JACOPO di Piero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

JACOPO di Piero (Jacopo della Quercia)

Luca Bortolotti

Nacque a Siena, nell'ottavo decennio del XIV secolo, figlio maggiore di Piero d'Angelo di Guarneri e di Maddalena, detta Lena, che il 21 apr. 1370 aveva consegnato in dote al futuro marito 180 lire (Beck, p. 334).

Il padre di J. fu intagliatore e orafo di qualche rilievo, di cui restano notizie documentate tra il 1370 e il 1422. Nel corso dell'ottavo decennio ricoprì a Siena diverse cariche pubbliche e realizzò per il duomo tre angioletti lignei, perduti, che erano collocati entro un baldacchino mobile posto al di sopra della Maestà di Duccio di Buoninsegna, pala dell'altare maggiore. Piero risulta attestato a Lucca già nel 1387, probabilmente in compagnia del giovane J., e a Lucca si trasferì per certo non oltre il principio del 1394, allorquando, il 24 febbraio, gli venne commissionata per 22 fiorini d'oro un'Annunciazione lignea destinata alla chiesa di S. Maria Assunta a Benabbio (Bagni di Lucca), tuttora in situ. A Lucca è documentato un altro incarico di un certo riguardo: il 16 marzo 1401, Piero fu pagato 6 fiorini d'oro per aver realizzato il sigillo del signore della città, Paolo Guinigi, colui che di lì a qualche anno avrebbe commissionato a J. il monumento sepolcrale di Ilaria Del Carretto.

I genitori di J. ebbero altri due figli, Lisabetta e Priamo. Quest'ultimo (del quale si hanno notizie fra il 1426 e il 1467) fu pittore attivo tra la Lucchesia, Siena (un affresco nell'ospedale di S. Maria della Scala, raffigurante L'investitura del rettore con l'abito agostiniano da parte del beato Agostino Novello, saldato nel 1442) e Volterra.

La varietà di formule onomastiche che risulta dai documenti relativi a J. ha dato origine a una certa confusione sul luogo di nascita dello scultore.

La dizione "della Quercia" probabilmente comparve la prima volta nei Commentarii di Lorenzo Ghiberti (p. 93), alla metà del XV secolo. In precedenza, i riferimenti a J. si presentano vari e differenziati: dapprima sono limitati all'indicazione patronimica ("Pieri" o "Petri"); poi, dal 1409, registrano anche il luogo di nascita ("de Senis") ovvero imprese professionali di particolare spicco ("magister fontis campi" o "magister Iacobus Pieri della fonte", con allusione alla fonte Gaia, e in seguito "operarius et gubernator ecclesiae cattedralis", dopo che ebbe assunto la direzione della Fabbrica del duomo di Siena). Ma l'aggiunto da cui dipende la denominazione invalsa da Ghiberti in poi è "de la Guercia", o "Ghuercia", vieppiù frequente dopo il 1409, che dovrebbe riferirsi a un attributo del personaggio, pur se difficile da sciogliere in modo persuasivo. È questa la radice da cui deriva, con la traslitterazione della "g" in "q", la formula "della Quercia"; mentre per lungo tempo si è ritenuto, erroneamente, che quest'ultima dipendesse dalla nascita di J. nel borgo di Quercegrossa, a pochi chilometri da Siena (J. della Quercia nell'arte…, p. 323).

Anche la data di nascita di J. costituisce una questione aperta, in pratica sin dall'edizione del 1568 delle Vite di Giorgio Vasari.

Lo storico aretino (p. 110) sostiene che la prima opera di J. - "essendo d'anni diciannove" - fu una statua equestre di Giovanni d'Azzo Ubaldini, che faceva parte del monumento funebre di questo, morto nel 1390 mentre, insieme con Giovanni Tedesco da Pietramala, guidava i Senesi contro i Fiorentini. Da tale indicazione si ricaverebbe il 1371 come anno di nascita di J.; ma Vasari quasi certamente fece qui confusione tra i due comandanti dell'esercito senese. È infatti documentato che la tomba di Giovanni d'Azzo Ubaldini, nel duomo di Siena, era corredata non di una scultura ma di una tavola dipinta, anch'essa rappresentante il condottiero a cavallo; mentre una statua equestre lignea accompagnava, sempre nel duomo senese, il sepolcro di Giovanni Tedesco, deceduto nel 1395 a Orvieto. Potrebbe dunque essere quest'ultima l'opera realizzata da J.: il che, se avesse ragione Vasari nel dirla scolpita dall'artista quando aveva diciannove anni, sposterebbe i suoi natali al 1376 circa (entrambi i monumenti funebri furono tolti dall'interno del duomo nel 1404). Peraltro, lo stesso Vasari (p. 119) afferma che J. "morì finalmente di anni sessantaquattro": essendo egli deceduto il 20 ott. 1438, la sua nascita verrebbe così a cadere nel 1374, data sulla quale, con minime oscillazioni, si è registrata una certa convergenza degli studiosi. Solo Beck (pp. 10 s.) ha suggerito una cronologia decisamente diversa, circa 1380. Lo studioso ha ritenuto, in tal modo, di poter spiegare con la giovane età l'estrema penuria di opere e di documentazione su J. fino alla seconda metà del primo decennio del XV secolo, nonché (ma qui si è nel campo delle congetture) rendere meno anomalo sia lo scarto di età fra J. e il fratello Priamo, sia l'età di J. quando contrasse il proprio matrimonio, nel 1424. La proposta di Beck confligge però con un documento (Concioni - Ferri - Ghilarducci, p. 356) relativo a una causa giudiziaria avvenuta a Lucca tra il 18 maggio e il 4 giugno 1394, in cui J. fu riconosciuto reo di un'aggressione e condannato in contumacia al bando dalla città, ovvero al pagamento di un'ammenda di 100 lire. Si deve concludere che all'epoca del procedimento J. fosse maggiorenne; e ciò fornisce un ulteriore argomento in favore della data di nascita intorno al 1374, e comunque impedisce di spingersi oltre il 1375-76.

