COURTOIS, Jacques

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COURTOIS, Jacques (in Italia Giacomo Cortese detto il Borgognone)

Simonetta Prosperi Valentini Rodinò

Nato a Saint-Hippolyte in Borgogna il 12 febbr. 1621 da Jean-Pierre, fu detto anche Giacomo Borgognone delle Battaglie dal soggetto da lui trattato quasi esclusivamente nei dipinti.

Suo primo maestro fu il padre, un mediocre pittore attivo in quegli anni nella Franca Contea, che probabilmente avviò alla pittura anche i due fratelli del C.: Guillaume e Jean-François (Salvagnini, 1937, p. 36). Intorno al 1636 il C. si allontanò con i fratelli dal suo paese d'origine devastato dalla guerra dei Trent'anni, dirigendosi alla volta dell'Italia, che diverrà la sua seconda patria. Secondo le fonti la prima tappa del C. in Italia fu Milano dove, sotto la protezione del barone Vatteville, fu assoldato per tre anni nelle truppe spagnole (1636-39). Questa esperienza rimarrà fondamentale per il giovane artista che si diede in quegli anni a disegnare dal vero scene di vita militare e paesaggi, i due temi ricorrenti del suo futuro repertorio pittorico.

Artista molto stimato nel suo tempo come pittore di paesaggi (di cui oggi si è persa ogni traccia) e di battaglie, cui invece è ancora legata la sua fama, è riconosciuto concordemente dalle fonti e dalla critica moderna come il maggior interprete del soggetto di battaglie in pittura. Questo genere ebbe grandissimo successo nei secc. XVII e XVIII in tutta Europa ed il C. riprese la formulazione ideata qualche decennio prima da Aniello Falcone a Napoli, ripresa poi da Salvator Rosa, della battaglia "senza eroe" (F. Saxl, The Battle-Scene without a Hero. Aniello Falcone..., in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, III, [1939-40], pp. 70-87);questa si differenzia sostanzialmente dalle raffigurazioni di battaglie "eroiche" del Rinascimento italiano, continuate nel Seicento da Pietro da Cortona e dai cortoneschi che concepivano la scena convergente verso il protagonista-eroe e i soldati allineati su uno stesso piano ad imitazione dei rilievi classici.

Il modo di dipingere battaglie del C. si distingue anche dalle vedute "a volo d'uccello" tipiche dei pittori fiamminghi, come A. F. van der Meulen, adottate anche dal Callot nelle sue incisioni. Il modo nuovo di affrontare questo tema da parte del C. documenta una impostazione più moderna dell'artista, che osserva direttamente e riprende dal vero le scene del suo repertorio (tra i disegni del C. sono numerosi gli schizzi di battaglie).

Sebbene assai famoso ai suoi tempi, tanto da essere paragonato a Raffaello dal Pascoli (1730, p. 121) e molto richiesto dai committenti, la vasta opera del C. attende ancora uno studio sistematico. Eccezion fatta per i dipinti di soggetto religioso, di modesta qualità, ben analizzati dal Salvagnini (1937), i suoi dipinti, essendo destinati alla committenza privata, hanno subito un'enorme dispersione. A questo si aggiunge che al C. è stata genericamente attribuita buona parte delle scene di battaglie dipinte a Roma nel sec. XVII, sia nei vecchi inventari di collezioni private sia nei musei, il che ha generato una grande confusione nel catalogo dell'artista.

A Milano il C. proseguì i suoi studi presso uno scultore non identificato; si trasferì poi a Bologna alla scuola del pittore lorenese Jérôme Colomès (per l'identificazione, cfr. Roli, 1969), dove ebbe modo di farsi notare per le sue capacità dall'Albani e dal Reni, secondo quanto narra il Baldinucci (1681-1728) che ebbe dall'artista a Firenze il resoconto della sua vita. In questi anni fondamentali per la sua formazione, il C. si recò a Verona e a Venezia, ed è certo che passò per Firenze, dove ebbe modo di incontrare Jan Asselyn, un pittore olandese specializzato in scene di guerra e battaglie, e Renaud de la Montagne detto Monsù Montagna, noto per le sue marine.

