L'Età dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Chimica e manifatture

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Chimica e manifatture

Marco Beretta

Chimica e manifatture

Un aspetto che segna in modo caratteristico lo sviluppo dell'industria chimica durante il XVIII sec. è il suo rapporto contraddittorio con i progressi, le scoperte e i cambiamenti di paradigma teorici realizzati nella scienza durante lo stesso periodo. In molte occasioni, infatti, la mancanza di dialogo tra chimici e industriali non ebbe altro esito che quello di ostacolare il successo applicativo di alcune importanti scoperte. A questo proposito è esemplare il caso del processo ideato da Nicolas Leblanc (1742-1806), chirurgo del duca d'Orléans e chimico dilettante. In altre circostanze, viceversa, si istituì tra scienza e pratica applicativa un rapporto soddisfacente, ma mai eccellente, che fece intravedere le basi per un suo fecondo sviluppo. A partire da questa tensione non è comunque sorprendente constatare che in alcune circostanze significative l'industria chimica e, più in generale, la chimica applicata abbiano progredito molto più velocemente della chimica teorica ottenendo risultati che, per certi periodi, costituirono l'avanguardia del pensiero chimico settecentesco.

La conflittualità tra industria e scienza non fu un elemento esclusivo della chimica e come sottolineava criticamente Diderot nella voce Arts dell'Encyclopédie gli scienziati e i filosofi erano ancora molto lontani dal comprendere l'utilità e l'importanza scientifica delle arti e delle manifatture e dal favorire una feconda integrazione tra sapere tecnico e teoria scientifica. Tale atteggiamento, pressoché inalterato fino al 1750, cambiò radicalmente nel mezzo secolo successivo tanto che, con lo scoppio della Rivoluzione francese, un'altra rivoluzione avrebbe totalmente cambiato l'organizzazione e le tecniche di produzione industriale, prospettando un avvicinamento e un progressivo amalgamarsi di tecnici, imprenditori e scienziati.

La caratteristica principale dell'industria chimica settecentesca era quella di non produrre materiali fini a sé stessi, ma di rispondere, con soluzioni tecniche e produttive, alle sollecitazioni e alle esigenze di altri cicli produttivi come, per esempio, l'industria tessile. Molte erano le manifatture chimiche esistenti nel Settecento, ciascuna delle quali presentava caratteristiche diverse e difficilmente riconducibili a quelle delle altre. In effetti, se si esaminano due produzioni legate alla chimica tecnica come quella farmaceutica e quella del sapone e degli alcali ci si trova di fronte a due modi di affrontare il problema completamente differenti; nel primo caso la produzione, controllata dalla corporazione degli speziali, prevedeva la fabbricazione e la commercializzazione dei rimedi secondo modalità del tutto artigianali e rigidamente vigilate, mentre nel secondo caso essa, progredita grazie alla capacità di liberi imprenditori non afferenti ad alcuna corporazione professionale, basava la propria sussistenza sulla concorrenza economica e tecnica, stimolando così la ricerca spasmodica di nuove tecniche produttive. Altre manifatture e industrie come l'arte vetraria, l'arte tintoria e la fabbricazione di combustibili e di polvere da sparo conobbero evoluzioni ancora diverse. La differenziazione dell'industria chimica aveva come comune denominatore la scarsità di relazioni con il mondo della ricerca scientifica e la dipendenza dall'evolversi del mercato economico, nonché dalle sollecitazioni della domanda commerciale e manifatturiera. L'industria chimica, inoltre, rispondeva all'esigenza di compensare, con la sintesi di prodotti alternativi, la crescente scarsità di prodotti naturali di cui, come nel caso dei combustibili, la domanda crebbe enormemente per tutto il Settecento.

Le principali industrie o manifatture chimiche di questo secolo si possono sommariamente distinguere in quattro comparti produttivi che, per ragioni differenti, stimolarono l'applicazione delle conoscenze chimiche alla pratica: sali, arte tintoria, gas e polvere da sparo.