La ricostruzione dell'iter formativo di J. nonché la composizione di un corpus di sue opere giovanili possono appoggiarsi a ben pochi elementi documentari. Infatti, dal 1394 (in cui lo si sa certamente a Lucca), al 1401 (allorché partecipò al concorso per la decorazione della seconda porta del battistero di Firenze), nulla è noto né della sua vita né della sua opera.

Se una fase di apprendistato presso la bottega paterna può darsi per scontata, sembra probabile, quantunque non strettamente necessario, che l'evoluzione imperiosa di J. sia passata attraverso qualche esperienza di più alto livello artistico; e, del resto, non molto di meglio di Piero d'Angelo poteva egli trovare a Siena, dove nessuno degli scultori attivi superava il rango di maestro minore, con la parziale eccezione di Domenico di Niccolò detto dei Cori.

L'unica opera a godere ancora di qualche credito come frutto del giovanile apprendistato senese di J. è la Madonna col Bambino, in marmo, che si trova oggi in duomo, sulla nicchia centrale più alta dell'altare Piccolomini, ove fu posta fra il 1655 e il 1844, proveniente dalla cappella di S. Giacomo Interciso. Riferita all'attività di J. intorno al 1397 (Carli, 1949, p. 17) e a lungo prevalentemente accettata come autografa, negli ultimi anni è stata considerata con crescente perplessità all'interno del suo catalogo.

Fuori del natio ambito senese, la critica ha suggerito diversi possibili complementi alla formazione di Jacopo. Si è così ritenuto di spiegare gli aspetti della sua produzione giovanile più prossimi alla coeva scultura fiorentina (con la miscela di elementi gotici, nordeuropei e protoclassicisti che la caratterizzava) attraverso una sua attività nella bottega di Giovanni d'Ambrogio a Firenze. Fu questi il principale responsabile, fra il 1391 e il 1397, della decorazione della Porta della Mandorla di S. Maria del Fiore; e proprio tale impresa artistica è stata a lungo al centro degli studi sulla prima attività di Jacopo.

In effetti, Vasari (1568, p. 115) attribuisce a J. presenza e operosità a Firenze ben prima del 1401, ed erroneamente gli assegna un ruolo nella realizzazione scultorea del frontone della Porta della Mandorla (opera di Nanni di Banco): "Quest'opera fu condotta in quattro anni da Jacopo con tutta quella maggior perfezione che a lui fu possibile". A partire dalla confusione vasariana, per via di considerazioni stilistiche si giunse ad avvicinare J. ad alcuni rilievi (tre Angeli, Ercole, Apollo) dello sguancio di sinistra della Porta (Brunetti, 1952, pp. 119-132). Un'attribuzione oggi decaduta, come pure un'altra, ancora connessa allo J. attivo a Firenze prima del concorso del battistero: il notevole gruppo marmoreo dell'Angelo Annunciante e della Vergine Annunziata, realizzato per la lunetta della Porta della Mandorla (Firenze, Museo dell'Opera del duomo).

Ulteriori ipotesi critiche si sono impegnate a indirizzare il giovane J. verso Bologna, e in particolare verso la bottega dei fratelli Dalle Masegne, alla quale, secondo alcuni studiosi, egli avrebbe reso i suoi servigi in occasione della pala marmorea dell'altare maggiore di S. Francesco, realizzata fra la fine del 1388 e il 1392 (Seymour, pp. 25 s.; Freytag).

Alcune acquisizioni documentarie, infine, hanno precisato l'assidua presenza del giovane J. a Lucca, dando conferma dell'importanza per la sua formazione dell'ambiente artistico locale, e soprattutto di Antonio Pardini (responsabile almeno dal 1395 del cantiere del duomo), del quale J. per qualche tempo potrebbe essere stato aiuto (Concioni - Ferri - Ghilarducci; Scultura lignea…).

Una laconica segnalazione presente nei Commentarii di Ghiberti costituisce la prima citazione di J. in letteratura. Essa concerne la sua partecipazione al concorso del 1401 per la seconda porta del battistero di Firenze, dove J. fu in competizione con alcuni dei maggiori scultori dell'epoca: dallo stesso Ghiberti, che venne decretato vincitore, a Filippo Brunelleschi. L'accenno di Ghiberti fornisce una preziosa apertura su uno snodo professionale di assoluto riguardo nella carriera di J., intorno al quale non esiste alcun'altra forma di documentazione o di memoria.

Non lontana cronologicamente è la prima commissione documentata: la Madonna col Bambino in trono (cosiddetta del Melograno, per il frutto che la Vergine tiene nella sua mano destra), di marmo, allogata a J. dagli eredi di Virgilio dei Silvestri per destinarla alla cappella familiare nel duomo di Ferrara (oggi conservata al Museo del duomo). Il contratto fu stipulato a Ferrara il 19 sett. 1403; ma l'opera dovette essere realizzata prevalentemente nel corso del 1406.

