ROUSSEAU, Jean-Jacques

Enciclopedia Italiana (1936)

ROUSSEAU, Jean-Jacques

Ferdinando NERI
Henry PRUNIERES
Ernesto CODIGNOLA

Biografia e attività letteraria. - Nacque a Ginevra il 28 giugno 1712, da una famiglia protestante d'origine francese; la madre morì nel darlo alla luce; il padre, Isaac, orologiaio e "cittadino" di Ginevra, lo allevò con affetto, ma a capriccio, e l'iniziò, ancor fanciullo, alla lettura dei romanzi e di Plutarco. Fra i dieci e i dodici anni, il R. stette a dozzina presso il pastore evangelico di Bossey e serbò in vecchiezza un ricordo luminoso di quella sua prima vita all'aperto; fra il 1724 e il 1725, cercò un'occupazione a Ginevra, si mise ad apprendere l'arte dell'incisore, ma, stanco del suo principale, rozzo e severo, la sera d'un giorno di festa, in cui era uscito dalla città, trovate chiuse le porte al ritorno, diede un addio a Ginevra e s'avventurò per le strade, come un vagabondo: non aveva ancora sedici anni. Il curato di Confignon lo dispose facilmente ad una conversione, e lo inviò ad Annecy, presso Luise-Éléonore de Warens, donna piacente, e amante del piacere e dell'intrigo, che il R., pur non tacendone le colpe, trasfigurò nei suoi ricordi con un sentimento di amorosa gratitudine. La Warens, per allora, mandò il giovinetto a Torino, nell'ospizio dei catecumeni; egli ne uscì, dopo quattro mesi, il 23 agosto 1728, cattolico, ma privo d'ogni guida ed appoggio: riprovò a far l'incisore, poi si allogò a servizio nelle case dei signori, conobbe gli aspetti più ignobili della povertà, le compagnie più triviali; finché lasciò Torino e raggiunse la signora di Warens, che lo tenne in casa sua e lo avvinse di un affetto reale, ma ambiguo, in cui la sensualità prevalse ben presto sulle prime dolcezze quasi materne. Dopo il soggiorno di poco più d'un anno ad Annecy, variato di letture d'ogni sorta e di studî musicali; dopo una ripresa di vita errabonda per la Francia e la Svizzera, e un primo viaggio a Parigi, cercò lavoro a Chambéry, dove s'era trasferita la Warens, ebbe un impiego al catasto, poi diede lezioni di musica. L'estate trascorreva alle "Charmettes", in villa con la sua protettrice, e il R. vi era libero e felice, riconoscendo in sé stesso, sempre più viva, la passione per la vita semplice della natura, che divenne la base di ogni sua aspirazione morale. Poi l'idillio languì; il favore, e insieme la fortuna, di Madame de Warens, vennero meno, e il R., nell'aprile del 1740, entrò come precettore nella famiglia Mably di Lione; vi restò un anno, trascorse nuovamente qualche mese alle Charmettes e nell'autunno del 1741 si risolse a tentar la fortuna a Parigi. Era armato di un forte e ombroso sentimento personale, di lunghe meditazioni solitarie, originali, in contrasto con la dottrina dei libri e con le opinioni che erano comuni a quel tempo intorno ai grandi problemi morali e sociali.

A Parigi conobbe i letterati e i filosofi, Marivaux, Fontenelle, Condillac, soprattutto Diderot; con la protezione di Madame de Broglie, divenne segretario del Montaigu, nominato ambasciatore di Francia a Venezia, e in questa città ebbe a soggiornare circa un anno. Di ritorno a Parigi, attese a rivedere un'opera del Voltaire iniziando così una relazione d'amicizia, che si venne alterando col tempo e finì in lotta aperta. Viveva copiando musica (per l'attività di musicista esplicata dal R. in questo periodo, v. appresso), occupandosi delle feste, delle rappresentazioni nelle grandi case; ma ancora, a trentotto anni, non s'era affermato con le sue doti di scrittore. Nel 1750 presentò alla Accademia di Digione, che aveva bandito un concorso sul tema "Se il rirascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a epurare i costumi", il celebre suo primo Discours, in cui sostenne la tesi negativa, rafforzandola di una vivace esaltazione dello stato di natura, solo conforme alla virtù nativa dell'uomo. Il successo dell'opera Le Devin du village, rappresentata nel 1752 a Fontainebleau dinnanzi al re, lo mise ancor più in vista; alla Comédie Française diede il Narcisse, e nel pubblicarlo espose, in un'ampia prefazione, i suoi principî avversi alla società in cui viveva: principî che volle sistematizzare nel secondo Discours, composto anch'esso (nel 1754) su di un tema dell'Accademia di Digione, Sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes. Nell'estate del 1754 riapparve a Ginevra; vi fu festeggiato come un uomo illustre; ritornò al protestantesimo, e dedicò alla repubblica l'edizione del Discours sur l'inégalité. Frattanto il Voltaire si stabiliva nel territorio di Ginevra e il R. diffidava di un amico, in cui intravvedeva il rivale più pericoloso; finì col preferire il soggiorno che gli offriva la signora d'Épinay all'Ermitage presso Montmorency (aprile 1756) e se ne trovò bene: visse fra i campi e i boschi, meditò i suoi grandi libri, si dedicò a un lavoro intenso e fecondo. Di un'opera sulle istituzioni politiche, che aveva disegnata a Venezia, condusse a termine una parte, ch'ebbe per titolo Du Contrat social ou Principes du droit politique; riunì estratti e giudizî sulle opere dell'abate di Saint-Pierre; si accinse con foga alla Nouvelle-Héloïse, e già veniva delineando un trattato sull'educazione della gioventù, che prese forma di narrazione immaginosa nell'Émile: egli affrontava così sotto tutti gli aspetti il problema dominante del suo pensiero: quello di ristabilire l'accordo benefico dell'uomo con la natura, insidiato e scisso dalle istituzioni sociali.

