L'ETA ANTICA

Enciclopedia dei Papi (2000)

L'ETA ANTICA

Manlio Simonetti

L'ETÀ ANTICA

Le fonti

Al fine di conoscere la storia del papato dal I al VI secolo, mediamente le fonti sono scarse e soprattutto, com'è naturale attendersi, non uniformemente distribuite, in quanto aumentano gradualmente a mano a mano che, a partire dalle origini della Chiesa di Roma, si avanza nel tempo: schematizzando, si può precisare che fin verso la fine del II secolo le fonti sono rare, tali da lasciare interamente priva di notizie buona parte di quel tempo; per il III secolo e parte del IV cominciano ad arricchirsi ma non tanto da non lasciare ancora scoperti alcuni vuoti; a partire dall'età di Damaso diventano non solo più abbondanti ma soprattutto più uniformemente distribuite. Sono in massima parte di carattere letterario: infatti le testimonianze archeologiche ed epigrafiche, che a partire dall'inizio del III secolo si fanno via via più copiose, ricchissime di dati per quanto attiene alla storia della comunità cristiana di Roma, lo sono incomparabilmente di meno in merito alle specifiche vicende dei singoli papi¹. È ovvio che per informazione dettagliata su di loro si rimanda alla bibliografia delle rispettive voci, e qui ci si limita a un cenno sommario riguardante testi e documenti di portata più generale. La Historia ecclesiastica di Eusebio, in quanto interessata soprattutto alle vicende della Chiesa in Oriente, solo occasionalmente fornisce dati utili all'argomento che qui si tratta, ma sono sempre dati molto importanti: è da una lettera citata da Eusebio che si ricava, per esempio, l'unico dato sicuro, per tutta l'età antica, che dia qualche informazione riguardo all'entità numerica della comunità cristiana di Roma². Eusebio non ha particolare interesse per le vicende di singoli personaggi della Chiesa romana e le sue notizie sono di argomento più generale. La medesima considerazione va fatta a proposito degli storici continuatori di Eusebio, di cui il solo Rufino, in quanto latino, è interessato ai fatti della Chiesa d'Occidente e perciò fornisce qualche dato utile. Di origine e carattere completamente diversi sono due testi contenuti nella raccolta di documenti definita Cronografo del 354. La Depositio episcoporum è un elenco contenente l'indicazione del luogo di sepoltura e del giorno della celebrazione liturgica, normalmente quello della morte, riguardanti i papi che si sono susseguiti dal 255 al 352. Si suole chiamare invece Catalogo Liberiano un altro testo del Cronografo, un elenco di papi da Pietro a Liberio (352-366), redatto quando questi era ancora in vita, perché a differenza dai suoi predecessori per lui riporta la sola data di accesso (espressa come di solito con l'indicazione degli anni consolari), ma non quella di morte, né la durata del suo episcopato. I dati cronologici del Catalogo Liberiano sono degni di fede solo a partire dal secondo quarto del III secolo, mentre per il periodo precedente sono puramente indicativi. L'elenco del Catalogo Liberiano servì come base cronologica per la stesura della prima parte del Liber pontificalis. Con questo titolo si definisce un'ampia compilazione consistente in una serie di notizie riguardanti la serie dei vescovi di Roma da Pietro a Stefano V (885-891). Secondo L. Duchesne, che del Liber pontificalis ha fornito una esemplare edizione con ampia introduzione e commento³, una sua prima redazione (Duchesne parla di edizione, ma il termine si presta a fraintendimenti) sarebbe stata pubblicata sotto il pontificato di Ormisda (514-523), e continuata da due distinti autori, il primo fino a Felice IV (526-530), il secondo fino alla notizia su Silverio (536-537). Questa prima redazione, andata perduta, è ricostruita da Duchesne mediante il raffronto di due compendi o cataloghi, indipendenti l'uno dall'altro, che si sogliono chiamare rispettivamente "feliciano" e "cononiano" in quanto terminano il primo con Felice IV, il secondo con Conone (686-687). Il Liber pontificalis che ci è conservato, e al quale si fa comunemente riferimento, è un rifacimento della prima redazione, opera di un autore che avrebbe scritto sotto papa Vigilio (537-555), e contemporaneo dei suoi immediati predecessori. Si può dire che dalla notizia su Silverio a quella su Adriano II (867-872) le diverse notizie sono opera per lo più di contemporanei dei singoli papi. Un'altra edizione del Liber pontificalis, senza commento e portata a termine fino a papa Costantino (708-715), fu curata da Th. Mommsen⁴, il quale, contro Duchesne, sostenne la tesi, ora per lo più accantonata, secondo cui la prima e la seconda redazione dell'opera si sarebbero dovute posticipare agli inizi e alla metà del VII secolo⁵. Nonostante le carenze e l'inattendibilità di molte notizie relative soprattutto ai papi più antichi, e la tendenziosità di altre di data più recente, il Liber pontificalis è un documento essenziale per conoscere la storia della comunità cristiana di Roma e in particolare dei suoi vescovi.

Alle origini della Chiesa di Roma

La lettera che Paolo inviò ai cristiani di Roma intorno all'anno 57 per preannunciare il suo arrivo tra loro costituisce per quanto oggi si sa il primo documento sicuro della presenza di una comunità cristiana nella capitale dell'Impero. Si può forse risalire a qualche anno più indietro di questa data sulla base della notizia di Svetonio (Claudius 25, 4), dalla quale s'apprende che l'imperatore Claudio, intorno al 49, aveva fatto scacciare da Roma i giudei che litigavano tra loro impulsore Chresto: è infatti opinione oggi prevalente tra gli studiosi, anche se non incontrastata, che la notizia vada interpretata identificando Cresto con Cristo, per cui i litigi che sconvolgevano la ricca e numerosa comunità giudaica di Roma sarebbero da riportare alla reazione provocata in essa dalla propaganda dei primi missionari cristiani; in effetti a questa data quella dei cristiani si configurava ancora come una delle varie tendenze ideologiche (farisei, sadducei, esseni, ecc.), che si distinguevano all'interno del giudaismo sia palestinese sia della diaspora. Per tornare a Paolo, non consta che egli abbia potuto portare a effetto il proposito di recarsi a Roma; vi giunse, per altro, qualche anno dopo, nella primavera del 61, in qualità di prigioniero, per esservi giudicato: la notizia, che conclude gli Atti degli apostoli (28, 16-31), informa che, nonostante le restrizioni imposte a Paolo dal domicilio coatto, egli fu in grado di diffondere intorno a sé il messaggio di Cristo. Qualche anno dopo, nel 64, secondo la notizia di Tacito (Annales 15, 44), Nerone ordinò di ricercare e condannare i cristiani di Roma, addossando loro la responsabilità dell'incendio della città, al fine di rimuovere da sé il sospetto di esserne stato proprio lui il mandante. Dei tanti cristiani suppliziati in quell'occasione si può dare nome soltanto a Pietro e Paolo, secondo quanto informa la lettera di Clemente Romano ai cristiani di Corinto, scritta verso la fine del I secolo. Più o meno un secolo dopo, all'inizio del III, un altro scrittore cristiano di Roma, di nome Gaio, secondo una testimonianza conservata da Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica II, 25, 6-7), conferma quella notizia e informa che Pietro era stato sepolto sul colle Vaticano e Paolo lungo la via Ostiense. Dal canto suo Eusebio nel Chronicon fissa il martirio di Pietro e Paolo tra il 64 e il 67. Mentre la presenza di Paolo a Roma non è stata mai seriamente contestata, per lungo tempo da parte protestante si è negata invece l'attendibilità delle notizie attestanti la presenza e il martirio, e la conseguente sepoltura, di Pietro a Roma. Il diniego per altro era sollecitato da motivazioni d'ordine ideologico più che scientifico, e oggi quella presenza è ormai data per scontata nell'ambito degli studiosi. Una serie di scavi, effettuati tra il 1940 e il 1949 sotto l'attuale basilica, ha verificato l'attendibilità della tradizione, portando alla luce, all'interno del monumento funebre di Pietro costruito al tempo di Costantino, i resti di una tomba più antica, rimontante al I secolo: per alcune ossa, scoperte in un loculo scavato in un muro all'interno della tomba d'età costantiniana e risultate essere appartenute a un uomo di circa sessant'anni, è stato fatto, non senza contrasti, il nome dell'apostolo⁶. Ma, ciò assodato e fissata la venuta di Pietro a Roma piuttosto dopo quella di Paolo che non prima, nulla assolutamente si sa del breve soggiorno romano dei due apostoli. La notizia riferita dalla lettera di Clemente (5, 1-5), che ritiene la gelosia (ζῆλοϚ) e l'invidia (ϕθόνοϚ) causa della morte dei due apostoli, di non agevole decifrazione, può far pensare che al tempo della persecuzione neroniana nella comunità cristiana di Roma non regnasse grande armonia. La cosa non ci sorprende, perché da Galati 2 e 1 Corinzi 1, 11 si ricava che i rapporti tra i due non erano dei migliori. In effetti, Paolo nella Chiesa primitiva rappresentava la tendenza che propugnava la più larga apertura del messaggio di Cristo ai pagani, senza far più alcun conto delle tradizionali osservanze legali e cultuali dei giudei, in opposizione alla tendenza giudaizzante che voleva osservate quelle tradizioni anche dai pagani che aspirassero a entrare nella Chiesa. Pietro per certo non s'identificava con questa tendenza rigorista ma neppure con l'atteggiamento aperto di Paolo, alla ricerca, forse, di una mediazione di cui, per mancanza di documentazione, non si riesce a intravedere i contorni. Da quanto Paolo racconta in Galati 2, ad Antiochia Pietro, dietro pressione di cristiani giudaizzanti, aveva interrotto la comunanza di tavola con gli etnocristiani (cristiani di origine pagana), che i giudei consideravano impuri, e dato che proprio durante la cena avveniva la celebrazione eucaristica, massimo segno di aggregazione nella vita della nuova comunità, questa separazione implicava di fatto la divisione dei giudeocristiani dagli etnocristiani. Dato questo significativo precedente, non si può escludere che, durante la permanenza a Roma di Pietro e Paolo, anche questa comunità cristiana si fosse analogamente scissa in due parti. Come che sia, la lettera di Clemente dà a vedere che, alcuni decenni dopo il martirio di Pietro e Paolo, la comunità cristiana di Roma aveva composto e superato questa situazione di contrasto, unificando nella glorificazione il ricordo dei due apostoli, definiti le "colonne" della Chiesa di Roma. L'autore di questa lettera dimostra di conoscere alcune lettere di Paolo e ne ripete qualche concetto fondamentale, quale quello della giustificazione in virtù della fede; ma si tratta di un paolinismo solo superficiale, e invece dal complesso dell'esposizione si ricava l'impressione che quella romana fosse una comunità cristiana di ispirazione tendenzialmente più giudaizzante di quanto non fossero le comunità di fondazione e di indirizzo dichiaratamente paolini. Tra i segni più vistosi di tale osservanza giudaizzante, insieme con alcuni spunti dottrinali sui quali ci si soffermerà più in là, va annoverata l'organizzazione presbiterale della comunità, in quanto essa era diretta e amministrata da un Collegio di presbiteri, dove il significato del termine (presbyteros, anziano, vecchio) va inteso in senso più funzionale che anagrafico. Era un tipo di organizzazione comunitaria esemplato direttamente su quello della sinagoga giudaica, cui faceva concorrenza uno di tradizione paolina impostato sull'autorità di vescovi (epìskopoi) e diaconi, le cui precise funzioni si sarebbero per altro precisate solo gradualmente col passare del tempo. Anche nella Chiesa di Roma la lettera di Clemente attesta l'esistenza di vescovi e diaconi (42, 5), di cui però non vengono specificate le funzioni, mentre parla dei presbiteri come di coloro che erano incaricati dell'effettivo governo della comunità (44, 1). L'interferenza di due istituti di origine diversa si spiega, a Roma, in relazione con la presenza contestuale di Pietro e di Paolo, e la definizione dell'effettivo governo della comunità col termine di episkopè, che era affidata al Collegio dei presbiteri, fa pensare all'identificazione almeno parziale delle due qualifiche, nel senso che alcuni dei presbiteri, più influenti degli altri, potrebbero essere stati definiti anche vescovi. Alcuni decenni dopo, intorno al 140, un altro scritto di origine romana, il Pastore di Erma, attesta la stessa interferenza: ma mentre, quanto ai vescovi, si accenna al loro compito di accogliere gli ospiti e di tutelare poveri e vedove (Similitudine 9, 27, 2), viene detto esplicitamente che erano i presbiteri a presiedere al governo della comunità (Visione 2, 4, 3). La persistenza, a Roma, dell'ordinamento presbiterale della comunità acquista ora, verso la metà del II secolo, rilievo particolare, in quanto ad Antiochia, in Asia e altrove ormai la struttura di governo delle comunità cristiane si era evoluta in senso episcopale monarchico, in quanto supremo reggitore della comunità era il vescovo, assistito dal Collegio dei presbiteri e dai diaconi. Data l'ormai prevalente diffusione di questa forma di governo nelle comunità cristiane, la persistenza, a Roma, dell'autorità del Collegio presbiterale va considerata quale testimonianza della tendenza giudaizzante della comunità e anche, come vedremo meglio appresso, di un livello modesto di coesione interna. Per altro, la Chiesa di Roma, che era formata ancora in maggioranza da elementi d'origine orientale e che perciò, come attestano anche i due scritti sopra ricordati, si esprimeva ufficialmente in greco, proprio in quanto risiedeva nella capitale dell'Impero veniva gradualmente assumendo una particolare configurazione nei confronti di tutto il resto della Cristianità: anche se molti cristiani erano convinti che l'Impero in generale e Roma in particolare fossero espressione privilegiata del potere del male, il prestigio dell'Urbe, centro del mondo, era tale da ripercuotersi anche a beneficio della comunità cristiana là dimorante; e il privilegio di conservare e venerare la memoria degli apostoli Pietro e Paolo giustificava, dandogli senso cristiano, questo prestigio singolare. Già la lettera di Clemente, alla fine del I secolo, presentando la richiesta rivolta dalla Chiesa di Corinto a quella di Roma di intervenire per mettere fine allo stato di disordine in cui versava quella comunità, testimonia l'autorità di cui godeva la Chiesa romana, e ulteriore conferma proviene da una serie di testimonianze scaglionate lungo il II secolo (Ignazio, Abercio, Ireneo): in un contesto ecclesiale strutturato complessivamente in forma federativa (per cui le comunità cristiane attive ormai in numerose città dell'Impero Romano, pur strettamente collegate tra loro in forza dell'unica fede in Cristo che di esse faceva una sola Chiesa, quanto a governo erano indipendenti una dall'altra) è fuori di dubbio che già allora, venuta meno, con la distruzione da parte dei Romani di Gerusalemme, la Chiesa madre, quella di Roma era considerata, per tradizione e dignità, la più autorevole di tutta la Cristianità. D'altra parte, dal risiedere nella capitale del mondo derivarono alla comunità cristiana di Roma anche altre caratteristiche. La città, data la sua singolare importanza, era soggetta a immigrazione da tutte le parti dell'Impero in misura ben maggiore rispetto a quanto si verificava in altri grandi centri dell'epoca. Si sa infatti che nella Roma imperiale risiedevano stabilmente comunità di immigrati dall'Africa e da varie regioni d'Oriente, che nei limiti del possibile tendevano a rimanere unite e a conservare le loro tradizioni. Questa caratteristica va estesa anche alla comunità cristiana, tenendo soprattutto conto che essa per tutto il II secolo fu caratterizzata, come già s'è rilevato, dalla prevalenza degli Orientali, di svariata provenienza: bisogna perciò immaginare la coesistenza di una pluralità di gruppi cristiani non omogenei per etnia e tradizione, che tendevano a conservare anche nella nuova patria la loro individualità: e accanto ad alcune particolarità di carattere liturgico, si deve tener conto anche di altre di carattere dottrinale. In complesso, perciò, la comunità romana appare caratterizzata, per quasi tutto il II secolo, da tendenze centrifughe e per conseguenza da una struttura interna il cui quoziente di coesione non può non essere stato piuttosto debole. Non sembra perciò azzardato a questo punto ipotizzare che nella Chiesa di Roma il Collegio dei presbiteri, almeno in certa misura, avrà rappresentato la proiezione, a livello gerarchico, della pluralità di gruppi etnici che caratterizzavano quella Chiesa a livello comunitario. Si aggiunga che, come tra i pagani Roma rappresentava la scena ideale per chi avesse in animo di presentare qualche novità in campo letterario, filosofico, culturale in genere, così anche tra i cristiani, soprattutto orientali, ben presto ci fu la tendenza, da parte di non pochi, ad accreditare presso quella comunità le proprie proposte d'ordine dottrinale, soprattutto nel caso che esse avessero avuto accoglienza non benevola nelle rispettive comunità d'origine. È il caso, in primo luogo, di Marcione, che fu allontanato dalla Chiesa di Roma nel 140, e dopo di lui vanno ricordati gli gnostici Valentino, Tolomeo, Marcellina. In effetti la storia della Cristianità nel II secolo fu segnata in modo decisivo da alcune crisi, le maggiori delle quali, quella marcionita e quella gnostica, a causa del rifiuto, in senso antigiudaizzante, dell'Antico Testamento, mettevano in questione l'autocoscienza stessa della Chiesa. In questo contesto ci fu occasione di discutere, e non poco, anche della tradizione. Posto infatti che ogni novità che volesse aver diritto di cittadinanza nella Chiesa doveva in qualche modo collegarsi con la tradizione apostolica⁷, che era avvertita come fondamento dell'intero edificio della Chiesa, per primi gli gnostici, al fine di avvalorare le loro dottrine, di contenuto a volte esoterico, cercarono di collegarle con quella tradizione per tramite di personaggi di oscura storicità. In polemica con loro la Chiesa cattolica fondò la sua autorità sulla successione più pubblica che potesse allora esibire, quella dei vescovi, con conseguente elaborazione delle liste episcopali delle principali comunità cristiane. Quindi verso la fine del II secolo Ireneo (Adversus haereses III, 3, 3) attesta per la prima volta la lista dei vescovi di Roma, dalle origini della Chiesa fino al tempo suo: dopo Pietro e Paolo egli enumera in successione Lino, Anacleto, Clemente, Evaristo, Alessandro, Sisto, Telesforo (qualificato martire), Igino, Pio, Aniceto, Sotero, Eleuterio. Si è per altro già rilevato come, a differenza di Antiochia e di tante altre comunità orientali, quella di Roma, come anche quella di Alessandria, per gran parte del II secolo si fosse retta con un'organizzazione presbiterale: ci si può allora chiedere in base a quali criteri sia stata redatta questa lista, vale a dire per quali motivi alcuni personaggi di rilievo della locale comunità cristiana, con ogni probabilità appartenenti al Collegio dei presbiteri, siano stati prescelti a preferenza di altri e considerati vescovi veri e propri. Dato che sia Clemente sia Erma attestano la presenza a Roma di vescovi (epìskopoi) appartenenti al Collegio dei presbiteri, è possibile ipotizzare che, presentatasi per i motivi suddetti l'urgenza di stabilire una lista episcopale, uno di loro sia stato indicato di volta in volta come unico vero e proprio vescovo della comunità. Quel che è certo è che i personaggi enumerati nella lista episcopale fino a Pio compreso sono oggi solo nomi, privi di un benché minimo spessore storico. Anche Clemente, il cui nome come autore della lettera ai cristiani di Corinto è attestato da tradizione molto antica, non si dà mai a vedere come tale nella lettera, che è indirizzata ai cristiani di Corinto a nome dell'intera comunità romana e in special modo del Collegio dei presbiteri. Con Aniceto qualcosa di concreto si comincia a intravedere nell'oscurità provocata dalla carenza di documentazione. Si è a conoscenza, grazie a una lettera di Ireneo riportata da Eusebio (Historia ecclesiastica V, 24, 16-17), che intorno al 154 Policarpo, vescovo di Smirne, venne a Roma per discutere con Aniceto riguardo alla datazione e alla celebrazione della Pasqua, sulle quali c'era contrasto tra le Chiese d'Asia e la Chiesa di Roma. La questione interessava nel modo più diretto soprattutto la comunità romana, perché gli asiatici che ne facevano parte celebravano quella festività, la più importante, in una data diversa rispetto al resto della comunità. Dice Ireneo che i due vescovi non erano riusciti a trovare un accordo, pur essendo rimasti in comunione tra loro, col risultato che gli asiatici di Roma continuarono a celebrare la Pasqua secondo la propria tradizione, segno eloquente della scarsa coesione della comunità. Quanto ai due ultimi vescovi della lista fornita da Ireneo, di Sotero si sa soltanto che fu in corrispondenza con Dionigi vescovo di Corinto, mentre Eleuterio ebbe contatti con Ireneo. Questi, nella lettera sopra citata, qualifica ancora i vescovi di Roma col nome di presbiteri, evidente prova della vitalità dell'istituto presbiterale a Roma ancora verso la fine del II secolo. È per altro agevole supporre che la dignità del presbitero definito anche vescovo gradualmente si sia andata evolvendo in senso sempre più autoritario, sì che quello che prima era soltanto un primus inter pares alla fine del lento processo, e in gran ritardo, per quel che si sa e si può ipotizzare, rispetto al resto della Cristianità a eccezione di Alessandria, diventa finalmente vero e proprio vescovo monarchico. È opinione oggi prevalente tra gli studiosi che primo vescovo effettivamente monarchico di Roma sia da considerare, nell'ultima decade del II secolo, Vittore, un africano di lingua latina, perciò il primo vescovo romano non di origine orientale, e difficilmente questa coincidenza può essere considerata casuale: in effetti il suo episcopato stette a significare la crescente importanza che la componente di lingua latina stava assumendo nella comunità.