Il 14 gennaio di quell'anno, infatti, un collaboratore e partner nell'impresa ferrarese, il modenese Tommasino da Baiso, assumeva in vece di J. l'impegno formale di ultimare la scultura entro la fine del settembre successivo; e il 19 genn. 1407 il pittore Michele di Jacopo veniva incaricato di colorarla. J. venne saldato definitivamente per l'opera il 18 giugno 1408.

Sono state rilevate dalla critica le ascendenze nordiche, francesi soprattutto, che la scultura presenta, nonché i legami ancora forti, da un lato, con l'opera di Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano, e dall'altro con quella dei fratelli Dalle Masegne. La Madonna del Melograno è stata anche considerata in rapporto con la tomba di Ilaria Del Carretto, per definire i caratteri della prima maturità di J., in sottile equilibrio tra eleganza e scatto lineare gotico, monumentalità ed equilibrio classico, forza plastica e compostezza prerinascimentale.

Tutte le qualità della Madonna del Melograno, ma condotte a uno stadio estremo di evoluzione e raffinamento, si ritrovano nel primo dei grandi capolavori di J.: il monumento funebre di Ilaria Del Carretto, moglie di Paolo Guinigi, signore di Lucca, morta l'8 dic. 1405 dando alla luce una bimba.

La tomba in marmo bianco rappresenta l'esito perfettamente compiuto di un'aurorale poetica classicista, fatta reagire con soluzioni stilistiche ancora legate alla cultura figurativa tardogotica.

L'ispirazione archeologica risalta in particolare nelle soluzioni decorative delle fiancate (gli eroti, mirabilmente dinamici e monumentali, e i superbi festoni di fiori e frutti), per le quali sono stati suggeriti possibili modelli in alcuni sarcofagi romani presenti nel Camposanto di Pisa, e in taluni esemplari con ghirlande, perlopiù di età adrianea, che si conservavano a Roma.

Si può ben dire che pressoché ogni aspetto storico e materiale di questo testo capitale dell'arte italiana del Quattrocento ha dato adito a controversie critiche, a cominciare dall'identità della defunta.

Gli stemmi delle famiglie Del Carretto e Guinigi sono raffigurati a rilievo sulla testata superiore del sarcofago, come si poté constatare quando quest'ultima, per secoli separata dal resto del monumento, fu correttamente riposizionata nel 1912. Il restauro allora compiuto fece riemergere le insegne familiari originarie, e ciò ha rappresentato una prova dirimente a conferma del riconoscimento tradizionale della figura femminile, di contro a un'ipotesi alternativa secondo la quale si sarebbe potuto trattare della prima moglie del Guinigi, Caterina Antelminelli.

Anche la collocazione originale della tomba rappresenta una questione dibattuta.

Fonti locali antiche affermano che essa si trovava nella grande cappella, dedicata a S. Lucia, che i Guinigi possedevano nel chiostro della chiesa di S. Francesco (dove Ilaria fu seppellita). Esistono, nondimeno, testimonianze di una disposizione del monumento all'interno del duomo (dove la famiglia non vantava la titolarità di una cappella, ma pur sempre il patronato di un altare nel transetto meridionale), oltre al fatto che esso vi si trovava per certo prima del 1550. In ogni modo, dopo la fine traumatica della signoria di Paolo Guinigi nel 1430, la tomba venne rimossa dalla sede originaria, con conseguente frammentazione e dispersione di molte sue parti.

La testata venne reimpiegata nel monumento sepolcrale di Beatrice Dati, consorte di un Pietro Guinigi e defunta nel 1453, che era collocato nella chiesa dei serviti (e proprio in seguito a tale mutata destinazione lo stemma dei Del Carretto era stato occultato dall'arme dipinta della famiglia Dati).

Vasari (1550, pp. 217 s.) riferisce che il sarcofago, depauperato di una fiancata, era addossato alla parete di ingresso della sagrestia del duomo, collocazione che rimase immutata sino al 1760, quando esso fu trasferito nella cappella Garbesi. Fu solo nel 1888-89, e poi definitivamente nel 1913, che il monumento venne ripristinato per quanto possibile, e posto al centro del transetto nord del duomo di Lucca.

Quanto alla forma che J. intese dargli, si deve sottolineare l'originalità dell'impianto col sarcofago isolato, in cui al massimo si può riscontrare una certa ispirazione di modelli francesi (come le tombe reali di Saint-Denis) combinata con un libero ripensamento degli schemi invalsi nell'arte toscana e centroitaliana trecentesca (sul tipo dei monumenti funebri di Arnolfo di Cambio e Tino di Camaino).

La critica si è anche chiesta se la tomba potesse far parte di una più complessa struttura architettonica, comprensiva di una porzione superiore; se fosse addossata a una parete, secondo la prevalente tradizione trecentesca italiana; se la lastra tombale, che è di dimensioni minori del fregio, poggiasse originariamente su una cassa sovrapposta al basamento, lungo la quale avrebbe potuto scorrere la canonica iscrizione commemorativa (come sembrerebbe dalla peraltro non inequivocabile descrizione di Vasari, 1568, p. 112). La ricostruzione definitiva, comunque, con la tomba liberamente posta nello spazio, risulta la più fondata approssimazione al suo aspetto originario, così come dovette essere concepito da Jacopo.

