L'archeologia delle pratiche cultuali. Subcontinente indiano

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'archeologia delle pratiche cultuali. Subcontinente indiano

Anna Filigenzi

I luoghi, gli oggetti del culto e i materiali votivi

Le prime tracce archeologiche di pratiche cultuali, individuate a partire dal IV millennio nei siti neolitici del Baluchistan e del Sind, si collegano all'espansione dell'agricoltura e ai culti della fertilità ad essa consueti; unico indizio di tali pratiche sono le statuine fittili di "dee madri", talora rinvenute in associazione con figure di bue gibbuto. Se l'assenza, o la non riconoscibilità, di aree di culto collettivo è comprensibile in contesto protourbano, più strano appare che non abbiano restituito evidenze certe di culti e luoghi ad essi deputati i grandi centri urbani della civiltà dell'Indo (2600-1900 a.C.); le ricostruzioni restano in gran parte ipotetiche e per lo più basate sulle raffigurazioni contenute nei sigilli, testimoni di un complesso ma poco decifrabile universo religioso, e sulle statuine fittili, ascrivibili all'ambito troppo generico dei culti della fertilità. La zona alta delle città ospita invero edifici collegabili, per il particolare impianto planimetrico, a funzioni pubbliche, senza che si possa tuttavia individuarne il carattere specifico. Assai labili sono, di nuovo, le tracce materiali di pratiche cultuali di periodo vedico; ciò si deve alla natura stessa della cultura religiosa, che non prevede luoghi di culto, quanto piuttosto la necessità di riti per i quali si edificavano altari che venivano di norma distrutti dopo l'uso. Preziose testimonianze ci sono fornite indirettamente dall'iconografia di epoca storica e dai costumi religiosi correnti, in particolare quelli del mondo rurale, in cui si conservano pressoché immutate pratiche millenarie. Il luogo di culto è, nell'India antica, essenzialmente uno spazio non edificato, eventualmente circoscritto da labili contrassegni (recinti di legno o pietre) o impercettibilmente modificati dalla mano dell'uomo. Particolarmente venerata, ad un tempo luogo e oggetto di culto, è la montagna (e qualcuna in particolare, come l'Ilam dello Swat, i vari Kailasa o le vette dell'Himalaya), connessa, nella mitologia indoeuropea, alla discesa dell'antenato e alla regalità sacra e, nella successiva codificazione indiana, alla montagna cosmica posta al centro dell'universo, il mitico monte Meru. I petroglifi ancora visibili in gran quantità nell'alta valle dell'Indo forniscono un importante riscontro dell'antichità e della persistenza di tale idea; la concentrazione nelle stesse zone di petroglifi appartenenti a epoche e culture religiose diverse, dalla preistoria all'VIII sec. d.C. circa, sottolinea inoltre come nella memoria collettiva la sacralità del luogo sopravviva alle vicende storiche. Allo stesso modo si reputano sacri, oggi come in passato, luoghi considerati abitati da divinità ctonie, ma anche da grandi dei del Pantheon induista; alberi, grotte, tane sotterranee, fonti e corsi d'acqua (in particolare sorgenti, foci e confluenze di fiumi, laghi montani) sono le loro dimore più usuali. Eventi miracolosi o eccezionali potevano anch'essi consacrare un luogo, il quale diveniva un tīrtha (meta di pellegrinaggio). Tīrtha di particolare importanza sono quelli che ospitano dei swayambhū, ovvero immagini "increate", che, venute spontaneamente all'esistenza, riproducono le fattezze di una divinità; sebbene non sia rintracciabile l'origine di questa concezione, possiamo comunque ritenerla assai antica, come sembra testimoniare l'iscrizione di Ghosundi in Rajasthan (I sec. a.C.), che menziona un culto aniconico di Vishnu. È solo in epoca Maurya (IV-II sec. a.C.), con la nascita del primo grande impero centralizzato, che compare in India un'architettura monumentale in pietra, dopo una lunga tradizione basata su materiali deperibili, in primo luogo il legno. L'appoggio (o quantomeno la tolleranza) dei sovrani garantì alle due più prestigiose religioni eterodosse, buddhismo e, in misura minore, jainismo, di formulare ed