RENAN, Joseph-Ernest

Enciclopedia Italiana (1936)

RENAN, Joseph-Ernest

Alberto Pincherle

Nacque il 27 febbraio 1823, a Tréguier in Bretagna, da un capitano marittimo, Philibert, che lo lasciò orfano in età di 5 anni; sicché crebbe sotto l'influsso della madre, guascona d'origine, donna di limitatissima cultura ma d'ingegno vivace e spontaneo, e più ancora della sorella maggiore, Henriette (nata nel 1811), dotata di singolare fermezza di carattere. Alla diversa origine etnica dei genitori il R., obbedendo a correnti culturali del suo tempo, attribuì certa diversità, anzi contrasto, di tendenze che egli stesso avvertiva in sé; dissidio, onde "una delle mie metà doveva essere occupata a demolire l'altra". Messo nel collegio ecclesiastico della città natale, e destinato al sacerdozio, passò nel 1838 a Parigi, nel seminario minore di Saint-Nicolas-du-Chardonnet, allora diretto dal Dupanloup; e, dopo tre anni, nella casa d'Issy dove intraprese il corso degli studî superiori, incominciando con la filosofia. E qui, a contatto con l'insegnamento allora corrente, fondato non sulla scolastica ma su un cartesianismo che per voler essere mitigato e rispettoso del dogma non era meno in sostanziale contrastro con i presupposti fondamentali della dottrina cattolica, incominciò la sua crisi spirituale; che si aggravò poi ancora quando, nel seminario maggiore di Saint-Sulpice a Parigi, il R. si dedicò allo studio dell'ebraico e di altre lingue semitiche, insegnategli dal "dotto e santo" Le Hir e, nel Collège de France, da É.-M. Quatremère: e incominciò a conoscere la critica biblica e la filologia del romanticismo tedesco, che vennero a scuotere sempre di più la sua fede, ad avviare il suo pensiero verso le concezioni del romanticismo e dell'idealismo. La crisi fu senza dubbio molto complessa e procurò al R. vivissime angosce: ma fin dal principio la filosofia gli parve soprattutto un mondo d'ipotesi, ragionevoli senza dubbio e prossime alla verità, ma infine ipotesi; e il merito maggiore della filosofia fu per lui quello di liberare la mente dai pregiudizî. Già nel settembre 1842 il R. esterna la sua simpatia per Kant e in genere per i filosofi tedeschi, con i quali, nel febbraio 1845, dice di sentirsi in piena armonia; a quest'ora, egli era già venuto a conoscenza degli studî di linguistica comparata, e si compiaceva che la conoscenza dell'ebraico lo aiutasse a scoprire le leggi della scienza del linguaggio (ebraico e sanscrito, lingue primitive) e a rintracciare nella Bibbia - soprattutto nei Salmi - i primi balbettamenti e i primi canti dell'umanità nella sua "infanzia"; nel dicembre di quello stesso anno, egli riconosce che la storia e la storia letteraria, come vengono concepite, per es., dagli Schlegel, sono già filosofia.