Eresie e persecuzioni

Rispetto alla politica di larga tolleranza che nel corso del II secolo la gerarchia aveva praticato nei confronti della scarsa coesione della comunità romana, l'episcopato di Vittore segnò una decisa inversione di tendenza, che si accompagnò con un'altrettanto decisa affermazione delle prerogative del vescovo, nel senso di portare avanti una politica di forte accentramento anche a costo di perdere frange marginali di dissidenti. In tale ordine d'idee la questione della diversa osservanza pasquale fu ripresa con ben altro spirito rispetto alla tolleranza di qualche decennio prima, e nonostante l'opposizione di Policrate di Efeso e di altri vescovi d'Asia e il richiamo di Ireneo alla moderazione, gli asiatici di Roma che non vollero uniformarsi all'osservanza pasquale romana furono scomunicati, cioè espulsi dalla comunità, e formarono un piccolo gruppo scismatico capeggiato da un certo Blasto⁸. In ambito dottrinale, superato ormai il pericolo rappresentato da marcionismo e gnosticismo, Vittore si oppose all'attività, in Roma, di altri movimenti e, tra gli altri, fece condannare come eretici i seguaci di Teodoto di Bisanzio, che i moderni definiscono monarchiani adozionisti: essi affermavano una concezione cristologica che vedeva in Cristo un mero uomo dotato di particolari carismi, che gli avevano meritato, dopo la morte e la risurrezione, l'adozione a Figlio di Dio. Ma proprio al tempo di Vittore si diffuse a Roma, provenendo dall'Oriente, un'altra forma di monarchianismo, quello modalista, che incontrò subito successo e provocò accesi contrasti che segnarono in modo decisivo la facies dottrinale della Chiesa di Roma. Per inquadrarli adeguatamente si deve risalire un po' indietro⁹. Già Paolo aveva proposto una dottrina cristologica che esaltava la dimensione soprannaturale di Cristo, Figlio di Dio in senso reale, fino a farla partecipare della divinità, e in questa linea nel prologo del vangelo di Giovanni il Figlio è definito Dio nella qualità di Logos divino, cioè di parola e sapienza divina personalmente distinta da Dio Padre, artefice della creazione e del governo del mondo. Di contro, la tendenza giudaizzante che si è detto contraddistinguere le origini della Chiesa romana vi aveva ispirato una cristologia di più basso profilo: in alcuni brevi spunti di argomento dottrinale contenuti nella lettera di Clemente, Cristo è celebrato soltanto quale redentore del mondo e dell'uomo e si ignora la sua attività cosmologica anteriore all'incarnazione. Qualche decennio dopo, nel Pastore di Erma, quest'attività viene rilevata in un contesto confuso per apporti di tradizioni diverse, per cui Cristo è rappresentato anche in figura angelica: mai, per altro, in questo testo Cristo viene definito Dio e si ignora anche la sua qualifica di Logos divino. Dato che gli scritti di Clemente e di Erma vanno considerati espressione ufficiale della gerarchia della Chiesa romana, queste omissioni appaiono quanto mai significative: infatti al tempo di Erma era ormai ben sviluppata e diffusa in varie comunità cristiane d'Oriente la dottrina cristologica che apprezzava Cristo nella figura di Logos divino, Figlio reale di Dio Padre, Dio egli stesso, personalmente distinto da lui, mediatore tra lui e il mondo nella creazione, nel governo e nella redenzione del mondo e dell'uomo. Il riserbo dell'ambiente cristiano di Roma riguardo a questa dottrina va perciò spiegato in ragione della tradizione giudaizzante della comunità, che sentiva come lesiva dell'affermazione di un solo Dio la presenza accanto a Dio Padre del Logos suo Figlio, in quanto questi si poteva configurare come un secondo Dio in subordine a Dio Padre. Si aggiunga che la definizione di Cristo quale Logos divino era molto valorizzata dagli gnostici e, per quanto l'elaborazione della dottrina assumesse in questi ambienti un aspetto specifico e ben differenziato, essa avvalorava i sospetti nei confronti di ogni qualsiasi definizione di Cristo come Logos, anche di significato antignostico. Una dottrina di questo genere, cioè impostata sulla qualifica di Cristo quale Logos divino ma ben lontana da ogni specificità gnostica, aveva insegnato a Roma Giustino intorno agli anni Sessanta del II secolo; ma per i motivi qui sopra accennati, è lecito dubitare del successo del suo insegnamento. Agli inizi del III secolo questa dottrina era rappresentata a Roma da un personaggio di tuttora non ben definita fisionomia, comunemente ma erroneamente definito Ippolito di Roma, sul quale si avrà poi modo di ritornare. Quindi al tempo di Vittore nella Chiesa di Roma era prevalente un'impostazione cristologica che, pur riconoscendo in Cristo un personaggio di qualità soprannaturale e perciò preesistente all'incarnazione, attivo, prima di questa, nella creazione e nel governo del mondo, riluttava a definirlo tout court Dio per timore di infirmare il dogma dell'unicità di Dio. Quando per altro questa dottrina fu radicalizzata, da Teodoto di Bisanzio, fino a fare di Cristo un mero uomo divinamente ispirato, Vittore non esitò a condannarla, ed è plausibile ipotizzare che questa condanna avrà in qualche modo agevolato la diffusione della dottrina concorrente che sopra si è definita monarchianismo modalista. Essa aveva in comune con l'adozionismo di Teodoto l'esigenza di salvaguardare la monarchia divina, cioè l'affermazione del monoteismo, che si riteneva compromessa dalla dottrina del Logos in quanto eccessivamente divisiva nel definire il rapporto tra Dio Padre e Cristo Logos, ma la soluzione che prospettava era agli antipodi della dottrina di Teodoto. Infatti, nel tentativo di salvaguardare insieme l'unicità di Dio e la divinità di Cristo, essa di fatto ne assorbiva la personalità in quella del Padre, riducendolo a mero modo di manifestarsi di quest'ultimo, donde il nome di modalismo con cui gli studiosi moderni definiscono questa dottrina: affermava infatti che era stato il Padre a patire sulla croce in figura di Figlio, donde il nome di patripassianismo con cui la dottrina fu allora definita in Occidente. Anch'essa per altro era di derivazione asiatica, alla pari dell'adozionismo: era stata formulata per la prima volta da Noeto di Smirne e la locale comunità cristiana l'aveva condannata; ma, importata a Roma, vi ebbe grande diffusione al tempo del pontificato del successore di Vittore, Zefirino, sotto la leadership prima di Cleomene e poi di Sabellio. Emarginata ormai in quanto eretica la dottrina adozionista di Teodoto e del suo successore Artemone, a contrastare il campo al modalismo nella comunità cristiana di Roma rimaneva soltanto la dottrina del Logos, i cui sostenitori erano capeggiati dal cosiddetto Ippolito di Roma. S'è scritto "cosiddetto" perché l'identità di questo personaggio, che comunemente e anacronisticamente viene considerato il primo antipapa, è tuttora molto discussa. Essa infatti è il risultato dell'identificazione di un esegeta e teologo orientale di nome Ippolito, attivo a cavallo tra II e III secolo, con un personaggio attivo a Roma nei primi decenni del III secolo di cui non si conosce il nome, autore, tra l'altro, di una Confutazione di tutte le eresie (Èlenchos), tramandata erroneamente sotto il nome di Origene. Ma questa identificazione, che è stata proposta per la prima volta negli anni Sessanta del XIX secolo ed è stata comunemente accettata per lungo tempo, in anni recenti è stata oggetto di forti e motivate critiche che convincono a mettere da parte la figura di Ippolito di Roma e a tenere distinti l'Ippolito orientale dall'autore romano dell'Èlenchos, che per comodità qui si definisce autore dell'Èlenchos¹⁰. Dal suo scritto, fonte unica e parziale di questi fatti, s'apprende che Zefirino (198-217/218), personalità di scarso rilievo dottrinale, cercava di mantenere una posizione mediana tra i modalisti da una parte e i sostenitori della dottrina del Logos dall'altra, ma la sua affermazione di non conoscere altro Dio fuori che Cristo lo collocava a molta distanza da questi ultimi, cui rimproverava di essere diteisti. La sua politica di mediazione fu continuata dal successore Callisto (217/218-222), che con ben altra determinazione ed energia, si decise a estromettere dalla comunità sia Sabellio, leader dei modalisti, sia l'autore dell'Èlenchos, insieme ai loro sostenitori radicali, a beneficio di una soluzione mediana cui cercò di dare un più preciso fondamento teorico. La sua formula, per altro, che identificava in un unico spirito divino il Padre e il suo Logos, storicamente definitosi in Cristo, era di fatto ancora molto sbilanciata in senso monarchiano, il che spiega la virulenza con cui l'autore dell'Èlenchos attacca il suo avversario. Né il contrasto tra i due era ristretto all'ambito dottrinale, in quanto investiva anche quello disciplinare riguardo al delicato problema della remissibilità dei peccati commessi dopo il battesimo. Alle origini della Chiesa la prassi penitenziale era stata limitata al battesimo, che nell'atto di ammettere il neofita nella Chiesa gli rimetteva tutti i peccati commessi nella vita precedente, e non contemplava possibilità di remissione per mancanze gravi e notorie commesse dopo la ricezione del battesimo. Ne derivava che quanti incorressero in tali mancanze venivano esclusi dalla comunità, per cui era inevitabile che si ponesse il problema della loro riammissione. Erma aveva scritto il Pastore proprio per proporre in modo ufficiale, nella Chiesa di Roma, una possibilità straordinaria di remissione dei peccati dopo il battesimo, che si poteva ottenere a determinate condizioni; ma in questo modo aveva cercato di ovviare alla difficoltà in modo pratico, senza preoccuparsi di risolverla a livello di teoria. Al tempo di Callisto essa era di nuovo al centro dell'attenzione della comunità. L'autore dell'Èlenchos, che propugnava un atteggiamento rigorista nei confronti dei peccatori, faceva carico a Callisto di accordare con eccessiva facilità il perdono di peccati gravi, soprattutto in materia sessuale, allo scopo di cattivarsi il favore della gran massa dei fedeli. In realtà il contrasto tra i due era di fondo, e saldandosi con la divaricazione in ambito dottrinale, rifletteva due contrapposte ideologie della Chiesa. Quella dell'autore dell'È-lenchos era la concezione elitaria e aristocratica della Chiesa intesa come comunità di pochi eletti e perfetti. Sul versante dottrinale questa esigenza si traduceva nell'affermazione della dottrina di Cristo Logos, che l'apertura all'influsso della filosofia greca caratterizzava come dottrina, almeno all'origine, colta e perciò a destinazione naturaliter elitaria. Sul versante disciplinare le corrispondeva grande rigidezza morale con conseguente mancanza di comprensione per le debolezze del prossimo e rifiuto della penitenza postbattesimale: all'apertura sul piano culturale si contrapponeva la chiusura sul piano disciplinare, e ambedue le contrapposte tendenze contribuivano a individuare una struttura comunitaria ristretta e tutta chiusa in se stessa. La Chiesa di Callisto, all'opposto, era una comunità che cercava di allargare al massimo le sue braccia nell'intento di offrire a tutti, anche a chi fosse alle prese in modo grave con la propria coscienza, una possibilità di recupero, pure a rischio di raccogliere, insieme col grano, anche la zizzania¹¹; e di contro era diffidente nei confronti delle troppo raffinate elaborazioni teologiche, che considerava facile fomite di eresia. Era una Chiesa tendenzialmente universalista, priva per altro di apprezzabili esigenze culturali, come significava anche la sua cristologia monarchiana di matrice molto meno colta della dottrina del Logos: perciò una Chiesa di livello molto più popolare di quella dell'autore dell'Èlenchos. La vittoria di Callisto sull'avversario determinò il successo di questa concezione della Chiesa, che impresse a fondo la sua impronta sulla comunità cristiana di Roma, fissandone il carattere in modo pressoché definitivo: accentramento gerarchico, buona organizzazione a livello strutturale e assistenziale, sostanziale chiusura a livello culturale. Roma cristiana, terminata la lotta tra Callisto e l'autore dell'Èlenchos, sarebbe stata d'ora in poi caratterizzata da un forte deficit culturale. Dalla morte di Callisto (222) al 250 si succedettero ben quattro papi, Urbano (222-230), Ponziano (230-235), Antero (235-236) e Fabiano (236-250), ma ben poco si sa di loro e delle vicende della Chiesa di Roma, la cui organizzazione, che necessitava di continuo aggiornamento in ragione delle dimensioni sempre crescenti, sembra sia stata particolarmente curata sotto l'aspetto assistenziale da Fabiano: da un dato riportato da Eusebio (Historia ecclesiastica VI, 43, 11) si sa che la Chiesa di Roma, che intorno all'anno 250 contava quarantasei presbiteri e sette diaconi e, si pensa, doveva contare da trentamila a cinquantamila fedeli, assisteva in modo sistematico e continuativo ben millecinquecento indigenti. Ma il fatto più significativo che si verificò in questo torno di tempo fu il riassorbimento nella comunità cattolica del gruppo scismatico che aveva fatto capo all'autore dell'Èlenchos: di costui si perdono le tracce dopo il 235 e non si sa in che modo e a quali condizioni i suoi seguaci siano stati reintegrati nella comunità. È comunque un dato di fatto che alla metà del secolo, mentre i monarchiani radicali, di tendenza sia modalista sia adozionista, sono al di fuori della comunità, il presbitero Novaziano, aperto sostenitore della dottrina del Logos, è libero di proporre la sua dottrina. Ma con questo personaggio si è arrivati a un altro snodo essenziale della storia della Chiesa di Roma, non tanto sotto l'aspetto dottrinale quanto disciplinare e per quanto attiene al rapporto tra Chiesa e Impero. Dopo il violento ma breve impatto della persecuzione di Nerone, la Chiesa di Roma aveva vissuto questo rapporto nel clima di precarietà determinato dall'ambigua legislazione anticristiana di Traiano, che prescriveva di punire i cristiani senza però ricercarli d'ufficio; perciò, come le altre Chiese, anche quella di Roma era stata soggetta a episodi di persecuzione sporadici e circoscritti a questa o quella persona ma in complesso non aveva subìto danni rilevanti. Per quanto attiene direttamente all'argomento che si sta trattando, si è già ricordata la notizia del martirio di Telesforo; quanto a Callisto, egli fu ucciso nel contesto delle violenze a danno di Orientali che si ebbero a Roma alla morte dell'imperatore Elagabalo (222), mentre effettivamente Ponziano nel 235 fu inviato ad metalla in Sardegna in quanto cristiano. Ma dopo un lungo e quasi ininterrotto periodo di tranquillità per i cristiani sotto i Severi prima e Filippo l'Arabo poi, alla metà del III secolo l'imperatore Decio si decise a un radicale mutamento di politica con l'emanazione di un provvedimento di carattere generale a loro danno. A Roma papa Fabiano fu la prima vittima di questa nuova persecuzione, che imperversò soltanto per pochi mesi, fece pochi martiri ma indusse moltissimi cristiani ad abiurare la loro fede. In questa difficile contingenza il Collegio dei presbiteri decise di attendere tempi migliori per dare un successore a Fabiano e durante il breve interregno provvide ad affrontare subito lo spinoso problema riguardante i lapsi (letteralmente, coloro che erano scivolati, caduti), cioè i molti che, dopo essersi in vario modo piegati alle pressioni dei persecutori, subito dopo chiedevano con grande insistenza di essere riammessi nella comunità. Il problema si pose in tutte le Chiese, e quella di Roma lo affrontò in stretto contatto con quella di Cartagine, che allora aveva a capo Cipriano: di comune accordo si decise di non precipitare le cose ma di attendere la fine della persecuzione per poter procedere con una certa tranquillità all'esame delle posizioni dei singoli e stabilire la relativa prassi penitenziale. A nome della Chiesa di Roma i contatti epistolari con Cipriano furono tenuti dal presbitero Novaziano, personaggio indubbiamente di spicco per capacità e cultura. Ma quando, passata la bufera, si poté procedere all'elezione del successore di Fabiano, la maggioranza della comunità si espresse a favore di un altro presbitero, Cornelio (251-253), e solo una minoranza fu a favore di Novaziano. Questi, per altro, non accettò la designazione popolare, e fattosi consacrare vescovo anche lui, si pose a capo di una comunità scismatica. In questa emergenza, nell'autunno del 251 si riunì a Roma, a sostegno di Cornelio, un concilio di più di sessanta vescovi italiani, che scomunicò Novaziano e i suoi sostenitori. Ma lo scisma non ebbe termine, anzi si diffuse addirittura fuori d'Italia, dalla Spagna all'Oriente, e continuava ancora all'inizio del V secolo: questa persistenza assicura che, al di là del contrasto di persone, alla base del dissidio c'erano importanti motivazioni d'ordine ideologico. In effetti Novaziano, assertore, nel