L'archeologia delle pratiche cultuali. America Meridionale - Gli oggetti del culto e i materiali votivi

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'archeologia delle pratiche cultuali. America Meridionale - Gli oggetti del culto e i materiali votivi

Marco Curatola Petrocchi

Al momento della Conquista nelle Ande Centrali ogni ayllu (gruppo di discendenza), ogni comunità, ogni curacazgo (dominio) e ogni altra collettività sociopolitica possedevano un luogo sacro considerato residenza di un nume tutelare che, opportunamente evocato, si manifestava ai sacerdoti preposti al suo culto e talora anche ai comuni fedeli, dando responsi. La maggior parte di tali santuari era ubicata in corrispondenza di particolari luoghi della natura (una grotta, una sorgente, il punto di confluenza di due corsi d'acqua, una roccia, un lago o una cima montana), con i quali si identificavano le divinità stesse: il luogo e il nume ad esso consustanziale erano chiamati genericamente huaca. Non di rado, poi, la divinità era rappresentata da un huanca, una grande pietra oblunga, lavorata o meno, piantata verticalmente nel suolo. Stando alle fonti storiche, la più antica divinità degli Inca e loro principale oracolo, Huanacauri, ubicato sulla cima dell'omonimo monte che domina la valle del Cuzco, era appunto un huanca, che si credeva rappresentasse Ayar Uchu, fratello di Manco Capac, il mitico fondatore del Cuzco e della dinastia imperiale. A Huanacauri erano regolarmente sacrificati, nel corso di solenni cerimonie, esseri umani, i cui corpi venivano poi sepolti intorno all'idolo. I huanca, termine che in lingua Quechua significa semplicemente "grande pietra" o, come riporta il primo dizionario di tale idioma pubblicato in Perù (1586), "pietra lavorata dura", erano vere e proprie pietrefitte (menhir), ossia monoliti, grezzi o lavorati, infissi nel suolo a guisa di obelischi. Stando alla testimonianza degli stessi missionari incaricati di estirpare ogni manifestazione dell'"idolatria" indigena (Pablo Joseph de Arriaga 1621, cap. II), i huanca rappresentavano numi tutelari della comunità e spiriti guardiani dei campi ed erano generalmente identificati con eroi culturali, con antenati mitici pietrificati o con la madre-terra (Pachamama).

Nonostante la sistematica opera di repressione della religione autoctona e di distruzione di ogni sua manifestazione materiale portata avanti dalla Chiesa cattolica durante il periodo coloniale, molti di questi monumenti si sono conservati e, in alcune zone, ancora oggi essi sono oggetto di forme minori di culto, o comunque continuano a incutere timore reverenziale alle popolazioni locali. I huanca potevano essere ubicati sia in luoghi isolati sia all'interno di centri cerimoniali o di siti abitati, come a Machu Picchu, il famoso insediamento Inca (fine XV - inizi XVI sec. d.C.) della valle dell'Urubamba (Cuzco), nella cui piazza centrale si ergeva, quale elemento assolutamente dominante, un grande monolito oblungo. Nel Perù settentrionale sono stati individuati veri e propri complessi di huanca: sul monte La Huaca, nella sierra di Ayabaca, ai confini con l'Ecuador, l'archeologo italiano M. Polia ha scoperto nel 1987 un centro cerimoniale con piramidi a piattaforme, piazze e numerosi huanca. Si tratta di una serie di monoliti oblunghi, di forma irregolare, alti fra 1,5 e 3,5 m circa, tutti con motivi incisi. Alcuni di questi motivi, di stile Chavín, indicano che il sito risale almeno al I millennio a.C. Un altro importante centro megalitico della regione, individuato e reso noto anch'esso da Polia, è quello del monte Collona: qui i huanca appaiono associati a rustici altari di pietra con cavità circolari sulla superficie, i quali, per analogia con pratiche magico-religiose riscontrate fra le moderne popolazioni Aymara del Lago Titicaca, si pensa dovessero servire per rituali di fertilità e di invocazione della pioggia. Un parallelepipedo di pietra, dalle caratteristiche del tutto simili agli altari del monte Collona, ossia con una serie di piccole concavità artificiali nella parte superiore, si trova nella Grande Piazza di Chavín de Huantar, il centro cerimoniale del Callejón de Conchucos (Perù settentrionale), la diffusione della cui ideologia religiosa segnò il primo grande momento di integrazione interregionale della preistoria andina (Orizzonte Antico, IX-III sec. a.C.).

