrado a Bucarest; l'Albania, tenuta, fino al giorno innanzi, un po' come la pupilla della Iugoslavia, si affrettò a unirsi al coro e a rompere le relazioni commerciali con la vicina. Tito e i suoi aderenti protestarono la loro fedeltà al marxismo leninismo-stalinismo, respinsero sdegnosamente l'accusa di essere passati nel campo imperialista, deplorarono che Stalin fosse stato male informato. Furono inscenate dimostrazioni popolari di solidarietà con Tito, al quale il Partito comunista iugoslavo, nel suo 5° congresso (21-29 luglio) confermò a grandissima maggioranza la sua fiducia, acclamandolo segretario generale, conferendogli, cioè, una posizione analoga a quella di Stalin nell'URSS. Non ci furono apprezzabili segni di scissione entro il partito né entro l'esercito: sospetti tentativi di alcuni alti ufficiali (gen. Arso Jovanović, gen. Petričić) di raggiungere la Romania, furono stroncati (metà agosto 1948) e rafforzata la compagine governativa con la nomina di Edo Kardelj agli Esteri e con la riunione nella persona del gen. A. Ranković della vicepresidenza e degli Interni (31 agosto).

La Iugoslavia nelle assise internazionali (per es. nella conferenza per il Danubio, tenuta a Belgrado, 20 luglio-18 agosto 1948) ha continuato a solidarizzare col blocco orientale né vi sono indizî sicuri di un suo slittamento deciso verso le potenze occidentali. Tuttavia, il bando pronunciatole contro dal Cominform non è stato revocato.

Bibl.: C. Galli, La politica serba per un accordo con l'Italia, in Mondo europeo, Roma 1946; C. Umiltà, Iugoslavia e Albania, Milano 1947; G. Solari Bozzi, La Iugoslavia durante il conflitto, in Politica estera, Roma, giugno 1945; J. Hussard, Vue en Yougoslavie 1939-1944, Losanna 1945; maresc. Tito, Unser Kampf, Zurigo 1945; R. W. Seton Watson, The Yugoslav constitutional position, in Slavonic Review, XXIII (1945), pp. 85-96; A. E. Moodie, The Italo-Yugoslav boundary. A study in political geography, Londra 1945; E. Grazzi, Dalla rivolta dei cetnici al governo di Tito, in Nuova Antologia, LXXXIII, settembre 1948, pp. 29-38; A. Milik, Razvoj železnic na ozemlju Jugoslavie, in Geografski vestnik, 1938, pp. 118-34 (sulla rete ferroviaria); id., Obljudenost Jugoslavije, ibidem, 1940, pp. 88-104; ***, The national Liberation Movement of Yugoslavia. A Survey of the Partisan Movement, April 1941 - March 1944 [Londra], giugno 1944.

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