suo De trinitate, della dottrina del Logos e rigorista in materia penitenziale, continuava l'ecclesiologia elitaria dell'autore dell'Èlenchos, di cui potrebbe essere stato anche discepolo, e quindi negava ai lapsi la riammissione nella Chiesa, che invece a certe condizioni, in sintonia con Cipriano e la massima parte dei vescovi di tutta la Cristianità, era accordata da Cornelio, continuatore della linea ideologica che era stata di Callisto. Proprio la maggiore apertura alle esigenze della massa dei fedeli, sinceri nella fede ma non disposti a eroismi, spiega la prevalenza di Cornelio a Roma, a spese di Novaziano, e anche altrove s'impose la linea da lui rappresentata. Ma col passare del tempo e per reazione alla continua espansione e conseguente mondanizzazione della Chiesa, l'ideale di una comunità di puri, impermeabile a ogni concessione al mondo e impegnata a vivere nel modo più intransigente il messaggio evangelico, era destinato a lunga vita e, al di là della persistenza dello scisma novazianeo nello spazio e nel tempo, a esiti ancora imprevedibili alla metà del III secolo: s'intravvede già ora il coagularsi di alcuni dei presupposti ideologici che avrebbero fatto più tardi la fortuna del monachesimo. Alla morte di Decio seguirono alcuni anni agitati per i cristiani. Infatti il successore, Triboniano Gallo, pur inizialmente ben disposto nei loro confronti, a seguito - pare - di sommovimenti popolari verso la fine del 251 cambiò politica: a Roma Cornelio fu arrestato, ma la fermezza con cui allora la comunità si strinse compatta intorno al suo vescovo sconsigliò provvedimenti radicali e Cornelio fu esiliato a Civitavecchia. Anche il suo successore, Lucio (253-254), dopo appena un anno di pontificato, finì in esilio, e provvedimenti ben più radicali e meditati a danno dei cristiani furono presi dal successore di Triboniano Gallo, Valeriano. Ma prima della persecuzione da lui promossa nel 257 si ebbe il pontificato di Stefano, breve (254-257) ma significativo soprattutto per la storia del primato romano. A questo proposito si è sopra rilevato come già nel II secolo fosse diffusa nel mondo cristiano la consapevolezza della singolare importanza della Chiesa di Roma, e alla metà del III secolo Cipriano, il grande vescovo di Cartagine, non ebbe dubbi su questa posizione di preminenza, che di fatto in Occidente appariva evidentissima¹². Ma fino allora si era trattato di un riconoscimento meramente onorifico, privo di esiti concreti. Invece Stefano interpretò in modo più vincolante il primato della Chiesa di Roma e, per conseguenza, del suo vescovo, e in nome di questa autorità si ritenne autorizzato a interferire in questioni che riguardavano altre Chiese¹³. Durante la persecuzione di Decio due vescovi spagnoli, Basilide e Marziale, si erano procurati a pagamento il certificato (libellus) che attestava l'avvenuto sacrificio sull'altare degli dei; deposti da un concilio di vescovi spagnoli, si appellarono a Stefano. Era una procedura d'appello prima di allora mai messa in pratica, ma Stefano la considerò normale e riabilitò i due personaggi. Ebbe però a scontrarsi con Cipriano, il cui prestigio travalicava di molto i confini dell'Africa, sì che gli Spagnoli si rivolsero a lui per opporsi a quello che era sentito l'arbitrio di Stefano: un concilio di vescovi africani, presieduto da Cipriano, confermò nel 254 la deposizione dei due vescovi spagnoli, e non consta che Stefano sia ulteriormente intervenuto nella questione. Ma lo scontro tra Stefano e Cipriano si ripropose qualche tempo dopo, e questa volta in modo più diretto, a causa della questione del battesimo degli eretici. Quando un cristiano, che era stato battezzato in una comunità eretica, chiedeva di essere ammesso nella Chiesa cattolica, in Africa c'era l'uso di ribattezzarlo, perché veniva considerato valido soltanto il battesimo amministrato nella Chiesa cattolica; invece a Roma il battesimo amministrato dagli eretici era per lo più considerato valido, e la prassi molto semplice con cui l'eretico veniva ammesso in comunità non implicava la ripetizione del rito. Stefano, non si sa per quale preciso motivo, impose agli Africani di adeguarsi all'uso romano; ma Cipriano, appoggiato in modo compatto dall'episcopato africano, rifiutò categoricamente. Si era già alla rottura, allorché la morte di Stefano e l'insorgere della persecuzione di Valeriano interruppero la disputa. Nonostante il sostanziale fallimento, la politica d'intervento praticata da Stefano va adeguatamente rilevata, perché segnò l'inizio di una progressiva presa di coscienza, da parte della Sede romana, del suo diritto d'intervento in questioni interne ad altre sedi, allorché queste non venivano risolte in loco e si avvertiva perciò l'esigenza di un arbitrato esterno. Si tornerà tra breve su questo punto. La politica di colpire la Chiesa con una persecuzione generalizzata, inaugurata da Decio, si era conclusa con un clamoroso fallimento, in quanto al lusinghiero successo della prima ora, determinato dal grandissimo numero di apostasie, quando il pericolo era cessato aveva fatto seguito il ritorno in massa degli apostati nell'accogliente grembo della Chiesa a costi penitenziali relativamente modesti. Quando perciò nel 257 l'imperatore Valeriano, forse spinto anche da difficoltà finanziarie, decise di riaprire le ostilità contro la Chiesa, cambiò completamente la procedura, nel senso che rinunciò a occuparsi della religione cristiana in quanto fede personale di ormai molti cittadini dell'Impero e mirò invece a disgregare l'organizzazione della Chiesa anche con lo scopo di rimpinguare le casse dello Stato grazie alle numerose confische. Un primo editto, emanato nell'agosto del 257, comminava l'esilio, e in qualche caso la morte, a vescovi, presbiteri e diaconi, interdiceva il culto, confiscava chiese e cimiteri. L'anno successivo un nuovo editto rincarava la dose, generalizzando la condanna a morte per il clero e prescrivendo condanne varie e confisca dei beni a danno dei cristiani di alta condizione sociale, ormai ben rappresentati anche nel comitatus dell'imperatore. A Roma nel 258 il successore di Stefano, Sisto, sorpreso a celebrare la messa nella catacomba di Callisto, cadde vittima della persecuzione, e con lui anche il diacono Lorenzo, che si era particolarmente illustrato nell'organizzazione delle opere di beneficenza e che sarebbe diventato il santo più popolare di Roma. Il fatto che Sisto nel 258 abbia avuto la possibilità di celebrare la messa in un cimitero comunitario che avrebbe dovuto essere già confiscato l'anno precedente induce a riflettere sulla sfasatura che poteva verificarsi tra l'emanazione della legge e la sua effettiva messa in pratica: per quanto attiene in particolare alla Chiesa di Roma, l'impressione generale che si ricava dalla scarsa documentazione che ragguaglia sui suoi rapporti col potere politico nel II e III secolo induce a ritenere che proprio nella capitale dell'Impero le varie disposizioni adottate allora a danno dei cristiani siano state effettivamente applicate in misura più blanda che altrove. Comunque, la sconfitta di Valeriano a opera dei Persiani determinò, insieme con la fine del suo Regno, anche la fine della politica persecutoria, perché suo figlio Gallieno non solo fece cessare ogni atto di ostilità verso i cristiani ma ordinò di restituire dovunque alla Chiesa i beni che le erano stati confiscati, il che ovviamente implicava, almeno de facto, l'abrogazione della disposizione, rimontante agl'inizi del II secolo, se non prima, che considerava quella cristiana una religio illicita. Comincia perciò adesso un periodo di pace per la Chiesa, destinato a prolungarsi per quasi un cinquantennio. È facile ipotizzare che, come dovunque, anche a Roma questo lungo periodo di pace abbia favorito sia la diffusione della religione cristiana in ambiente pagano sia il potenziamento della sua struttura finalizzata all'esercizio del culto e all'attività assistenziale. La documentazione che informa sulla vita della Chiesa di Roma in questi anni è complessivamente scarsa, limitata a ben poche notizie precise, due delle quali, per altro, appaiono di singolare importanza sotto l'aspetto sia della dottrina sia della progressiva autorità che la Sede romana andava acquistando, col passare del tempo, nell'ambito di tutto il mondo cristiano. Dionigi (259-268), appena eletto a succedere a Sisto come vescovo di Roma, fu chiamato a prendere posizione riguardo a una lettera che dall'Egitto era stata recapitata al suo predecessore e alla quale questi non aveva avuto né tempo né modo di dare risposta. Era allora vescovo di Alessandria un altro Dionigi, personaggio di grande spicco nel mondo cristiano del tempo. Anch'egli condivideva la dottrina del Logos, ormai bene attestata, in quella importante comunità cristiana, a livello sia di scuola sia di episcopato, e nel riaffermarla in polemica con i monarchiani radicali seguaci di Sabellio ne aveva fortemente accentuato l'aspetto subordinante, presentando Cristo Logos, più che come figlio reale, come creatura di Dio Padre. Questa affermazione non riuscì gradita ad alcuni suoi fedeli, che, senza essere sabelliani, non condividevano neppure gli esiti più subordinanti e divisivi della dottrina del Logos, che secondo loro implicavano un, sia pur implicito e larvato, abbandono del dogma fondamentale del monoteismo. D'altra parte, il vescovo di Alessandria rappresentava la somma autorità ecclesiastica in Egitto, sicché questi suoi avversari, per poter dar corso alla loro protesta, decisero di ricorrere all'omonimo vescovo di Roma e gli scrissero in proposito. Questi, dando seguito alla loro protesta, intervenne ufficialmente nel contrasto con una lettera in cui, nel mettere sotto accusa il collega di Alessandria, gli rinfacciava, insieme con certe definizioni poco felici, l'impostazione globale della dottrina del Logos quale ad Alessandria era stata elaborata qualche decennio prima da Origene ed era stata recepita da Dionigi: di essa il vescovo di Roma considerava addirittura segno di triteismo la fondamentale affermazione di tre ipostasi (persone) trinitarie distinte tra loro. Nella replica Dionigi di Alessandria, pur ritrattandosi su alcuni punti, affermò di non poter recedere su questo punto qualificante della dottrina trinitaria professata nella sua città, e non consta che l'omonimo romano abbia ulteriormente replicato. Di questa complessa questione qui interessa soprattutto la posizione assunta da Dionigi di Roma nella lettera inviata al collega e che in massima parte si conosce¹⁴. Egli, pur rinunciando a proporre un vero e proprio discorso dottrinale, nel mettere sotto accusa il collega enuncia alcuni principi fondamentali di una concezione trinitaria insistente sul concetto di monarchia e che, pur senza ripetere i termini specifici della dottrina proposta vari decenni prima da Callisto, ne riprende la fondamentale finalità di proporre una soluzione mediana tra gli opposti estremismi, da una parte, del monarchianismo radicale di Sabellio e, dall'altra, della dottrina del Logos quale era stata professata prima dall'autore dell'Èlenchos e ora, debitamente aggiornata e potenziata, da Dionigi di Alessandria. Più o meno la stessa dottrina dell'Alessandrino era stata professata alcuni anni prima a Roma da Novaziano: ma a riscontro della continuità tra Callisto e Dionigi, ambedue capi ufficiali della Chiesa di Roma, l'esternazione dottrinale di Novaziano va considerata non più che espressione della dottrina condivisa da un gruppo di fedeli, ben poco congruente con l'affermazione di fede ufficiale della Chiesa romana. Alcuni anni più tardi, nel 272, quando era vescovo Felice, la Chiesa di Roma fu di nuovo coinvolta in un conflitto dottrinale, quello che da alcuni anni era in corso ad Antiochia, dove nel 268 un concilio di vescovi di Siria e di Palestina aveva condannato e deposto il locale vescovo, Paolo di Samosata, accusato di professare anch'egli una dottrina monarchiana radicale. Questa volta il coinvolgimento della Chiesa romana fu solo indiretto, in quanto Paolo, pur condannato, aveva rifiutato di consegnare ai suoi avversari gli edifici di culto di Antiochia, sì che i suoi avversari pensarono bene di ricorrere all'imperatore Aureliano: costui dichiarò legittimi possessori di quei beni coloro che erano in accordo con i vescovi d'Italia e di Roma. L'episodio è significativo perché, oltre a confermare ad abundantiam che le Chiese cristiane erano allora in condizione di possedere beni immobili in proprio (e quella di Roma ne era particolarmente dotata), insieme con l'episodio di Dionigi rileva che, nel contesto dei pacifici rapporti instauratisi allora tra l'Impero e la Chiesa, l'esigenza di una sede d'appello per risolvere litigi interessanti una o più comunità cristiane, che restavano insoluti in sede locale, imponeva di ricorrere alla Chiesa, e perciò al vescovo, della città imperiale. Oltre alla notizia che si è riferita, quasi nulla si conosce riguardo ai vescovi che si succedettero sul soglio pontificio nei decenni intercorrenti tra il pontificato di Dionigi e l'inizio della persecuzione di Diocleziano (304): Felice (269-274), Eutichiano (275-283), Caio (283-296), Marcellino (296-304), se non pochi e quanto mai vaghi cenni riguardanti l'incipiente culto dei martiri al tempo di Felice. Non attiene al discorso che si sta svolgendo trattare la complessa e discussa questione riguardante i motivi che spinsero nel 304 Diocleziano e i colleghi della tetrarchia a interrompere il lungo periodo di pace tra l'Impero e la Chiesa per dare inizio a una persecuzione che fu la più lunga e la più dura delle varie che i cristiani ebbero a subire da parte dell'Impero. Basterà qui rammentare che la persecuzione fu molto più violenta in Oriente che in Occidente. Roma comunque ne fu inizialmente colpita e ne fu vittima proprio Marcellino, che, essendo in qualche modo sceso a patti con i persecutori, nel 304 dovette dimettersi dalla sua carica. Quattro anni dopo, lo scemare della violenza della persecuzione coll'ascesa al trono da parte di Massenzio permise di dargli un successore in Marcello. Ma anche ora, come al tempo di Decio, la persecuzione aveva provocato un gran numero di lapsi, che puntualmente, passato il pericolo, chiesero di essere riammessi nella comunità, rinnovando così il contrasto tra rigoristi e lassisti riguardo al comportamento da tenere nei loro confronti. Marcello, riproponendo l'atteggiamento che era stato di Cornelio e di Cipriano, era favorevole alla riammissione dei lapsi, ovviamente a determinate condizioni; ma gli si oppose, a nome di chi non accettava il recupero, Eraclio, il quale si pose a capo di uno scisma, che gli è valso l'etichetta di antipapa. I disordini, anche violenti, provocati nella comunità cristiana da questo contrasto indussero Massenzio a mandare in esilio prima Marcello e subito dopo anche il suo successore Eusebio insieme con Eraclio. Nel 311 fu eletto a succedergli Milziade (311-314), che perciò era a capo della Chiesa di Roma quando nel 313 Costantino, allora imperatore in Occidente e pochi anni dopo unico imperatore, inaugurò una fase del tutto nuova nel rapporto tra Impero e Chiesa. Com'è ben noto, infatti, il senso di questa politica non fu soltanto, secondo la lettera dell'editto di Milano, il riconoscimento della liceità della religione cristiana, insieme con tante altre, nell'ambito dell'Impero, bensì l'inizio di un rapporto improntato al massimo favore, da parte dell'Impero, a beneficio della Chiesa. Questo atteggiamento, che, continuato dai successori di Costantino, avrebbe determinato l'irreversibilità del nuovo corso, ebbe come effetto la completa integrazione della Chiesa nella struttura dello Stato, di cui venne a costituire una componente certamente non secondaria: in effetti a Costantino non interessava tanto una Chiesa che, per sua concessione, fosse soltanto libera di professare la sua fede quanto una Chiesa amica e collaboratrice, in sostanza da lui controllata e a lui sottomessa. Ecco il senso di tante donazioni e agevolazioni, anche fiscali; il contraccambio fu la perdita della libertà: nel mondo antico un po' dovunque era considerato naturale che chi era a capo del potere politico fosse anche a capo dell'organizzazione religiosa, e tale era appunto l'imperatore romano, da sempre anche pontefice massimo; perciò, una volta instauratosi con la Chiesa un rapporto di amicizia e di collaborazione, nel modo più naturale l'imperatore diventò anche capo della Chiesa, non solo de facto ma anche de iure: ben presto gli fu riconosciuto il diritto di decidere, in sede di appello, in merito a ricorsi avversi a disposizioni dei concili locali, ed egli solo (come di lì a poco sarebbe per la prima volta avvenuto con il concilio di Nicea) ebbe il potere di convocare il concilio ecumenico, assise suprema della Chiesa universale, di approvarlo e di renderne esecutive le deliberazioni.