Nel suo romanzo d'amore, Joulie ou la nouvelle Héloïse, il R. raffiggurò il sogno di tutta la sua vita sentimentale: che proprio allora gli parve si avverasse, nella persona di Madame d'Houdetot, cognata di Madame d'Épinay; ed è noto che, nel racconto, il carattere di Saint-Preux rispecchia gran parte dell'animo del R., come quello di Julie corrisponde all'amata signora, e Wolmar ritiene qualche tratto del saint-Lambert, ch'era l'amico assai più fortunato della Houdetot. Il R. prescelse, come scena del suo romanzo, il Lago di Ginevra e ravvivò i suoi lontani ricordi della patria e della Savoia: la Nouvelle Héloïse ci offre, per tal modo, l'immagine della vita che il R. avrebbe voluto vivere, tessuta degli elementi nostalgici di quella che gli era stata concessa nei suoi giorni migliori.

Ma, di contro al sogno, stava una realtà più aspra, che venne a turbare anche questo lieto periodo dell'esistenza del R.; la sua stessa indole, mutevole e diffidente, incrudì i suoi dissapori con le persone che gli erano vicine, col Diderot, col Grimm, il quale era in intimi rapporti con la signora d'Épinay. D'altra parte, ogni relazione del R. con la società colta ed elegante si rendeva più difficile per la sua convivenza, ormai antica, con una donna assai volgare, Thérèse Levasseur, ch'egli aveva conosciuta mentr'era serva d'albergo: di scarsa intelligenza, a giudizio anche del R., ma intrigante e cupida, essa gli aveva addossato a poco a poco la sua famiglia, e lo distaccava dagli amici, acuendo i suoi sospetti e i suoi rancori. Essa avrebbe anche fatto esporre via via come trovatelli i figli nati dalla loro unione, e ciò col consenso del R.: il quale se ne accusò pubblicamente come della sua maggiore colpa; ma non tutto è chiaro in questo triste racconto: e forse quei figli non furono esposti, perché il R., forse, non li ebbe mai. Egli finì con lo sposare Thérèse Levasseur nel 1768 e trascinò quella catena fin che visse.

Il 15 dicembre 1757, il R. lasciava l'Ermitage: si stabilì in una casetta, poco lontano, a Montlouis, dove terminò la Nouvelle Héloïse e lavorò d'impegno all'Émile. L'articolo su Ginevra, uscito da poco nell'Encyclopédie, lamentava che una città così intellettuale non avesse teatri (l'articolo era dovuto al D'Alembert, ma quel passo si attribuiva con ragione al Voltaire): il R. rispose con la Lettre à d'Alembert sur les spectacles, che fu subito pubblicata nel 1758, e la sua difesa del rigorismo ginevrino, la sua visione di un popolo idillico e immune dai raffinamenti dell'arte corruttrice suscitò un immenso interesse, ma gl'inimicò del tutto il Voltaire e il gruppo degli enciclopedisti. Da Montlouis il R. era passato al castello di Montmorency, ospite del maresciallo di Luxembourg e della sua consorte, che ammirava lo scrittore tanto noto e discusso; la Nouvelle Héloïse, uscita per le stampe nel 1761, consacrò per una miriade di lettori il trionfo letterario del R. Ma il pensatore era inviso, destava inquietudini e paure; e la pubblicazione dell'Émile nel 1762, scatenò ogni sorta di persecuzioni contro il R. Egli dovette lasciare la Francia, fu male accolto in Svizzera, e riparò a Môtiers-Travers, nel territorio di Neuchâtel, che dipendeva dal re di Prussia. Quivi compose alcuni scritti polemici, fra cui più notevoli le Lettres écrites de la montagne (replica alle Lettres écrites de la campagne del procuratore generale J.- R. Tronchin), e incominciò la stesura delle Confessions.