Il viaggio di apprendistato del C. proseguì per Siena, dove frequentò per qualche tempo la scuola di Astolfo Petrazzi. Finalmente intorno al 1639-40 giunse a Roma, dove fu ospitato nel convento di S. Croce in Gerusalemme per intercessione dell'abate milanese don Ilarione Rancati, probabilmente conosciuto dall'artista nella città lombarda. Questi affidò al C. il primo incarico ufficiale, cioè dipingere il Miracolo dei pani e dei pesci nella volta del refettorio del monastero (1641). Il grande affresco, tuttora conservato, dimostra come il C. fosse più impacciato nella pittura di gran formato, e in particolare in quella di soggetto religioso, dove si mostrò sempre meno vivace che nel suo più congeniale repertorio battaglistico. - A Roma fu fondamentale per la formazione artistica del pittore la conoscenza di P. van Laer e di M. Cerquozzi. La sua naturale inclinazione al vero, già filtrata attraverso gli artisti olandesi conosciuti a Firenze, si approfondì così a Roma nell'ottica caravaggesca, a lui così congeniale, dei pittori bamboccianti.

Il gusto dell'episodico e del dettaglio tipico di questi artisti viene però superato dal C. nella sua fase più matura dall'influenza romantica esercitata dalla coeva pittura di Salvator Rosa - che aveva già conosciuto a Firenze - con la sua gamma di paesaggi notturni, negromanzie, soldati, battaglie e scene di genere.

Tutte queste esperienze giovanili, fuse e assimilate dal C., contribuiscono a creare un linguaggio personalissimo e nuovo, vagamente nordico, nella pittura italiana del Seicento, misto di realismo e di fervore romantico, cui si rifecero tutti i pittori di battaglie dei secc. XVII e XVIII.

L'affermazione del C. a Roma a partire dal 1640 fu rapidissima ed il suo successo è legato in un certo senso alla fortuna riscossa in quegli anni dal genere pittorico delle battaglie. Il Pascoli (1730) afferma che fu Pietro da Cortona, suo grande estimatore, ad aiutarlo presentandolo a famiglie nobili romane.

Ben presto, infatti, fu impegnato in commissioni per i Sacchetti, protettori del Berrettini; per il conte di Carpegna, presso il quale ebbe modo di conoscere il Cerquozzi, per i Carandini, per il principe Camillo Pamphili, per i cardinali Antonio Barberini (Aronberg Lavin, Seventeenth-Cent. Barberini Doc. ...) e Flavio Chigi, che nel 1644 gli ordinò quadri da portare in Francia, identificabili forse con le due tele oggi al Louvre (cfr. Guiducci, 1980, p. 41 n. 12; inv. 3437 e 3438). Suoicommittenti non romani furono Niccolò Sagredo, ambasciatore veneziano a Roma, il conte Carlo Giacomo Vecchi a Bergamo, il granduca di Toscana, il principe Mattias de' Medici, il duca di Mantova Carlo Gonzaga, che nel 1640gli commissionò tramite il suo agente un dipinto (A. Venturi, La Galleria Estense di Modena, Modena 1882, pp. 249 s., docc. II-V), e ignoti mecenati in Spagna e in Francia che non vengono meglio indicati dal Pascoli e dal Baldinucci.

È assai difficile stabilire una cronologia all'interno dell'opera del C., che ripete sempre gli stessi temi di battaglie, analizzati con oggettività nordica ma senza troppa indulgenza al particolare. Nonostante non vi siano dipinti documentati del primo decennio di attività romana del C., lo Holt (1969, p. 217) ha datato a questo periodo le tele di dimensioni ridotte conservate oggi nella galleria Doria Pamphili - e già esistenti al tempo di Innocenzo X (m. 1655) -, nel Museo Capitolino, provenienti da casa Sacchetti, forse identificabili con quelle dipinte per il cardinal Sacchetti citate dal Pascoli.