Ma la crisi fu dolorosa anche per altri motivi, d'indole psicologica, affettiva e anche pratica. Fin dall'inizio di essa sembrò al R. di poter rimanere prete per trovare nel sacerdozio, pure riconoscendo tutti gl'inconvenienti ch'esso presentava per lui, quel genere di vita ritirata e tranquilla, tutta dedita allo studio e alla meditazione, che sola gli sembrava adatta a lui e degna di essere vissuta. Del resto, gli bastava godere della sua libertà intima - con i suoi Tedeschi egli scorgeva in questa il più gran dono fatto dalla Provvidenza all'uomo, cui nulla può toglierlo - e si sentiva capace di tacere, quando fosse stato necessario. Ma a poco a poco egli si sente sempre più attratto verso la carriera degli studî e dell'insegnamento universitario. Tuttavia, nonostante gl'incoraggiamenti della sorella, che gli scriveva dalla Polonia, dove si trovava presso la famiglia del conte Andrea Zamoyski, egli esitava ancora. Temeva di dare un dolore insopportabile a sua madre; sopra tutto gli costava enormemente di prendere una decisione netta e irrevocabile: decisione, parola terribile per lui. Così, quando riconosce con chiarezza ch'egli non ha più la fede necessaria al sacerdozio; che il cristianesimo non gli appare più come la verità assoluta (ma neppure come una menzogna, ché questa non può produrre frutti così belli; benché ci sia nel cattolicismo tutta una "mitologia" che non regge alla critica), il R. si limita a "rifiutare la promozione al suddiaconato per quest'anno". Ma intanto constata che così può rímanere in seminario (e senza scrupoli: non si tratta che di una dilazione) a continuarvi gli studî e informarsi sulle possibilità di una carriera nel mondo degli studî laici. E poi, si capisce bene che non sarà mai il R. a prendere l'iniziativa di una rottura clamorosa, a compiere un atto che possa in qualche modo dare scandalo. Così egli esce da Saint-Sulpice, nell'ottobre del 1845, "degnamente e gravemente", apparentemente in buona armonia con i superiori, che sperano forse ancora di non perdere del tutto l'allievo così promettente, del resto già da tempo riconosciuto inadatto al ministero parrocchiale e destinato, nelle loro intenzioni, all'insegnamento. E il R. entrò dapprima in un'istituzione universitaria ma di carattere ecclesiastico, il Collège Stanislas, alla cui testa era A.-A. Gratry. A lui questa pareva "un'ammirevole transizione". Ma, sentendosi colà considerato ancora come destinato al sacerdozio, ne uscì dopo sole tre settimane, per entrare come ripetitore, ma con molto tempo libero, in un convitto privato. Sua madre, preparata a poco a poco, ne soffrì assai meno ch'egli non avesse immaginato.

I primi tempi della nuova vita furono duri. Ma continuò con fervore gli studî, riuscì primo, nel settembre 1848, nel concorso ad agrégé, per la filosofia, ottenendo ruccessivamente dall'Institut due premî, nel 1847 il premio Volney per un primo saggio sulle lingue semitiche e nello stesso 1848 un altro per le Recherches sur l'enseignement du grec au moyen âge. Intanto preparava il dottorato e collaborava a periodici (soprattutto La liberté de penser); poco dopo otteneva di essere inviato, con C. Daremberg, in missione scientifica in Italia, dove rimase parecchi mesi, lavorando in biblioteche, concependo a Montecassino affettuosa ammirazione per L. Tosti, aprendo soprattutto l'animo alle impressioni estetiche e d'ambiente, mentre raccoglieva il materiale per la tesi (11 agosto 1852) su Averroès et l'averroïsme ("ce sera l'histoire de l'incrédulité au moyen âge... le caractère indévot et profane de Florence frappe au premier coup d'oeil", Corresp. R.-Berthelot, p. 109). In Italia, soddisfece anche qualche richiesta di studiosi illustri con i quali era entrato in relazione, da V. Cousin a J. Michelet; e già dà tempo aveva inviato suoi scritti in omaggio, riconoscendo in lui uno dei suoi maestri, ad A. von Humboldt. Fino dal novembre 1845 aveva contratto l'amicizia, che durò tutta la vita, con M. Berthelot, che con la conoscenza dei progressi delle scienze esatte gli aperse nuovi orizzonti (se ne ritrova l'influsso nell'entusiasmo per la scienza e per il progresso dell'Avenir de la science, scritto nel 1848, ma pubblicato nel 1890). Nel 1851 J.-B. Hauréau gli procurò un posto nella Bibliothèque nationale, dove poi conobbe M. Amari.