Dopo un anno e mezzo, anche a Môtiers-Travers il R. ebbe a incontrare ostilità; e nel settembre 1765 si trasferì all'Isola di Saint-Pierre, nel Lago di Brienne, donde lo sfrattò un decreto del senato di Berna. Dopo un breve ritorno a Parigi, il R., nel gennaio 1766, si recò in Inghilterra, per invito e in compagnia di David Hume, e fu ospite del filosofo a Wootton; ma le dure prove di quegli anni avevano sviluppato i germi della sua mania: egli scorgeva nemici dovunque; sospettò ingiustamente del Hume, ritornò in Francia nel maggio del 1767, errò da un paese all'altro, finché nel 1770 si ridusse nuovamente a Parigi, cercando di sottrarsi all'indiscreta curiosità del pubblico; anelava pur sempre alle solitudini della campagna, e si consolava con lunghe passeggiate fuori di città, intento alle sue predilette osservazioni di botanica: le ore serene di quegli anni si riflettono nelle Rêveries du promeneur solitaire, che fanno seguito alle Confessions, mentre nei Dialogues o Rousseau juge de Jean-Jacques irrompe, in confusa agitazione, la sua anima esulcerata. Un ultimo asilo gli offerse nel marzo 1778 il marchese di Girardin a Erménonville: dove il R. moriva, la notte dal 2 al 3 luglio 1778. Fu sepolto all'"isoletta dei Pioppi"; nel 1794, le ceneri furono portate nel Panthéon a Parigi: omaggio della rivoluzione francese ad uno de' suoi grandi precursori.

Quale precursore, il R. è una figura dominante anche nella storia letteraria. L'opera sua apparve compiuta con la pubblicazione postuma delle Confessions (i primi sei libri, nel 1781, il seguito nel 1788; il manoscritto di una prima redazione, che giunge alla metà del quarto libro, si conserva nella biblioteca di Neuchâtel e fu pubblicato nel 1908): il suo proposito di svelare intus et in cute tutto sé stesso - proposito ch'egli adempì con coraggio e senza pudore - sta all'origine del pugnace individualismo romantico: non ne fu sempre una forza; ne fu certamente un impulso a visioni psicologiche più complesse ed acute. La vena schietta, profonda, se anche talora inquieta ed errante, del R. si riconosce in quel suo sogno di felicità, contraddetto, deluso nel consorzio degli uomini, e per tal guisa condotto a innalzarsi verso un ideale più puro. Il sentimento della natura è dapprima un diletto spensierato, da ultimo una consolazione religiosa per l'anima umana che ha subito l'esperienza del dolore.

Oltre all'Émile, che fu sempre stimato fra i testi capitali della pedagogia, oltre alla Nouvelle Héloïse, che segna innegabilmente una data nella storia del romanzo europeo, il R. ci ha lasciato, nei primi libri delle Confessions e nelle Rêveries du promeneur solitaire, pagine che sono fra le più belle della letteratura moderna, animate di un'imperitura freschezza. La visione poetica, la sensibilità del R. esercitarono un influsso vastissimo, ch'è specialmente palese nelle opere di Bernardin de Saint-Pierre, dello Chateaubriand, di Madame de Staël, di George Sand. In Italia, la risonanza delle sue idee non fu estranea alla formazione spirituale del Foscolo e del Leopardi.

Il pensiero politico. - Le fonti del pensiero politico del R. sono in particolar modo il Discours sur l'inégalité, la voce Économie politique nell'Encyclopedie, il Contrat social (1762), oltre il quarto libro dell'Émile e la vi lettera dalla montagna. In quest'ultima egli così compendia in forma sintetica le argomentazioni del Contratto: "Che cosa rende uno lo Stato? L'unione dei suoi membri. E donde ha origine l'unione dei suoi membri? Dall'obbligo che li lega. L'accordo è unanime sin qui. Ma qual'è il fondamento di quest'obbligo? Ecco il punto dove gli autori si dividono. Secondo gli uni, è la forza; secondo altri, l'autorità paterna; secondo altri, la volontà di Dio. Anch'io, insieme con la parte più sana di coloro che hanno discusso queste materie, ho posto come fondamento del corpo politico la convenzione dei suoi membri. Indipendentemente dalla sua verità, questo principio è superiore a tutti gli altri per la solidità del fondamento che pone; quale fondamento dell'obbligo fra gli uomini può essere difatti più sicuro del libero impegno di colui che l'obbliga? Si possono porre in discussione tutti gli altri principî, non questo. Ma, data questa condizione della libertà, che ne comprende altre, non tutte le sorta d'impegni sono validi, anche dinnanzi ai tribunali umani. Così per determinare questo, occorre spiegarne la natura, se ne deve trovare l'uso e lo scopo, si deve provare che conviene agli uomini e che non contrasta in nulla con le leggi naturali, non essendo difatti lecito di trasgredire le leggi naturali col contratto sociale, come non lo è di trasgredire le leggi positive con i contratti dei privati; e soltanto in virtù di queste leggi esiste la libertà che dà forza all'impegno. Traggo come conseguenza da questo esame che l'istituzione del contratto sociale è un patto d'una specie particolare, in virtù del quale ognuno s'impegna verso tutti; donde consegue l'impegno reciproco di tutti verso ognuno, che è l'oggetto immediato dell'unione. Dico che questo impegno è di una specie particolare per il fatto che essendo assoluto, senza condizione, senza riserva, non può essere tuttavia ingiusto né suscettibile di abuso, non essendo possibile che il corpo voglia nuocere a sé stesso, fino a che il tutto non vuole che per tutti. È altresì d'una specie particolare nel senso che lega i contraenti senza assoggettarli a nessuno, e che, dando loro per regola la loro sola volontà, li lascia non meno liberi di prima. La volontà di tutti è dunque l'ordine, la norma suprema; a questa norma generale e personificata dò il nome di sovrano. Ne consegue che la sovranità è indivisibile e inalienabile, e che risiede essenzialmente in tutti i membri del corpo. Ma in che modo agisce questo essere astratto e collettivo? Agisce per mezzo delle leggi, e non potrebbe agire diversamente. E che è mai una legge? È una dichiarazione pubblica e solenne della volontà generale su un oggetto di interesse comune. Dico su un oggetto d'interesse comune, perché la legge perderebbe la sua forza e cesserebbe d'essere legittima, se l'oggetto non importasse a tutti. La legge non può per la sua natura avere un oggetto particolare e individuale; l'applicazione della legge però concerne oggetti particolari e individuali. Il potere legislativo, che è il sovrano, ha dunque bisogno di un altro potere che eseguisca, vale a dire che attui la legge negli atti particolari. Questo secondo potere deve essere istituito in modo da eseguire sempre la legge, e soltanto la legge. Ecco l'istituzione del governo. Che cosa è il governo? È un corpo intermedio istituito fra i sudditi e il sovrano per la loro mutua corrispondenza, cui incombe di eseguire le leggi e di mantenere la libertà così civile come politica. Il governo, come parte integrante del corpo politico, partecipa della volontà generale che lo costituisce; in quanto esso stesso corpo ha la sua propria volontà. Queste due volontà talvolta si accordano e talvolta si combattono. Il funzionamento di tutta la macchina dipende dall'effetto combinato di questo concorso e di questo conflitto".