Per quanto concerne la datazione, sembra logico (d'accordo con Vasari, 1568, pp. 111 s.) collocare la commissione dell'opera a ridosso della dipartita di Ilaria, per quanto la perdita dei registri di spesa dei Guinigi relativi al 1406 impedisca riscontri documentari a tale riguardo. Dal punto di vista stilistico, a partire dal termine post quem del dicembre 1405, sono state avanzate le ipotesi più varie intorno ai tempi e ai modi di realizzazione dell'opera, tenendo anche conto che sino al dicembre inoltrato del 1413 (quando si trovò al centro di una vicenda giudiziaria che lo costrinse a fuggire a Siena) J. fu per lo più residente a Lucca.

Facendo leva su questi due punti di riferimento temporali, e in base a considerazioni di ordine stilistico, sono state suggerite diverse cronologie, che possono essere così riassunte: una datazione di poco successiva alla morte di Ilaria, dunque tra il 1406 e il 1408 circa, che situa la fine dei lavori grossomodo a ridosso dell'allogazione della fonte Gaia; indicazione del 1413 come termine di compimento della tomba, se non addirittura di avvio dell'impresa con una conclusione sul finire del secondo decennio; infine, una lavorazione del monumento divisa in due tempi ben distinti, e con l'intervento di collaboratori. Quest'ultima proposta trae la sua origine dalle lievi disomogeneità stilistiche e qualitative avvertibili fra la lastra tombale, con la figura giacente e il cane accucciato ai suoi piedi, e le fiancate, in particolare quella che era stata disgiunta dal monumento e che fu ricomposta nei lavori di ripristino del 1888-89, avvicinata più volte alla mano dell'amico e collaboratore di J. Francesco di Domenico Valdambrino (assiduamente presente a Lucca nel 1406-07).

Il 31 dic. 1408 J. fu eletto nel Consiglio del Popolo di Siena, come rappresentante del Monte dei riformatori, per il terzo di S. Martino. Si tratta del più antico di una serie di incarichi pubblici ricoperti dall'artista a Siena, che testimoniano il suo attaccamento civico e il suo interesse per le cosa pubblica.

Tale evento si situa in stretta coincidenza con la prima sicura commissione che J. ricevette nella città natale, quella per la Fonte Gaia: un incarico che, per lo speciale prestigio che rivestiva, non poteva non scaturire da un largo riconoscimento della sua supremazia artistica nel contesto degli scultori senesi, a dispetto del fatto ch'egli sino allora aveva prevalentemente lavorato e vissuto altrove.

Il 15 dic. 1408 venne dunque deciso dal capitano del Popolo e dagli officiali di Balia di affidare a "cuidam magistro Jacobo", per una cifra non superiore ai 1700 fiorini d'oro, la costruzione di una nuova fontana in piazza del Campo, in sostituzione di quella edificata fra il 1334 e il 1343, e già chiamata Fonte Gaia. Il 22 dicembre furono nominati tre commissari per verificare i lavori: fra loro, l'amico e valente scultore in legno Domenico di Niccolò dei Cori. Il 22 genn. 1409 venne stipulato il contratto, con la definitiva allogazione per la somma di 2000 fiorini d'oro e secondo le forme che risultavano da un progetto depositato presso il notaio Nicola di Lorenzo di Belforte (Beck, pp. 347-350).

J. s'impegnava a terminare la fonte, tutta in marmo, entro 20 mesi a partire dall'aprile del 1409. Il contratto prevedeva inoltre che egli esponesse un disegno molto dettagliato del progetto su una parete della sala del Consiglio in palazzo pubblico: di tale disegno dovrebbero costituire una testimonianza, forse autografa, due brani di pergamena che riproducono, uno, la parte sinistra, e l'altro la parte destra della fontana, con una lacuna relativa alla zona centrale (rispettivamente al Metropolitan Museum di New York e al Victoria and Albert Museum di Londra). Dalla pergamena oggi smembrata risultano varie differenze tra la proposta iniziale e l'assetto definitivo del monumento. La più rilevante di esse è costituita dalla presenza di due rilievi con l'Angelo Annunziante e la Vergine Annunziata al posto di quelli con la Creazione di Adamo e della Cacciata dall'Eden poi effettivamente realizzati. Il 18 genn. 1415 venne approvato il cambiamento e l'espansione del primo progetto, con la trasformazione della pianta da rettangolare a trapezoidale, e a seguito di ciò, il 4 ag. 1415, il compenso totale di J. venne portato a 2400 fiorini d'oro.

Nonostante gli anticipi che furono versati a J. (uno, di 100 fiorini, il febbraio del 1409, e alcuni nel corso del 1412: segno, forse, di un minimo di attività che veniva portata avanti soprattutto dalla bottega), il cantiere non prese corpo prima del 1414, allorché J. ritornò a Siena dopo il repentino abbandono di Lucca, per procedere a pieno regime solo tra il 1417 e il 1419. Tutta la vicenda si svolse macchinosamente, con J. impegnato a onorare anche altri impegni, e non senza una certa tensione tra le parti, che si tradusse in un basso continuo di ritardi ma anche di solleciti, minacce e penali (particolarmente accesi furono i conflitti nel 1413).

Il termine definitivo dell'impresa dovette precedere di poco il 20 ott. 1419, quando J. percepì il saldo totale dei lavori.