Ormai il giovine filologo cominciava ad attirare su di sé l'attenzione. Era più che mai preso dal fervore romantico, dalla passione per il "primitivo", per le "origini": tipica espressione di questo indirizzo, che lo riavvicina spiritualmente all'estetismo dei romantici francesi, le due opere di linguistica: Histoire générale des langues sémitiques (1855; 4ª ed., 1864), e De l'origine du langage, la breve memoria del 1848, rifatta e ampliata nella seconda edizione, del 1858 (4ª ed., 1864). Notevole in queste opere, con le tesi fondamentali più strettamente linguistiche e non troppo diverse da quelle correnti nella filologia e nella linguistica del suo tempo; la tendenza abbastanza accentuata a scorgere nella lingua l'espressione della spiritualità d'una razza e ad accostare alla lingua la letteratura e la mitologia; donde la simpatia, pur cautelosa, del R. per il Gobineau e il famoso contrasto tra gli Arî tendenti al naturalismo, alla mitologia, all'arte, alla filosofia, alla scienza, e i Semiti, destinati a dare al mondo "il monoteismo nella sua arida e grandiosa semplicità". Ma la teoria delle razze subisce un'importante modificazione: più che la massa del popolo, importano le élites: come gli Arî, così anche i Semiti nomadi, cioè i più autentici Semiti, sono stati soltanto una minoranza aristocratica. È notevole, da parte del R. che non riconobbe il carattere semitico delle iscrizioni assiro-babilonesi, l'intuizione del substrato non semitico della popolazione della Babilonia; ma, infinitamente di più, che si ritrovi anche qui un'eco delle sue convinzioni politiche essenzialmente antidemocratiche, di uomo che apprezza più che ogni altra cosa ciò che non è utile, la cultura e più ancora l'erudizione; che vorrebbe affidare il governo del mondo ai dotti; che scrive "pour le petit nombre d'élus à qui Dieu a départi le don de tout comprendre et par conséquent le droit de tout juger" (Correspondance, I, p. 104). È facile ritrovare in questa e in simili espressioni la "HHHaine" (come si sfogava a scrivere G. Flaubert) del "bourgeois" e si comprende che il R. sentisse una volta il bisogno di stroncare, anche lui, il detestato Béranger. È facile altresì il ricondurre l'orrore per l'utile alla passione per il primitivo, ingenuo, spontaneo (onde le tesi dell'organicità delle famiglie linguistiche e della loro irridilcibilitȧ, nonché della corruzione delle lingue nel loro sviluppo), che contiene in germe tutto il divenire successivo: quel divenire, che è il centro della fede filosofica del R. o, meglio, della fede del R. nella filosofia. La quale è, soprattutto, cultura, ricerca, avversione ai dogmi e ai preconcetti di cui si pasce il borghese; e ha sostituito il concetto di divenire a quello di essere, onde l'uomo di mente elevata e di dottrina superiore riesce sempre a scorgere il valore delle tesi contrastanti ("Qui sait si la finesse d'esprit ne consiste pas à s'abstenir de conclure?", nella prefazione all'Averroès), può mantenere la sua serena imperturbabilità nella fiducia, anzi certezza, di una riconciliazione, quando che sia, fra le tesi più contrastanti (Cabanis e Gall con Cousin e Hegel, cioè la scienza materialista con la filosofia spiritualista) epperò non tenta di imporre la propria opinione né di schiacciare le altre. Liberalismo: ma un liberalismo che riserva la libertà ai pochi degni, in attesa d'illuminare maggiormente il popolo, e che intanto è antidemocratico e respinge il suffragio universale; un liberalismo, per cui forma ideale di governo è la monarchia costituzionale con una camera alta costituita in base a una rappresentanza d'interessi, funzioni e attitudini, sì da correggere l'uniformità del sistema elettivo; un liberalismo, che risponde magnificamente all'indole del R. ("J'ai horreur du prosélytisme..."; Corresp., I, p. 286).

Così si capisce come, dopo essere stato anch'egli tra gli oppositori al colpo di stato, il R. a poco a poco si riaccostasse all'Impero, attratto nel circolo del principe Napoleone, della principessa Matilde e di Giulia di Roccagiovine; soprattutto, poi, all'Impero liberale, ultima fase di Napoleone III. Intanto aveva, nel 1856, sposato Cornélie, nipote di Ary Scheffer (n'ebbe due figli: Ary, 1857-1900, pittore e poeta: Rêves d'artiste, 1901; e Noémi, poi sposa di J. Psichari e madre di Ernest e Michel) ed era entrato, nel dicembre dello stesso anno, all'Académie des inscriptions, come successore di A. Thierry. Nel 1860 ottenne di compiere una missione archeologica, per ricercare antichità fenicie, nella Siria; e lì, nel paesaggio palestinese ch'era per lui "il Quinto Vangelo", sentì di poter cogliere sempre più la "personalità eminente" di Gesù; e scrisse, iniziando così la realizzazione d'un progetto adombrato già nel 1845 con l'Essai psychologique sur Jésus-Christ (pubblicato postumo, nel 1921) e con più viva consapevolezza nell'Avenir de la science, quella Vie de Jésus destinata fin dall'origine a essere il primo volume d'una complessa Histoire des origines du Christianisme, già avviata a concretarsi nell'ottobre 1860 (sempre le origini; ma qui il motivo ideale e generico già accennato si ricongiungeva ad un altro, più specificamente proprio, nella storia del cristianesimo, a tutti i novatori o almeno agl'insoddisfatti e ai critici della Chiesa).