All'interno dell'edificio più antico del santuario si trova, ancor oggi nella posizione originaria, uno dei huanca più sacri di tutto il mondo andino precolombiano: il cosiddetto Lanzón (o Grande Immagine). È questo un monolito di granito alto oltre 4,5 m, di forma prismoidale ma affusolato all'estremità inferiore e con un'appendice nella parte superiore, che è infisso verticalmente fra il pavimento e il solaio all'incrocio di due gallerie. Lavorato a bassorilievo su tutti i lati, esso rappresenta un mostro gorgoneo dai tratti felini. Il dio del Lanzón fu un grande oracolo di nome Huari, "l'Antico". Nelle relazioni di alcuni missionari del XVII secolo, come quelle dell'Anonimo gesuita del 1621 (Polia Meconi 1999, doc. 33), di Antonio Vázquez de Espinoza del 1629 (libro IV, cap. LIV) e di Estanislao de Vega Bazán del 1657 (Duviols 1971), si riferisce infatti che indios di tutte le Ande si recavano in pellegrinaggio a Chavín per ottenere responsi oracolari. Queste testimonianze storiche appaiono confermate archeologicamente sia dalla presenza nel centro cerimoniale di ceramiche e di altri oggetti appartenenti a diverse tradizioni regionali, sia dalla particolare struttura interna del tempio, con una cella posta immediatamente al di sopra della galleria del Lanzón e con un piccolo orifizio fra i due ambienti, proprio in corrispondenza della parte apicale dell'idolo infissa nel soffitto. Probabilmente attraverso di esso i sacerdoti, celati alla vista, facevano sentire "la voce del dio" a coloro che erano ammessi ad interrogarlo nell'oscurità della galleria. All'esterno, nella Grande Piazza antistante l'edificio principale del complesso templare, si trovavano altri monoliti lavorati, tra cui l'Obelisco Tello, che raffigura un mostruosa creatura dai tratti caimanici apportatrice delle principali piante coltivate, e la Stele Raimondi, su cui è incisa la figura di un essere per metà uomo e per metà felino che regge in ciascuna mano un grande bastone e che probabilmente rappresenta la stessa divinità del Lanzón. Queste immagini dovevano essere il fulcro di massive cerimonie religiose che periodicamente avevano luogo nella piazza, così come oggetto di quotidiana devozione da parte dei fedeli e dei pellegrini comuni, ai quali non era consentito accedere alla galleria oracolare.

Analoghi monoliti incisi e scolpiti (in taluni casi vere e proprie statue) con immagini di divinità ancestrali sono stati rinvenuti in vari altri centri cerimoniali tanto chavinoidi, come Pacopampa e Kuntur Wasi (sierra settentrionale del Perù), che di tradizioni culturali differenti e posteriori, quali Chiripa (V sec. a.C. - I sec. d.C.), Pucara (II sec. a.C. - III sec. d.C. ca.) e Tiwanaku (IV-X sec. d.C. ca.) sull'altopiano del Lago Titicaca. A Tiwanaku, la città santa capitale di un impero che, oltre all'intero bacino del Titicaca, giunse a controllare la valle di Cochabamba (Bolivia orientale) a est, quella di Moquegua (Perù meridionale) a ovest e quella di Azapa (Cile settentrionale) a sud, sono state rinvenute numerose stele e sculture in pietra di diversi stili. Molte erano ubicate nel cosiddetto Tempio Semisotteraneo, al cui centro si ergeva un gigantesco monolito antropomorfo, alto oltre 7 m, nel più classico stile Tiwanaku. Conosciuto come Monolito Bennett, dal nome dell'archeologo che lo scoprì, esso rappresenta un personaggio con un elaborato copricapo, un tipico bicchiere cerimoniale (quero) in una mano e una sorta di scettro nell'altra, sul cui corpo è incisa una serie di figure e motivi che evoca l'origine delle piante, la produzione agricola e l'allevamento di Camelidi. Il Tempio Semisotterraneo dovette rappresentare il luogo più sacro di tutto l'altopiano andino: un vero e proprio Pantheon con le immagini delle divinità (huaca) delle etnie delle diverse province (ciò spiegherebbe la diversità degli stili) disposte attorno, e quindi in posizione subordinata, alla grande statua di quella che, per i suoi attributi, si deve presumere fosse la massima divinità Tiwanaku. È possibile che il personaggio del Monolito Bennett sia lo stesso dio Viracocha che, secondo una serie di miti delle origini raccolti da Juan de Betanzos nella sua Suma y narración de los Incas del 1551 (cap. I) e da altri cronisti del primo periodo coloniale, emerse in illo tempore dal Lago Titicaca e fondò Tiwanaku, da dove creò il Sole, la Luna e tutto il firmamento, dando così vita al mondo.