La fonte misurava m 10,16 nel lato centrale, e m 5,55 nelle due ali laterali; la sua altezza massima era di m 1,32. Venne realizzata in marmo della Montagnola, cavato nei pressi di Siena, a buon mercato e di qualità poco pregiata (ed è questa, insieme con la consunzione indotta dalla sua funzione e dalla sua posizione di indifesa centralità nella vita quotidiana cittadina, la principale ragione del grave deperimento che essa ha subito nel corso dei secoli). La Fonte Gaia, in condizioni sempre più degradate, rimase nella sede di piazza del Campo sino al 1858, quando fu smantellata in tanti pezzi che vennero accatastati nei depositi dell'Opera del duomo. Contestualmente venne deciso che al suo posto si sarebbe costruita una copia fedele, nei limiti delle condizioni rovinose che caratterizzavano la gran parte delle sculture di Jacopo. Fu quindi incaricato di realizzare la replica Tito Sarrocchi, collaboratore di Giovanni Duprè dall'impeccabile curriculum accademico, sulla base di calchi di tutti i pezzi della fontana, ch'egli si sarebbe poi impegnato a completare, attraverso interventi ricostruttivi inevitabilmente arbitrari. La copia, di sicura qualità artigianale, venne inaugurata nel 1868 tra la soddisfazione della cittadinanza e delle istituzioni, pur se mancante delle due statue dei pilastri terminali. Corrado Ricci, nel 1904, in occasione della grande Mostra dell'antica arte senese, decise di ricomporre per quanto possibile i sopravvissuti materiali querceschi nella loggia del palazzo pubblico, ove sono rimasti sino a pochi anni or sono, quando si è deciso di sottoporli a restauro e dar loro nuova collocazione nel neonato complesso museale di S. Maria della Scala.

L'iconografia della Fonte Gaia presenta una miscela ben articolata di elementi religiosi, civici e politici. Essa trova il suo culmine nella Madonna con Bambino (la Vergine era la protettrice della città) posta al centro del lato lungo, affiancata da due angeli e, a seguire, dalle raffigurazioni delle virtù teologali e cardinali, da due rilievi di soggetto veterotestamentario (Creazione di Adamo e Cacciata dall'Eden) e infine dai due gruppi con le figure femminili, pressoché a tutto tondo. Queste ultime incarnano i valori della carità, della fertilità e della liberalità, secondo una trama inequivocabile di allusioni alle qualità pubbliche e private che caratterizzavano la città e ispiravano il suo buon governo. In particolare, in esse si è spesso ritenuto di riconoscere, invero con una certa penuria di attributi specifici, Rea Silvia e Acca Larenzia, rispettivamente madre e nutrice di Romolo e Remo: presenze che simboleggerebbero l'alto lignaggio della città di Siena e la sua ideale discendenza da Roma.

Per un lavoro di tale impegno, e protrattosi così a lungo, J. si avvalse certamente di diversi collaboratori. Fra essi, Sano di Matteo e Nanni di Jacopo da Lucca sono gli unici direttamente citati nei documenti. Molti tentativi sono stati effettuati per riconoscere nelle sculture sopravvissute l'intervento di altre mani (comprese quelle di Francesco di Domenico Valdambrino), ma anche per cercare di articolare cronologicamente più in dettaglio la realizzazione dei vari brani all'interno del periodo 1414-19. Ma di là da esercizi filologici, mai tanto ardui quanto in questo caso, non sembra discutibile la sostanziale unitarietà dell'opera, la sua coerenza iconografica e stilistica, e, in definitiva, la sua omogeneità dal punto di vista qualitativo.

Fra il 1409 e la fine del 1413, nonostante la commissione della Fonte Gaia, J. fu soprattutto residente e operoso a Lucca, città in cui mantenne una significativa continuità di impegni professionali ancora tra il 1416 e il 1422.

Dovrebbe risalire al periodo precedente il 1413 la statua marmorea raffigurante un Apostolo (Lucca, Museo della cattedrale), alta m 2,41, che era posta su un contrafforte del lato nord del duomo.

Si tratta dell'unico esemplare realizzato di una serie di dodici pezzi, pensati come compimento dei contrafforti esterni: un progetto che non ebbe seguito, quasi certamente per problemi economici. La statua, la cui paternità non è documentata, viene unanimemente assegnata a Jacopo.

In una lettera a Paolo Guinigi datata 18 dic. 1413 (ibid., pp. 357-359) il gentiluomo lucchese Giovanni Malpigli accusò J. e il suo collaboratore Giovanni da Imola di avere derubato e rapito la cognata Chiara Sembrini (tra l'altro, facendo riferimento al fatto che in quel mentre i due scultori erano all'opera nella nuova cappella del mercante Lorenzo Trenta, nella chiesa di S. Frediano). A seguito di tale denuncia J. fuggì repentinamente a Siena, mentre Giovanni da Imola, probabilmente l'amante della Sembrini, fu arrestato e messo in prigione (dalla quale sarebbe uscito solo nel giugno del 1417, grazie al pagamento della somma di 100 fiorini da parte di Girolamo Trenta, figlio di Lorenzo). Tuttavia, questa circostanza non compromise gravemente le relazioni di J. col mercato artistico lucchese, anche grazie ai suoi rapporti personali con Guinigi e ai buoni uffici del Comune di Siena, testimoniati da una sollecita missiva in suo favore inviata al signore di Lucca il 26 dic. 1413.