Secondo lo Holt le caratteristiche stilistiche di questa prima fase romana del C. sono un colore tonale con improvvise accensioni luminose, cieli ampi e slontananti come in Claude Lorrain, elementi tratti dalla pittura veneta e dai contemporanei artisti tedeschi attivi in Italia, senza dimenticare una continua verifica dal vero delle scene raffigurate, in analogia con le tematiche dei bamboccianti.

Lo Holt sottolinea anche la formazione tradizionalista del C., che studiò a lungo la raffaellesca Battaglia di Costantino del Vaticano, secondo il Pascoli, e che dovette meditare sugli studi di Leonardo della Battaglia di Anghiari, cioè i testi classici per eccellenza anche per artisti barocchi come Pietro da Cortona.Nella sua fase giovanile il C. si cimentò con successo anche come incisore. Fu infatti un buon acquafortista ed eseguì alcune battaglie siglate "J. C." che presentano affinità tematiche e stilistiche con le opere del primo periodo romano. La realizzazione grafica più interessante dell'artista furono alcune illustrazioni del secondo volume del De bello Belgico del gesuita Famiano Strada, del 1647. Il C. siglò la Battaglia di Steenberg e la Presa di L'Ecluse, ma gli si devono riferire per motivi stilistici anche la Presa di Oudenard e la Presa di Berk.

Il decennio successivo 1650-60 segnò un momento molto drammatico della vita del C., che peregrinò per l'Italia e l'Europa sino al '57, quando si fece gesuita.

Intorno al 1647 aveva sposato Maria Vaiani, figlia di un pittore fiorentino, ma ben presto il matrimonio fallì: con l'intenzione di allontanarsi dalla moglie il C. nel 1651 lasciò Roma per recarsi a Siena al servizio del principe Mattias de' Medici, fratello del granduca Ferdinando II, suo mecenate e allora governatore della città, il quale tentò invano di far riconciliare i coniugi. La crisi fra i due si inasprì con il ritorno del C. a Roma nel 1651 sinché, verso la fine del 1654, la Vaiani morì.

A Roma si vociferò che il C. avesse avvelenato la moglie, probabilmente per motivi di gelosia, ma questa diceria non trova fondamento reale. Il fatto che il pittore pochi anni dopo sia entrato a far parte della Compagnia di Gesù, così scrupolosa e severa con i propri novizi, sembra far escludere ogni ipotesi di uxoricidio.

Il C. abbandonò Roma all'inizio del 1655 e si rifugiò ancora sotto la protezione del principe Mattias de' Medici prima a Siena poi a Firenze. Si recò quindi a Friburgo, accompagnato dal fratello JeanFrançois (Salvagnini, 1937, pp. 83 s.), a far visita a due sorelle, monache orsoline, su richiesta delle quali eseguì alcuni dipinti per la chiesa di S. Orsola (Martirio di s. Orsola, per l'altar maggiore; Madonna col Bambino; S. Carlo Borromeo: ibid., pp. 83 s.), opere mediocri nelle quali probabilmente prevale la collaborazione del fratello; seconda tappa fu Bergamo, documentata dalla pala con Madonna e santi nella chiesa parrocchiale di Villa d'Adda, datata e firmata 1656, e dal S. Martino e il povero nella parrocchiale di Carvico.

A Bergamo l'artista aveva conosciuto il conte G. Vecchi suo committente di dipinti di battaglie, il pittore di nature morte E. Baschenis e il mercante di quadri A. Vanghetti, per il quale dipinse numerose tele e con il quale rimase in relazione epistolare sino al 1657 (Locatelli, 1909, lettere nn. 36-38). Infine il C. si recò a Venezia su invito di Niccolò Sagredo, che aveva già conosciuto con il fratello Guillaume a Roma e su commissione del quale aveva dipinto nella chiesa di S. Marco due lunette sopra le porte laterali raffiguranti Giosuè ferma il Sole e la Vittoria sugli Amaleciti in occasione del restauro voluto dal Sagredo negli anni 1653-57.