Ma le immagini oggetto di culto non furono solo di pietra. Nelle cronache del XVI secolo numerosi sono i riferimenti a idoli di legno. Il conquistador Pedro Pizarro riferisce nel 1571 che l'immagine oracolare del dio Inca Apurimac ("il Signore che parla"), il cui santuario era ubicato sulla riva dell'omonimo fiume, nella sierra meridionale del Perù, era costituita da un grosso palo di legno con la rappresentazione di una figura umana, infisso nel pavimento di una piccola costruzione ad un solo ambiente, dalle pareti esterne ricoperte di pitture policrome e internamente immersa nell'oscurità. La figura rappresentata sul palo, imbrattato del sangue delle vittime offerte in sacrificio alla divinità, presentava decisi attributi muliebri, con attorno al torace una fascia d'oro su cui erano applicate due coppe dello stesso metallo a mo' di seni e con indosso finissimi indumenti femminili fermati dai tipici spilloni (tupu) ad ampia testa circolare. Inoltre, il simulacro di Apurimac era affiancato da altre figure muliebri paliformi di minori dimensioni, anch'esse lorde di sangue. Le immagini sacre di legno furono comuni, comunque, soprattutto sulla costa, dove grazie all'aridità del clima se ne sono conservate alcune. Da Playa Grande (Santa Rosa), una località ubicata 36 km a nord di Lima, proviene un grande tronco squadrato, a sezione rettangolare, decorato sui quattro lati con il classico motivo del "serpente bicefalo" nel più puro stile Interlocking: chiamato anche Obelisco Lima, questo palo dovette essere uno dei huanca più sacri delle popolazioni della costa centrale peruviana nei primi secoli dell'era volgare.

Di legno era pure l'immagine dell'oracolo più potente e famoso delle Ande, quello di Pachacamac, "colui che anima il mondo". Il santuario del dio, ubicato alla foce della valle del Lurín (costa centrale del Perù), cominciò a svilupparsi nel corso del Periodo Intermedio Antico (II sec. a.C. - VI sec. d.C.), raggiungendo l'apogeo nel Periodo Intermedio Recente (XI - metà XV sec. d.C.), ma di fatto già nell'Orizzonte Medio (VII-X sec. d.C.) esso si era imposto come il più importante centro cerimoniale della costa: una vera e propria città santa con gli adoratori dei numi tutelari dei vari curacazgos legati all'oracolo e con innumerevoli altre strutture cerimoniali e residenziali. Cuore di questo vasto centro cultuale era una costruzione terrazzata a più livelli, addossata a una collina naturale e interamente adorna di pitture murali policrome, con motivi zoomorfi e fitomorfi. In cima, protetta da una triplice cerchia di mura, era la sede dell'oracolo: stando alla descrizione lasciataci dal soldato Miguel de Estete nella sua Noticia del Perú del 1535 circa, questa era costituita da una semplice capanna "di canne intrecciate, con alcuni pali decorati da foglie d'oro e d'argento e con pezzi di tessuto che coprivano il tetto, a mo' di stuoie". L'interno, cui si accedeva attraverso una porta decorata con conchiglie rosse di Spondylus, turchesi e cristalli, era totalmente oscuro e disadorno, con al centro l'immagine oracolare di Pachacamac, rappresentata da "un palo di legno conficcato nel suolo con una figura d'uomo nella parte apicale".