Le due lastre tombali terragne di Lorenzo Trenta e di sua moglie Isabetta Onesti nella cappella di S. Riccardo a S. Frediano, ambedue incorniciate da iscrizioni a caratteri gotici recanti la data 1416, furono forse iniziate qualche tempo prima della brusca fuga di J. da Lucca. Il 28 febbr. 1412, infatti, Trenta aveva ricevuto dal priore del monastero il permesso di ricostruire una cappella recante le sue insegne e destinata ad accogliere il suo sepolcro. Fossero state cominciate o meno fra il 1412 e il 1413, le due lastre tombali furono probabilmente compiute nel 1416, quando, in data 11 marzo, venne concesso a J. un salvacondotto per Lucca che gli consentì di risiedere in città per almeno quattro mesi.

Anche se non si registra unanimità riguardo al grado di autografia dei due bassorilievi (in particolare, dubbi sono stati più volte espressi intorno alla figura femminile, avvicinata alla mano di Giovanni da Imola) e neppure sulla cronologia, nonostante l'iscrizione con la data, è soprattutto la collocazione originaria che oggi è fatta segno di opinioni discordi, fondate sulle indicazioni contrastanti contenute nei due testamenti dettati da Lorenzo Trenta. Nel primo, del 29 marzo 1438 (recentemente rinvenuto: Paoli, 1986, p. 251), egli chiede di essere sepolto nel proprio sepolcro situato nella cappella di S. Riccardo (segno che le lastre tombali dovevano già essere predisposte in quella sede). Nel secondo e definitivo del 20 giugno 1439, Trenta cambiava le proprie volontà disponendo di essere seppellito nella più modesta tomba di famiglia della vicina cappella di S. Caterina: quest'ultima, sulla base di tale indicazione, è stata spesso considerata, ma probabilmente in modo erroneo, come il sito che in origine accolse i due rilievi.

Sempre per Lorenzo Trenta J. realizzò il dossale, firmato e datato 1422, della stessa cappella di S. Riccardo, un polittico marmoreo di dimensioni imponenti (m 4,39 di altezza × m 3,21 di larghezza), che presenta nella parte superiore una cornice gotica con cinque scomparti a forma di nicchia ad archi trilobati.

Di essi, quattro contengono un santo a figura intera: si tratta, da sinistra verso destra, di S. Orsola, S. Lorenzo, S. Girolamo, S. Riccardo (la cappella, oltre che a s. Riccardo, le cui spoglie furono colà traslate proprio nel 1416, era originariamente intitolata ai santi Girolamo e Orsola; mentre Lorenzo era il santo patrono del committente). Lo scomparto centrale è occupato da una Madonna con Bambino in trono. La parte inferiore consta di una predella che presenta, alle due estremità, le effigi rispettivamente di S. Caterina d'Alessandria e di S. Orsola; ognuna delle formelle laterali contiene una storia della vita del santo raffigurato sul relativo scomparto soprastante; mentre al centro è rappresentato Cristo in pietà tra la Vergine e s. Giovanni Evangelista. Il piedistallo sotto il trono della Vergine reca l'iscrizione con la firma di Jacopo. Tutti i pinnacoli sono sormontati da busti di Profeti, con l'eccezione di quello centrale, che quasi certamente a sua volta sarebbe dovuto culminare in un perduto busto di santo o del Redentore; pure mancanti risultano oggi le cuspidi dei pilastri esterni.

Sia la ricostruzione dei tempi di realizzazione, sia il riconoscimento di interventi da parte dei collaboratori di J., e in particolare di Giovanni da Imola (personalità artistica ancora nebulosa, a cui pure si è talora assegnato un ruolo di primo piano nell'altare Trenta), costituiscono problemi controversi e aperti, tanto più a causa delle differenze stilistiche e qualitative che la maggior parte degli studiosi ha ritenuto di individuare fra le varie parti dell'opera. Esistono in proposito tre punti di riferimento cronologici essenziali: il primo, più generico, è il 28 febbr. 1412, in cui Trenta ottenne il permesso di ricostruire la cappella; il secondo è il 16 febbr. 1416, quando gli venne concesso di realizzare un nuovo altare; il terzo è il 1422 iscritto sul polittico. A partire da questi dati, i due orientamenti più diffusi: da un lato, si è pensato a una realizzazione in due fasi (assumendo come ratifiche formali, non troppo vincolanti dal punto di vista della cronologia dei lavori, i due permessi accordati al Trenta), con la parte superiore scolpita entro il dicembre 1413 e la predella (e forse la Madonna con Bambino) condotta a più riprese tra il 1416 e il 1422; dall'altro, è stata ipotizzata una realizzazione dell'opera solo a partire dal 1416, o anche più tardi.

In prossimità della conclusione dei lavori per la Fonte Gaia, J. risulta essere ancora impegnato in cariche pubbliche a Siena: il 31 dic. 1418 fu nuovamente eletto nel Consiglio del Popolo in rappresentanza del Monte dei riformatori, per il terzo di S. Martino, e il 9 ott. 1419, insieme con Domenico di Niccolò dei Cori venne nominato priore del medesimo distretto.

Dal punto di vista professionale, J. fu attivo nel Senese nel corso del terzo decennio coi lavori per il fonte battesimale e con l'Annunciazione destinata alla cappella dei Ss. Fabiano e Sebastiano nella collegiata di San Gimignano.