Nel palazzo veneziano del Sagredo il C. dipinse su cuoio quattro scene di battaglie tratte dall'Antico Testamento: Entrata degli Ebrei nella terra promessa, la Battaglia di Raphidim, Giosuè ferma il Sole e il Passaggio del Mar Rosso vendute nel 1773 al conte di Derby e quindi trasferite a Knowsley-Prescot nel Lancashire, dove si conservano tuttora.

Passando per Padova e Bologna, il C. nel 1656 tornò a Firenze al servizio del principe Mattias, che lo condusse con sé a Siena e nella villa di Lapeggi. Per Mattias dipinse quattro grandi tele, conservate oggi nella Galleria Palatina: due, illustranti vittorie militari (la Presa di Radicofani e la Battaglia di Mongiovino) del principe, alleato di Odoardo Farnese, considerate i suoi capolavori, sono fra le tele di maggior formato da lui realizzate; le altre due, oggi nei depositi di palazzo Pitti, assai deteriorate e inferiori di qualità, rappresentano episodi della campagna del principe Mattias durante la guerra dei Trent'anni a Nordlingen e a Lützen (1631 e 1632).

La Rudolph (1969), che sottolinea l'ampia visione cosmica presente nelle prime due tele e l'illusionismo ottico cercato dall'artista, è propensa ad anticipare l'esecuzione dei dipinti, ritenendo che il passo del Baldinucci relativo ai quattro quadri sia piuttosto da riferire a quattro affreschi nella villa di Lapeggi, da lei rintracciati e resi noti.

Se è da accettare l'attribuzione al C. delle piccole scene di battaglia di Lapeggi, interessante e ulteriore prova del C. frescante, ci sembra però più opportuno confermare la datazione delle tele di palazzo Pitti ad un periodo maturo più avanzato. Qui la concezione della battaglia "senza eroe" trova la massima affermazione, al punto che, pur nel verismo dettagliato dei particolari, la figura del protagonista, il principe Mattias, viene confusa nella mischia, e relegata sulla sinistra fra un gruppo di cavalieri. Queste opere, insieme a numerose altre battaglie - tra cui ricordiamo quelle conservate nell'Ermitage di Leningrado, nella Galleria Rospigliosi di Roma (inv. 154), a Dresda, a Monaco -, segnano l'affermarsi dello stile maturo del C., che abbandona le tele di piccolo formato del primo periodo e soprattutto travolge le sue realistiche composizioni in un turbinio vigoroso, in una resa tumultuosa e romantica che risente della influenza di Salvator Rosa. Anche il colore muta, e dai toni luminosi, chiari e nordicamente oggettivi del primo periodo romano, ora assume i toni tenebrosi cari ai notturni del Rosa.

La crisi spirituale conseguente alle dolorose anche se poco chiare vicende coniugali del C.; che secondo la testimonianza delle fonti conduceva già da anni vita dedita alle pratiche di devozione, sfociò nella decisione di ritirarsi a vita religiosa: a Siena, dopo lunghi colloqui con il padre Gerolamo Santi rettore del collegio gesuitico, il C. maturò la decisione di entrare a far parte della Compagnia di Gesù. Rientrato a Roma, lo troviamo nel noviziato di S. Andrea al Quirinale a partire dal 13 dic. 1657 (Salvagnini, 1937). La prima impresa pittorica che il C. eseguì come gesuita fu la decorazione della cappella della Congregazione Prima Primaria, un piccolo oratorio ricavato in una sala del Collegio Romano attiguo alla chiesa di S. Ignazio. I congregati avevano ottenuto in concessione la cappella dal padre generale Gosvino Nickel nel 1658 e a partire da quella data il C. fu impegnato nella sua più vasta e riuscita realizzazione di soggetto religioso: nelle sei lunette raffigurò a fresco le Donne illustri del Vecchio Testamento: Rebecca, Giuditta, Abigaille a sinistra, e Maria sorella di Mosé con il Passaggio del Mar Rosso, Jaele e Debora a destra.