I sali

Una delle forme più comuni di produzione e manifattura chimica settecentesche era costituita dalla preparazione e lavorazione dei sali. I sali erano ingredienti necessari per diversi processi manifatturieri come la lavorazione del vetro, la produzione del sapone e delle ceramiche, e infine la conservazione e preparazione degli alimenti. La soluzione dei problemi legati al reperimento di combustibile, ottenuta con la sostituzione del legname con il carbone e il coke, comportò un rapido sviluppo delle manifatture chimiche che divenne particolarmente evidente alla metà del XVIII sec. e provocò la scarsità di alcuni sali. Il fabbricante di vetri, per esempio, doveva tener conto che la potassa, ricavata dalle ceneri residue del legno, era un ingrediente essenziale e che l'aumento dei prezzi del legname dovuto alla progressiva deforestazione poteva renderne troppo onerosa la produzione. Gli alcali, inoltre, erano necessari anche per la produzione del sapone e dei candeggianti, due settori che nel Settecento conobbero un'enorme espansione e anche in questo caso si doveva ricavarli dalle ceneri vegetali. Fino al 1750 gli alcali venivano importati dall'America Settentrionale e dalla Scozia, dove nel 1694 era stato ideato un procedimento, denominato kelping, attraverso il quale, bruciando le alghe brune presenti lungo le coste scozzesi, si era riusciti a ottenere alcali di buona qualità. Questo tipo di produzione, limitato geograficamente, soddisfaceva solamente un segmento parziale della crescente domanda di alcali. Solo verso il 1780 si riuscì, per merito di due industriali inglesi, a ottenere sinteticamente la soda ricavandola dal sale comune: una scoperta, questa, che diede un contributo importante alla fondazione dell'industria chimica pesante. Infatti, la possibilità di ottenere la soda dal sale comune non soltanto garantiva ad altre manifatture un prodotto essenziale a basso costo, ma dipendeva a sua volta dalla produzione dell'acido solforico, utilizzato per realizzare la sintesi chimica. Tale dipendenza diede dunque impulso alla produzione industriale dell'acido solforico e, più in generale, alla creazione di un ricco indotto produttivo di sostanze chimiche.

John Roebuck (1718-1794), in collaborazione con Joseph Black (1728-1799) e James Watt (1736-1819), fu uno dei principali protagonisti di questa rivoluzione industriale. Dal 1749 Roebuck aveva fondato con Samuel Garbett a Prestopans in Scozia una manifattura per la produzione dell'acido solforico utilizzando alcuni vasi di piombo, un metallo che, come aveva già osservato Johann Rudolph Glauber nella seconda metà del XVII sec., non veniva attaccato dall'acido. L'imprenditore scozzese, dotato di una solida educazione scientifica e incoraggiato dai consigli di Black e di Watt, decise di produrre a livello industriale la soda sintetica usando sale comune e acido solforico. Entrambe le produzioni consentirono a Roebuck di formare rapidamente una fortuna considerevole, anche se alcuni problemi fiscali rendevano l'estrazione degli alcali dai vegetali più economica rispetto alla sintesi chimica della soda. In quasi tutti i paesi d'Europa, infatti, il sale comune era sottoposto a una tassa estremamente pesante: da ciò conseguivano notevoli costi aggiuntivi per chi come Roebuck ne doveva impiegare enormi quantità.

Mentre in Inghilterra la produzione degli alcali era l'effetto delle capacità individuali di singoli imprenditori, in Francia era lo Stato a dirigere e incoraggiare gli scienziati a trovare nuovi metodi produttivi. Nel 1779 Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) e i membri della Régie Nationale des Poudres pubblicavano, sotto l'egida prestigiosa dell'Imprimerie Royale, un'opera intitolata L'art de fabriquer le salin et la potasse, nella quale si enumeravano i metodi di fabbricazione più comuni in Francia e all'estero, e si offrivano anche indicazioni nuove sul modo con cui poter migliorare la produzione o la qualità.

La situazione non cambiò fino alla fine del secolo quando due industriali inglesi impegnati nella fabbricazione della soda, William Losh e Thomas Doubleday, vennero aiutati dalla fortuna. Durante un viaggio a Parigi, nel 1791, Losh aveva fatto conoscenza con il chimico francese Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), un seguace di Lavoisier e un abile sperimentatore. Dopo aver sviluppato alcuni esperimenti di Henri-Louis Duhamel du Monceau (1700-1782), il 16 febbraio 1782 Guyton de Morveau inviò una lettera al controllore generale delle Finanze di Francia, nella quale esponeva un metodo per la preparazione del carbonato di soda partendo dal sale marino. Soltanto nel 1789 Guyton de Morveau riuscì a ottenere la privativa per la produzione di questo preparato, ma il suo progressivo coinvolgimento negli eventi che fecero seguito allo scoppio della Rivoluzione francese lo fece desistere dall'intraprendere un'attività industriale. Grazie a queste circostanze Losh poté ritornare in Inghilterra e, modificando leggermente i procedimenti ideati dai Francesi, ottenere nel 1796 un brevetto che gli consentiva di cominciare a produrre su scala industriale gli alcali minerali.

