L'archeologia delle pratiche cultuali. Mondo fenicio

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'archeologia delle pratiche cultuali. Mondo fenicio

Massimo Botto

Gli oggetti del culto e i materiali votivi nella fenicia e nelle colonie di occidente

Gli aspetti conservativi della civiltà fenicia nei confronti delle culture cananaiche di II millennio a.C. dell'area siro-palestinese sono particolarmente evidenti nella scelta e nella tipologia delle aree sacre. In Fenicia, infatti, il culto si svolgeva soprattutto sulle montagne, in prossimità di corsi d'acqua e di zone boscose. Le principali città del Paese avevano i loro santuari sulle vicine alture, come nel caso di Betocea ad Arado e di Afqa a Biblo, secondo quanto traspare dal racconto di Luciano. A Sidone vari templi sorgevano sulle alture che circondavano la città: uno dei più importanti era dedicato alla divinità salvifica Eshmun e si trovava sul fianco dell'altura ai cui piedi scorre il fiume Asclepio, l'attuale Nahr el-Awali. Generalmente i santuari erano ampie aree a cielo aperto delimitate da una recinzione con al centro un altare per i sacrifici e una cappella all'interno della quale era posto un "betilo". Con questo termine gli studiosi moderni indicano un tipo particolare di pietra sacra concepita come dimora o figurazione di un essere divino che non si vuole rappresentare in forme umane. In semitico il termine betilo (byt'l ) significa "casa del dio" (Genesi, 28, 10-19) e spiega in modo appropriato il concetto che presiedeva al culto. Filone di Biblo, autore di una Storia Fenicia all'epoca dell'imperatore Adriano, parla di "Baitylos" come nome proprio di un dio e poi dei betili come "pietre animate", inventate dal dio-cielo secondo la tradizione dei Fenici. Appare evidente in questo caso la derivazione del culto del betilo da quello delle pietre meteoriche, come segno della presenza di un essere divino venuto dal cielo. Per quel che concerne la forma, i betili risultano generalmente come dei pilastri rozzamente levigati, di solito rastremati verso l'alto e privi di qualunque figurazione o iscrizione. I precedenti più interessanti andranno ricercati nell'area palestinese, dove negli scavi di numerosi insediamenti, come ad esempio Gezer, Hazor e Arad, sono state rinvenute pietre cultuali che hanno tutte la forma di parallelepipedo. Tuttavia l'attestazione più monumentale risale agli inizi del II millennio a.C. e si riferisce al Tempio degli Obelischi di Biblo, così definito per la presenza di centinaia di pilastri betilici che si stagliano imponenti all'interno del recinto sacro. Recentemente J.W. Shaw ha individuato a Kommos, nel settore meridionale di Creta, un sacello costruito dai Fenici intorno al 925 a.C., che presenta al suo interno, per le fasi comprese fra l'800 e il 630 a.C., un altare formato da un blocco triangolare nel quale vennero incastrati tre pilastrini, di cui quello centrale più alto dei laterali. L'altare betilico fu oggetto di costante venerazione da parte sia dei mercanti fenici che frequentavano l'isola sia dei Greci, come è attestato dalle numerose offerte disposte fra i pilastrini. Le testimonianze riguardano anche betili di forma conica, piramidale e sferoidale: ad esempio, il simulacro della dea Astarte- Afrodite di Pafo, a Cipro, era un betilo conico, come si apprende da una famosa e puntuale descrizione di Tacito e da varie figurazioni monetali del I e del III sec. d.C.; forma di cono aveva anche il più noto betilo della Fenicia, quello del tempio di Biblo, documentato su monete di Macrino del III sec. d.C. Le testimonianze archeologiche maggiori provengono comunque dal mondo fenicio di Occidente, con la presenza e diffusione di questo tipo di pietra cultuale sia nella forma di betili a tutto tondo, sia come motivo iconografico sulle stele ritrovate nei tofet. Se da un punto di vista formale e per quel che concerne la materia prima (pietra) il betilo si avvicina al cippo e alla stele, concettualmente la differenza fra questi monumenti è evidente. Infatti, mentre la presenza delle stele nelle necropoli come segnacolo delle tombe ne evidenzia il carattere funerario, appare ormai assodato che nelle aree sacre e nei tofet il cippo e la stele hanno una funzione essenzialmente votiva. In Fenicia la produzione votiva si ricollega, sia per la tipologia con coronamento centinato e cornice talvolta rialzata sia per l'iconografia con figurazioni di carattere divino rese a bassorilievo, alla tradizione nord-siriana, in particolare ugaritica, del II millennio a.C., che risente a sua volta di influenze anatoliche e mesopotamiche. Le più antiche attestazioni che a buon diritto possono considerarsi fenicie provengono dalla Siria e si datano al IX sec. a.C.: si tratta della famosa stele del re Bar-Hadad con dedica a Melqart, dio di Tiro, recuperata a Bredj nei pressi di Aleppo, e della stele messa in luce a Qadmus. Esse si configurano come i diretti antecedenti