A prima vista pare che il R. continui a muoversi nel solco tracciato dai teorici precedenti della politica, dal Rinascimento in poi, e in particolar modo dai giusnaturalisti, intenti da un lato a svincolare il regno del diritto dalla tutela teocratica col fondare l'autonomia dello stato nella natura medesima dell'uomo, ma, dall'altro, a salvaguardare i "diritti naturali" dell'individuo dall'assolutistica onnipotenza del nuovo stato monarchico, il "Dio mortale" di Hobbes. Continuano a riecheggiare anche negli scritti del R. non pochi motivi polemici della pubblicistica giusnaturalistica, dalla quale egli accoglie anche gran parte della sua terminologia, ma il suo problema centrale è ormai molto più profondo scarsa consapevolezza della propria vera originalità, a determinare l'intrinseca natura spirituale dello stato ch'egli scopre nell'identificazione della libertà con la legge senza riuscire a liberarsi interamente dalla persuasione che lo stato sia alcunché di artificioso e innaturale.

Nella comunità statale, secondo il R., l'individuo rinuncia al suo sfrenato arbitrio, alla sua "indipendenza naturale", ma per farsi "persona", per conquistare la vera libertà, la quale consiste "nell'unione di tutti nella legge". Se da un lato il R. afferma in modo deciso che "rinunciare alla propria libertà significa rinunciare ad essere uomini" e ripudia come sofistiche e menzognere tutte le dottrine che vorrebbero comunque giustificare la rinuncia, nell'ambito politico, a codesta libertà, dall'altra parte non ripudia meno energicamente ogni polemica antistatale a salvaguardia dei "diritti individuali", poiché la libertà del singolo non si può instaurare fuori della legge. "Alla sola legge l'uomo è debitore della giustizia e della libertà; è quest'ordine della volontà di tutti che ristabilisce, nell'ordine del diritto, l'eguaglianza naturale fra gli uomini; questa voce divina determina per ogni cittadino le norme della ragione universale, gl'insegna a giudicare secondo le massime del proprio giudizio e a non cadere mai in contraddizioni con sé stesso".

Naturalmente soltanto un consapevole ripudio dell'intuizione individualistica e un adeguato concetto della profonda umanità dello stato, momento ineliminabile della realizzazione dell'io del singolo, avrebbe potuto porlo in grado di giustificare e svolgere sistematicamente il nuovo profondo punto di vista conquistato. La sua rimane invece una geniale intuizione che non riesce a costituirsi in saldo organismo di pensiero. Donde le continue oscillazioni e l'intrinseca contraddittorietà delle sue formulazioni teoretiche. Gli stessi termini ch'egli adopera, accettandoli in gran parte dalla tradizione giusnaturalistica, "stato di natura", "convenzione", "contratto sociale", sono oramai del tutto inadeguati a esprimere la nuova verità intravveduta e lo avvolgono in un groviglio di problemi, come nel Contrat social, insolubili e contrastanti. Ma, nonostante le molte apparenze in contrario, ha colto nel segno Hegel, quando ha affermato che "il principio della libertà è sorto con R. e ha dato all'uomo che si considerava infinito, quest'infinito vigore". (v. Pedagogia).