In molte di queste scene riaffiora il repertorio di battaglie e armati caro al C., ma si concorda qui col Salvagnini (1937, p. 126) nell'affermare che la lunetta meglio riuscita è quella con l'episodio di Rebecca dove la scena campestre e le figure non travolte da turbinii bellici appaiono caratterizzate da elementi veneziani e reniani. Il carattere molto personale del C., così sciolto e compendiario nelle battaglie, era molto lontano dallo stile ufficiale della pittura religiosa dell'epoca dominata dal cortonismo: ciò pesa negativamente sulla riuscita delle scene di soggetto religioso, e la sua pittura si fa stranamente più rigida e secca, diversificandosi totalmente, e in senso negativo, dallo stile barocco e moderno del fratello Guillaume (E. Schleier, Aggiunte a Guglielmo Cortese..., in Antichità viva, IX [1970], 1, pp. 11-14). Per la decorazione dei riquadri sottostanti, che dovevano illustrare secondo il programma iconografico forse dettato da un gesuita, sei battaglie vinte con il patrocinio della Vergine, il C. si fece aiutare dal fratello Guillaume, probabilmente perché poco abituato a pitture murali di grande formato (cfr. M. Sollazzi, La nuova Congregazione Prima Primaria..., Roma 1659).Dopo lunghe confusioni attributive, lo Schleier (cit.) ha definitivamente chiarito la paternità delle scene; sono tutte di Guillaume, salvo la Vittoria di Narsete su Totila, nel cui turbinio di cavalli e armati sembra di riconoscere la mano del Courtois. L'intervento "specialistico" del C. con inserti di battaglie nello sfondo, e perciò di formato minore, si può riconoscere nella scena con La Vergine che appare a Ferdinando di Castiglia e soprattutto nella vivacissima scena navale della Battaglia di Lepanto, dove comunque i fratelli, ben distinguibili fra loro, dimostrano di aver lavorato in stretta collaborazione.

Sempre su commissione dei gesuiti, il C. eseguì nel 1661 la decorazione sotto le finestre del corridoio delle stanze di S. Ignazio, raffiguranti episodi della vita del santo: la Battaglia di Pamplona; S. Ignazio insegue un saraceno bestemmiatore; S. Ignazio scrive gli esercizi spirituali ispirato dalla Vergine; S. Ignazio si getta nel fiume per convertire un malvivente e altre storie.

Queste piccole pitture, di poco conto, mostrano una fattura così sciatta (sono anche rovinate dall'umidità filtrata dalla finestra) da far pensare che il C. le abbia solo ideate, ma fatte eseguire da allievi, perché assai impegnato nelle numerosissime commissioni di dipinti da cavalletto con battaglie, di cui si dice oberato nelle lettere scritte al Vanghetti a Bergamo nell'agosto del 1661 (Locatelli, 1909, lettera n. 3).

Nonostante appartenesse ad un Ordine religioso così austero, il C. ebbe l'autorizzazione a dipingere quadri di soggetto profano, cioè battaglie e paesaggi, per committenti esterni sino alla fine dei suoi giorni, ma purtroppo non ci è rimasto nessun dato cronologico relativo alla sua fervida attività in questi anni. Al periodo tardo della sua attività va datato il quadro con il Martirio dei Quaranta martiri gesuiti presso l'isola di Palma, conservato nel palazzo del Quirinale, opera assai pregevole e ritenuta una importante commissione se viene ricordata dal Pascoli e citata negli inventari del Quirinale (L. Mortari, in Mostra di opere d'arte restaurate nel 1967, Roma 1968, p. 15).

L'elemento più sorprendente in questa tela è il colore, che nelle nuvole in alto appare luminoso e chiarissimo, mentre è livido e cupo nel mare in primo piano, dove si intravedono in trasparenza i corpi morti dei gesuiti, con effetti di una modernità sorprendente (è una delle rare opere di soggetto religioso dove il C. trasfonde la concezione delle sue battaglie senza eroe).