La Chiesa imperiale

Instaurando questo nuovo stato di cose, la riforma costantiniana provocò ripercussioni di grande portata anche quanto alla definizione del rapporto che, a partire già dalla fine del I secolo, gradualmente si andava sviluppando tra la Chiesa di Roma, rappresentata dal suo vescovo, e le altre Chiese, e che ora venne improvvisamente a modificarsi. Si è infatti già rilevato come soprattutto nel corso del III secolo il primato di dignità e di onore, già da tanto tempo pacificamente riconosciuto alla Chiesa di Roma, avesse cominciato ad assumere contorni più decisi e impegnativi, configurando la sede romana come naturale beneficiaria dell'esigenza, già allora variamente avvertita, di un'autorità d'appello al di sopra di quella dei singoli vescovi e dei concili locali. Agli inizi del IV secolo soprattutto in Occidente si era già parecchio avanti in questo senso. Ora, invece, che Costantino si pone a capo della Chiesa (e nessuno osa anche solo minimamente contestargli questo diritto), questo corso viene bruscamente interrotto, in quanto proprio l'imperatore diventa quell'autorità super partes cui ci si rivolge per ogni appello, autorità tanto più piena, in quanto dispone della capacità di rendere effettivamente operante ogni sua decisione a beneficio o a danno di chiunque. Costantino è pieno di deferenza e di ossequio per il vescovo di Roma, gli fa dono del Laterano che diventa perciò residenza del papa, lo delega anche a fare le sue parti, ma di fatto tiene ben strette le redini del potere. Dimostrazione eloquente di come egli intendesse il suo rapporto con la Chiesa in generale e col vescovo di Roma in particolare si ebbe già nel 313, in occasione dello scisma donatista. Si trattava di una contesa interna alle chiese d'Africa¹⁵, e contro le comunità cattoliche della loro regione gli scismatici pensarono di ricorrere non al vescovo di Roma, come si sarebbe fatto fino a pochi anni prima, ma proprio all'imperatore. Costantino non volle dare l'impressione di imporre dall'esterno la sua autorità e demandò l'incarico di risolvere la questione ad alcuni vescovi della Gallia sotto la presidenza del vescovo di Roma, Milziade. Questi a tale scopo riunì a Roma un concilio, cui parteciparono vescovi di Gallia e d'Italia e che si svolse nel Palazzo Lateranense dal 2 al 4 ottobre del 313. La decisione fu avversa ai donatisti, ma costoro non vollero sottostare e ricorsero ancora una volta all'imperatore: la decisione di Costantino di far svolgere ad Arles, in Gallia, un nuovo concilio (314) per riesaminare la questione sanzionava di fatto e di diritto la facoltà dell'imperatore di decidere anche al di sopra delle decisioni conciliari avvalorate dall'autorità del vescovo di Roma, tanto più che questi non fu neppure invitato al nuovo concilio. L'esito di questo nuovo concilio, che avvalorava le deliberazioni di quello precedente a beneficio dei cattolici e a danno degli scismatici, non valeva ad attenuare il vulnus inferto all'autorità del vescovo di Roma, tanto più che fu ancora Costantino a rendere effettivamente operanti le deliberazioni del nuovo concilio: e ancora più eloquente fu la dimostrazione del suo potere sulla Chiesa che l'imperatore ebbe occasione di dare alcuni anni dopo in occasione della controversia ariana. Si può perciò già a questo punto anticipare che, fin quando ci sarebbe stato a capo dell'Impero un sovrano capace di imporre la propria volontà, l'ambizione del vescovo di Roma di modificare in vera e propria autorità giurisdizionale il primato di dignità e di onore che nel mondo cristiano tutti gli riconoscevano, nonostante le sue reiterate e sempre più esplicite affermazioni in proposito, non si sarebbe mai potuta tradurre in atto. Intorno al 320 il presbitero alessandrino Ario ripropose il dibattito cristologico, affermando una versione radicale della dottrina del Logos, secondo la quale Cristo, in quanto Logos divino, sarebbe stato non generato ma creato da Dio Padre, sì che andava considerato Figlio di Dio in senso non reale ma solo accomodato. La polemica che fece seguito a queste affermazioni travalicò rapidamente i confini dell'Egitto per coinvolgere prima l'Oriente e poi anche l'Occidente, ed ebbe svolgimento lungo e travagliato per concludersi più di sessanta anni dopo, innescando una serie di reazioni a catena, cioè di dibattiti dottrinali di volta in volta specifici quanto all'argomento ma nella sostanza tutti pertinenti all'esigenza di conciliare tra loro le affermazioni dell'unicità di Dio e della perfetta divinità di Cristo, Figlio di Dio. Questa aggrovigliata questione qui interessa soltanto per i riflessi in ambito di rapporti tra Chiesa e Impero, con specifico riguardo alla posizione che nel conflitto assunse il vescovo di Roma, e in questo ambito si limita il discorso che si sta svolgendo. In questo ben definito ordine d'idee il concilio di Nicea, che nel 325 condannò la dottrina di Ario e proclamò la perfetta divinità di Cristo definito partecipe della stessa sostanza (homoousios) del Padre, va qui debitamente ricordato in quanto questo, che fu il primo concilio ecumenico, cioè della Chiesa universale¹⁶, fu indetto e addirittura presieduto formalmente dall'imperatore, che impose a una maggioranza riluttante la soluzione del contrasto¹⁷ e provvide a rendere esecutiva questa deliberazione, facendo esiliare Ario e i pochi partigiani che lo seguirono fino in fondo. Il vescovo di Roma, allora Silvestro (314-335), non partecipò ai lavori del concilio, cui presero parte quasi esclusivamente vescovi orientali, e si fece rappresentare da due delegati, forse un modo molto indiretto per affermare la sua intenzione di assicurarsi una certa libertà nei confronti dei deliberati del concilio, inaugurando così una prassi cui in seguito tutti i papi si uniformarono. Non consta, per altro, che l'approvazione delle decisioni del concilio di Nicea sia stata neppure richiesta a Silvestro: mai come in questa occasione apparve a tutti chiarissimo che l'imperatore era il capo della Chiesa e che di fronte a lui il capo della Chiesa di Roma era solo il primo e più autorevole dei vescovi. Anche gli avvenimenti che fecero seguito alla conclusione del concilio e che videro in Oriente una forte reazione di segno contrario, provocata, al di là di risentimenti vari di natura personale, dalla poca congruenza di certe affermazioni di senso monarchiano contenute nella formula di fede approvata a Nicea (simbolo niceno) con la dottrina del Logos ormai dominante in Oriente¹⁸, si svolsero coll'assoluta estraneità del vescovo di Roma e di tutto l'Occidente. Si giunse così alla condanna, con varie motivazioni, e all'esilio di vari esponenti antiariani, tra cui, insieme col monarchiano radicale Marcello di Ancira, ci fu anche Atanasio, vescovo di Alessandria a partire dal 327: in tal modo si arrivò a un vero e proprio ribaltamento, in senso politico¹⁹, della situazione determinata dalle decisioni del concilio niceno, il tutto sotto l'ala protettrice di Costantino. Solo quando questi venne a morire, nel 337, coll'instaurarsi di una nuova situazione politica si rese possibile una riproposizione, in termini diversi, della questione sotto l'aspetto sia politico sia dottrinale, a tutta riprova che l'atteggiamento del potere politico era ormai diventato coefficiente determinante per il successo anche di una proposta dottrinale: l'integrazione della Chiesa nella struttura dello Stato era completa, sì che ognuna delle parti in contrasto era consapevole che soltanto l'appoggio del potere politico le poteva permettere di prevalere sull'altra. In effetti i contrasti tra gli eredi di Costantino si risolsero con la divisione dell'Impero²⁰ tra i due figli superstiti, per cui Costanzo si aggiudicò il governo dell'Oriente e Costante dell'Occidente, e questa separazione del potere ebbe ripercussioni decisive quanto al prosieguo della controversia che era stata innescata da Ario. Infatti in Oriente era ormai dominante, a livello episcopale, una concentrazione di tradizione origeniana che rifiutava gli opposti estremismi di Ario da una parte e dei suoi avversari d'impostazione monarchiana dall'altra, e Costanzo non ebbe difficoltà ad appoggiarla. In Occidente invece la situazione era ben diversa: qui, come si è sopra rilevato, la Chiesa romana professava, in materia trinitaria, un moderato monarchianismo, che rifiutava gli esiti estremi della dottrina del Logos e perciò non poteva non essere, in linea di principio, contraria alla dottrina ariana che radicalizzava i caratteri di quella dottrina, anche se fino allora la polemica si era svolta soltanto in Oriente e per lo più gli Occidentali erano rimasti all'oscuro riguardo alla materia del contendere. Quando poi, all'avvento di Costanzo, Atanasio, Marcello e altri vescovi che, esiliati da Costantino, alla sua morte erano rientrati nelle loro sedi, ne furono nuovamente estromessi, essi cercarono e trovarono rifugio a Roma, e qui non ebbero difficoltà a sensibilizzare l'ambiente in senso non solo antiariano ma antiorientale in genere, in quanto fecero passare per seguaci di Ario tutti coloro che avversavano il simbolo niceno e i suoi più tenaci sostenitori, cioè loro stessi²¹. L'allora vescovo di Roma, Giulio (337-352), energico sostenitore della primazia della sede romana, sposò a fondo la loro causa, per cui nel 341 riunì a Roma un concilio di una cinquantina di vescovi italiani, che dopo un sommario riesame delle varie situazioni personali, mandò assolti Atanasio, Marcello e altri esponenti antiariani. Nella lettera inviata, a nome dei partecipanti al concilio, ai vescovi orientali per ragguagliarli minutamente su quanto era stato discusso e deliberato, Giulio si richiamava alla tradizione che, a suo dire, imponeva di sottoporre questioni e decisioni di grande rilevanza alla preventiva approvazione del vescovo di Roma²²: è evidente, ancorché largamente forzato, il richiamo alle questioni relative a Dionigi di Alessandria e a Paolo di Samosata. Questo che Giulio considerava un diritto del vescovo di Roma viene ribadito alla fine della lettera col richiamo all'autorità di Pietro, di cui Giulio si considera successore, dove va rilevato l'accantonamento di Paolo, che prima tradizionalmente veniva appaiato a Pietro come fondamento dell'autorità della Sede romana; è evidente la tendenza a presentare la primazia della Sede romana in senso rigidamente gerarchico, per cui Giulio si considera, in quanto vescovo di Roma, diretto successore di Pietro, ormai assurto alla dignità di iniziatore della successione episcopale della Sede romana: di conseguenza si prospettava opportuno mettere da parte Paolo. Ovviamente gli Orientali non dettero alcun peso alle pretese primaziali di Giulio e respinsero in toto le deliberazioni del concilio di Roma. Ma ormai l'Occidente cristiano era abituato ad allinearsi disciplinatamente, in materia dottrinale, col vescovo di Roma, sì che Costante ritenne politicamente opportuno appoggiare anche lui l'attività di Giulio finalizzata al riesame delle posizioni di Atanasio e Marcello. Per sua pressione, Costanzo impose all'episcopato orientale di riunirsi con i colleghi d'Occidente in un nuovo concilio ecumenico, che si tenne nel 343 a Serdica (Sofia) per ridiscutere le questioni tuttora irrisolte. Il concilio fallì completamente l'obiettivo e sancì la divisione tra gli episcopati delle due parti dell'Impero. Nonostante il fallimento delle discussioni con i colleghi d'Oriente, i vescovi occidentali profittarono di quella contingenza, che li vedeva riuniti in buon numero, per discutere, alla luce dei drammatici e spesso caotici e confusi avvenimenti di quegli anni, la delicata materia che trattava dei rapporti dei vescovi tra loro e col concilio. Tra i vari canoni allora pubblicati, vanno segnalati in special modo i canoni 3 e 3b: in caso di condanna di un vescovo da parte dei colleghi della sua provincia, gli era offerta la possibilità di ricorrere al vescovo di Roma; questi o avrebbe ratificato la precedente sentenza o avrebbe demandato il giudizio di appello ai vescovi di una provincia vicina. Questa procedura in sostanza mirava a raggiungere un compromesso tra la prassi, ormai tradizionale in Occidente, che dava al vescovo di Roma la possibilità di riesaminare in sede superiore questioni già risolte in sede locale, e le nuove norme che in quegli anni prendevano piede in Oriente, miranti a risolvere mediante concili provinciali e interprovinciali i contrasti tra vescovi di una stessa provincia o di più province. È superfluo aggiungere che tale norma difficilmente poteva riuscire accetta agli Orientali, già tanto sospettosi nei confronti dell'ingerenza del vescovo di Roma nelle loro questioni. Il contrasto di natura sia politica sia dottrinale tra gli episcopati rispettivamente d'Oriente e d'Occidente continuò sostanzialmente immutato nonostante vari tentativi di reciproco avvicinamento: in tale contesto Costanzo autorizzò Atanasio, che si sa essersi rifugiato in Occidente, a tornare in Egitto e riprendere possesso della cattedra episcopale di Alessandria (346); ma si trattò di una misura ispirata da contingenze meramente politiche, che non influì in modo apprezzabile sul contrasto dottrinale che vedeva gli Occidentali arroccati sull'interpretazione accentuatamente monarchiana che del simbolo niceno era stata elaborata nel concilio di Serdica, mentre gli Orientali professavano un'interpretazione tradizionale della dottrina del Logos: quelli insistevano quasi esclusivamente sull'unità di sostanza del Padre e del Figlio, mentre questi mettevano l'accento soprattutto sulla distinzione, in Dio, delle ipostasi (persone) del Padre e del Figlio. Ma il quadro della situazione politica mutò radicalmente nel 350, allorché, a seguito dell'uccisione di Costante e dell'usurpazione di Magnenzio, Costanzo riuscì a prevalere sull'usurpatore e unificò sotto il suo scettro l'Impero. Egli era deciso a far seguire all'unificazione politica quella religiosa e come prima mossa di tale iniziativa, deciso a liberarsi definitivamente di Atanasio, cominciò a operare perché la condanna anni prima inflitta al presule alessandrino in Oriente fosse approvata anche in Occidente, e in primo luogo dal vescovo di Roma. Si era nel 353, quando da pochi mesi Liberio era stato eletto a succedere a Giulio: per opporsi alla manovra di Costanzo, il papa richiese la convocazione di un concilio di vescovi occidentali. Se ne ebbero addirittura due nel giro di tre anni, nel 353 ad Arles in Gallia e nel 355 a Milano, e in ambedue l'imperatore, valendosi dell'apporto di un'agguerrita minoranza di vescovi ligi ai suoi voleri e soprattutto del peso della propria autorità, riuscì a piegare una maggioranza ostile ma ben poco informata sui termini essenziali del contrasto dottrinale e niente affatto disposta a incorrere nelle sue ire: in effetti la condanna di Atanasio fu approvata e i pochissimi oppositori furono immediatamente deposti ed esiliati in varie località dell'Oriente. A questo punto Liberio, che secondo la consuetudine non aveva partecipato personalmente ai due concili e si era fatto rappresentare, fu coinvolto nel modo più diretto nella questione, perché Costanzo mirava in modo particolare a che anch'egli approvasse la condanna di Atanasio: il papa oppose un deciso rifiuto all'inviato dell'imperatore, per cui nottetempo fu arrestato ed esiliato in Tracia, a Beroea, il cui vescovo Demofilo era nettamente ostile ai sostenitori della fede nicena. Rimasta vacante la sede papale, nonostante la dichiarata fedeltà a Liberio di gran parte della comunità cristiana di Roma, Costanzo chiamò a succedergli il diacono Felice, che fu ordinato vescovo da esponenti del partito favorevole all'imperatore, e a cui non mancò un piccolo seguito in Roma. Maturavano intanto, tra il 355 e il 359, avvenimenti che avrebbero influito decisivamente sul prosieguo della controversia, in quanto il suo risvolto dottrinale, da anni stagnante, riprese ad agitarsi, e di molto: da una parte Atanasio rilanciava in Oriente la formula nicena del 325, che si sa essere stata qui sempre molto poco popolare; dall'altra Aezio ed Eunomio risuscitavano ad Antiochia, aggiornandola e perfezionandola, la dottrina radicale di Ario; nel 357 alcuni vescovi occidentali ostili al partito niceno, riuniti a Sirmio, in Pannonia, pubblicarono una formula di fede che, senza essere dichiaratamente ariana, era parecchio sbilanciata in questo senso e del tutto opposta alla formula di fede nicena; come reazione, alcuni vescovi orientali, riuniti nel 358 ad Ancira, in Asia Minore, proposero una posizione di fede mediana, nettamente ostile agli esiti radicali della dottrina ariana ma altrettanto lontana dall'interpretazione monarchiana del simbolo niceno che gli Occidentali avevano approvato nel 343 a Serdica. Di fronte a un quadro politico e dottrinale così confuso, Costanzo decise di convocare per il 359 un nuovo concilio ecumenico, che fu suddiviso in due parti: gli Occidentali si sarebbero riuniti a Rimini, gli Orientali a Seleucia di Isauria, in Asia Minore. Tracciato così in modo quanto mai sommario il quadro della situazione, è tempo di tornare a Liberio. Egli, relegato nella lontana e fredda Tracia e pressato dall'ostile Demofilo, si decise nel corso del 357 a sottoscrivere anche lui la condanna di Atanasio: ne danno notizia quattro sue lettere tramandate da Ilario e vi accennano altre fonti, tra cui Atanasio stesso. Si è lungamente dubitato, da parte cattolica, dell'autenticità delle quattro lettere, ma la questione è stata sollevata per motivazioni di carattere non scientifico ma meramente ideologico e apologetico: in realtà la notizia va considerata autentica a tutti gli effetti, e la residua incertezza riguarda soltanto quale di due formule di fede pubblicate rispettivamente nel 351 e nel 357 Liberio abbia sottoscritto. Costanzo, per altro, non autorizzò subito il rientro di Liberio a Roma e lo trattenne per qualche tempo presso di sé a Sirmio. Comunque, nel 358 egli poté rientrare in sede, mentre Felice, che lo aveva sostituito, fu costretto ad allontanarsi. Liberio, per limitare i guasti prodotti dalla elezione del suo provvisorio successore, provvide a riammettere nella sua comunione i membri del clero che si erano schierati a favore di quello. Costanzo concesse a Liberio di rientrare in sede perché si era convinto che il pontefice, fiaccato nel morale e screditato nel prestigio, fosse ormai diventato inoffensivo. In effetti sia nella fase di preparazione dei concili di Rimini e Seleucia sia durante il loro drammatico svolgimento, che vide l'imperatore imporre la sua volontà, tramite una minoranza di vescovi fedeli alle sue direttive, a spese di una maggioranza combattiva ma alla fine costretta a cedere, Liberio fu completamente assente né consta che alcuno si sia richiamato alla sua autorità. Un nuovo concilio, riunito nel 360 a Costantinopoli, sanzionò l'ufficialità della formula di fede pubblicata a Rimini e imposta a tutti i vescovi dell'Impero, che si limitava ad affermare genericamente il Figlio simile al Padre secondo le Scritture. Volutamente la formula evitava di prendere posizione sui termini più specifici della controversia, al fine di proporne una soluzione meramente politica: infatti con un po' di buona volontà essa poteva essere sottoscritta indiscriminatamente da tutti, tanto più che si accompagnava con la condanna dei sostenitori di ogni altra più specifica impostazione dottrinale, sia quella degli ariani radicali sia quelle degli antiariani di fede nicena e antinicena. Ma Costanzo venne a morte poco dopo (362), e con l'avvento al trono di Giuliano e dei suoi successori fu possibile agli sconfitti di Rimini e Costantinopoli riprendere la lotta. In Occidente essa in un primo momento fu condotta sotto la guida di Ilario di Poitiers ed Eusebio di Vercelli, che fecero approvare una linea di condotta moderata nei confronti dei tanti vescovi che per debolezza od opportunità avevano sottoscritto la formula riminese e che ora intendevano rientrare nelle file del partito antiariano e filoniceno. In questa occasione anche Liberio tornò all'attività con una lettera enciclica, indirizzata ai vescovi d'Italia, con la quale respingeva la pretesa di alcuni rigoristi che proponevano di rifiutare la riammissione dei firmatari di quella formula²³. Si sa anche di un suo decreto che invalidava appunto le decisioni del concilio di Rimini. Qualche anno dopo, nel 366, giunse da lui una delegazione di tre vescovi orientali, che cercavano sostegno a nome di buona parte dell'episcopato asiatico, fatto oggetto dell'ostilità del nuovo imperatore, Valente, il quale cercava di riesumare la politica ch'era stata di Costanzo²⁴. I vescovi che erano venuti da lui erano, sì, antiariani, ma non di osservanza nicena, così che Liberio promise loro il suo appoggio a patto che essi accettassero e sottoscrivessero il simbolo niceno; il che quelli fecero, pur senza soverchio entusiasmo. Allora il papa affidò loro una lettera indirizzata ai vescovi asiatici in cui, a nome suo e di tutto l'episcopato italiano, mentre esprimeva la gioia per l'avvenuta sottoscrizione, ribadiva la condanna dell'arianesimo e la validità delle norme che regolavano la riammissione nelle file nicene dei vescovi compromessi con la formula riminese. Abbiamo già rilevato come Liberio avesse cercato di limitare i danni prodotti, in seno alla comunità romana, dall'elezione di Felice. Ma quando egli morì (24 settembre 366), i contrasti da poco tempo sopiti si riproposero, moltiplicati dall'accanimento con cui le due parti si disputarono il seggio papale. Erano candidati alla successione il diacono Ursino, che era appoggiato da parte del clero e del popolo che era sempre rimasto fedele a Liberio contro Felice, e un altro diacono, Damaso, di cui si diceva che avesse abbandonato Liberio per Felice ma che sembra avesse l'appoggio della maggior parte della comunità e soprattutto era sostenuto da membri influenti dell'aristocrazia. Damaso prevalse su Ursino a prezzo di violenze e ampio spargimento di sangue, e col decisivo appoggio dell'autorità di polizia, che allontanò Ursino da Roma. Un'elezione così sanguinosamente contrastata era un fatto nuovo nella storia della Chiesa romana: ormai il vescovo di Roma era personaggio molto importante per autorità, ricchezza e prestigio, sì che la sua cattedra quasi abitualmente diventava oggetto delle mire più ambiziose e, a volte, degli intrighi più deplorevoli. Per questo e per il modo stesso con cui Damaso interpretò il suo ruolo non è esagerato affermare che con lui comincia un'epoca nuova nella storia del papato.