Difatti la commossa e religiosa ammirazione del R. per "la saintété du contrat social et des lois" suggellava, in una forma personalissima e paradossale, un fatto storico di grande significato, il tramonto nelle coscienze dell'ideale dell'assolutismo monarchico e preludeva al nascere dello stato di diritto e della nuova coscienza politica, che troverà i suoi teorizzatori in Kant e nei filosofi dell'idealismo postkantiano.

La pedagogia del Rousseau. - Analoga è la posizione del R. di fronte al problema educativo. Non è vero che il Contrat social si muova lungo una linea divergente dall'Émile (1762). Come nell'uno egli si sforza di cogliere l'intrinseca natura dello stato come realizzazione della libertà umana nella legge, nell'altro si sforza d'intendere l'educazione come processo di formazione autonoma della personalità. Le incoerenze dell'Èmile nascono da quegli stessi presupposti naturalistici e individualistici che valgono a spiegare le incoerenze del contrat social.

L'educazione, secondo l'Émile, deve favorire lo spontaneo processo con cui l'individuo deve giungere "a vedere coi proprî occhi, a sentire col suo cuore, a non essere governato da nessuna autorità che non sia la sua propria ragione". E finché i poteri dello spirito non sono formati, l'educatore si deve limitare ad attendere, la sua opera dev'essere "negativa", unicamente rivolta a eliminare gli ostacoli. Egli potrà intervenire soltanto quando sarà possibile fare appello alle forze giunte a maturità. Ma anche allora il maestro deve essere "ministro" non nemico della natura.

Ogni età, dice il R., ha la sua perfezione, la sua maturità. "La natura vuole che i ragazzi siano ragazzi prima di essere uomini". Occorre dunque lasciare che "l'infanzia maturi nell'infanzia". In che modo? Abbiamo veduto, con l'impedire "che nulla sia fatto". Il corpo si preserva non intervenendo a sproposito, non ostacolando "l'impulso delle parti interne". Lo stesso si deve ripetere per lo spirito.

Noi nasciamo ignoranti, ma capaci di apprendere. Dobbiamo anzitutto imparare ad apprendere. "L'esperienza previene le lezioni". Se fosse possibile rappresentarci un uomo che nasca già fatto, lo dovremmo immaginare come un automa privo di qualsiasi personalità. "Non vedrebbe nulla, non capirebbe nulla, non conoscerebbe nessuno". "I colori non sarebbero nei suoi occhi, i suoni non sarebbero nei suoi orecchi, i corpi che toccherebbe non sarebbero nel suo, ignorerebbe persino di possederne uno". Non ostacolate l'irrequieta attività dei primi anni. "È un tirocinio indispensabile". Lasciate che la vita dei sensi si esplichi in tutto il suo rigoglio. I nostri primi maestri di filosofia sono i nostri piedi, le nostre mani, i nostri occhi. Solo a questo patto il bimbo può costruire il mondo della sua esperienza e procurarsi i primi materiali, che verranno poi elaborati e ordinati più tardi. E non temiamo che in questa libertà egli si danneggi. Quando ciò avviene, la colpa è nostra.

Noi ci dobbiamo limitare a venire in suo soccorso quando le sue forze sono insufficienti, ma senza oltrepassare i limiti dei suoi bisogni fisici. Finché è tutto senso, tutte le sue idee debbono limitarsi alle sensazioni. Non dobbiamo concedere nulla alla fantasia, che non deve essere ancora nata, come non dobbiamo ancora ragionare con chi la ragione non possiede ancora. Destare troppo per tempo questa ragione, come vorrebbe Locke, significa comprometterla irrimediabilmente per l'avvenire.

Per la medesima ragione non dobbiamo intervenire nel processo del linguaggio. Anch'esso è una conquista spontanea e personale. Il bimbo segue nel parlare un processo interiore che è vano tentare di accelerare con mezzi estrinseci. È pedanteria insopportabile e cura fra le più superflue il pretendere di correggere nei fanciulli tutti i piccoli sbagli contro l'uso, ch'essi finiscono sempre col correggere da sé col tempo". Lasciateli parlare e parlate chiaramente e correttamente con loro. Il resto seguirà da sé.

Anche il problema della disciplina deve essere risolto muovendo dal medesimo punto di vista.

Il bimbo deve piegarsi al duro giogo della necessità, non ai nostri ragionamenti, dipendere dalle cose, non da noi. Trattate il vostro alunno conforme all'età sua, mettetelo a suo posto e tenetevelo bene, in modo che non tenti più di uscirne. Allora, prima di sapere che sia saggezza, ne porrà in pratica la più importante lezione. Non comandategli mai nulla, assolutamente nulla. Non lasciate neppure supporre che pretendete avere qualche superiorità su di lui. Sappia soltanto ch'egli è debole e che voi siete forte: che la sua condizione e la vostra lo pongono necessariamente alla mercé vostra: lo sappia, lo impari, lo senta. Senta per tempo sul suo capo altero il duro giogo che la natura impone all'uomo, il pesante giogo della necessità, sotto di che ogni essere deve piegare: veda questa necessità nelle cose, mai nel capriccio degli uomini; il freno che lo trattiene sia la forza, non l'autorità.