Il libro, dedicato a Enrichetta che aveva accompagnato il fratello in Siria ed era morta presso Biblo il 24 settembre 1861, apparve nel 1863, in un momento nel quale il R. aveva attirato su di sé l'attenzione del pubblico. Nominato, infatti, nel gennaio 1862, e nonostante la viva opposizione del mondo ecclesiastico, successore del Quatremère alla cattedra d'ebraico nel Collège de France (posto da lui ambito già nel 1857), il R. vi tenne la sua prolusione (De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation) il 12 febbraio e in essa mostrò di non credere nella divinità di Gesù. In seguito a manifestazioni studentesche, il corso venne sospeso, con un decreto del 26; si parlò per qualche tempo di una ripresa, poi venne offerto al R. un posto elevato alla Bibliothèque Nationale, ch'egli rifiutò; pertanto fu destituito, nel giugno 1864, e continuò in casa l'insegnamento iniziato. Perciò la Vie de Jésus fu pubblicata in mezzo alle polemiche: intorno alla persona del R., e tra il cattolicismo liberale e l'"ultramontano", e sulla questione romana, in un momento anche politicamente difficile.

Ebbe un successo enorme (13 edizioni tra il 1863 e il 1867; più di 60 fino al 1920; oltre all'edizione popolare, del 1864, di cui si contano 130 ristampe al 1921 e traduzioni in tutte le lingue), pari del resto a quello delle numerosissime confutazioni, cattoliche e protestanti. A parte le accuse che gli venivano per la negazione dei miracoli e della divinità di Gesù Cristo, la "giovine scuola" protestante di Strasburgo (É. Reuss, T. Colani, ecc.) rimprovero al R. di aver posto a base della sua ricostruzione storica il Gesù del Quarto Vangelo pur respingendo i miracoli che sono parte integrante di quella raffigurazione, e sentì da tanto scalpore compromessa la sua silenziosa e prudente opera di rinnovamento; al SainteBeuve e all'Havet il libro piacque; meno al Flaubert. In realtà, non si può rimproverare al R. scarsa conoscenza della critica contemporanea, benché il suo atteggiamento verso le fonti sia in generale conservatore; ma egli si propose soprattutto di presentare personaggi vivi anziché "pâles fantômes sans vie... passés à l'état abstrait et complètement typifiés (Corresp. R.-Berthelot, p. 284); di narrare e ricostruire, riservandosi espressamente il diritto di fare delle ipotesi: e nel racconto, come nel rendere l'ambiente, il paesaggio, il "profumo" del paese di Gesù egli è riuscito mirabilmente. Ciò non può far chiudere gli occhi al critico moderno sulle reali debolezze dell'opera, su certe intime contraddizioni, soprattutto sulla raffigurazione tutta idilliaco-pastorale, per cui Gesù traversa la Palestina "au milieu d'une fête perpétuelle" seguito da una "bande de joyeux enfants": scugnizzi napoletani delle vedute romantiche ma travestiti da pastori d'una arcadia palestinese. È stato detto addirittura che ci troviamo di fronte ad "arte cristiana nel peggior senso della parola, arte delle statuette di cera"; che "il dolce Gesù, le belle Marie e le leggiadre fanciulle di Galilea che formano il corteo dello charmant maestro" sono state tratte di peso dalle vetrine dei negozianti d'oggetti di pietà della Place Saint-Sulpice (A. Schweitzer). È piuttosto il caso di pensare alla pittura di Ary Scheffer, al Jésus au jardin des Oliviers, al Saint Augustin, che al R. piacquero. E precisamente sotto l'influsso di lui e al contatto degli ambienti artistici e letterarî si completò l'evoluzione del R. da linguista ed erudito a storico e narratore, e la sua educazione artistica, iniziatasi in Italia. Per di più, quel giudizio non considera abbastanza che quest'arte delle figurine di cera e di cartapesta, come le raffigurazioni idilliache di Gesù che signoreggiarono nella letteratura (anche il Carducci si compiacque di dedicare una quartina alla "gentil virtù" del "giovin messia del popolo" tra le "città cinte d'ulivi") sono in gran parte derivate dal R., che non aveva bisogno di prendere in nessun luogo una raffigurazione rispondente appieno al suo temperamento, tutt'altro che rigido; e che lo portò sempre a considerare non senza simpatia e nostalgia, per quel tanto di religiosità un po' vaga rimasta viva in lui, le manifestazioni di quella devozione tenera e dolce a cui era stato educato nei suoi primi anni.