Il primato del vescovo di Roma

Ambizioso autoritario amante dello sfarzo e della potenza, ma anche dotato di indubbie doti di programmatore e realizzatore, Damaso tese subito a imprimere al suo episcopato, destinato a prolungarsi per quasi venti anni (366-384), un ritmo ben più sostenuto di quello che aveva caratterizzato gli ultimi anni di Liberio, e rivolse subito la sua attenzione a molteplici obiettivi. All'interno della comunità romana, nonostante continui fastidi provocati dagli strascichi del contrasto con Ursino, Damaso si dette molto da fare per elevare di tono i vari aspetti della vita comunitaria, dedicando particolari cure al culto dei martiri, allora in vertiginosa ascesa, e alla liturgia. Nei rapporti con le altre Chiese promosse con decisione il diritto della Chiesa di Roma di presiedere il complesso delle Chiese d'Occidente, che in quella specifica congiuntura voleva significare soprattutto la direzione della lotta contro i residui antiniceni e filoariani ancora attivi in quelle regioni. A questo scopo egli riunì intorno al 370 un concilio di vescovi italiani, che ribadì la condanna degli avversari, con particolare riferimento al filoariano Aussenzio, che dal 355 occupava l'importante seggio episcopale di Milano²⁵, senza per altro ottenere alcun concreto esito. Ma quando, morto Aussenzio nel 374, fu eletto a succedergli Ambrogio, proprio costui, pur di dichiarata fede nicena, costituì un notevole ostacolo per le ambizioni primaziali di Damaso, in quanto, non meno autoritario di lui e molto più influente per nobiltà di natali e aderenze nell'amministrazione imperiale, di fatto assunse lui il comando della lotta contro i residui avversari in Italia settentrionale e nell'Illirico: Damaso non ebbe parte nel concilio di Aquileia (381), che condannò i capiparte ariani di quella regione. Più diretta fu invece l'azione del vescovo di Roma in rapporto con la situazione orientale, ma con esito ben poco positivo. Si trattava in effetti di una situazione complicatissima, non tanto per l'attività dei filoariani e dei residui ariani radicali quanto a causa delle divisioni che frazionavano in varie conventicole i loro avversari. Il principale motivo di contrasto era rappresentato dallo scisma di Antiochia. Infatti in questa grande metropoli gli antiariani erano divisi in due fazioni fieramente ostili una all'altra: da una parte c'era, con a capo Paolino, una minoranza veteronicena, che cioè continuava a professare la dottrina nicena nella sua forma originaria, di cui si è già rilevato l'implicazione monarchiana; dall'altra c'era, con a capo il legittimo vescovo Melezio, una maggioranza neonicena, che cioè affermava una dottrina, di fresca data, che cercava di conciliare i dati del simbolo niceno con la dottrina delle tre ipostasi trinitarie, tradizionale in Oriente dal tempo di Origene e Dionigi di Alessandria. Atanasio aveva preso posizione a favore di Paolino, e Roma allora tendeva ad adeguarsi, nel rapporto con l'Oriente, alla linea di Alessandria, tanto più che la tendenza monarchiana del simbolo niceno era pacificamente accettata in Occidente. Perciò nel 374 Damaso entrò in comunione con la comunità antiochena di Paolino e per conseguenza si espresse negativamente all'indirizzo di Melezio. Ma a favore di questi si adoperava allora attivamente Basilio di Cesarea sul piano sia dottrinale sia politico, con risultati che a medio termine si sarebbero rivelati decisivi ai fini di far trionfare la dottrina neonicena. Data questa frattura, i rapporti tra Damaso e Basilio furono pessimi²⁶, e il vescovo di Roma non dette alcun seguito alle reiterate richieste di Basilio di riesaminare il rapporto tra Melezio e Paolino. Questa politica favorì il diffondersi di un animus antiromano tra le file dei neoniceni, che emerse con evidenza nel concilio di Costantinopoli del 381, proprio nel contesto politico e dottrinale che vide il trionfo decisivo del neonicenismo in Oriente. Questo stato d'animo, che ispirò alcune importanti decisioni del concilio, si concretò, alla fine dei lavori, nel terzo della serie di canoni allora approvati, in cui è detto che il vescovo di Costantinopoli ha la preminenza d'onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli è la nuova Roma: specificando infatti che a Costantinopoli spettava la preminenza dell'onore dopo Roma, implicitamente si contestava che il primato di Roma potesse essere considerato più che un primato d'onore, mentre ormai Damaso gli annetteva significato ben più vincolante, di vero e proprio primato di giurisdizione. Gli Occidentali cercarono di reagire al complesso di decisioni prese dal concilio di Costantinopoli, soprattutto perché questo in primis aveva ribadito la chiusura totale nei confronti di Paolino quando, morto Melezio proprio durante i lavori del concilio, aveva eletto a succedergli sulla cattedra antiochena il suo fedele presbitero Flaviano, senza tener conto del consiglio di chi proponeva, per porre fine allo scisma, il nome di Paolino. Per suggerimento di Ambrogio, Damaso riunì nel 382 a Roma un altro concilio, al fine di riesaminare la questione: ma gli Orientali, invitati, non intervennero. Stando così le cose, i lavori del concilio non sortirono alcun risultato positivo: la riconferma della comunione con Paolino non fece altro che mantenere vivo il contrasto con l'Oriente, dove Flaviano era stato riconosciuto legittimo vescovo di Antiochia da tutti. L'incapacità di Damaso, e anche di Ambrogio, di apprezzare con cognizione di causa gli avvenimenti d'Oriente va debitamente rilevata, perché fu tutt'altro che fatto isolato: già in precedenza c'era stata la rottura provocata dal concilio di Serdica, e anche per il futuro, come si vedrà, tranne che al tempo di Leone, la Sede romana difficilmente sarebbe riuscita a trattare con gli Orientali in modo positivo, contribuendo ad aggravare progressivamente una già operante contrapposizione, destinata a provocare, sui tempi lunghi, la frattura definitiva. La linea autoritaria perseguita da Damaso fu continuata con buon esito dai suoi successori: essi ormai potevano far conto su una tradizione abbastanza consolidata e giocava a loro vantaggio, oltre che il progressivo consolidamento del potere del vescovo di Roma, soprattutto l'indebolimento del potere imperiale in Occidente, che si ebbe già col figlio di Teodosio, Onorio, a causa della profonda crisi provocata in primo luogo dalle invasioni dei barbari. Indebolito e distratto da ben più urgenti difficoltà, l'imperatore in sostanza lasciava al vescovo di Roma mano libera, e questi sapeva profittare con larghezza della libertà di movimento che gli veniva concessa. In questo senso il successore di Damaso, Siricio (384-399), chiamato a rispondere a quesiti propostigli da vescovi di Gallia e di Spagna, pubblicò come risposta le prime decretales, cioè lettere contenenti ordinanze generali e aventi forza di legge per tutta la Chiesa: Siricio affermò apertamente che al vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, è affidata la cura della Chiesa universale. Per altro non tutte le Chiese locali erano disposte ad accettare docilmente i decreti di Roma: le Chiese d'Africa, tradizionalmente gelose dei loro diritti, in occasione di decisioni conciliari riguardanti l'annosa crisi donatista, non tennero conto del rifiuto opposto nel 397 da Siricio alla loro approvazione e restarono sulle loro posizioni, confermando nel 401 ad Anastasio (399-401), il quale aveva ribadito il rifiuto del suo predecessore, che la sua decisione per loro valeva solo come paterna e fraterna esortazione²⁷. Dopo la breve parentesi di questo papa, Innocenzo (401-417), nonostante che sotto il suo pontificato si fosse avuta l'eccezionale calamità rappresentata, nel 410, dal saccheggio di Roma da parte dei Goti di Alarico, ebbe molte occasioni per ribadire e perfezionare la concezione dell'autorità del vescovo di Roma quale l'avevano interpretata Damaso e Siricio. In effetti, la progressiva diffusione del cristianesimo, ormai religione ufficiale dell'Impero, e la conseguente cristianizzazione di tutta la struttura amministrativa dello Stato, per altro ormai largamente fatiscente, suscitavano continuamente problemi (celibato ecclesiastico, riconciliazione penitenziale, doveri del magistrato cristiano, ecc.), e ormai i vescovi delle varie Chiese d'Occidente erano adusi a cercare lumi presso il vescovo di Roma, che non perdeva occasione per ribadire il suo primato: in una lettera a Decenzio, vescovo di Gubbio, Innocenzo non esita ad affermare che ciò che è stato insegnato da Pietro ed è osservato nella Chiesa di Roma, deve essere osservato da tutte le Chiese²⁸. A lui fecero ricorso anche le Chiese d'Africa affinché si occupasse della questione pelagiana. Basterà qui ricordare che nei primi anni del V secolo il monaco britannico Pelagio, nel propagandare con successo a Roma i suoi ideali di pratica e di perfezione ascetica, aveva posto l'accento sulla libera iniziativa dell'uomo a punto tale da marginalizzare l'apporto della grazia divina; ma quando il suo discepolo Celestio aveva diffuso questa dottrina a Cartagine, Agostino, ormai convinto da anni che, ai fini della salvezza dell'uomo, sia l'iniziativa sia la realizzazione dipendono dall'apporto della grazia, lo aveva fatto condannare (411). Pelagio stesso per altro, che per sfuggire l'invasione gotica si era recato in Palestina, aveva trovato colà buona accoglienza, e in effetti la dottrina agostiniana della grazia sembrava a molti vanificare quel libero arbitrio che la tradizione cattolica aveva da sempre difeso in polemica prima con lo gnosticismo e poi col manicheismo. Per questo a Roma e in Italia, dove Pelagio aveva ancora molti ammiratori e sostenitori, la condanna africana non era stata presa molto sul serio. Ecco perché nel 416 due concili africani, sempre per iniziativa di Agostino, si rivolsero a Innocenzo sollecitandolo a intervenire contro la dottrina pelagiana. Da una parte il peso politico delle Chiese d'Africa, in tutto allineate sulle idee di Agostino, era molto forte, dall'altra l'occasione era quanto mai propizia per confermare i diritti primaziali della sede romana: nel confermare la condanna di Pelagio e dei suoi sostenitori, Innocenzo non mancò di rilevare ancora che, una volta sollevata una questione di fede, tutti i vescovi dovevano far riferimento al successore di Pietro. Le parole con cui Agostino esaltò l'intervento decisivo della Sede romana²⁹ furono compendiate nella famosa frase: "Roma locuta, causa finita". In realtà la causa non era affatto finita. Quando Agostino pronunciava quelle parole (417), Innocenzo era già morto ed era stato chiamato a succedergli Zosimo (417-418) che, pressato dalle proteste di quanti, a Roma e in Italia, consideravano eccessiva la condanna inflitta ai pelagiani, decise di far ridiscutere a Roma tutta la causa. Ma di fronte alla decisa reazione dell'episcopato africano e anche del potere politico, che sollecitato da Agostino aveva confermato la condanna di Pelagio, in definitiva il papa si decise a confermarla anche lui. Infortuni più o meno analoghi Zosimo ebbe a subire ancora, nel suo breve pontificato, alle prese sia con i vescovi africani sia con quelli della Gallia, in conseguenza della sua pretesa di imporre loro la sua volontà in modo piuttosto arrogante e maldestro. In effetti, un'esasperata coscienza della primazia della sede romana si coniugava in lui con una ben modesta capacità di mettere bene a fuoco gli esatti termini delle questioni che gli venivano presentate, con le infelici conseguenze che si sono rilevate. In una contingenza storica che vedeva le Chiese d'Occidente attraversare un periodo di grande fluidità in ambito disciplinare, in quanto la decisa tendenza della Sede romana ad affermare nel modo più vincolante la sua autorità primaziale urtava ancora contro le tradizionali autonomie cui gli episcopati locali non erano disposti a rinunciare su due piedi, il caso di Zosimo evidenziò al meglio il rischio insito in un'affermazione di potere non sufficientemente controllata e non ancora sorretta da una consistente esperienza: troppo spesso, già a cominciare da Stefano, la Sede romana aveva dato l'impressione di decidere le questioni in esame, al di là del loro effettivo contenuto, nel modo più confacente all'affermazione della propria autorità. Ne fu in quegli anni (418-426) eloquente conferma la questione di Apiario, un presbitero africano di più che discutibili costumi, il quale sfruttando abilmente il ricorso alla Sede romana riuscì per lungo tempo a vanificare le ripetute condanne inflittegli dal clero africano. La questione di Apiario attraversò vari episcopati, da Zosimo a Celestino, impegnando soprattutto il successore di Zosimo, Bonifacio (418-422). Ma la vicenda di questo papa mise in evidenza un altro grave inconveniente, direttamente dipendente dal grande potere e dal conseguente prestigio annessi alla cattedra episcopale di Roma, vale a dire la precarietà di una procedura che vedeva il popolo della città arbitro di decidere in merito all'elezione del nuovo pontefice. Era stata una procedura del tutto ovvia nella Chiesa dei primi secoli, e tuttora poteva funzionare in una comunità di modeste proporzioni, ma ormai mostrava la corda quando era in gioco l'elezione alla cattedra di una grande sede, facile oggetto delle ambiziose mire di molti, in grado di sollecitare i favori della folla con maneggi ed elargizioni d'ogni sorta. Eloquente prodromo di questo grave inconveniente era stato il contrasto tra Damaso e Ursino, ed esso si rinnovò, più o meno negli stessi termini, alla morte di Zosimo, quando i favori del popolo si divisero tra l'arcidiacono Eulalio e il presbitero Bonifacio, per risolversi dopo vari mesi e a seguito di complicate vicende col successo di quest'ultimo. Fu peraltro tale il suo sconcerto a seguito della poco edificante vicenda che egli, a nome di tutto il clero romano, rivolse all'imperatore Onorio l'invito di mantenere l'ordine a Roma nel periodo di tempo in cui il seggio papale fosse rimasto vacante. Si invocava così un provvedimento di eccezionale gravità, in quanto di fatto avrebbe implicato l'intervento del potere politico nell'elezione del nuovo pontefice. Onorio preferì non dar seguito alla richiesta, ma l'inconveniente restava, e nel tempo a venire avrebbe prodotto altre funeste conseguenze. Sul momento comunque la successione di Bonifacio non implicò difficoltà di sorta, e fu chiamato a succedergli il diacono Celestino, il quale, negli ultimi anni del suo pontificato (422-432), fu implicato a fondo nella questione nestoriana. Si è qui di nuovo alle prese con problemi di dottrina: dopo che ci si era chiesti in che modo si potesse conciliare la divinità di Cristo con l'unicità di Dio, per ovvia connessione ci si cominciò a chiedere, riguardo a Cristo, in che modo divinità e umanità potessero coesistere, ambedue integre e perfette, in un unico soggetto. A questo riguardo le tradizioni dottrinali di Alessandria e di Antiochia erano in contrasto, in quanto la preminenza che, nel composto teandrico (cioè insieme divino e umano), gli alessandrini assegnavano alla divinità appariva agli antiocheni lesiva della sua umanità, mentre il rilievo che essi davano all'umanità sembrava agli alessandrini dividere Cristo in due soggetti e affermare (come essi obiettavano agli antiocheni) due Cristi e due Figli. Ma a far precipitare la situazione fu una contingenza d'ordine politico, cioè la chiamata del monaco antiocheno Nestorio a ricoprire il seggio episcopale di Costantinopoli (428). Infatti Cirillo, energico e ambizioso vescovo di Alessandria, considerò questa nomina incompatibile con l'aspirazione della sua sede al primato nella parte orientale dell'Impero: di qui l'attacco a Nestorio, accusato appunto di dividere Cristo e di negare a Maria l'appellativo ormai tradizionale di Theotokon. Per dirimere la grave controversia che ne seguì l'imperatore Teodosio II indisse un concilio ecumenico da tenere a Efeso (431). Ma già prima che fosse convocato il concilio, per rinforzare la sua posizione Cirillo si era rivolto a Roma, presentando a Celestino un dossier di documenti a danno di Nestorio. Il papa, che allora era impegnato a debellare i residui pelagiani in tutto l'Occidente, non si preoccupò di approfondire la questione e riunì all'inizio del 430 un concilio locale a Roma, che in sostanza dette mano libera a Cirillo per ridurre alla sottomissione Nestorio: Cirillo seppe fare buon uso di questa cambiale in bianco. Inoltre, una volta convocato il concilio, Celestino dette disposizione alla delegazione pontificia di appoggiare senza riserve l'operato del vescovo alessandrino, il quale dal canto suo aveva promesso al papa di far approvare anche in quella sede ecumenica la condanna dei pelagiani. Com'è noto, Cirillo al concilio ottenne la condanna di Nestorio mediante una procedura quanto mai irregolare, con la conseguenza che la controversia non solo non fu risolta nel suo aspetto dottrinale ma ne risultò ingigantita, destinata perciò a protrarsi, tra alti e bassi, fino alla fine del VII secolo. A noi qui interessa rilevare ancora una volta la superficialità e l'approssimazione con cui un grave contrasto insorto in Oriente, di forte spessore dottrinale e con risvolti politici quanto mai significativi, fu affrontato dalla Sede romana, incapace di rendersi conto della complessità della situazione e preoccupata soltanto di conseguire il suo fine particolare, cioè la condanna del pelagianesimo, e di contribuire all'umiliazione della sede costantinopolitana, ormai avvertita come rivale della Chiesa di Roma quanto all'affermazione del primato nella Chiesa universale. Il pontificato di Sisto III (432-440) segnò un breve periodo di tregua non solo quanto alla controversia cristologica in Oriente ma anche riguardo alle condizioni politiche dell'Italia, durante quegli anni non toccata da rilevanti incursioni dei barbari; ma ben presto tornarono ad addensarsi le nubi da ogni parte, e fu buona ventura per la Chiesa che, quando si scatenò nuovamente la tempesta, ad affrontarla c'era sul soglio pontificio Leone (440-461), di gran lunga la personalità di maggior rilievo tra tutti i vescovi di Roma anteriori a Gregorio Magno, capace come lui, tra l'altro, anche di distinguersi in ambito letterario grazie alla perizia nell'esprimersi, sia nelle omelie che nelle lettere, con grande proprietà di forma, funzionale e raffinata insieme, che riflette bene il carattere dell'uomo. Lo si ricorda qui brevemente per la multiforme attività svolta sia nell'ambito della Chiesa romana sia nella cura diretta alle necessità della Chiesa in Italia, sia nel governo di tutta la Chiesa in Occidente sia nel rapporto con l'Oriente. L'attività nell'ambito della Chiesa di Roma va ricordata soprattutto, oltre e più che per la consueta cura diretta alla conservazione, al restauro e alla costruzione degli edifici adibiti al culto, per la riorganizzazione della liturgia e per l'impegno nel contrastare tendenze di carattere eretico, con particolare riguardo ai manichei. Quanto all'Italia, l'attività del pontefice si esplicò in un contesto politico che vedeva ormai prossime al crollo definitivo, di fronte alla rinnovata pressione dei barbari, anche le residue vestigia della struttura imperiale: stante la latitanza del potere politico, Leone fu chiamato ad affrontare in modo diretto la situazione determinata prima dall'invasione degli Unni di Attila (452) e poi dalla conquista di Roma da parte dei Vandali di Genserico (455); ebbe miglior fortuna col primo che non col secondo, ma anche in questo caso il suo intervento riuscì a mitigare la violenza del saccheggio. Quanto al rapporto con le altre Chiese d'Occidente, Leone vi fece fronte con piena consapevolezza dei diritti primaziali della Sede romana, ormai incontestati sia in forza della tradizione sia perché il crollo del potere imperiale in Occidente aveva di fatto, almeno per il momento, messo fuori dal gioco quello che era stato, per tutto il IV secolo, l'antagonista che aveva con successo infrenato le aspirazioni al primato della Sede romana. Restava, è vero, nel pieno della sua autorità l'imperatore d'Oriente, ma il suo peso politico solo marginalmente si faceva allora avvertire a Roma. Ben diversa, per altro, era la situazione dal punto di vista della dottrina, perché proprio intorno al 448 ricominciarono in Oriente i contrasti destinati a protrarsi, ormai ininterrottamente, per più di due secoli; e mentre, come per la controversia nestoriana, l'Occidente in complesso rimase a lungo estraneo alla crisi, Roma vi fu direttamente coinvolta, più ancora che al tempo di Nestorio; ma questa volta sulla cattedra di Pietro sedeva un papa capace di orientarsi perfettamente nei complessi risvolti dottrinali della controversia e perciò in grado di far fronte in modo consapevole alle sue responsabilità. Si è sopra accennato come, nell'impegnativo compito di armonizzare in Cristo la presenza di umanità e di divinità, ad Alessandria tradizionalmente la prima fosse completamente soverchiata dalla seconda, di cui veniva a costituire solo uno strumento passivo. Nella polemica con gli antiocheni, che invece rivendicavano l'importanza in Cristo della dimensione umana, questa tendenza si era esasperata al punto che, radicalizzando il pensiero di Cirillo, si venne a negare a tale dimensione lo statuto di vera e propria natura e perciò ad affermare in Cristo, come una sola ipostasi (persona, soggetto), così anche una sola natura (monofisismo). Tale dottrina poteva essere atteggiata in forme diverse, anche non necessariamente incompatibili con la convinzione che l'umanità di Cristo fosse stata integra e perfetta: incontrò, per altro, l'opposizione degli ambienti antiocheni, che, prendendone di mira una formulazione estremista, quella del monaco costantinopolitano Eutiche, le fecero carico di affermare che Cristo non era stato un uomo perfettamente uguale a tutti gli altri uomini. Per risolvere la nuova controversia Teodosio II indisse per il 449 un concilio a Efeso, in preparazione del quale Leone indirizzò a Flaviano, patriarca³⁰ di Costantinopoli e principale avversario di Eutiche, una lettera dogmatica (Tomus ad Flavianum) in cui aveva esposto compiutamente il suo pensiero in materia: nella persona di Cristo, cioè in un unico soggetto, si unificano, senza confusione, cioè distinte senza essere separate, due nature complete e perfette, quella divina, per cui Cristo è consustanziale con Dio, e quella umana, per cui Cristo è consustanziale con tutti gli uomini³¹. Tra i molti sostenitori di Eutiche c'era anche Dioscoro, il potente patriarca di Alessandria, erede delle ambizioni e della politica di Cirillo; egli dominò completamente il concilio, imponendo la riabilitazione di Eutiche e la condanna di Flaviano e di quanti vescovi fossero allineati sulle sue posizioni antimonofisite. Il Tomus leoniano non venne neppure letto durante i lavori del concilio. A questo punto il papa si veniva a trovare in posizione difficile, ma l'improvvisa morte dell'imperatore, a causa di una caduta da cavallo, rimise tutto in questione, perché assunse il potere la sorella Pulcheria, ostilissima al monofisismo: un nuovo concilio, tenuto a Calcedonia nel 451, segnò, con la condanna del monofisismo e la deposizione di Dioscoro, il trionfo di Leone, il cui Tomus fu integralmente accettato e costituì lo strumento dottrinale in base al quale fu elaborata la formula di fede difisita, che cioè affermava in Cristo la coesistenza di due nature unificate in una sola persona. Per altro, nella serie dei canoni che accompagnavano la formula di fede, ne fu inserito uno, il 28, il quale riaffermava che, fatto salvo il primato della Sede romana, dopo di essa quella di Costantinopoli occupava il secondo posto: e si sono già rilevati sopra i motivi per cui questa precisazione non poteva riuscire gradita a Roma. Quanto al significato del concilio di Calcedonia in contesto di politica religiosa, se esso fu considerato in tutto l'Occidente espressione definitiva della dottrina cristologica, invece non raggiunse affatto l'obiettivo di pacificare le regioni d'Oriente. Qui infatti la dottrina monofisita, più elementare di quella difisita e tale da accentuare maggiormente la divinità di Cristo, risultava molto accetta soprattutto in ambienti monastici, la cui influenza nelle comunità cristiane era molto grande. Perciò il monofisismo si era ormai molto diffuso, soprattutto in Egitto e in Siria, e le decisioni calcedonesi non ottennero altro risultato che innescare una serie di contrasti e di disordini, anche sanguinosi, cui gl'imperatori che si succedettero tra il V e il VII secolo cercarono di ovviare in vario modo. E come si vedrà, più volte la Sede romana sarebbe stata direttamente coinvolta in questa difficile situazione.