esprimere una grandiosa architettura monumentale, che per la prima volta strutturava lo spazio sacro con segni volutamente visibili e duraturi. Lo spazio sacro edificato è, per il buddhismo, l'area che ha al centro lo stūpa, l'accesso alla quale è un atto cosciente e deliberato, solitamente sottolineato da uno o più portali o da una balaustra d'ingresso, che scandiscono una simbolica divisione tra spazio sacro e spazio profano. L'area sacra buddhistica sorge di norma in prossimità di centri abitati, ma in relativo isolamento. Gli edifici sacri di Sirkap (Taxila) costituivano in tal senso l'unica eccezione conosciuta, fino al recente rinvenimento di una piccola area sacra, datata tra la metà del II e la fine del IV sec. d.C., entro le mura urbane di Bir-kotghwandai (Swat, Pakistan). L'architettura reale ha un'immagine speculare in quella rupestre, che ne costituisce la perfetta riproduzione scolpita entro lo spazio della grotta naturale. In questa architettura in negativo, cavata dalla roccia, la concezione dell'area sacra edificata si fonde con l'idea più antica, e sempre viva nel mondo indiano, che gli dei amino, per la propria dimora, l'elementare bellezza degli spazi naturali. Pur se è il buddhismo a dominare, o quantomeno a imporsi con una maggiore visibilità, negli ultimi secoli antecedenti l'era cristiana nasce anche il tempio induista, di cui possediamo tuttavia più scarse attestazioni; gli scavi di Sonkh, nell'Uttar Pradesh, ne hanno rivelato uno dei più antichi esemplari finora conosciuti: il Tempio 2, edificio a pianta absidata ascritto al I sec. a.C., che il materiale scultoreo, invero appartenente ad una seconda fase, sembrerebbe attribuire al culto dei nāga. Il tempio induista, all'inizio di forma piuttosto semplice, acquista rapidamente una struttura complessa, codificata da regole precise e minuziose (fissate tuttavia solo in epoca Gupta, IVVI sec. d.C.); edificato in un'area previamente purificata e consacrata, presso un bacino d'acqua naturale o artificiale, sulle coordinate dei quattro punti cardinali, esso ricalca l'immagine della montagna cosmica, il magico asse che, mentre li sostiene, separa e al contempo unisce i tre mondi; in esso risiede la divinità, richiamata dal potere magico del rito e accudita dai sacerdoti addetti. È proprio la buia cella quadrata (garbhagṛha o "dimora dell'embrione") che custodisce l'immagine sacra il cuore pulsante, l'unico elemento davvero essenziale del tempio, in cui di norma la massa dei fedeli non è ammessa. Le strutture architettoniche aggiunte dilatano l'accesso allo spazio sacro, per isolare e racchiudere in esso ogni attività connessa alla visita al tempio (dal pasto alla danza cerimoniale), collocandola in una dimensione rituale. In epoca medievale il tempio induista giunge al suo apogeo, espandendosi fisicamente fino a divenire talora una vera e propria città, modello totale di ordine cosmico, da cui sono bandite irregolarità e casualità. I primi oggetti di culto a noi noti, ovvero le figurine fittili di "dee madri", sopravvissute con poche varianti tipologiche fino ad epoca storica, dovevano avere nel contempo una destinazione anche rituale; indizi concreti in tal senso provengono in realtà solo da contesti relativamente tardi: nel sito di Loebanr III (Swat, Pakistan, prima metà del II millennio a.C.), ad esempio, i fittili furono raccolti soprattutto in prossimità di focolari. Un confronto con pratiche rituali odierne è stato suggerito invece dall'inclinazione della testa e dei piedi delle "dee madri" di epoca Maurya (IV sec. a.C.), che avrebbe consentito alla statuina, poggiata a terra contro un mattone in posizione leggermente obliqua, di tenersi facilmente in equilibrio e di incontrare allo stesso tempo lo sguardo dell'officiante. Poco si conosce ancora del mondo religioso harappano, che ha lasciato traccia soprattutto nella vasta produzione di sigilli; le figure animali, umane, terio-antropomorfe e i simboli astrali che in essi compaiono sembrano ricondurlo ad un ampio contesto di credenze, diffuse dall'Indo al Vicino Oriente, dominato dall'astronomia e