della famosa stele di Amrit su cui è raffigurata una divinità maschile (interpretata come Shadrapa) sopra un leone. Purtroppo la documentazione vicino-orientale risulta estremamente lacunosa al riguardo e le attestazioni riprendono solo molto più tardi, a partire dal V sec. a.C., epoca a cui si datano la stele inscritta del re Yehawmilk di Biblo, raffigurato nell'atto di rendere omaggio alla dea cittadina, Baalat Gubal, seduta sul trono, e un frammento di stele da Debba, presso Tiro, in cui è possibile riconoscere una scena simile. Tale tipologia continua anche nelle fasi immediatamente successive, in esemplari con sommità centinata ma senza bordo rialzato, databili al IV-II sec. a.C., rinvenuti sia in Siria sia in Fenicia (Tiro), mentre da Arado proviene un esemplare a tre facce, ognuna delle quali con disco solare e personaggio maschile di profilo, che documenta la persistenza del tipo ancora nel I sec. a.C. Del tutto particolare appare poi l'ampia documentazione di Umm el-Amed (III-II sec. a.C.), dove le stele presentano motivi iconografici grecizzanti. La seconda tipologia di stele votive presente in Fenicia deriva dalle edicole o naòi egiziani, il cui motivo sembra raggiungere le coste vicino-orientali già nella prima metà del VI sec. a.C. Tali indicazioni cronologiche sono fornite principalmente dalla documentazione proveniente dalle colonie fenicie del Mediterraneo centrale, in particolare da Mozia, dal momento che i numerosi reperti provenienti dalla regione di Tiro e di Sidone risultano sporadici. Il passaggio in Fenicia del naòs egiziano è documentato anche nella tipologia monumentale, come testimoniato dalla cappella cubica di Amrit e da due esemplari dello stesso tipo da Ain el-Hayat inquadrabili nel corso del VI-V sec. a.C. Il dato è di particolare interesse per la nostra analisi, dal momento che la cappella in quanto sede della divinità assume anch'essa una funzione cultuale. La diffusione del tipo nell'Occidente fenicio è testimoniata oltre che dalla nota edicola di Nora, con coronamento con disco solare alato e fila di urei, da un nuovo monumento, di cui si è recuperato solo l'architrave nelle acque dello Stagnone di Mozia, che doveva ospitare, secondo una recente interpretazione, la statua acefala egittizzante rinvenuta in precedenza nelle vicinanze. La stele a naòs con nicchia profonda, spesso con il motivo delle cornici multiple rientranti, trova ampia diffusione a Cipro, dove risulta attestata a Kourion, Ktima e soprattutto a Kouklia-Palaepaphos: in quest'ultimo centro sono stati rinvenuti all'interno di un santuario oltre 150 esemplari, anche con sommità centinata, su cui sono rappresentati personaggi di tipo siriano o egittizzante. La produzione in assoluto più ampia di stele si lega comunque alla diffusione del tofet nelle colonie fenicie del Mediterraneo centrale, con attestazioni che vanno dall'Africa settentrionale alla Sicilia, alla Sardegna in un arco di tempo compreso fra il VII e il II sec. a.C., ma con persistenze in territorio nordafricano (Dugga, Ghorfa, Maktar) che si protraggono ben oltre la distruzione di Cartagine da parte degli eserciti romani nel 146 a.C. All'interno dei tofet le stele avevano una doppia funzione. Innanzitutto servivano come segnacolo della deposizione a cui si accompagnavano, inoltre, gli elementi aniconici o figurati rappresentati sulle loro facce principali, uniti alle iscrizioni talvolta presenti, legavano indissolubilmente il monumento alla sfera religiosa: seguendo le più recenti ed accreditate posizioni, infatti, la stele deve essere interpretata come offerta alle divinità titolari dell'area sacra, Baal Hammon e Tanit, dai genitori dei fanciulli premorti. Il repertorio iconografico presente sulle stele comprende sia raffigurazioni di simboli geometrici delle divinità (betili, "segno di Tanit", "idoli a bottiglia", losanghe, ecc.), sia raffigurazioni di personaggi sacerdotali o divini. In progresso di tempo larga diffusione assumono le iconografie di origine greca, come la colonna ionica o dorica, il caduceo, il delfino, gli uccelli e i motivi vegetali. L'apparizione delle stele nei tofet avviene in un momento avanzato della vita di questi santuari, in attività in alcuni casi già nel corso dell'VIII sec. a.C. (Cartagine, Mozia, Sulcis, Tharros). Infatti solo con il VII sec. a.C. si sviluppa la sistematica presenza di monumenti lapidei nei tofet, per lo più sotto forma di cippi, cioè di elementi prismatici senza la preminenza di una faccia rispetto all'altra e totalmente privi di raffigurazioni. Successivamente, con gli inizi del VI sec. a.C., le stele assumono la conformazione a naòs egittizzante, presentando nel contempo un'ampia varietà di iconografie che spesso si sostituiscono ai simboli geometrici delle divinità. In una disamina condotta da S.F. Bondì è stato evidenziato come la dinamica dell'affermazione e della scomparsa delle stele nei tofet non sia univoca e dipenda