Il papato tra i barbari e l'Oriente

Sul momento, per altro, e per vari anni il coinvolgimento fu soltanto marginale e privo di contraccolpi rilevanti: i due successori di Leone, Ilaro (461-468), che aveva preso parte come delegato della Sede romana al drammatico concilio efesino del 449, e Simplicio (468-483), pur non disinteressandosi di quanto stava accadendo in Oriente, non ebbero occasione di intervenire in modo diretto, e il primo dei due va ricordato essenzialmente per quanto riguarda la salvaguardia dell'autorità del vescovo di Roma. Infatti Ilaro, a seguito di una lunga storia che era cominciata con Anastasio, tornò a insistere, pare senza grande successo, per restaurare la primazia del vescovo di Arles nell'ambito delle Chiese galliche, in modo che la Sede romana potesse fare diretto riferimento a lui per le questioni che riguardavano quelle Chiese. Quanto a Simplicio, più che come grande ricostruttore di chiese, egli va qui, sia pur indirettamente ricordato, perché, quando morì, prima che gli si desse un successore un'assemblea di senatori e di chierici deliberò che d'ora in poi fosse interdetta al pontefice l'alienazione dei beni ecclesiastici. Era una prima misura, ancorché indiretta e perciò largamente inadeguata, che, proponendosi di impedire al papa neoeletto di disporre a suo piacimento dei beni della Chiesa, cercava di ovviare agli inconvenienti e ai pericoli derivanti da una prassi che, quando la sede era vacante, affidava agli umori del popolo la scelta del nuovo pontefice, tanto che talvolta, come è stato detto, essa poteva addirittura essere messa all'incanto, implicando perciò grande esborso di denaro da parte dei vari candidati, e soprattutto di quello vincente. Inoltre, in quella occasione il prefetto del pretorio interferì palesemente nella scelta del successore di Simplicio. Egli agiva ormai in nome di Odoacre, perché con la deposizione di Romolo Augustolo (475) era scomparsa l'ultima parvenza del potere imperiale anche a Roma e in Italia: in tal modo diventava impossibile per l'imperatore d'Oriente interferire in Occidente anche nelle questioni di carattere ecclesiastico, e tale stato di cose tornava a grande vantaggio della sede papale, ormai libera di poter esercitare nel modo più diretto i suoi diritti primaziali, senza temere altre reazioni da parte orientale, se non verbali. L'occasione per mettere in pratica questa opportunità si ebbe subito, perché già nel 382, vivo ancora Simplicio, l'imperatore Zenone, per sollecitazione di Acacio, patriarca di Costantinopoli, aveva pubblicato l'Henotikon, un editto redatto in forma epistolare che, senza abrogare esplicitamente le deliberazioni del concilio di Calcedonia, di fatto le metteva in ombra rispetto a quanto era stato decretato nei concili ecumenici anteriori³². Finalità dell'Henotikon era di cercare un compromesso tra difisiti e monofisiti, in modo da alleggerire la pressione che l'ostilità dei monofisiti esercitava soprattutto in Egitto e in Siria. In effetti la formula raccolse qualche importante adesione in ambito monofisita ma anche più o meno aperti rifiuti, e soprattutto provocò la violenta reazione dei difisiti. Quando l'Henotikon fu conosciuto a Roma, Simplicio era morto, e il suo successore Felice³³ (483-492) immediatamente lo rifiutò: in effetti non solo le decisioni di Calcedonia in sostanza corrispondevano a quella ch'era in argomento cristologico la dottrina tradizionalmente prevalente in Occidente, ma soprattutto quel concilio vi era avvertito come un grande successo della Sede romana, dato il ruolo che nelle sue decisioni dottrinali aveva svolto il Tomus leoniano. In conclusione, si venne alla rottura tra Roma e Costantinopoli: Felice scomunicò Acacio e si ruppe la comunione tra le due sedi, con che ebbe inizio lo scisma detto acaciano, destinato a prolungarsi per trentacinque anni. Il successore di Felice, Gelasio, fu personalità di tutto rilievo, attiva anche in campo letterario, oltre che con molte lettere, con alcuni trattati dottrinali d'argomento antimonofisita e antipelagiano³⁴, e il suo pontificato, ancorché breve (492-496), fu molto significativo per quanto atteneva all'affermazione della primazia romana: per la prima volta infatti venne da lui prospettato in modo chiaro ed esplicito il rapporto tra potere politico e potere religioso, dove il primo era rappresentato dall'imperatore e il secondo dal pontefice romano. Per essere esatti, anche prima di Gelasio non erano mancate in Occidente dichiarazioni e proteste tendenti a rivendicare alla Chiesa il diritto di risolvere i suoi problemi interni, d'ordine disciplinare e soprattutto dottrinale, senza dover necessariamente sottostare all'interferenza decisiva del potere politico: già nel lontano 357, nel contesto della controversia ariana, il vescovo Ossio di Cordova, in una lettera inviata all'imperatore Costanzo, aveva fatto riferimento alle parole di Gesù "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Matteo 22, 21), per rivendicare alla Chiesa l'indipendenza dallo Stato, e anche Ambrogio si era adoperato non poco in questo senso; ma si era trattato di spunti occasionali, frustrati anche dal fatto che coloro che avanzavano quelle rivendicazioni, in altra occasione erano proprio gli stessi a richiedere in loro favore l'intervento del potere politico: si pensi ad Ambrogio. Soprattutto, sia Ossio sia Ambrogio avevano contrapposto al potere politico l'indipendenza della Chiesa considerata nel suo complesso, senza alcuna specificazione a beneficio di questa o quella sede. Ora invece Gelasio, profittando del fatto che la congiuntura politica lo metteva al riparo da ogni reazione di forza da parte dell'imperatore, mentre Teoderico, da poco subentrato a Odoacre, aveva da pensare a ben altro, non esitò a esporre con assoluta chiarezza il suo pensiero, rivolgendosi proprio all'imperatore Anastasio, a beneficio non della Chiesa in generale ma specificamente della Sede romana: l'impero del mondo si ripartisce tra due poteri, quello della gerarchia ecclesiastica e quello dell'imperatore, e il primo è più gravato di responsabilità che non l'altro; perciò nessuno, per qual si voglia motivazione umana, può opporsi al privilegio da Cristo stesso accordato al pontefice romano, che la Chiesa ha sempre riconosciuto come suo capo³⁵. Il concetto finale è evidentemente forzato ma esprime la ferma convinzione di Gelasio, e l'intero testo va apprezzato come momento conclusivo di un itinerario che abbiamo visto prendere le mosse dagli ancora grezzi tentativi di Stefano per svilupparsi gradatamente soprattutto attraverso la parola e l'opera di Giulio, Damaso, Innocenzo, Leone. Si trattava, per altro, di un'affermazione di parte: neppure in Occidente tutti i vescovi erano allora d'accordo nel riconoscere alla primazia romana un'autorità tanto forte da apparire, nelle parole di Gelasio, fuori di ogni controllo esterno; ma soprattutto la sua affermazione si poneva in pieno contrasto con la concezione, largamente generalizzata e ormai tradizionale, che riconosceva nell'imperatore il capo della Chiesa. Gelasio si era potuto esprimere in quel modo perché la congiuntura politica non permetteva all'imperatore di reagire concretamente: ma, come si vedrà, appena il quadro politico sarebbe cambiato, il rapporto tra l'imperatore e il papa si sarebbe avviato su tutt'altro binario. In effetti, anche se l'Italia era passata da un signore all'altro e in quel momento la Sede romana rientrava nel regno di Teoderico, la sovranità del re goto nel rapporto col papa aveva significato ben diverso rispetto a quella dell'imperatore: non soltanto gli mancava l'indiscusso carisma che circonfondeva ancora l'imperatore romano, ma soprattutto era la sovranità di un re di fede ariana, che aveva impostato la sua politica mirando ad assicurare la migliore possibile convivenza tra i Goti ariani e gl'Italiani cattolici e perciò evitava programmaticamente d'interferire nelle questioni interne della Chiesa cattolica, ovviamente nei limiti in cui questa politica di non intervento non entrasse in contrasto con gli interessi del Regno. Per di più, Teoderico, timoroso di un possibile intervento militare degl'Imperiali in Italia, aveva tutto l'interesse a che le relazioni tra la Chiesa cattolica d'Italia, in tutto rappresentata dal pontefice romano, e le Chiese orientali, rappresentate dal patriarca di Costantinopoli, fossero le peggiori possibili, e in questo senso tutto ciò che potesse aggravare la rottura non poteva non riuscirgli gradito. In definitiva, solo in prospettiva di un riavvicinamento tra Roma e Costantinopoli, che considerava pericoloso sul piano politico, Teoderico si sarebbe deciso a intervenire. Di tutt'altro genere, e reso inevitabile dal deplorevole svolgersi degli avvenimenti, fu l'intervento del re nel cosiddetto scisma laurenziano, che ebbe luogo alla morte del successore di Gelasio, Anastasio II. Questi aveva fatto sul soglio pontificio soltanto una breve apparizione (496-498), durante la quale aveva espresso l'intenzione di risolvere il contrasto con gli Orientali, senza per altro aver avuto il tempo di tradurre in atto la sua intenzione. Questa, non appena conosciuta, aveva provocato a Roma reazioni contrastanti tra il clero e il patriziato, sì che quando Anastasio venne a morte, il partito di coloro che erano favorevoli agli Orientali, acclamò papa il presbitero Lorenzo, che era orientato in quel senso; ma i suoi avversari, più numerosi, gli contrapposero il diacono Simmaco. Rispetto ai casi analoghi verificatisi in passato, questa volta l'andamento dei contrasti fu particolarmente lungo e complesso, trascinandosi dalla fine del 498 fino al 507, tra violenze e prevaricazioni di ogni genere, anche falsificazioni di testi³⁶, e con ripetuti interventi di Teoderico: contro Simmaco furono avanzate accuse sia di immoralità sia di corruzione, non senza qualche fondamento, anche se alla fine egli riuscì ad avere la meglio. Infatti un concilio di vescovi italiani, che Teoderico fece riunire al fine di giudicare Simmaco, il cosiddetto Sinodo Palmare (501), dopo un travagliatissimo svolgimento e un ripetuto palleggiamento delle responsabilità tra i padri conciliari e Teoderico, finì per concludere i lavori in senso favorevole a Simmaco. L'importanza di questo concilio ai fini dell'argomento qui svolto sta nel fatto che coloro che vi parteciparono, pur consapevoli del peso delle accuse avanzate contro Simmaco, non erano affatto convinti che il vescovo di Roma potesse essere giudicato da chi era cosciente della sua inferiorità rispetto a lui, e non mancarono di rilevare che un fatto simile prima non si era mai verificato: infatti nella decisione finale fu affermato esplicitamente che il papa non poteva essere sottoposto a giudizio. Perciò la complicata e poco edificante vicenda risultò significativa sotto vari punti di vista: evidenziò drammaticamente ancora una volta le deficienze di una procedura di elezione che si prestava a ogni genere di abusi e di maneggi da parte di chi non badava a scrupoli pur di mettere le mani, come che sia, sul seggio papale; costituì prova inequivocabile che ormai, nella coscienza della Chiesa italiana (ma si può anche dire tout court occidentale), la figura del papa era avvertita come di livello e rango superiori rispetto ai vescovi, anche se riuniti in concilio; dette occasione a che per la prima volta fossero proposte le accuse, immoralità e simonia, destinate a diventare, col passare del tempo, le più usuali a carico del clero. Dati i precedenti, è più che naturale che Simmaco, una volta insediato in modo definitivo sull'agognata cattedra, non abbia neppur lontanamente pensato a una ricomposizione della frattura tra Roma e Costantinopoli; a questo risultato si giunse invece con il suo successore, il diacono Ormisda (514-523), in realtà non tanto per iniziativa sua quanto della corte imperiale, che il papa seppe sfruttare abilmente a pieno vantaggio della Sede romana. Nel 518 venne a morte l'imperatore Anastasio, il quale aveva continuato la politica ispirata dall'Henotikon di Zenone, e aveva cercato di tenere in qualche modo sotto controllo i contrasti tra monofisiti e difisiti lasciando i primi sostanzialmente padroni dell'Egitto e della Siria. Il suo successore, Giustino, un militare già in età piuttosto avanzata, era di origine illirica e perciò, in quanto occidentale, del tutto favorevole ai deliberati del concilio di Calcedonia, sì che le agitazioni dei difisiti affinché quei deliberati fossero nuovamente portati in vigore lo trovarono consenziente: in tale contesto politico e dottrinale era più che naturale che l'imperatore avvertisse l'opportunità di sanare la rottura che si era avuta con Roma. Va anche tenuto conto che sia egli sia soprattutto il nipote ed erede designato Giustiniano già accarezzavano il sogno di riportare le insegne dell'Impero in Occidente, e a tal fine la pacificazione con la Sede romana appariva un preliminare quanto mai auspicabile. Perciò quasi immediatamente dopo la sua elezione Giustino fece pervenire a Roma la proposta per la pacificazione. Ormisda fu d'accordo ma impose condizioni pesanti, perché al pieno riconoscimento del Tomus leoniano, che aveva ispirato i deliberati calcedonesi, aggiunse la condanna postuma del patriarca Acacio, considerato responsabile dello scisma, e di quanti ne avevano seguito l'esempio. Ancora Ormisda fu protagonista di un episodio, che allora in sé non sembrò di grande momento ma che in certo senso rappresentò l'avvisaglia delle future complicazioni tra Roma e l'Oriente. Qui infatti la pressione dei monofisiti faceva avvertire l'esigenza di cercare una qualche via d'uscita per ammorbidire l'ostilità che costoro manifestavano all'indirizzo del concilio di Calcedonia, in quanto lo consideravano senz'altro di tendenza nestoriana. In quest'ordine d'idee un gruppo di monaci oriundi della Scizia si recò nel 519 prima a Costantinopoli e poi a Roma, per propagandare una formula a loro avviso capace di specificare in senso antinestoriano la professione di fede calcedonese: Giustiniano, che avvertiva l'urgenza del problema, fece loro buona accoglienza; invece Ormisda, che non ravvisava alcun motivo per modificare quella professione, dopo un periodo di esitazione, mal disposto dalle loro moleste insistenze, li fece espellere dalla città. Sul momento, comunque, la difficoltà che la pacificazione con Costantinopoli provocava a Roma era di tutt'altra specie. Si è sopra accennato all'interesse che aveva Teoderico a che il rapporto tra Roma e Costantinopoli fosse il peggiore possibile, e in questo senso egli aveva considerato lo scisma acaciano quanto mai benvenuto. Fedele alla sua politica di non intervento nelle questioni interne della Chiesa cattolica, Teoderico non fece valere il suo potere per impedire la riconciliazione, ma certo non ne fu entusiasta, tanto più che effettivamente essa aveva riacceso le speranze di chi auspicava che una buona volta l'imperatore si muovesse alla riconquista dell'Italia. Ovviamente il re s'insospettì e il suo rapporto con i sudditi di fede cattolica, che erano la grandissima maggioranza, e in special modo con la sede romana si deteriorò. Egli non a torto interpretò come segno di inimicizia da parte dell'Impero un editto antiariano di Giustino, emanato nel 524 e indirizzato contro