dall'incessante contrasto tra le forze della natura. Anche la statua nota come "re-sacerdote" è stata interpretata da A. Parpola (1983) in questa chiave: in essa sarebbe in realtà raffigurata una divinità uranica, vestita del "manto del cielo", che sarebbe poi confluita nel Varuna del Pantheon vedico. Ad una supposta continuità tra cultura harappana e cultura vedica si richiama anche l'ipotesi (invero molto contestata, con argomentazioni di non poco momento) che la stessa figura di Shiva, il dio-asceta della religione induista, e i culti fallici a questo collegati abbiano avuto origine in seno alla civiltà dell'Indo: un proto-Shiva sarebbe identificabile nella figura, a lungo considerata triprosopa, ma più probabilmente ornata di un elaborato copricapo provvisto di corna, seduta in posa "yogica" e contornata da figure animali; cilindri e anelli di pietra sono stati altresì poco cautamente interpretati come antecedenti di liṅgam e yoni, rispettivamente il fallo di Shiva e la vagina della sua consorte, simboli della potenza creatrice del dio e della sua śakti, o energia femminile. L'archeologia non ha, dal suo canto, fornito dati incontrovertibili sui culti di epoca harappana. Nulla prova, ad esempio, che il Grande bagno di Mohenjo Daro fosse deputato ad abluzioni rituali, così come rimane controverso l'uso cerimoniale di focolari, sia pure rinvenuti in contesto pubblico, a Kalibangan e Lothal; significativa è stata ritenuta la presenza, presso uno dei cosiddetti "altari del fuoco" in quest'ultimo sito, di una buca per palo, in cui troveremmo anticipato il costume, documentato in epoca storica, di installare stambha (colonne) o dhvaja-stambha (colonne vessillifere) in prossimità del luogo o dell'oggetto di culto. Dei culti del successivo periodo vedico non restano tracce archeologiche, per ragioni che tuttavia si possono desumere dalla letteratura religiosa e rituale, da cui apprendiamo che il centro della vita religiosa è il sacrificio, ripetizione mimata e magica del sacrificio iniziale del supremo e indistinto Uno, il cui smembramento diede vita al mondo. Se alla teologia il sistema vedico affianca una "autologia", intesa come conoscenza del sé individuale attraverso la quale l'uomo può reintegrare la perduta unità con il Sé assoluto, questa resta tuttavia strada impercorribile dall'uomo comune, al quale si chiede un "retto agire" fondato sul rito, che accompagna e scandisce ogni atto significativo della vita, riconducendolo a quella mistica, matematica armonia dell'ordine cosmico che è lo ṛta. Fra gli dei del politeismo indoario grande importanza riveste Agni, il fuoco, che lungo la strada del fumo reca le offerte sacrificali degli uomini agli dei celesti. Il rito, in qualunque forma venga compiuto, ha dunque come elemento necessario e conclusivo lo homa, il sacrificio del fuoco, su cui si versa l'oblazione. Per il rito domestico (gṛhyakarman), compiuto dal capofamiglia con l'eventuale assistenza di un sacerdote, era sufficiente il focolare; per quello di carattere pubblico (śrautakarman), officiato necessariamente dalla casta sacerdotale e che poteva durare anche diversi giorni (un anno quello dell'aśvamedha, o sacrificio del cavallo, con cui il re legittimava il potere sul territorio), era necessario invece erigere altari in mattoni cotti in uno spazio sacrificale opportunamente scelto. Tali altari venivano di norma dati alle fiamme e spoliati alla conclusione del rito. Restano dunque dubbi i pretesi riconoscimenti archeologici di altari vedici, come ad esempio lo śyenaciti (o "altare dello sparviero", così detto per la sua forma particolare, su cui si immolavano, secondo i testi, sette vittime diverse, fra cui anche un uomo) che G.R. Sharma ritenne di aver rinvenuto a Kaushambi, datandolo al II sec. a.C. Un altro altare, rinvenuto a Jagatgram e datato al III sec. d.C., avrebbe segnato il luogo in cui un tale re Shilavarman avrebbe eseguito, come ricorda un'iscrizione, il suo quarto aśvamedha. Ai riti del fuoco era strettamente connesso il soma, bevanda inebriante assimilata simbolicamente all'acqua dell'immortalità, ricavata