Un oggetto rispondente a questa sommaria descrizione del simulacro del dio venne recuperato tra le rovine del santuario nel 1938: si tratta di un palo di legno, alto 2,35 m, nella cui parte superiore è rappresentato un personaggio bifronte (probabilmente a simboleggiare la sua facoltà di "vedere" nel passato e nel futuro) che digrigna i denti in un'espressione truce e minacciosa e regge in mano una sorta di boleadora (arma da getto). Su un lato del suo corpo sono rappresentate pannocchie di mais e sull'altro uccelli e pesci. La scultura stilisticamente risale all'Orizzonte Medio e con ogni probabilità rappresenta il dio Pachacamac, anche se non deve essere l'immagine un tempo custodita nella capanna in cima alla piramide, a quanto pare distrutta dai conquistadores, bensì una delle tante analoghe che, secondo una breve descrizione di Estete pubblicata nel 1534 (ed. 1985), si trovavano disseminate un po' dovunque per la città santa, lungo le strade e intorno al santuario. Al tempo dell'apogeo di Pachacamac (XI-XV sec. d.C.) nella costa settentrionale, e precisamente nella valle del La Leche, si andò sviluppando l'importante centro politico-religioso di Túcume, noto anche come El Purgatorio, che rappresenta il più grande complesso di piramidi di tutta l'America Meridionale precolombiana, con un'estensione di 220 ha circa. Gli scavi effettuati agli inizi degli anni Novanta del XX secolo dall'archeologo peruviano A. Narváez hanno riportato alla luce, nel settore che presumibilmente costituiva il principale accesso all'area monumentale, una piccola struttura templare con un huanca al centro, la quale, per la quantità e la qualità delle offerte votive rinvenutevi, dovette essere uno dei luoghi più sacri dell'intero complesso. Il Tempio della Pietra Sacra, come tale costruzione è stata definita, cominciò ad essere costruito intorno all'XI sec. d.C. (fase Sicán), raggiungendo la sua configurazione finale in epoca Inca (XV sec. d.C.). In quest'ultima fase esso si presentava come un unico ambiente a pianta quadrangolare (7,5 × 8 m), chiuso sui quattro lati da muri in adobe, con vano di accesso nella parete orientata a nord e due piccole nicchie in quella meridionale; internamente erano disposte quattro file regolari di quattro pali di legno che sostenevano una copertura in materiale vegetale.

Esattamente al centro della struttura stava, piantato obliquamente nel suolo, un grande parallelepipedo irregolare di pietra grezza, un classico huanca, davanti al quale vennero costruiti in fasi successive tre altari (il più antico di pietra, gli altri in adobe). Associate a questi altari sono state rinvenute numerose offerte: ceramiche in frammenti; minuscole riproduzioni in lamina metallica (in genere una lega di rame e argento) di piante, di uccelli, di vasi fittili, di strumenti musicali e di oggetti simbolo di rango elevato, come corone, lettighe e parasole; innumerevoli conchiglie di Spondylus, intere, in frammenti o finemente triturate; semi di piante e polveri rosse, verdi, azzurre e bianche. Nell'atrio del tempio, delimitato da due ampi e bassi banchi in adobe convergenti a imbuto verso la porta, sono state rinvenute tipiche figurine votive Inca, sia d'argento che di Spondylus, interrate per lo più a coppie (maschio-femmina), vestite con pezzi di stoffa fissati con tupu; due di esse recavano anche un raffinato copricapo di piume. Inoltre, sempre all'esterno del tempio, sono stati individuati vari scheletri di lama e di esseri umani (di questi ultimi talora solo il cranio) sacrificati. Sacrifici umani accompagnati da figurine come quelle rinvenute a Túcume e da conchiglie di Spondylus furono del resto piuttosto comuni fra gli Inca.

Con una certa periodicità, alla morte del Sapa Inca (come era chiamato il sovrano del Cuzco), per l'incoronazione del successore, alla nascita di un erede al trono, in occasione di una vittoria militare, per scongiurare la minaccia di una carestia o al verificarsi di una qualche altra calamità naturale, nel Coricancha (il grande Tempio del Sole del Cuzco) e nei santuari provinciali erano celebrati i solenni rituali della Capac Hucha, durante i quali al dio Sole e a tutti i maggiori huaca venivano sacrificati esseri umani, che venivano ‒ secondo la testimonianza del 1575 circa di Cristóbal de Molina (C. de Molina - C. de Albornoz 1989) ‒ sepolti "assieme a figurine di argento di lama e di persona" e a Camelidi e tessuti. Chiare evidenze archeologiche di questi riti sono state rinvenute nell'Isola del Sole del Lago Titicaca, nel santuario di Pachacamac, nella Isla de la Plata di fronte alla costa ecuadoriana e sulle cime di alte montagne considerate potenti huaca e quindi particolarmente sacre, come l'Ausangate nella regione del Cuzco, i monti Copiapó, Cerro del Toro, Cerro del Plomo in Cile e l'Aconcagua in Argentina. Come a Túcume, in questi e in ogni altro importante contesto votivo Inca sono state rinvenute numerose figurine antropomorfe e zoomorfe di conchiglia di Spondylus e/o semplici valve di questo mollusco.