Ai suoi capricci, alle sue indiscrete richieste opponete puramente ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni medesime e di cui conservi memoria: non occorre imporgli di non fare il male; basta impedirglielo. Sole sue leggi siano l'esperienza e l'impotenza. I divieti e i comandi implicano un concetto del dovere e nel suo mondo questo concetto non è per anco nato. Chi inizia prematuramente l'innocente alla conoscenza del bene e del male si assume la funzione di tentatore. Bisogna evitare al possibile di usare parole che esprimano relazioni sociali o morali, quando non si è ancora formato nel bimbo il concetto corrispondente, per evitare ch'egli attribuisca a queste parole un falso significato che poi non si cancellerà più dalla mente. La prima idea falsa che entra nel suo cervello è il germe dell'errore e del vizio. "Ogni ragazzo che crede in Dio è necessariamente idolatra, o almeno antropomorfo; e quando l'immaginazione ha veduto una volta Dio, è ben raro che l'intelletto lo concepisca".

Per le medesime ragioni il R. è indotto a esaltare "l'arte di essere ignorante". Può darsi benissimo che alla fine dell'infanzia Emilio ignori molte più cose che non paia lecito di solito. Non conta. "Avrà imparato a pensare con la sua testa e ad osservare con i suoi occhi". Le sue idee sono limitate, ma chiare; non sa nulla a memoria, ma sa molto per esperienza; leggerà molto meno bene di un altro ragazzo nei nostri libri, ma leggerà meglio in quello della natura; la sua intelligenza non è già nella sua lingua, ma nella sua testa; ha meno memoria che giudizio; non sa parlare che una sola lingua, ma sa quel che dice; e se dice meno bene degli altri, opera però meglio di loro". Ecco perché la vera e propria istruzione deve cominciare tardi, non prima dei dodici o tredici anni, quando comincia a destarsi la curiosità sul mondo circostante e le forze si sviluppano più celermente dei bisogni. È un periodo di rigoglio intellettuale e di calma spirituale singolarmente propizio all'apprendere, ché le passioni sono ancora assopite. E occorre trarne accortamente tutti i benefici possibili, poichè è di corta durata. Tutte le sue forze debbono essere raccolte sull'essenziale. Occorre dare il bando alle nozioni inutili, alle false e a quelle che alimentano soltanto l'orgoglio. "Non si tratta già di sapere quello che è, ma quello che è utile". Lo svegliarsi delle forze induce il ragazzo a spaziare in più ampî orizzonti, a indagare tutto il mondo circostante, sebbene anche allora, s'egli non è stato corrotto dalla falsa educazione, il suo interesse non oltrepassi mai l'ambito dei suoi occhi. I fenomeni della natura sono allora il più adatto alimento della sua mente. La curiosità non si coltiva però con soluzioni, ma con indagini. Emilio non deve apprendere la scienza, ma inventarla. Quello che conta è il metodo, l'attività della mente, non già i risultati.

"A che serve? Ecco oramai la parola sacra, la parola determinante, fra lui e me in tutte le azioni della vita". Finché il mondo delle relazioni sociali è ancora un mistero per lui, finché la sua curiosità si limita al mondo fisico, dobbiamo limitarci a iniziarlo alla conoscenza della natura e dei lavori degli uomini solo in quanto hanno un rapporto diretto e sensibile con la sua utilità e il suo benessere. Anche in questo periodo dobbiamo limitarci all'essenziale. La quantità non conta. Non conta già il sapere enciclopedico, ma la capacità di giudicare. "Ma facendogli passare davanti tutti gli oggetti che gl'importa conoscere, lo mettiamo in grado di svolgere il suo gusto, il suo talento, di fare i primi passi verso l'oggetto cui lo porta la sua inclinazione, e d'indicarci la via che dobbiamo aprirgli per secondare la sua natura". L'acquisto maggiore di questo periodo dovrà essere non già la scienza, ma il modo di procurarsela. Come da bimbo aveva imparato a sentire ora imparerò a pensare. "Ha una mente universale non già in virtù dei lumi, ma in virtù della facoltà di acquistarne: una mente aperta, intelligente, accessibile a tutto, e, come afferma Montaigne, se non istruito è istruibile. Mi basta che sappia trovare l'"a che serve" per tutto quello che fa, e il "perché" di tutto ciò che crede. Ancora una volta io non mi propongo di dare la scienza, ma d'insegnargli ad acquistarla al bisogno, di fare in modo che l'apprezzi esattamente per quel che vale, e di fargli amare la verità sopra tutto".

Ma l'attività spirituale dell'uomo non si esaurisce tutta nella conoscenza fisica e naturale. A un certo momento del suo svolgimento germoglia spontaneamente anche ciò che vi è di più propriamente umano nell'adolescente, il mondo del sentimento, della moralità e della religione.