Seguirono Les Apòtres (1866), Saint Paul (1869, voll. 2), L'Anitéchrist (1873), Les évangiles et la seconde génération chrétienne (1877), L'église chrétienne (1879), Marc-Aurèle et la fin du monde antique (1881), in generale più forti, criticamente e storicamente (soprattutto l'ultimo, dove nell'imperiale filosofo, severo verso di sé e benevolo con gli altri, d'un'indulgenza tra rassegnata e scettica, d'una religiosità che esclude il soprannaturale, il R. ritrovò sé stesso; meno quello su S. Paolo, missionario e teologo per cui il R. non provò alcuna simpatia). Ma anche in essi prevalgono la passione e l'attitudine dell'autore per la narrazione e la descrizione, e per l'indagine psicologica, sulla considerazione dei problemi più veramente e intimamente storici. Appunto per conoscere meglio i luoghi e per poter "visualizzare" le scene storiche ("J'ai bien fixé mon horizon de la conversion de saint Paul. Cela se passe dans une vaste plaine cultivée, très habitée, peut-être même au milieu des jardins", 21 gennaio 1865: Corresp. R.-Berthelot, p. 329), il R. compì nel 1864 e nel 1865 quei viaggi nell'Egitto e nell'Asia Minore, a Costantinopoli e nella Grecia, ove egli "barbaro del Nord", ebbe la rivelazione del "miracolo greco" nel Partenone (cfr. la famosa Prière sur l'Acropole, pubblicata nel 1876 e poi nei Souvenirs; ma è da segnalare a questo proposito la consonanza con la contrapposizione tra Greci e Semiti, uno dei Leitmotive ideali del R., e una certa affinità con la concezione della filologia romantica tedesca, che metteva in contrasto la Grecia e Roma). Attendeva in pari tempo, dirigendola, alla preparazione del grande Corpus Inscriptionum Semiticarum, per conto dell'Académie des inscriptions (1881 segg.); e si presentò candidato a Meaux, per le elezioni del 1869.

Altro viaggio compì il R. nell'estate del 1870, con il principe Napoleone, sulle coste della Scozia e della Norvegia, donde furono bruscamente richiamati in patria dallo scoppio della guerra franco-germanica. Entusiasta della cultura germanica, nonostante la polemica con lo Strauss, egli sentì forse meno il disastro militare che il danno politico della caduta dell'Impero e dell'ascesa al potere di uomini e d'una classe sociale culturalmente inferiori: e durante la grave crisi della Francia tenne a riaffermare le sue convinzioni (La part de la famille et de l'état dans l'éducation; La monarchie constitutionnelle en France; riprodotti in La réforme intellectuelle et morale, 1871). Accarezzò insieme l'illusione che il governo italiano, influendo sull'elezione del pontefice, potesse provocare uno scisma nel cattolicismo; così come per qualche tempo sognò una restaurazione della monarchia napoleonica, su basi costituzionali, in Francia. A poco a poco tuttavia riconobbe la repubblica come il solo governo possibile e giunse ad affermare il concetto storico di nazione (Qu'est-ce qu'une nation?, in Revue bleue, 1882). E sempre più si rifugiò nel suo lavoro, interrotto da viaggi abbastanza frequenti in Italia, ove cercò varie volte, nelle acque termali di Ischia, rimedio ai dolori reumatici che lo affliggevano, intervenne al congresso degli scienziati italiani (Palermo 1875) e presiedette, a Firenze nel 1878, una sezione del IV congresso internazionale degli orientalisti; e dove gli anticlericali lo acclamavano come uno dei loro e nelle chiese si celebravano tridui e si predicava contro di lui (a Roma, nel 1872, G. B. De Rossi evitò di avere rapporti personali con il R.).