Quest'ultimo gruppo è composto di due statue in legno di castagno, alte circa m 1,75. Esse recano la policromia originale dovuta al pittore senese Martino di Bartolomeo, che la realizzò nel 1426 come risulta dall'iscrizione posta sulla base dell'Angelo. Una seconda iscrizione, sulla base della Vergine, assegna invece la paternità delle sculture a "Magister Giacopus Pieri de Senis". Grazie a uno spoglio anonimo del 1754, ove fu trascritta una nota di un perduto libro contabile dell'Opera della collegiata, esiste la memoria di un pagamento di 110 lire e 10 soldi effettuato a J. nel 1421. È probabile che questa data sia da intendere come prossima all'inizio dei lavori; mentre si può ritenere che la conclusione delle sculture avvenne abbastanza a ridosso della loro coloritura.

L'Annunciazione di San Gimignano riveste una speciale importanza in quanto unico esemplare documentato di un settore della produzione di J., quello delle sculture lignee, sotto ogni rispetto tutt'altro che secondario, come si è meglio chiarito negli ultimi decenni, in cui nuove e autorevoli proposte attributive hanno permesso di espandere il catalogo dello J. intagliatore in legno, arricchendone il profilo artistico complessivo (Scultura dipinta…, pp. 153-162; Scultura lignea…, pp. 194-206).

La prima decisione di costruire un nuovo fonte battesimale nella pieve di S. Giovanni a Siena, "finita l'uopera del fonte del campo", risale al 14 ott. 1414 (Beck, p. 364); ma fu solo nel maggio 1416 che alcuni maestri locali vennero incaricati dall'"operaio" del duomo, Caterino di Corsino, di realizzare un progetto per tale impresa (probabilmente assistiti da Ghiberti, che fu a Siena per offrire la sua consulenza dal 28 giugno al 17 luglio del 1416).

Il 16 apr. 1417 vennero allogati a J. due rilievi bronzei, per la somma totale di 180 fiorini. Per tale commissione, il 9 ott. 1419, J. ricevette un anticipo di 120 fiorini, a cui però non fece seguito alcuna realizzazione da parte sua. A causa di tale assoluta inadempienza, il 18 ag. 1425 J. fu costretto a restituire gli anticipi ricevuti (una delle due storie, il Festino di Erode, era stata nel frattempo affidata a Donatello).

Nonostante questi trascorsi controversi, il 20 giugno 1427 fu deciso dall'"operaio" del duomo di affidare a J. la parte superiore marmorea del fonte battesimale, con la responsabilità di concludere definitivamente i lavori nel giro di venti mesi. Tra il 1428 e il 1430 J. portò a compimento l'incarico. Il 31 luglio 1430, J. venne così saldato per il rilievo bronzeo raffigurante l'Annuncio a Zaccaria nel tempio, e il successivo 5 agosto ricevette 350 fiorini come pagamento finale per la parte superiore del fonte, coi cinque rilievi collocati nelle nicchie, raffiguranti altrettanti Profeti, e il S. Giovanni Battista posto sulla sommità del tabernacolo (opera probabilmente compiuta con largo intervento di aiuti).

Il rilievo bronzeo fu certamente realizzato da J. dopo un'attenta riflessione sugli esemplari di Ghiberti e soprattutto di Donatello, che già nel 1427 si trovavano tutti disposti sui fianchi della vasca del fonte. Attraverso la suggestione del modello donatelliano, J. produsse uno sforzo di costruzione prospettica e di articolazione architettonica dello sfondo (ispirato alla reggia di Erode del rilievo di Donatello) senza precedenti nella sua scultura, seppure al servizio delle sue qualità peculiari di energia e dinamismo, e finalizzato a una serrata e perfino ruvida drammaturgia.

Un atto notarile datato 25 maggio 1424, indica che J. ricevette una dote matrimoniale di 350 fiorini d'oro da parte di tale Eufrasia per conto della di lei figlia Agnese. Non è chiaro se il matrimonio andò effettivamente in porto, poiché di un'Agnese non v'è traccia nell'abbondante documentazione successiva, così come nel testamento di Jacopo. Se l'unione vi fu, per qualche ragione essa dovette comunque durare ben poco, e certamente non ebbe a generare prole.

Il 28 marzo 1425, J. firmò il contratto relativo all'ultima grande commissione della sua carriera, quella che lo avrebbe impegnato sino alla fine dei suoi giorni e che gli diede le maggiori soddisfazioni economiche, professionali e artistiche: il portale maggiore della basilica di S. Petronio a Bologna. Fu Louis Aleman, vescovo di Arles, legato papale e governatore di Bologna, ad assegnare il prestigioso impegno a "maestro Iacomo dalla Fonte da Siena".