La via a questo mondo è aperta dalle passioni, che si scatenano impetuose nell'età pubere. È questa la seconda nascita, anzi la vera nascita della vita spirituale. Ora spetta al maestro d'iniziare Emilio ai più alti valori umani. Ormai questi è in grado d'intenderne il significato. Prima sarebbe stato tempo sprecato o stoltezza. Contro ogni forma di ascetismo il R. proclama che le passioni sono i principali strumenti della nostra conservazione. Chi pretende sradicarle pretende riformare l'opera di Dio o della natura. Non dobbiamo già comprimere o sradicarle, ma porle semplicemente in condizione di sbocciare e di fiorire quando è giunto il momento del loro naturale risveglio. Eccitate prematuramente comprometterebbero invece tutta l'opera dell'educazione.

Sui problemi del sesso la luce deve essere fatta dalla natura e non dagli uomini. "Quando si avvicina l'età critica offrite agli adolescenti spettacoli che li trattengano e non già spettacoli che li eccitino".

Le passioni destano la coscienza, ci traggono fuori dal nostro isolamento egoistico e ci affratellano con gli altri. Finora, se l'educazione è stata davvero naturale, egli si deve essere sentito solo. Conosceva i soli legami dell'abitudine. Amava sua sorella come un orologio, l'amico come un cane. Non sentiva di far parte di nessun sesso e di nessuna specie. Uomo e donna gli erano parimenti estranei. Non lo interessavano né i loro discorsi né i loro esempî. Ora tutto cambia. La natura lo ha svegliato. Pullulano le passioni dal fondo del suo essere: la vita assume un aspetto morale. Dalle passioni nascono l'amicizia, l'amore, la riconoscenza. Soltanto ora cominciano ad acquistare un valore per lui la lode e il biasimo. Finora l'individuo, essendo rimasto tutto chiuso in sé, possedeva i soli sentimenti inerenti alla sua conservazione: l'amore di sé, la paura del dolore, l'orrore della morte, il desiderio del benessere. Col destarsi in lui dell'essere sociale, prendono a fiorire altri sentimenti non meno spontanei e naturali, da cui si svolgono poi i concetti del bene e del male. Sono questi sentimenti che stanno a fondamento della società. Il puro bisogno fisico disperde gli uomini anziché accomunarli. Dal sistema morale formato dal doppio rapporto a sé medesimo ed ai Proprî simili nasce l'impulso della coscienza. Conoscere il bene non è ancora amarlo: l'uomo non ne possiede la conoscenza innata, ma appena la sua ragione glielo rivela, la sua coscienza lo induce ad amarlo: questo sentimento è innato.

La vita morale ha la sua radice appunto in questa capacità di uscire da sé. "Il buono si ordina in relazione al tutto... il cattivo ordina tutto in relazione a sé stesso. Quest'ultimo si fa centro di tutte le cose: l'altro misura il proprio raggio e si tiene alla circonferenza".

I sentimenti che ci legano agli altri uomini hanno la loro radice nella pietà. Siamo uniti per interesse dai nostri bisogni comuni, ci uniscono invece per affetto le nostre comuni miserie, le infermità della nostra povera umanità dolorante.

Il miglior modo di stimolare e nutrire questa sensibilità nascente, per dirigerla e favorirne il naturale impulso, è offrire ai giovani occasioni e oggetti che li traggano dal loro isolamento egoistico e li pongano in grado di versare la piena del loro cuore. E l'oggetto più appropriato è l'uomo e non il mondo. Mostrare a Emilio "il mondo prima che conosca l'uomo, non è formarlo, è corromperlo". Il mondo lo inizierebbe artificialmente e prematuramente all'orgoglio, alla vanità, all'invidia. La conoscenza dell'uomo invece lo rende umano, gli suscita nell'animo la bontà, la commiserazione, passioni che legano gli uomini fra di loro e non li eccitano l'un contro l'altro, come le passioni eccitate dal mondo. Ma anche in questo delicatissimo momento dell'educazione occorre seguire il cammino della natura. Non gli parleremo troppo presto "dell'idea astratta dell'umanità". Prima deve imparare a conoscere l'umanità nell'uomo concreto. Deve imparare a partecipare ai sentimenti di coloro che gli sono più vicini. Solo più tardi da queste prime esperienze personali, dopo molte riflessioni su di sé e su coloro che lo circondano potrà sollevarsi a intendere che significhi amor del prossimo e amor dell'umanità. Ma anche qui l'azione dovrà precedere la parola. Le lezioni dei giovani debbono essere "in azioni piuttosto che in discorsi".

Al culmine dello svolgimento spirituale si desta finalmente l'esigenza religiosa. Soltanto ora egli potrà capire che sia Dio senza antropomorfizzarlo o cadere nell'idolatria. Come i popoli primitivi, anch'egli, generalizzando sempre maggiormente le sue idee, si è posto in grado di risalire alla causa prima, di raccogliere in unica idea sintetica il sistema totale degli esseri, di dare un significato alla parola "sostanza", che è in fondo la massima delle astrazioni. Il mondo sensibile s'è tutto spiritualizzato e la voce di Dio parla non solo nell'intimo della coscienza ma da tutte le creature naturali. È il momento in cui nell'Émile interviene il vicario savoiardo con la sua famosa "Professione di fede", che è piuttosto l'enunciazione di un credo filosofico, che non di una religione storicamente determinata. Una religione che non può parlare che alla ragione tutta spiegata non può essere difatti che una filosofia.