da peculiari fenomeni di accettazione, sviluppo e abbandono per ciascuno dei centri di produzione. Quindi, se in alcuni di questi santuari (ad es., Cartagine e Sulcis) le stele sembrano una componente imprescindibile delle forme di frequentazione cultuale, in altri la loro presenza potrebbe dipendere da fattori esterni, che ne limiterebbero l'utilizzo ad un preciso momento. In quest'ultimo caso, infatti, la cessazione della deposizione delle stele non coincide con l'abbandono del tofet, come documentato a Tharros e a Mozia. Rimanendo nell'ambito della produzione di pietra andrà segnalata la statuaria, sia di piccole sia di grandi dimensioni, che in ambito vicino-orientale risente fortemente degli influssi provenienti dall'Egitto. Infatti l'iconografia del personaggio maschile che indossa corto gonnellino e pettorale, con un braccio piegato sul petto e l'altro disteso lungo il fianco che impugna un "rotolo", riprende tematiche proprie dell'ambiente regale egiziano e potrebbe rappresentare in ambito fenicio il concetto stesso della regalità o un essere divino. In Fenicia le attestazioni si riferiscono ad esemplari da Tiro, Biblo ed Ascalona, quest'ultimo recentemente scoperto in mare. Quanto al torso di Sarepta, si tratta verosimilmente di un altorilievo, che in coppia con un altro esemplare simile doveva fiancheggiare la porta di un tempio. In questo caso il personaggio rappresentato potrebbe essere un genio protettore, attribuzione questa proponibile anche per il reperto proveniente dal tempio ellenistico di Milkashtart a Umm el-Amed. Il tipo è ampiamente attestato a Cipro e, nell'Occidente fenicio, in Sicilia (Mozia) e Sardegna (Sulcis): entrambi questi esemplari si possono datare nel VI sec. a.C. A Cipro risultano presenti anche altre iconografie, sempre importate dall'area nilotica, quali Horo-falcone e Bes. La rappresentazione di quest'ultima divinità salvifica troverà in Sardegna ampia diffusione: al riguardo andrà osservato che la cronologia degli esemplari sardi (Bithia, Maracalagonis, S. Gilla) è ancora oggetto di discussione fra gli specialisti, con oscillazioni che vanno dal periodo tardopunico all'epoca romana imperiale. Tipicamente fenicia risulta invece l'iconografia della dea Astarte seduta su un trono fiancheggiato da sfingi, che ritroviamo a Cipro, in Sicilia (Solunto) e in Spagna (Galera) con attestazioni che vanno dal VII agli inizi del V sec. a.C. Oggetto di culto e di venerazione era anche la cosiddetta Astarte di Monte Sirai, che risente fortemente di influssi legati alla statuaria e al rilievo dell'area nord-siriana e si deve verosimilmente datare fra la fine dell'VIII e il VII sec. a.C. Passando ad altre categorie artigianali, particolare valore assumono all'interno del mondo religioso fenicio e punico la bronzistica figurata e la coroplastica, entrambe eredi di una millenaria tradizione vicino-orientale. Riguardo alla bronzistica figurata, fra le iconografie più diffuse si ricorda quella del dio della tempesta nell'atto di scagliare un fulmine (smiting god ), nella quale si assommano influssi egiziani e nord-siriani, a cui fa da contraltare la versione femminile della dea guerriera combattente. A queste rappresentazioni si deve aggiungere quella del personaggio maschile/femminile stante nell'atto di benedire e, soprattutto a Cipro, quella del personaggio egittizzante con gonnellino, pettorale e tiara che si avvicina all'iconografia precedentemente analizzata per la statuaria in pietra. In Occidente particolare risalto assume oltre alla documentazione della Sicilia e della Sardegna, quella proveniente dalla Spagna. All'VIII-VII sec. a.C. si possono datare alcuni interessanti bronzetti quali l'Astarte di Siviglia, il dio Ptah di Cadice e altri esemplari recentemente recuperati in mare di fronte a Huelva e vicino all'isola di San Pietro, dove si trovava il celebre tempio di Melqart; questi ultimi si riferiscono sia al personaggio maschile egittizzante con alta tiara sia al dio della tempesta. Per quanto riguarda la coroplastica di ambito vicino-orientale e punico, ci si limiterà a segnalare l'importanza di questa categoria, testimoniata dall'ampiezza dei rinvenimenti anche in Fenicia, dove solitamente esistono ampie lacune nella documentazione a causa dell'arretratezza della ricerca archeologica dovuta alle vicende belliche. Solo nella necropoli di Burg ash-Shamali sono state recuperate circa 20.000 figurine; i rinvenimenti sono comunque molto numerosi in tutta la regione del Libano meridionale, oggetto purtroppo di continui scavi clandestini. Molto diffuso risulta il costume di deporre terracotte all'interno delle tombe, ma le attestazioni riguardano anche le aree di culto. Si pensi ad esempio all'ampia diffusione delle terrecotte figurate di divinità e di offerenti sia maschili sia femminili nei tofet, dove risultano peraltro attestate anche le maschere e le protomi.

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