i Goti che ancora erano a servizio dell'Impero; dette perciò disposizione che Giovanni, successore di Ormisda dal 523, si recasse a Costantinopoli, per cercare di ottenerne la revoca. Il papa fu accolto dall'imperatore con tutti gli onori ma ottenne soltanto modeste concessioni, per cui al ritorno il re lo fece gettare in prigione, dove Giovanni di lì a poco morì (526). Pochi mesi dopo venne a morte anche Teoderico, e ancora dopo pochi mesi Giustino (527), cui succedette Giustiniano: si preparava un periodo di dura pressione per la Sede romana. Giustiniano era animato, come da alto senso della dignità sua e dell'Impero, così da sincero fervore religioso, per cui, come si dedicò alla restaurazione degli antichi fasti imperiali mercé la riconquista di parte dell'Occidente romano, così esperì, se pur con scarsissimo successo, ogni tentativo per restaurare anche la pace religiosa nell'Impero. Per quanto attiene in particolare al suo rapporto con la Sede romana, egli da una parte era perfettamente consapevole dell'autorità primaziale che essa aveva ormai saldamente acquisito in Occidente e anche dell'impostazione teorica sulla quale l'aveva fondata Gelasio, ma dall'altra era non meno pienamente consapevole che un'ormai inveterata tradizione assegnava all'imperatore la suprema direzione della Chiesa universale: in effetti questa convinzione, nonostante un non irrilevante senso di insoddisfazione per la continua ingerenza del potere politico nell'attività anche più specificamente religiosa della Chiesa, era ancora profondamente radicata nella coscienza dei cristiani d'Oriente. Questa duplice convinzione è bene attestata in varie disposizioni contenute nel Codex iuris. Esso si apre con l'editto col quale Teodosio I nel 380 aveva fissato come parametro di dottrina ortodossa la fede professata dal vescovo di Roma, e contiene anche altre dichiarazioni che rilevano l'autorità della sede apostolica³⁷: ma è nella VI Novella, in cui viene prospettato il rapporto tra l'imperatore e la Chiesa, che il pensiero di Giustiniano su questa delicata materia è espresso nella forma più esplicita. All'inizio egli sembra addirittura riprendere da Gelasio la dottrina dei due poteri derivati entrambi dall'unica fonte divina, e la contrapposizione tra humana e divina, stante l'ovvia superiorità dei divina sugli humana³⁸, sembra avvalorare la tesi gelasiana della superiorità del potere dei sacerdotes sull'Impero e perciò sul suo capo. Ma subito dopo Giustiniano continua che niente è più a cuore all'imperatore dell'honestas dei sacerdoti (la Novella legifera in materia di elezione di vescovi e chierici), e più giù alla sua cura per l'honestas dei sacerdoti aggiunge quella anche per i veri dei dogmata, come condizione fondamentale del favore divino da cui proviene la prosperità dell'Impero, e questa primaria esigenza fonda il diritto dell'imperatore, cui quella prosperità è affidata, a intervenire per tutelare non soltanto la buona condotta dei sacerdoti ma anche la verità della dottrina. In sostanza Giustiniano, dopo aver distinto i due poteri in quanto pertinenti alla duplice sfera, spirituale e materiale, dell'attività dell'uomo, li unifica in modo implicito ma evidente sulla base dell'unità di potere nell'ambito dell'Impero: se il favore divino, da cui dipende la prosperità dell'Impero, è condizionato da una retta conduzione degli affari della Chiesa, ne discende il diritto dell'imperatore, in quanto garante di quella prosperità, di occuparsi attivamente di tutte le cose della Chiesa, perciò anche di questioni di dottrina e di organizzazione ecclesiastica. Per il momento Giustiniano fece valere questa sua convinzione nell'ambito dell'Impero, emanando varie disposizioni a danno di pagani, giudei ed eretici e soprattutto ispirando e favorendo una serie di iniziative tendenti ad attenuare l'ostilità tra monofisiti e difisiti. Ma otto anni dopo la sua ascesa al trono cominciava, nel 535, la riconquista dell'Italia, il cui sofferto successo ricondusse la Sede romana nell'orbita del potere dell'imperatore. Negli anni intercorrenti, lo stato di tensione che ormai s'era instaurato tra il Regno gotico e l'Impero d'Oriente si faceva avvertire anche a Roma, dato il contrasto tra i fautori rispettivamente dei Goti e dei Bizantini³⁹, sì che il successore di Giovanni, Felice IV (526-530), nella speranza che un gesto risoluto avrebbe potuto evitare le difficoltà che egli prevedeva sarebbero insorte per la successione, sul letto di morte consegnò il pallio, segno del potere, all'arcidiacono Bonifacio, un romano di origine gota. Si trattava di una novità nell'ambito della prassi che regolava l'elezione dei vescovi, che per di più contravveniva a canoni, reiterati in passato in più concili, che facevano espresso divieto al vescovo in punto di morte di designare il suo successore: perciò il gesto di Felice sortì solo l'effetto di attizzare la discordia, perché, lui morto, la massima parte del clero romano designò a succedergli il diacono Dioscoro, esponente di rilievo del partito filoimperiale. Ma questi morì improvvisamente solo pochi giorni dopo la designazione e la sua morte mise fine al contrasto, perché tutti riconobbero come legittimo successore di Felice Bonifacio. Costui per altro tentò di ripetere il gesto di Felice e designò a succedergli il diacono Vigilio, ma la reazione da parte del clero, del popolo e anche della corte gota di Ravenna l'indussero a cassare la designazione. Era evidente che la prassi ordinaria da seguire per l'elezione del vescovo di Roma appariva ormai obsoleta e inadeguata ma appariva altrettanto evidente quanto fosse difficile modificarla in modo accettabile. Di passaggio va ricordato che durante il breve pontificato di Bonifacio II (530-532) si svolse in Gallia l'importante concilio di Orange, che pose fine alla lunga controversia semipelagiana. A Bonifacio II succedette Giovanni II⁴⁰, il cui breve pontificato (533-535), svoltosi durante anni in cui Giustiniano aveva appena cominciato a impegnarsi seriamente nella controversia tra monofisiti e difisiti, non incontrò alcuna difficoltà da questa parte, tanto più che il papa fece approvare anche a Roma la formula dei monaci sciti, che Ormisda aveva respinto e che invece era stata sempre favorita dall'imperatore: essa infatti, unus de trinitate crucifixus, accentuando al massimo l'unità in Cristo della dimensione divina (unus de trinitate) con quella umana (crucifixus), avrebbe dovuto convincere i monofisiti che i difisiti non erano, come quelli obiettavano, criptonestoriani. Proprio a partire dal 533 Giustiniano, influenzato anche dalla moglie Teodora che era piuttosto a favore dei monofisiti, dette inizio a una serie di provvedimenti miranti ad attenuare l'ostilità di costoro, il cui principale rappresentante, Severo, invitato a Costantinopoli, cominciò a propagandare liberamente il verbo monofisita. In questo frangente, mentre nella capitale cresceva il malcontento dei difisiti (che là, come in tutta l'Asia Minore e nelle regioni europee dell'Impero, erano in buona maggioranza), giunse improvvisamente, nel febbraio del 536, papa Agapito, da poco succeduto a Giovanni II. Egli era stato incaricato dal re goto Teodato di cercare di distogliere Giustiniano dall'invasione dell'Italia che proprio allora stava cominciando, ma colse l'occasione per intervenire anche nel contrasto dottrinale, ottenendo la deposizione del locale patriarca, Antimo, cui si rimproveravano tendenze monofisite: egli stesso ne consacrò il successore, Mena. Ottenne anche che fosse convocato un concilio locale, che sanzionasse i provvedimenti avversi ai monofisiti, ma morì improvvisamente prima che il concilio si riunisse (2 maggio 536). La sua salma fu trasportata a Roma. Nel giugno fu eletto a succedergli il suddiacono Silverio, che era figlio di papa Ormisda. Ma nel dicembre dello stesso anno Belisario a capo dell'esercito imperiale occupò Roma e dette così inizio a una nuova fase dei rapporti tra la Sede romana e l'Impero. Nel marzo del 537 Silverio, accusato di alto tradimento per aver tramato al fine di consegnare Roma ai Goti che allora l'assediavano, per ordine di Belisario fu deposto e inviato in esilio in Licia (Asia Minore). Al suo posto fu eletto a succedergli Vigilio, che era stato fino a poco prima apocrisario⁴¹ a Costantinopoli e di qui aveva portato a Roma l'ordine di deporre Silverio. Questi fu successivamente ricondotto a Roma e poi definitivamente esiliato nell'isola di Ponza, dove di lì a poco morì di stenti⁴². È fuor di dubbio che l'accusa di tradimento portata contro Silverio sia stata soltanto un pretesto, e già allora la sua deposizione fu imputata alle trame di Teodora con la complicità di Vigilio: evidentemente l'imperatrice era convinta che questi avrebbe assecondato le sue manovre miranti alla riabilitazione di Antimo, rimaste per altro senza esito. Anche se la collusione di Vigilio con Teodora non può essere revocata in dubbio, molto meno consistenti si rivelano all'indagine critica le dicerie che allora circolarono circa alcune sue iniziative in favore dei monofisiti. Come che sia, nei primi anni del suo pontificato Vigilio non dette motivo di dubitare della sua ortodossia di stampo calcedonese e poté esercitare senza soverchie difficoltà il suo magistero, finché nel 543 insorse la questione dei Tre Capitoli. Sempre al fine di raggiungere una per altro ormai impossibile intesa con i monofisiti, Giustiniano, non contento di promuovere un'impostazione dottrinale (neocalcedonismo) mirante a conciliare i deliberati difisiti di Calcedonia con alcune proposizioni di Cirillo, dai monofisiti riconosciuto come loro somma autorità, cercò anche di parare l'accusa di criptonestorianesimo che, già s'è detto, era stata rivolta a quei deliberati, facendo aggiungere all'ormai innumerevoli volte ribadita condanna di Nestorio la condanna postuma a danno di alcuni personaggi che al loro tempo ne avevano condiviso la dottrina cristologica e che perciò erano molto invisi ai monofisiti: si trattava di Teodoro di Mopsuestia, che era stato attivo a cavallo tra IV e V secolo e in cui si riconosceva il maestro di Nestorio, di Teodoreto di Ciro, che tra i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451) era stato il principale avversario dei monofisiti, e di Iba di Edessa, a suo tempo dichiarato sostenitore di Nestorio. Il primo dei tre non aveva direttamente partecipato alla controversia, gli altri due vi erano stati implicati ma il concilio di Calcedonia li aveva riabilitati, e tutti e tre erano morti in pace con la Chiesa: perciò questa condanna postuma fu avvertita da molti come grave prevaricazione⁴³, ma Giustiniano l'impose senza grande difficoltà all'episcopato orientale; in Occidente, per altro, l'affare assunse una piega diversa. Qui infatti il pericolo rappresentato dai monofisiti appariva remoto e la dottrina calcedonese era pacificamente sottoscritta da tutti: perciò i vescovi d'Africa e d'Italia, direttamente coinvolti nella questione perché ritornati da poco nell'orbita dell'Impero, in grande maggioranza rifiutarono di ratificare una condanna a carico di tre personaggi di rilievo che erano morti in pace con la Chiesa. Vigilio stesso, conscio dell'impopolarità che il decreto di Giustiniano incontrava in Occidente, cercò di tergiversare. Non era evidentemente questo il comportamento che l'imperatore si aspettava da lui e perciò agì di conseguenza: il 22 novembre 545 Vigilio, per ordine di Giustiniano, fu prelevato con la forza da Roma e imbarcato per Costantinopoli; il viaggio per altro si svolse senza alcuna fretta, perché il papa fu trattenuto per circa dieci mesi a Siracusa e giunse a Costantinopoli solo alla fine del gennaio 547. Durante il lungo viaggio egli aveva avuto agio di prendere contatto con vescovi e clero d'ogni parte e aveva constatato di persona quanta ostilità incontrasse un po' dovunque il decreto di condanna dei Tre Capitoli, sì che, benché accolto con grandi onori nella capitale, manifestò la sua avversione al decreto. Ebbe così inizio una lunga vicenda, protrattasi per ben otto anni, durante i quali Vigilio, da una parte pressato dall'imperatore, dall'altra consapevole dell'impopolarità del decreto, destreggiandosi tra detenzioni, tentativi di fuga, momenti di tregua, ebbe modo di cambiare più volte opinione sia a favore sia contro il decreto, finché l'8 dicembre del 553 finì per approvare i deliberati del concilio ecumenico che si era svolto a Costantinopoli nel maggio di quell'anno e che aveva ratificato la condanna dei Tre Capitoli. Vigilio si rimise in viaggio per l'Italia nel 555 e morì durante una sosta a Siracusa. La sua tormentata vicenda mise drammaticamente in luce che, finché l'imperatore sarebbe stato in grado di esercitare un effettivo controllo sulla Sede romana, il papa poteva far valere i suoi diritti primaziali soltanto nei limiti consentitigli da quello. In effetti anche il papa era ormai considerato a tutti gli effetti un suddito dell'imperatore, e la sua elezione, per essere considerata valida, doveva ricevere il placet di quello, mentre egli non aveva voce in capitolo riguardo all'elezione dell'imperatore. La condanna dei Tre Capitoli, inflessibilmente voluta da Giustiniano, concluse nel peggiore dei modi una politica religiosa piena di buone intenzioni ma il cui unico risultato fu che alla morte dell'imperatore la situazione dell'Impero dal punto di vista religioso era ancor più disastrata di quanto lo fosse all'inizio del suo regno. Quella condanna infatti non attenuò affatto l'ostilità dei monofisiti e provocò invece divisioni e contrasti nell'ambito dei difisiti: proprio in quella occasione si palesò con piena evidenza quanto ormai la Cristianità occidentale fosse lontana da quella orientale quanto a coscienza della propria libertà e dei propri diritti nei confronti del potere politico. In Oriente infatti il controllo e l'ingerenza del potere politico nella vita della Chiesa in ogni sua manifestazione era ormai un dato di fatto comunemente, salvo rare eccezioni, recepito e, data la completa compenetrazione tra Stato e Chiesa, nessuno metteva in dubbio che il capo dello Stato fosse anche a capo della Chiesa. In Occidente, invece, il crollo dell'Impero e l'instaurazione dei Regni romanobarbarici avevano alleggerito, ove non addirittura eliminato, ogni reale controllo del potere politico sulla vita della Chiesa, e soprattutto la figura del re barbaro non ispirava affatto quel timore reverenziale la cui aura circonfondeva ancora la figura dell'imperatore: in sostanza, la Chiesa in Occidente era molto più libera che non in Oriente ed era perfettamente consapevole di esserlo. Perciò, mentre in Oriente il potere politico non ebbe difficoltà a piegare le resistenze che da varie parti i difisiti opponevano alla condanna dei Tre Capitoli, in Occidente la pressione dell'imperatore suscitò ben altra reazione e incontrò resistenza molto più forte: spingeva in questo senso, oltre la consapevolezza di cui sopra s'è detto, anche l'esatta percezione che la condanna dei Tre Capitoli significasse, anche se non direttamente, un attentato ai deliberati di Calcedonia, che in Occidente erano avvertiti come irrinunciabile norma di ortodossia. Ne risultò una pressoché generalizzata opposizione al decreto di condanna sia in Africa sia in Italia, le due