Tra le altre opere di soggetto religioso dipinte per i gesuiti, oggi disperse, il Pascoli cita due Adorazioni dei Magi, due Stragi degli Innocenti e una Resurrezione di Lazzaro per il presepe di S. Andrea al Quirinale.

Negli ultimi anni della sua vita il C. ebbe la commissione più rilevante affidatagli dai gesuiti (1671-72) per iniziativa dell'intelligente padre generale G. P. Oliva, dotato di fine gusto artistico: un grande affresco per l'abside della chiesa dei Gesù. Il C. cominciò a lavorare con zelo ai disegni, che avevano come soggetto Giosuè ferma il Sole, ma ben presto sorsero alcune difficoltà fra il padre Oliva, che malcelava l'orgoglio che fosse un gesuita di gran valore a decorare la chiesa dell'Ordine, e il duca di Parma Ranuccio Farnese, che doveva finanziare l'opera per un totale di 30.000 scudi. Le cattive condizioni di salute non permisero al C. la realizzazione dell'opera; sperando di trar giovamento per la salute dal cambiamento d'aria, continuò tuttavia la sua attività fuori Roma: nel 1675 era a Pisa, da dove si recò a Firenze per dipingere, su richiesta del granduca Cosimo III, il suo stupendo e drammatico Autoritratto, oggi agli Uffizi, dove tutta la superficie dipinta è dominata dalla severa figura del gesuita, e sullo sfondo si accende una visionaria scena di battaglia.

Il C. morì a Roma il 14 nov. 1676, quando era ancora occupato nel progetto dell'affresco del Gesù.

Del C. ci rimangono anche numerosi disegni che presentano la stessa problematica stilistica, attributiva e cronologica dei dipinti. La maggior parte dei disegni di battaglie del XVII secolo recano infatti l'attribuzione antica o recente al C., ma gli studi autografi dell'artista si riconoscono per il carattere di schizzo veloce, appena abbozzato, per il modo sommario di abbozzare il paesaggio, per il tocco sapiente dell'acquerello che addensa la drammaticità della scena.

Disegni dell'artista sono conservati in numerose raccolte: il gruppo sicuramente autografo è un volumetto di schizzi appartenuto a G. P. Bellori, che lo acquistò per 70 scudi dai gesuiti alla morte del Courtois. Smembrato nel Settecento, è oggi conservato parte al British Museum (34 fogli), parte al Louvre (13 fogli). Un altro cospicuo gruppo di disegni sicuramente autografi è conservato agli Uffizi, nel Gabinetto nazionale delle stampe di Roma, nel Museo di Rouen (Guiducci, 1980), nella Biblioteca Reale di Torino, nel Kupferstichkabinett di Berlino ecc.

È assai arduo trovare riferimenti precisi a dipinti e dare una collocazione cronologica agli schizzi del C., spunti presi dal vero sul campo di battaglia, che non si rivelano quasi mai studi preparatori per opere. Un elemento che ricorre nei fogli del C. - quasi prova di autenticità - è una piccola croce in alto, presente nei fogli del volumetto già Bellori, in quelli degli Uffizi, di Roma ecc. Lo Holt (1966) riteneva che questo segno fosse stato apposto dall'autore dopo la sua entrata nella Compagnia di Gesù nel 1657, ma più verosimilmente la Guiducci (1980, p. 38) afferma trattarsi di un segno d'autenticità, che consente di costituire una sorta di Liber Veritatis di appunti presi dall'artista dal vero.

L'importanza del C. come pittore battaglista va oltre i limiti cronologici della sua attività artistica: egli può essere considerato come l'iniziatore di un genere pittorico che ebbe numerosi seguaci, tra cui in Italia, per es., P. Reschi, F. Simonini, A. Calza, F. Monti, G. Pinacci.

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