probabilmente da specie vegetali diverse, che veniva versata sul fuoco ma, in determinate circostanze, anche libata. Una traccia archeologica di libagioni rituali presso popolazioni proto-indoarie può essere considerato l'uso cerimoniale, sia pure attestato in contesto funerario nelle necropoli protostoriche dello Swat, di vasi potori, tra cui le cosiddette brandy bowls. La religione vedica, da cui trae origine l'induismo, fu dunque essenzialmente sacrificale e aniconica, così come aniconico fu all'inizio anche il buddhismo. È solo a partire dal II sec. a.C. che sembra affermarsi la concezione dell'immagine di culto in termini figurativi. È significativo che le prime sculture a tutto tondo ritraggano divinità ctonie: yakṣa, volubili divinità encorie dispensatrici di fertilità e abbondanza, nāga (serpenti rappresentati con caratteri antropomorfi), signori del mondo sotterraneo e guardiani delle sue ricchezze, legati all'acqua, alla fertilità e all'eternità ciclica del cosmo (Ananta, il "senza fine", è detto il serpente cosmico), ma anche liṅgam, come quello figurato di Gudimallam (seconda metà del I sec. a.C. - prima metà del I sec. d.C.?). Nello stesso periodo è attestato archeologicamente anche il culto degli eroi, menzionato nelle iscrizioni di dhvaja-stambha (come probabilmente sulla colonna di Eliodoro a Besnagar, II-I sec. a.C.) e in quelle, comprese tra la seconda metà del I sec. a.C. e l'inizio del I d.C., di Ghosundi, di Nanaghat in Maharashtra, di Mora Well a Mathura; quest'ultima (25 d.C. ca.), contiene inoltre un esplicito riferimento a immagini ( pratimā) venerate all'interno di un tempio (devagṛha). Fu soprattutto nella zona di Mathura che, nel fecondo ciclo artistico a ridosso dell'era cristiana, si elaborarono i primi tipi iconografici di molte divinità induiste e, probabilmente, anche del Buddha, alla fine di un lungo processo di transizione innescato forse dal contrasto tra religione vedica e movimenti religiosi eterodossi. Fra le testimonianze archeologiche più importanti si devono annoverare quelle numismatiche, che illustrano lo sviluppo delle immagini di culto, da alcuni rari tipi monetali del re indogreco Agatocle (170 a.C. ca.), che mostrano le prime effigi di divinità induiste (da taluni invero ritenute di invenzione greca), al Pantheon oramai ricchissimo delle monete Kushana (I-III sec. d.C.), dove modelli tratti in buona parte da tipi iconografici occidentali appaiono adattati al composito panorama etnico e religioso del Nord-Ovest del Subcontinente. I rilievi di questo periodo illustrano tuttavia anche tradizioni di più antica data, destinate ad essere messe in ombra dal nuovo corso: tale è ad esempio il culto dell'albero, certo antichissimo, che si travasa all'interno del buddhismo nella forma del culto dell'albero della bodhi (Illuminazione), assumendo valenze soteriologiche. I rilievi buddhistici ne tramandano diverse immagini, che lo mostrano circondato da un recinto o da una più elaborata struttura a ripiani (bodhighara), all'interno dei quali si svolgevano i riti lustrali e processionali. Il peculiare impianto narrativo dell'arte del Gandhara ci ha preservato immagini di pratiche cultuali e di oggetti rituali di scarsa riconoscibilità archeologica. La vita del principe Siddhartha, prima della rinuncia al mondo, appare scandita dai riti pertinenti alle caste alte della società brahmanica, officiati da sacerdoti e incentrati sul fuoco e sull'acqua lustrale, contenuta in un vaso ansato con lungo versatoio. Sia di questo oggetto sia di altri collegati ai riti del fuoco (torce, bracieri, incensieri) possediamo numerosi riscontri archeologici, anche se non abbiamo la certezza che la tipologia di questi materiali si discostasse da quelli di uso domestico o comunque laico. La raffigurazione di riti connessi al fuoco (officiati sia da laici, sia da monaci) che compare ai piedi di immagini di culto, Buddha e Bodhisattva, suscita maggiore perplessità, dal momento che essi illustrano, in questo contesto, non più il costume tradizionale, teoricamente rifiutato dal buddhismo, ma pratiche