Lo Spondylus sp. è un bivalve, dalla conchiglia di color rosa intenso o scarlatto e internamente bianco-porcellana con lunghi aculei sulle costole, che, nei territori dell'antico impero Inca, si trova solo nelle calde acque ecuadoriane, dal Golfo di Guayaquil in su. Ne esistono due specie: lo Spondylus calcifer, che è di maggiori dimensioni e si trova a poca profondità, e lo Spondylus princeps, più piccolo, che abita in acque profonde (18-60 m) e le cui valve, forse proprio per la maggiore difficoltà di reperimento, furono le più apprezzate e utilizzate dagli antichi abitanti delle Ande. Chiamata in lingua Quechua mullu, la conchiglia di Spondylus fu in effetti un bene ambito e richiestissimo da tutti i popoli della regione, che la utilizzarono come offerta votiva agli dei e come offerta funeraria agli individui di rango elevato, nonché per la confezione di ornamenti preziosi destinati alle élites, soprattutto collane e pendenti. In effetti, secondo le informazioni raccolte dai missionari nel XVI e XVII secolo, il mullu era considerato dagli indios il cibo prediletto degli dei e costituiva l'offerta per eccellenza nei riti associati all'acqua e alla pioggia.

Celebre è l'episodio riportato nella raccolta di tradizioni orali dei nativi di Huarochirí (sierra centrale del Perù) compilata dall'extirpador de idolatrías Francisco de Avila (Taylor 1987, cap. 23), in cui all'imperatore Inca che gli offre qualsiasi cosa egli desideri per ricompensarlo dell'aiuto ricevuto contro popolazioni ribelli, il dio Macahuisa richiede espressamente mullu "e al riceverlo ‒ dice il mito ‒ immediatamente lo mangiò, facendolo scrocchiare". Le evidenze archeologiche indicano che in Ecuador la raccolta dello Spondylus cominciò in epoca Valdivia (seconda metà IV millennio - prima metà II millennio a.C.) e che il suo utilizzo si diffuse verso sud piuttosto precocemente, essendo stati rinvenuti valve e manufatti di questa conchiglia in siti preceramici come Los Gavilanes, Aspero, La Paloma (costa centrale peruviana) e La Galgada (sierra settentrionale). Fu comunque nel corso del I millennio a.C. (fase Engoroy, VIIII sec. a.C.) che lo sfruttamento del mullu nelle Ande Settentrionali si intensificò e si diffuse, come attestano fra l'altro le pregevoli figurine antropomorfe ( yuyucuyas) di Spondylus della regione montana di Cerro Narrío (Cañar). In territorio peruviano, conchiglie di Spondylus sono state rinvenute in vari centri cerimoniali dell'epoca. A Punkurí, un santuario della valle del Nepeña costituito da una struttura piramidale composta da varie piattaforme sovrapposte, nel 1933 l'archeologo peruviano J.C. Tello, ai piedi della statua fittile di un dio dalle fattezze feline, ubicata al centro dell'ampia scalinata che conduceva al secondo livello, scavò una camera sotterranea dove era stato deposto il cadavere decapitato di una donna assieme a numerosi turchesi (probabilmente parte di qualche ornamento), una conchiglia di Strombus galeatus (altra conchiglia di uso rituale, proveniente dalle calde acque del mare ecuadoriano) con motivi incisi, un mortaio e un pestello di pietra (forse per il trattamento di piante allucinogene) e due conchiglie di Spondylus. Analogamente, frammenti di Spondylus sono stati rinvenuti da L.G. Lumbreras nel 1966-67 nella Galleria delle Offerte di Chavín de Huantar, assieme a numerosi oggetti votivi (soprattutto vasi fittili appositamente rotti e contenenti in origine varie vivande) e a resti di sacrifici animali e umani.

L'estrema importanza rituale del mullu nell'Orizzonte Antico è del resto pienamente attestata dalla stessa iconografia Chavín, dato che esso è rappresentato in alcune immagini delle principali divinità del santuario. Su una lastra che ornava la corte del Tempio Nuovo appare scolpita in bassorilievo e incisa la figura gorgonea e zannuta della massima divinità Chavín (senza dubbio la stessa del Lanzón), che stringe nella mano destra una conchiglia di Strombus e nella sinistra una di Spondylus. Un'altra rappresentazione di conchiglia di Spondylus si ritrova alla sommità dello stesso Obelisco Tello, proprio sopra le fauci del mostro caimanico apportatore di cultigeni su di esso raffigurato. Riproduzioni fittili di Spondylus compaiono inoltre nella ceramica della cultura Cupisnique, coeva e connessa a quella Chavín, e di varie altre posteriori, come quelle Sicán (VIII-XIV sec. d.C.) e Chimú (XI-XV sec. d.C.). I Chimú, in particolare, arrivarono ad accumulare e utilizzare, sempre per fini rituali e di prestigio, grandi quantità della preziosa conchiglia, come dimostrano gli ammassi di mullu rinvenuti a Chanchan, nella Huaca el Dragón e a Manchan.

Bibliografia

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