L'Émile del R. dà inizio alla considerazione propriamente moderna dei problema educativo. Il soggetto, la persona diventano il perno di tutte le dottrine pedagogiche. Non soltanto Kant, Fichte, Pestalozzi, Froebel, i romantici, ma tutti i pensatori che, dopo di lui, hanno rivolto la loro riflessione al problema della formazione dell'uomo, muovono da lui. Le più originali istituzioni pedagogiche dei secoli XIX e XX traggono origine e impulso dal su0 pensiero. Nonostante questo trionfo quasi senza confronti nella storia del pensiero, il processo dell'autoformazione della personalità è piuttosto proclamato e descritto empiricamente che giustificato in modo adeguato nell'Émile. In sostanza il processo è campato nel vuoto. Come il suo stato, che dovrebbe instaurare nella legge la libertà del cittadino, finisce con l'assoggettarlo a un opprimente dispotismo, il suo metodo educativo, unicamente rivolto a promuovere l'autodeterminazione nell'educando, degenera in un pedantesco meccanismo conculcatore delle più sacre e vitali esigenze spirituali dell'infanzia e dell'adolescenza. Il dissidio immanente nella posizione del R. poteva essere risolto soltanto da un approfondimento del concetto di persona che superasse definitivamente l'individualismo e naturalismo del ginevrino.

Questa soluzione, come è saputo, fu avviata da Kant.

Il musicista. - Il R., a parte le lezioni che gli fece dare M. me de Warens nel 1729, da un maestro di cappella di Annecy, detto Le Maître, imparò la musica quando gli capitava durante i suoi viaggi, e senza metodo. Egli stesso confessa che ignorava tutto di quest'arte quando cominciò a dare lezioni di musica per guadagnarsi il pane. Questa sua presunzione gli valse più d'una umiliazione, ma gli diede familiarità con la pratica. Tornato da M. me de Warens, fu l'anima delle piccole serate musicali tenute in casa di lei. Si stabilì tosto a Chambéry come maestro di canto e, per parecchi anni, la musica costituì la sua principale occupazione. Il R. si sforzò di assimilare le lezioni del Traité d'harmonie (Parigi 1722) di J.-B. Rameau e si dedicò alla composizione. Il 22 agosto 1742 presentò all'Académie des Sciences di Parigi il suo Projet concernant de nouveaux signes pour la musique, e pubblicò una Dissertation sur la musique moderne, che fu la sua prima opera stampata. Poi cominciò a lavorare all'opera-balletto Muses galantes. A Venezia (1743-44), dove aveva seguito il conte di Montaigu, s'innamorò dell'opera italiana. Sono di quest'epoca quelle ariette che dovevano trovare posto nel Devin du village e nelle Consolations des misères de ma vie, ariette di un costrutto melodico italianissimo. Nel 1745, terminò le Muses galantes: il Rameau che ne udì qualche frammento pretese di non vedere nell'autore "che un piccolo plagiario senza talento e senza gusto". Allora si cominciò ad accusare il R. di rubare agl'Italiani tutto ciò che nelle sue opere c'era di buono, e non si riconoscevano come suoi che i passaggi veramente mediocri. Dal 1748, impegnato nell'impresa dell'Encyclopédie, lavorò alla redazione del Dictionnaire de musique che terminò e rimaneggiò negli ultimi anni della sua vita.

Nel 1752, in casa del suo amico Mussard a Passy, compose in una settimana il Devin du village, che si può considerare come la prima opera comica francese. Rappresentata il 18 ottobre 1752, questa graziosa operetta, che sembrava far eco agl'intermezzi dei buffoni napoletani che si presentavano allora a Parigi, ebbe un successo notevole. La carriera musicale del R. cessa a questo punto; tuttavia, egli non abbandonò completamente la musica: per molto tempo ancora fece il copista (trascrittore) e partecipò alle polemiche suscitate dalla guerra delle due musiche.

Nella sua Lettre sur la musique française, fece l'apologia della musica italiana concludendo che "i Francesi non hanno musica e non possono averne, o se ne avranno una sarà tanto peggio per loro". Nella Nouvelle Héloïse riprese con non minore slancio il processo dell'opera francese.

Nel 1770, immaginò lo scenario della pantomima Pigmalion, ma rinunciò a musicarla, ad eccezione di due piccoli pezzi. Negli ultimi anni della sua vita ritornò alla musica: scrisse 6 nuove arie per il Devin du village e morì qualche giorno dopo aver terminata la Romance du saule. Il valore musicale delle opere del R. è scarso; ma vi si riscontrano doni reali, e si può tener per equo il giudizio del Grétry: "Ho esaminato la musica del Devin du village... ho notato dappertutto l'artista poco esperto al quale le regole dell'arte sono rivelate dal sentimento".

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