correnti all'interno della stessa comunità monastica. G. Verardi (1994) ha recentemente richiamato all'attenzione questo fenomeno, in cui forse si deve riconoscere non già, o non solo, una mera concessione a usi radicati nella pratica religiosa, quanto l'inizio di una nuova liturgia, che, pur muovendo dalla tradizione, assume caratteri e scopi indipendenti e che troverà una codificazione solo in seno al più tardo buddhismo tantrico. Mentre rientra nelle pratiche canoniche la pradakṣinā (processione rituale intorno allo stūpa), spesso illustrata dai rilievi, di difficile lettura appaiono le scene di carattere dionisiaco o esplicitamente erotico. Poco pertinenti al contesto appaiono anche le scene di musica e danza, per alcune delle quali (come, ad es., in certi rilievi di Sanchi, in Madhya Pradesh, o di Butkara, in Pakistan) la spiegazione va cercata forse negli stessi testi buddhistici, che ne menzionano l'uso rituale nelle tradizionali feste religiose indiane. Benché questa pratica fosse condannata come estranea allo spirito del buddhismo e restasse interdetta ai monaci, questi potevano comunque commissionarne a terzi l'esecuzione durante i riti di consacrazione dello stūpa. I testi normativi di periodo Gupta (IV-VI sec. d.C.) ci offrono un dettagliato resoconto degli elaborati riti di consacrazione del tempio induista, che dobbiamo comunque ritenere assai più antichi della loro canonizzazione. Molti di essi, intesi a purificare il luogo e a trasformarlo nel grembo fertile da cui possa germogliare l'"embrione" del tempio, non lasciano tracce archeologiche. Sono invece documentati depositi rituali di fondazione, in armonia con quanto prescritto dai testi, che consistono spesso di tavolette di terracotta con figure di loto a otto petali, come quello, ornato di pietre semipreziose, rinvenuto sul fondo di una struttura minore nel complesso templare di Chandraketugarh. Attestazioni analoghe provengono dai templi altomedievali di Sagarhawa, nel tarāī nepalese, dove al di sotto della tavoletta di fondazione sono stati rinvenuti in alcuni casi altri oggetti, tra cui figurine di serpenti e tartarughe, simboli dell'indispensabile elemento acquatico dotati nel contempo di potere auspicale. Nel costume religioso del periodo, che ricalca sicuramente una tradizione di lunga data, l'offerta votiva è spesso ispirata all'universo quotidiano e a una sorta di intimità fisica con la divinità, che viene lavata, nutrita, abbigliata e addobbata. Le offerte sono dunque di natura deperibile, come lo sono, nella maggior parte dei casi, anche i contenitori. Poco si conosce, del resto, sull'uso rituale del vasellame in genere, anche se in particolari tipologie (come il vaso ansato con versatoio o ceramiche caratterizzate da particolari decorazioni o da forme antropomorfe o teriomorfe, diffuse e attestate già in siti neolitici) si riconosce una possibile connessione con pratiche cultuali. Per molti oggetti inoltre, sia pure di accertato valore religioso, permane il dubbio sulla specifica funzione, dipendendo dal contesto e dall'intenzionalità la loro destinazione al culto, al rito o all'offerta votiva, come nel caso di quelli, assai popolari, variamente collegati ai culti della fertilità. Tra questi si annoverano i cosiddetti votive tanks, vasche e altari in miniatura; realizzati in terracotta, modellati a mano, essi coprono un orizzonte cronologico compreso tra il III-II sec. a.C. e il IV sec. d.C., con una maggiore concentrazione in periodo Kushana (I-III sec. d.C.). Dal tipo più antico, una semplice vaschetta sulle pareti o sul fondo della quale sono applicate piccole lucerne, si passa ad esemplari più complessi, che riproducono cappelle o verande dalle quali si affaccia, spesso dal sommo di una scala, una divinità femminile; intorno, figure animali simboliche e auspicali: uccelli, tartarughe e serpenti, cui si accompagnano talora musici che suonano strumenti a percussione. Su questo conciso microcosmo, in cui tutti gli elementi (fuoco, terra, acqua, aria) sono presenti, domina dunque la divinità femminile, espressione del potere magico della