Lo sviluppo della prima grande industria di alcali avveniva dunque indipendentemente dalla scoperta del processo di Leblanc; anche in questo caso l'origine e lo sviluppo industriale di un nuovo procedimento erano stati condizionati dagli eventi politici.

Nel 1775 l'Académie Royale des Sciences di Parigi aveva offerto un premio a chi fosse stato capace d'individuare un metodo efficace e a basso costo per produrre la soda ricavata da sale marino, attirando l'attenzione di Leblanc. La pubblicazione di alcune memorie sulla sintesi chimica dei sali, apparse sulla stampa periodica francese verso la fine degli anni Settanta, spinse Leblanc a investigare nuovi procedimenti di produzione. In una prima fase delle sue ricerche, finanziate dallo stesso duca d'Orléans, egli era riuscito a convertire il sale marino in solfato di sodio; successivamente, mescolando il solfato con carbonato di calcio e carbone e riscaldando il composto, era riuscito a ottenere la soda e il solfuro di calcio. Nonostante il successo, due ingredienti essenziali come il cloro che si disperdeva dalla reazione del sale e lo zolfo dell'acido solforico utilizzato nell'operazione andavano irrimediabilmente perduti. Il brevetto di questo processo fu ottenuto il 25 settembre del 1791 e immediatamente dopo Leblanc e il suo socio Michel-Jean-Jérôme Dizé fondarono a Saint-Denis, nei pressi di Parigi, la Franciade, la prima fabbrica di soda.

Il successo del metodo di Leblanc era tuttavia legato al destino del suo committente e principale finanziatore, il duca d'Orléans, il quale, coinvolto in prima persona negli eventi della rivoluzione, veniva ghigliottinato nel novembre del 1793. A seguito delle disposizioni prese dal Comitato di salute pubblica sul sequestro e l'amministrazione dei beni dei condannati, Leblanc veniva espropriato della sua fabbrica e del diritto di produrre gli alcali con il nuovo procedimento. Poco tempo dopo un'apposita commissione istituita per fronteggiare la scarsità di alcali stabiliva che il processo di produzione della soda inventato da Leblanc non era migliore di quelli in uso in altri stabilimenti francesi e ordinava lo smantellamento della fabbrica. Questa gli verrà restituita solo con l'avvento al potere di Napoleone Bonaparte, ma la mancanza dei capitali necessari per riprendere la produzione lo indussero al suicidio nel 1806. Il processo di Leblanc troverà un'applicazione di tipo industriale solo nel 1823 quando James Muspratt (1793-1886), approfittando dell'abolizione della tassa sul sale, fondava a St. Helens in Inghilterra il primo grande stabilimento di soda usando quel processo.

La tintoria

Il rapidissimo sviluppo dell'industria tessile nella seconda metà del Settecento fece emergere due problemi riguardanti il candeggio e la tintura delle tele dalla cui soluzione sarebbe dipeso il passaggio dalla manifattura all'industria. Tali operazioni fino al 1750 dipendevano dallo sfruttamento di pratiche artigianali; il candeggio veniva eseguito impiegando ceneri alcaline e altri procedimenti assai dispendiosi mentre per la tintura erano impiegati coloranti per lo più ricavati dalle piante. Uno dei testimoni più acuti dell'origine della Rivoluzione industriale rilevò giustamente che la rivoluzione del modo di produzione introdotta nell'industria tessile portava come conseguenza la rivoluzione del modo di produzione dell'indotto a cui attingeva questa stessa industria. Come infatti scriverà più tardi Karl Marx ne Il capitale "così la filatura meccanica rese necessaria la tessitura meccanica, e l'una e l'altra insieme resero necessaria la rivoluzione chimico-meccanica della candeggiatura, della tintura e della stampatura dei tessuti" (I, p. 13).