Riproposto per la cattedra al Collège de France nell'aprile 1870, l'aveva ottenuta dal governo di difesa nazionale nel novembre; nel 1883 ne divenne amministratore. Eletto nel giugno 1878 all'Académie française, vi fu ricevuto il 3 aprile 1879; nel 1880 fu in Inghilterra a tenervi le Hibbert lectures e altre conferenze (Conférences d'Angleterre, 1880). Vecchio ormai, più di corpo che d'anni, grasso e incapace quasi di muoversi, al colmo della fama e degli onori, godeva dell'autorità immensa che, con la vastissima erudizione e la sempre alacre prontezza dell'ingegno, gli permetteva di avere ed esprimere un'opinione su ogni argomento. E cedette all'attrazione per la letteratura "pura" ond'era stato indotto ad affrontare, in gioventù, il romanzo (Patrice, pubblicato postumo nel 1908). Scrisse così, idealizzando e idillizzando, il racconto e l'analisi psicologica della propria vita (Souvenirs d'enfance et de jeunesse, dapprima articoli; in volume, 1883; circa 70 edizioni al 1930) e i drammi "filosofici" (Caliban, che riprende e sviluppa simbolicamente personaggi e motivi della Tempesta shakespeariana, 1878; L'eau de Jouvence, 1880; Le prêtre de Némi, 1885; L'abbesse de Jouarre, 1886, dramma claustrale e d'amore sullo sfondo della rivoluzione francese, rappresentato per la prima volta, nella traduzione del Panzacchi [Milano 1887], da Eleonora Duse, in Roma; tutti raccolti nel volume Drames philosophiques, 1888). Ma insieme, compiuta la grande storia delle origini cristiane, si dedicò a quella che gli apparve naturalmente come la storia delle origini di quelle origini: l'Histoire du peuple d'Israël, il cui primo volume apparve nel 1887, e dei cinque, gli ultimi due postumi ma corretti in bozze da lui, ch'ebbe tempo di dare forma quasi definitiva al capitolo sulla questione Esdra-Neemia, nel 1893 e 1894. Morì il 2 ottobre 1892. Avversato dai cattolici e per un pezzo anche dai più ardenti repubblicani (ma egli aveva seguito la sua regola, di non rispondere mai a nessun attacco personale); considerato dai nazionalisti, per certi aspetti del suo pensiero, come un loro precursore; esaltato dalla borghesia repubblicana e conservatrice come una gloria nazionale, ebbe un busto nel Collège de France e un monumento (1903) a Tréguier; nel 1923, il centenario della sua nascita fu celebrato con un congresso internazionale di storia delle religioni e con pubblicazioni; il suo nome fu dato a una nave da guerra (1906) e ad una società di studî religiosi, d'indirizzo razionalistico (1919).

Oltre gli scritti già ricordati, sono da menzionare: De philosophia peripatetica apud Syros, 1852; Ètudes d'histoire religieuse, 1857; Le livre de Job, 1858; Nouvelles considérations pur le caractère général des peuples sémitiques et... sur leur tendance au monothéisme, 1859; Essais de morale et de critique, 1859; Le cantique des cantiques, 1860; Mission de Phénicie, 1865-1874; Nouvelles observations d'épigraphie hébraïque, 1867; Questions contemporaines, 1868; Réponse à Strauss: Krieg und Friede, 1870; Dialogues et fragments philosophiques, 1876; Mélanges d'histoire et de voyages, 1878; L'Ecclésiaste, 1881; Nouvelles études d'histoire religieuse, 1884; Discours et conférences, 1887; Feuilles détachées, 1892; oltre a numerosi articoli su scrittori ebrei e su questioni religiose, ecc., in l'Histoire littéraire de la France, voll. XXIV-XXXI.

Sono apparsi postumi: Lettres intimes d'E.R. et d'Henriette R., 1896; Correspondance d'E.R. avec M. Berthelot, 1898; Études sur la politique religieuse dit règne de Philippe le Bel (articoli nell'Hist. littéi.. de la Fr.), 1899; Lettres du séminaire, 1902; Le broyeur de lin, 1903; Mélanges religieux et historiques, 1904; Cahiers de junesse, 1906; Nouveaux cahiers de jeunesse, 1907; Fragments intimes et romanesques, 1914; Notes de junesse, in Revue de France, 1923; Valentine de Milan; Christine de Suède, Abbeville 1924; Lettres à son frère Alain, 1926; Nouvelles intimes, 1926; Correspondance, 1927-29, voll. 2; Sur Corneille, Racine et Bossuet, 1928; Voyages: Italie, Norvège, 1928; Travaux de jeunesse a cura di J. Pommier, 1933; La prière sur l'Acropole, edizione critica di T.B.L. Webster e E. Vinaver, Manchester 1934. Cfr. anche: H. Girard e A. Moncel, Bibliographie des oeuvres de R., Parigi 1923.

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