fecondità. Allo stesso potere magico sembrano appellarsi piccoli dischi e anelli di pietra, diffusi in epoca Maurya (IV-II sec. a.C.), decorati a rilievo con simboli augurali e, talora, con l'immagine di una divinità femminile nuda, seppure non manchi chi abbia visto in essi semplici oggetti decorativi per porte e pareti, orecchini o addirittura strumenti anticoncezionali. Sono gli anelli a suggerire più esplicitamente una funzione rituale, connessa forse al passaggio attraverso l'utero da cui inizia la vita, significato che sembra perpetuarsi in certi usi odierni: alla pietra Shrigundi, presso Bombay, si attribuisce ad esempio il potere di guarire chi passa attraverso la sua cavità, come per una seconda nascita. Più comuni sono le placche in terracotta, certo destinate anche al culto domestico; per lo più ancora generica espressione di culti della fertilità in epoca Shunga (II-I sec. a.C.), esse si differenziano maggiormente in epoca Kushana, quando tra i soggetti iconografici compaiono divinità del Pantheon induista (Karttikeya, Vishnu, Lakshmi, ecc.). Sicuramente oggetti votivi sono gli āyāgapaṭa, piccoli pannelli di pietra di tradizione Jaina, decorati per lo più con raffigurazioni simboliche (conchiglie, swastika, ecc.), che nella zona di Mathura, in epoca Kushana, sono quasi sempre identificati dalle iscrizioni come donazioni femminili. La tradizione dell'offerta votiva acquista particolari connotazioni in seno al buddhismo; documenti epigrafici di epoca Shunga testimoniano che la committenza di opere monumentali di carattere religioso non è più esclusivo appannaggio della dinastia regnante, ma espressione corale di nuove classi cittadine emergenti (mercanti, banchieri), che cercano nella nuova religione la riconoscibilità e l'affermazione sociale che la rigida organizzazione castale di tradizione brahmanica non consente. L'offerta votiva è dunque il dono di una parte del monumento, o l'equivalente in denaro di essa, solitamente ricordata da un'iscrizione che contiene il nome del donatore, la sua professione di fede e una dichiarazione di offerta che la tradizione buddhistica vuole a beneficio non soltanto del donatore, ma anche di altri esseri viventi. Una particolare categoria di oggetti votivi sono i reliquiari, di varia forma e materiale, talora multipli, inseriti cioè l'uno all'interno dell'altro, in materiali via via più preziosi; destinati a contenere reliquie sacre (da reliquie corporali di "santi", nella tradizione inaugurata dalle reliquie dello stesso Buddha, a simboli sostitutivi del "corpo della dottrina", ad es. testi sacri), accompagnate sovente da piccoli oggetti preziosi, essi assolvono ad una funzione votiva e rituale ad un tempo, poiché la loro deposizione all'interno o alla base del monumento (stūpa, colonna votiva) ne segna anche la consacrazione. Oggetti destinati a più duratura fortuna fuori dal Subcontinente indiano sono tavolette, sigilli e cretule, di argilla modellata a mano o a stampo, con raffigurazioni di stūpa o di divinità buddhistiche o brevi testi contenenti una professione di fede, talora essi stessi celati all'interno di stūpa in miniatura. Anche di questi oggetti, che compaiono nelle aree settentrionali in epoca relativamente tarda (VI-VIII sec.?), per scomparire rapidamente con il declino del buddhismo, tanto l'archeologia quanto le fonti letterarie suggeriscono un impiego differenziato, dal semplice oggetto-ricordo, fabbricato per i pellegrini, all'offerta votiva (posta verosimilmente, come per i più noti ts'a-ts'a tibetani, in prossimità del monumento sacro), all'uso cerimoniale nei riti di consacrazione. Rinvenuti in scarsa quantità e spesso fortuitamente in area indiana, essi potrebbero costituire tuttavia un documento prezioso per la conoscenza di un'epoca assai mal nota; appare pertanto di grande interesse la recente scoperta di tavolette votive con credo buddhista all'interno di una nicchia nello stūpa di Shnaisha (Swat, Pakistan), forse relative ad una sorta di "riconsacrazione" del monumento in epoca tarda.

Bibliografia

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