regioni d'Occidente riconquistate da Giustiniano. Quel decreto, per altro, era ormai diventato legge dell'Impero, sì che l'imperatore si applicò a ottenerne l'approvazione e là dove poté esercitare la forza vi riuscì: così in Africa i pochi irriducibili oppositori furono o inviati in esilio o costretti a darsi alla macchia. In Italia, invece, l'invasione dei Longobardi, privando l'Impero della massima parte dell'Italia settentrionale e di parte di quella centrale, impedì la repressione generalizzata, col risultato che le tendenze scismatiche, che gli oppositori dei Tre Capitoli avevano già evidenziato, si realizzarono portando allo scisma detto appunto dei Tre Capitoli. I Longobardi, quando scesero in Italia, praticavano una religione che era un miscuglio di paganesimo e arianesimo e solo molto tardi si convertirono al cattolicesimo: erano pertanto ideologicamente indifferenti ai contrasti che dividevano i cattolici; ma i loro governanti, diuturnamente occupati a guerreggiare con i Bizantini, compresero immediatamente di avere tutto da guadagnare da una situazione religiosa che vedeva gl'Italiani loro soggetti divisi anche confessionalmente da quelli che si trovavano sotto il dominio dell'Impero, e perciò poco propensi, da questo punto di vista, a una sua eventuale restaurazione. Perciò lo scisma tricapitolino era destinato a durare molto a lungo. Alle devastazioni immani provocate prima dalla lunghissima guerra tra Goti e Bizantini e poi dall'invasione longobarda e dalla divisione politica dell'Italia si aggiungeva anche la divisione in ambito religioso: fu questa la difficile situazione che i successori di Vigilio furono chiamati ad affrontare. Prima che lo scisma diventasse operante, a succedere a Vigilio era stato eletto Pelagio (556-561). Era stato per vari anni apocrisario a Costantinopoli e durante la permanenza di Vigilio nella capitale lo aveva incoraggiato a resistere alle pressioni di Giustiniano, e anche durante l'esilio del papa aveva continuato ad avversare per scritto la condanna dei Tre Capitoli. Successivamente però anch'egli aveva preferito piegarsi alla volontà di Giustiniano e aveva approvato la condanna. Guadagnò così il favore dell'imperatore, che alla morte di Vigilio l'impose come suo successore. Ma questo atteggiamento, se era valso a Pelagio il trono papale, gli aveva però alienato le simpatie degli Italiani in genere e dei Romani in particolare, e solo con la protezione di Narsete, comandante degli Imperiali, egli poté prendere possesso del suo seggio. Infine, di fronte alla perdurante opposizione Pelagio si decise a una pubblica ritrattazione, che avvenne nella basilica di S. Pietro: qui alla presenza del popolo egli riaffermò la validità dei primi quattro concili ecumenici e soprattutto di quello di Calcedonia e invece passò sotto silenzio il recente concilio di Costantinopoli. Ciò nonostante, molti vescovi italiani rifiutarono di entrare in comunione con lui e così dettero inizio allo scisma. Pelagio cercò di reprimere la resistenza soprattutto dei vescovi di Milano e di Aquileia servendosi anche della forza, ma prima Narsete rifiutò d'intervenire e subito dopo l'invasione longobarda rese lo scisma irreparabile. Fu questo l'avvenimento che condizionò completamente gli ultimi tempi del pontificato di Pelagio e quello dei suoi successori Giovanni III (561-574), Benedetto I (575-579), Pelagio II (579-590). La divisione dell'Italia tra Longobardi e Bizantini aveva dato inizio a uno stato di endemica ostilità, ora più ora meno violenta, che comunque determinava una situazione di generalizzata insicurezza, cui si aggiungevano i guasti provocati dalle scorrerie dei barbari. Questi a volte si spingevano fino alle vicinanze di Roma, che addirittura, al tempo di Benedetto I, fu stretta d'assedio. I pontefici furono perciò occupati soprattutto a provvedere alla difesa della città e a risanare, per quanto era nelle loro capacità, i danni e le rovine. Cercarono anche di mettere riparo allo scisma, valendosi pure dell'aiuto dell'esarca imperiale di Ravenna, e ottennero qualche risultato; ma nel Veneto lo scisma sarebbe continuato ancora per più di un secolo. Il contrasto tra Longobardi e Bizantini era allora sostanzialmente in una situazione di stallo, perché nessuno dei due contendenti era in grado di prevalere sull'altro in modo definitivo, e l'alternarsi di successi e insuccessi da ambedue le parti, senza essere tale da modificare la situazione di fondo, provocava invece danni di tutti i generi, cui si aggiunsero anche calamità naturali: va ricordata, al tempo di Pelagio II, una grave carestia seguita da un'epidemia di peste nera, di cui fu vittima, tra tantissimi, anche il papa. Comunque, gradualmente l'impegno dei Bizantini, in difficoltà anche su altri fronti dell'Impero, diventava in Italia sempre più debole, a punto tale che perfino la sicurezza di Roma cominciò ad apparire in pericolo. In questa difficile contingenza l'imperatore Maurizio fece qualche tentativo per spingere a intervenire contro i Longobardi il re di Austrasia, il franco Childeberto, e al fine di stabilire i necessari contatti si servì della mediazione di Pelagio II. Sul momento questo tentativo rimase sostanzialmente infruttuoso perché le spedizioni dei Franchi in Italia conclusero ben poco: ma in prospettiva il fatto appariva significativo, perché per la prima volta si presentava allora al pontefice romano, impegnato per la sicurezza sua e di Roma, un'alternativa rispetto all'abituale protezione offerta dalle armi imperiali. NOTE: 1 Papa (padre) è termine di origine greca (papas, pappas), caratteristico del linguaggio familiare, il cui utilizzo in senso cristiano per indicare, sia in Oriente sia in Occidente, i vescovi e in seguito anche gli abati e i presbiteri, è attestato già all'inizio del III secolo. Gradualmente il significato del termine diventò sempre più tecnico, e in Occidente finì per essere riservato al solo vescovo di Roma (VI secolo). 2 Cfr. infra. 3 Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I-II, Paris 1886-92. 4 M.G.H., Gesta Pontificum Romanorum, I, 1898. 5 Il Liber pontificalis ebbe successive recensioni, tra cui è degna di menzione quella stesa da Pietro Guglielmo di Saint Gilles d'Acey tra il 1121 e il 1142; essa comprende le vite dei papi da Pietro ad Adriano II interpolate e in parte considerevolmente abbreviate, una serie di notizie di varia estensione sui papi da Giovanni VIII (872-882) ad Alessandro II (1061-1073), opera di diversi loro contemporanei, e biografie più ampie sui papi da Gregorio VII (1073-1085) a Onorio II (1124-1130). Poco tempo dopo il 1431 il Liber pontificalis di Pietro Guglielmo fu continuato fino a Martino V, morto in quell'anno, e venne completato a partire da Giovanni VIII in base alla Cronaca di Martino Polono. 6 Per maggiori dettagli sull'intricata questione si v. oltre la voce Pietro, santo. 7 Per tradizione apostolica s'intende la predicazione del messaggio cristiano a opera degli apostoli e dei discepoli immediati di Gesù. Alla metà del II secolo la tradizione apostolica era tramandata ancora quasi esclusivamente per via orale e, solo sporadicamente, in alcuni scritti, parte dei quali risalenti alla fine del II secolo, sarebbe confluita nel Nuovo Testamento. 8 V. in proposito Eusebio, Historia ecclesiastica V, 15, a cura di E. Schwartz, Leipzig 1903 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Eusebius Werke, II, 1), p. 458; Pseudo Tertulliano, Adversus omnes haereses VIII, 1, a cura di A. Kroymann, Vindobonae-Lipsiae 1906 (Corpus Christianorum Ecclesiasticorum Latinorum, 47), pp. 213-16. 9 Per maggiore informazione sull'argomento rinvio al mio Roma cristiana tra II e III secolo, "Vetera Christianorum", 26, 1989, pp. 123-29, ripubblicato nella raccolta Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soveria Mannelli-Messina 1994, pp. 299-306. 10 Per dettagli su tale questione si v. oltre la voce Ippolito, antipapa, santo. 11 A questo proposito Callisto si era riferito esplicitamente alla parabola esposta in Matteo 13, 24-30: cfr. [Ippolito], Èlenchos IX, 12, 22-23, a cura di P. Wendland, Leipzig 1916 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. Hippolytus Werke, XXVI), pp. 249-50. 12 Va comunque tenuto presente che, tra i vari testi di Cipriano in argomento, quello più esplicito, contenuto nel capitolo 4 del trattato De catholicae ecclesiae unitate, è tramandato soltanto da pochi manoscritti, mentre tutti gli altri presentano un testo in cui non si fa parola del primato di Pietro. Piuttosto che a due redazioni dello stesso Cipriano, come hanno pensato alcuni studiosi, è preferibile considerare il cosiddetto testo del primato interpolazione operata a Roma alla metà del VI secolo e introdottasi successivamente in alcuni dei molti esemplari dello scritto ciprianeo giunto a noi (cfr. P. Gramaglia, Cipriano e il primato romano, "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 28, 1992, pp. 185-213). 13 Tutte le notizie relative ai due episodi che seguono sul testo si ricavano da lettere dell'epistolario di Cipriano. 14 Quasi tutta l'attuale informazione su questa importante questione deriva da due scritti di Atanasio, convenzionalmente indicati come De sententia Dionysii e De decretis Nicaenae synodi. 15 Lo scisma donatista, così chiamato dal vescovo Donato che organizzò la Chiesa scismatica, ebbe origine da contrasti di carattere disciplinare conseguenti alla persecuzione di Diocleziano, ma prese vigore soprattutto in senso antiromano, in quanto moltissimi cristiani delle province africane non avevano approvato l'acquiescenza con cui la Chiesa si era uniformata alla politica di Costantino che, in pratica, l'integrava nella struttura dell'Impero Romano. 16 Prima di allora, infatti, si erano avuti nella Chiesa soltanto concili regionali e solamente qualcuno interregionale, tutti comunque convocati per iniziative locali. 17 I maggiori contrasti si ebbero riguardo al termine qualificante della professione di fede approvata dal concilio, che definiva Cristo, in quanto Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, cioè homoousios. Infatti questo termine, che è di ambigua significazione, poteva essere interpretato anche in modo monarchiano, cioè non rilevando affatto la distinzione di Cristo Figlio di Dio rispetto al Padre. 18 Oltre che definire Cristo homoousios col Padre (v. la n. precedente), il simbolo niceno affermava una sola ipostasi (sostanza individuale) del Padre e del Figlio, mentre in Oriente la dottrina del Logos da Origene in poi era adusa all'affermazione di ipostasi distinte dei due. 19 La reazione antinicena evitò di riproporre la questione dottrinale, perché Costantino non avrebbe permesso di rimettere in discussione i deliberati del concilio di Nicea. Perciò i principali sostenitori del concilio e avversari di Ario furono posti sotto accusa per motivi per lo più di ordine disciplinare. Solo Marcello di Ancira, in quanto monarchiano radicale, fu condannato per motivi dottrinali. 20 Si trattava di una divisione di fatto, perché formalmente l'Impero rimaneva uno e unito. 21 Cioè Atanasio e Marcello riuscirono a convincere a Roma i loro interlocutori, in primis papa Giulio, che ogni loro avversario, in quanto tale, era anche avversario del simbolo niceno e partigiano di Ario. Invece in Oriente erano molti coloro che, per i motivi che sono stati esposti alle nn. 13 e 14, avversavano il simbolo niceno pur senza parteggiare per Ario. D'altra parte è indubbio che tra costoro c'erano anche alcuni autentici partigiani di Ario. 22 Questa lettera di Giulio è tramandata da Atanasio, Apologia contra Arianos 21-35, a cura di H.-G. Opitz, in Athanasius Werke, II, 1, Berlin 1938, pp. 102-13. 23 Questa lettera, che si conosce tramite Ilario, è di cronologia incerta: potrebbe rimontare anche a qualche anno dopo il 362. 24 Di questa missione degli Orientali a Roma informano Socrate, Historia ecclesiastica IV, 12, a cura di G.C. Hansen, Berlin 1995 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller. N.F., I), pp. 238-43; e Sozomeno, Historia ecclesiastica VI, 10, a cura di J. Bidez-G.C. Hansen, ivi 1960 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller, L), pp. 249-50. 25 Sono noti i deliberati del concilio dalla lettera sinodale Confidimus (in P.L., XIII, coll. 347-49). 26 V. in proposito soprattutto l'ep. 215 dell'epistolario di Basilio. 27 Cfr. Codex canonum ecclesiae Africanae, 68. 28 V. in proposito Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P.Ewald, I, Lipsiae 1885, nr. 311. 29 V. il suo Sermone 131 (causa finita est). 30 Questo titolo onorifico fu attribuito nel V secolo ai vescovi di Roma, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme. 31 In contrapposizione a quella monofisita, questa dottrina viene definita, con termine moderno, difisita (o duofisita). 32 Nel concilio di Calcedonia, degli svariati concili ecumenici che erano stati tenuti tra IV e V secolo, furono riconosciuti validi soltanto quelli di Nicea (325), di Costantinopoli (381) e di Efeso (431), cui ovviamente fu aggiunto il concilio calcedonese. 33 Questi dovrebbe essere specificato come Felice II, ma già in antico invalse l'uso di indicare come Felice II il successore che temporaneamente l'imperatore Costanzo aveva dato a Liberio quando lo aveva esiliato da Roma. Perciò, al fine di non modificare la numerazione fissata dagli antichi, si è convenuto di indicare il Felice successore di Simplicio come Felice III. 34 Sicuramente non va invece attribuito a papa Gelasio il cosiddetto Decretum Gelasianum, documento composto da varie parti, che trattano argomenti diversi e sono databili a età diverse, comprese tra la fine del IV secolo e gl'inizi del VI secolo. Nel Decretum è fortemente ribadito il primato della Sede romana. 35 Cfr. ep. 12, 2-3. 36 Furono soprattutto i partigiani di Simmaco che difesero la loro posizione mediante la diffusione di testi falsificati, cui è stato dato il nome di Apocrifi simmachiani. 37 Si v. Codex Iust. 1, 1, 7.8. 38 "Maxima quidem in hominibus sunt dona dei a superna collata clementia sacerdotium et imperium, illud quidem divinis ministrans, hoc autem humanis praesidens". 39 Col termine "bizantino", ancorché improprio, è invalso l'uso di designare tutto ciò che concerne l'Impero d'Oriente, in quanto esso, dopo il distacco dall'Impero d'Occidente, con gradualità finì per grecizzarsi completamente. Si abbia comunque presente che i Bizantini definirono sempre se stessi come romani. 40 Il suo vero nome era Mercurio, e ciò spiega perché, eletto papa, pensò bene di cambiarlo, e fu il primo che lo fece, inaugurando una prassi diventata poi normale. 41 Con il nome apocrisario veniva designato l'ecclesiastico, per lo più un diacono, che i papi inviavano presso la corte imperiale di Costantinopoli per trattare gli affari della Sede romana. L'istituto andò acquistando carattere stabile solo a partire dal VI secolo. 42 Secondo voci che corsero allora, sarebbe stato addirittura assassinato. 43 In effetti, la condanna ecclesiastica, per cui uno veniva dichiarato eretico e veniva estromesso dalla comunità dei fedeli, di norma veniva irrogata soltanto dopo che l'interessato avesse rifiutato di ritrattare gli errori dottrinali che gli erano stati imputati.

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