Il contratto di allogazione (ibid., pp. 404 s.) venne redatto in termini estremamente dettagliati. Il compenso previsto era decisamente cospicuo: 3600 fiorini complessivi, di cui 150 alla firma dell'accordo. J. era tenuto a compiere il portale secondo un disegno da lui precedentemente presentato alla committenza. Egli si impegnava a portare a termine l'opera entro due anni dall'arrivo del marmo a Bologna. Il portale doveva avere un'altezza compresa tra 40 e 43 piedi (1 piede = cm 38), e una larghezza all'incirca pari a metà dell'altezza. Venivano anche specificate, più o meno precisamente, le misure dei pilastri, le proporzioni delle colonne, delle basi e dei capitelli, e soprattutto il numero, il soggetto e le misure di tutte le storie e le figure previste. Rispetto al complesso schema decorativo delineato dal contratto originario, nel corso dei lavori vennero introdotti diversi significativi cambiamenti: la riduzione da quattordici a dieci delle scene raffigurate lungo i pilastri, e da ventotto a diciotto dei busti di profeti sui pilastrini delle strombature; l'aumento da tre a cinque delle storie dell'Infanzia di Gesù sull'architrave; la sostituzione con una raffigurante S. Ambrogio delle statue a tutto tondo del papa Martino V e del suo legato Louis Aleman (che avrebbero dovuto trovar posto nella lunetta accanto alla Vergine e a S. Petronio), a seguito della rivolta di Bologna contro il potere papale e dell'espulsione dello stesso Aleman, nell'agosto del 1428. Altre sculture indicate nel contratto, infine, non furono mai realizzate: due leoni ai lati del portale, le figure dei santi Pietro e Paolo al culmine dei due pilastri, un Cristo in trono portato da angeli, che forse doveva essere collocato nel timpano, e un Cristo Crocifisso sull'apice del frontone.

Negli anni successivi alla firma del contratto J. fu costantemente attivo per l'impresa bolognese. Tra il 1426 e il 1427 si impegnò nella ricerca del marmo adatto nelle aree di Milano, Verona e Venezia, e sino al 1437 i suoi soggiorni a Bologna, testimoniati dalla documentazione eccezionalmente abbondante, furono frequenti e prolungati.

Sul portale, complessivamente in condizioni conservative discrete dopo il restauro ultimato nel 1979, J. e la sua bottega realizzarono un complesso programma decorativo.

Divise sui due pilastri laterali, si trovano dieci formelle a rilievo con scene dell'Antico Testamento: a sinistra, dall'alto in basso, si susseguono Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, Cacciata dal paradiso, Progenitori al lavoro (questi rilievi sono abbastanza unanimemente considerati opera del solo J.); a destra, Offerte al Signore di Caino e Abele, Uccisione di Abele, Uscita dall'arca, Ebrezza di Noè, Sacrificio di Isacco (per questi rilievi, invece, è stata spesso suggerita una significativa partecipazione della bottega). Negli sguanci sono poste diciotto formelle, nove su ciascun lato, raffiguranti busti di Profeti (realizzati probabilmente con interventi dei collaboratori). Lungo l'architrave è una serie di cinque storie del Nuovo Testamento: da sinistra a destra, Natività, Adorazione dei magi, Presentazione al tempio, Strage degli innocenti (queste ultime due, forse in parte di bottega), Fuga in Egitto. Infine, sulla lunetta, sono le figure a tutto tondo, pienamente autografe, della Madonna col Bambino e di S. Petronio (il S. Ambrogio, che oggi si trova pure nella lunetta, fu scolpito da Domenico da Varignana e consegnato nel 1510, secondo taluni utilizzando un blocco di marmo già sbozzato da Jacopo).

Per quanto riguarda la cronologia delle varie parti che compongono il portale, entro la fine del 1428 erano già compiuti i Profeti nello sguancio, probabilmente la Madonna con Bambino destinata alla lunetta e i due Putti in cima agli stipiti, nonché, forse, l'architrave con le storie del Nuovo Testamento. Si sa, inoltre, che il S. Petronio fu collocato nella lunetta il 22 nov. 1434. Dubbi maggiori si hanno intorno alle date di realizzazione delle formelle dei pilastri. La cronologia 1429-34 prospettata da Beck (pp. 125-133, 173-177) è stata per lo più accolta dalla critica; ma Gnudi (pp. 13-52) ha suggerito una ricostruzione totalmente diversa dei tempi di lavorazione, in base alla quale le scene dell'Antico Testamento sarebbero da collocare nella fase iniziale del cantiere, intorno agli anni 1426-28; mentre le formelle dell'architrave sarebbero state scolpite in un secondo momento, tra il 1432 e il 1434.

Nonostante la pressione dei lavori per la "porta magna" di S. Petronio, neanche dopo la conclusione del fonte battesimale J. allentò i suoi impegni a Siena, né sul versante pubblico (il 1° genn. 1435 prestò di nuovo giuramento come priore per il terzo di Città, ove si era trasferito dopo il 1430), né su quello professionale.

Infatti, il 4 febbr. 1435 fu candidato senza successo come rettore dell'ospedale della Scala, e il successivo 9 febbraio venne eletto alla prestigiosa e impegnativa carica di "operaio" del duomo, che mantenne sino alla morte.

L'ultima opera, alla quale J. attese nella sua città natale, fu il rilievo di marmo, oggi frammentario, raffigurante la Madonna col Bambino in trono, s. Antonio Abate e il cardinale Casini (Siena, Museo dell'Opera metropolitana). La scultura, probabilmente realizzata con interventi di aiuti, era destinata alla cappella di S. Sebastiano nel duomo di Siena, della quale il cardinale Antonio Casini si impegnò a rinnovare l'apparato decorativo almeno dal 1433.

Il 3 ott. 1438 J. dettò le sue volontà testamentarie, nominando i fratelli Elisabetta e Priamo eredi universali, e il 21 ott. 1438 morì. Fu sepolto nel chiostro della chiesa di S. Agostino a Siena.

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