Le prime sollecitazioni dell'industria tessile allo sviluppo di nuove tecniche di candeggio e di tintura incominciarono a emergere verso la metà del XVIII secolo. L'interesse del governo francese per lo sviluppo della prestigiosa manifattura di arazzi Gobelins, fondata per volere di Jean-Baptiste Colbert nel 1667, indusse, nel 1739, al reclutamento, in qualità di sovrintendente ai lavori di tintoria, di Jean Hellot (1685-1766), membro dell'Académie Royale des Sciences e abile chimico sperimentatore. La soluzione all'urgente bisogno di migliorare la qualità delle tinte e la loro resistenza veniva affidata per la prima volta a un accademico piuttosto che a un artigiano. Nel 1750 Hellot pubblicava un trattato intitolato L'art de la teinture des laines et des étoffes à laine nel quale presentava la prima teoria chimica della tintura; oltre che offrire un efficace manuale per la preparazione dei colori, con la sua opera Hellot si proponeva di spiegare i meccanismi che presiedevano ai differenti gradi di affinità dei coloranti con le stoffe. Infatti, ricorrendo a una visione meccanicistica della materia, Hellot credeva che la colorazione fosse dovuta a una reazione chimica durante la quale le particelle di colorante entravano nei pori delle stoffe. Per questa ragione, la lavorazione dei tessuti prima della tintura prevedeva il loro rilassamento per mezzo del calore o altre operazioni chimiche, atte a favorire la fissazione dei coloranti; quest'ultima era ottenuta in maniera definitiva sottoponendo le stoffe a un raffreddamento tale da consentire l'imprigionamento delle particelle colorate. La teoria meccanicistica della tintura non era nuova, ma l'opera di Hellot aveva avuto il merito indubbio di inserirla in una trattazione sistematica ed esaustiva di tutti i processi relativi alla preparazione e al trattamento dei coloranti nella manifattura tessile.

Con il francese Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), prima assistente e poi successore di Hellot alla sovrintendenza della manifattura dei Gobelins, si assiste a un ulteriore progresso nella conoscenza chimica dei processi di tintura. Nel 1763 Macquer pubblicava un libro sulla tintura della seta, L'art de la teinture en soie, nel quale illustrava procedimenti differenti, a seconda dei coloranti utilizzati. Egli, inoltre, aveva analizzato chimicamente la composizione del blu di Prussia e fu il primo a suggerirne l'impiego nell'industria tessile. Con l'opera di Macquer divenne chiaro che l'arte della tintura aveva per oggetto principale quello di estrarre il principio colorante delle sostanze vegetali e di fissarlo sopra le altre e che per progredire nell'arte era necessario possedere elaborate conoscenze sui meccanismi che presiedevano alla combinazione chimica. Era stato osservato, per esempio, che i coloranti avevano maggiore affinità con le sostanze animali (la lana) che con quelle vegetali e che si combinavano più facilmente con le prime a causa della specificità degli ingredienti chimici di cui si componevano le differenti stoffe impiegate. Si era inoltre scoperto che alcuni coloranti si combinavano più facilmente di altri con le stoffe e che per uniformare il processo di fissazione con altri coloranti, più refrattari alla combinazione, era necessario utilizzare i mordenti, come l'acido nitrico, che vennero chiamati 'coloranti additivi'.

Altre scoperte molto importanti stimolarono ulteriormente questo settore di ricerche. Nel 1774 Carl Wilhelm Scheele (1742-1786) isolava il cloro, da lui denominato "acido muriatico deflogisticato". Nonostante ne avesse notato le qualità candeggianti, il chimico svedese non diede seguito alla scoperta e concentrò la propria attenzione sull'analisi delle proprietà chimiche dei gas in generale. Fu un altro chimico francese, il giovane Claude-Louis Berthollet (1748-1822), a 'prevedere' le proprietà candeggianti del cloro e a delineare un metodo industriale per il candeggio delle stoffe. Nel 1785, infatti, Berthollet pubblicava un Mémoire sur l'acide marin déphlogistiqué nel quale evidenziava come l'uso del cloro per il candeggio accelerasse enormemente i tempi di questa operazione che invece nel passato richiedeva diverse settimane. Inoltre, veniva dimostrato come l'azione candeggiante fosse molto più efficace e profonda dei metodi tradizionali. Nonostante questi vantaggi, il chimico francese non seppe intravedere la possibilità di sfruttamento industriale del nuovo processo. Furono Watt e Matthew Boulton, non a caso due inglesi di passaggio in Francia nel 1786, a intuire come il metodo di candeggio ideato da Berthollet potesse avere conseguenze rivoluzionarie per il sistema di produzione dell'industria tessile inglese e, a partire dall'anno successivo, incominciarono a introdurlo con notevole successo nelle manifatture del loro paese. Il contesto produttivo e legislativo dell'Inghilterra di fine secolo favoriva l'introduzione di nuovi brevetti industriali, incoraggiando gli scienziati a trovare applicazioni efficaci delle scoperte scientifiche. In Francia, al contrario, non esisteva un sistema regolamentato per brevettare le scoperte e le innovazioni tecnologiche, tanto che la prassi più comune per rivendicare la priorità di un procedimento industriale era tenerlo segreto. è estremamente importante notare che Berthollet, invitato dal governo inglese a sfruttare il brevetto di produzione della sua scoperta, declinò la proposta; per il chimico francese, infatti, la soluzione definitiva del problema che aveva presentato all'Académie Royale des Sciences era molto più interessante e urgente che una sua immediata utilizzazione pratica. Negli anni successivi, dunque, Berthollet continuò a occuparsi di diversi temi attinenti alla tintura, realizzando un gran numero di esperimenti e di analisi su diversi colori.

La teoria chimica della tintura

La complessità dei procedimenti analitici e sintetici per l'utilizzazione e la fissazione dei coloranti nell'industria tessile mostrava quanto fosse importante essere in possesso di una teoria chimica generale della tintura. Per rispondere a questa esigenza di sintesi, particolarmente sentita dagli scienziati francesi, nel 1791 Berthollet pubblicava gli Éléments de l'art de la teinture, un'opera fondamentale nella quale erano raccolti i principî e le pratiche del candeggio e della tintura delle stoffe. In linea con la tradizione francese, delineava una teoria generale della tintura attraverso la quale era riuscito a superare quella meccanicistica di Hellot. Secondo Berthollet, le particelle coloranti possedevano caratteristiche chimiche che le distinguevano da tutte le altre sostanze; in primo luogo manifestavano tra loro una spiccata affinità chimica quando si combinavano con gli acidi, gli alcali, gli ossidi metallici e alcune terre. Per questa ragione Berthollet credeva che la teoria della tintura andasse espressa in termini di affinità chimiche, nel senso che la soluzione delle particelle di un colore dipendeva causalmente dal grado di affinità di questo con il solvente. Berthollet, inoltre, grazie alla sua adesione alla teoria dell'ossigeno di Lavoisier, era stato in grado di spiegare la causa che portava allo scolorimento delle stoffe sottoposte all'azione prolungata della luce o dell'aria. La conoscenza analitica di questo tipo di deterioramento, che mutava a seconda del variare delle stoffe e dei coloranti, permetteva, utilizzando diversi tipi e quantità di mordenti, di intervenire e di ottenere una tintura più uniforme.

L'opera di Berthollet non era solo un trattato teorico sulla combinazione dei colori, ma forniva una ricca documentazione sui diversi metodi utilizzati dai tintori francesi e stranieri nella propria arte. Nel dare minuziosi resoconti delle tecniche adottate dagli artigiani, il chimico francese aggiungeva un'interpretazione teorica, cioè una spiegazione chimica, dei loro effetti; in questo modo, come scrisse nella seconda edizione degli Éléments, sperava di poter persuadere gli artigiani a sviluppare la propria arte acquisendo nozioni di chimica:

Le arti dirette da una pratica cieca non possono che compiere progressi limitati […] ma quando gli artigiani sono guidati dalla conoscenza delle proprietà che sono state analizzate dalla chimica e dalla fisica, non ci sono limiti alla perfezione a cui possono giungere. […] Ci sono persone che pensano che le teorie fisiche sono sistemi ai quali si vuole assoggettare la Natura senza che si tenga in alcun conto le pratiche di laboratorio. Tuttavia queste stesse teorie non sono che il risultato di esperienze analitiche; richiamano sempre l'osservazione e, cercando di dirigerla, esse fissano l'attenzione sui fatti dei quali non possono stabilire ancora le relazioni con quelli già noti. (ed. 1804, II)

L'ambizione di Berthollet di soddisfare con la propria opera contemporaneamente le esigenze dei fisici e degli artigiani tuttavia si realizzò soltanto in parte. Da un lato gli Éléments ebbero tra i chimici di professione un successo estremamente significativo, elevando la dignità scientifica della pratica tintoria e stimolando moltissimi chimici e membri dell'Académie Royale des Sciences ad approfondire questi argomenti. È sufficiente pensare, per fare un solo esempio, all'importanza attribuita da un chimico teorico come Michel-Eugène Chevreul (1786-1889) allo studio chimico-fisico dei colori. Dall'altro lato però, Berthollet non riuscì a convincere gli artigiani a sfruttare adeguatamente le acquisizioni teoriche della chimica e la loro potenziale applicazione ai sistemi di produzione. Le principali industrie e manifatture tintorie, sorte specialmente in Inghilterra, colsero soltanto alcuni degli aspetti rivoluzionari del pensiero chimico di Berthollet, continuando a utilizzare le pratiche tradizionali, le uniche del resto che potevano rispondere senza alcun rischio all'esigenza prioritaria degli industriali di produrre manufatti a basso costo.

I gas

La scoperta, nella seconda metà del XVIII sec., della natura chimica dei gas sollevò grande curiosità scientifica e alcuni interessanti tentativi di applicarne gli effetti a varie attività industriali. Anche in questo caso le differenti visioni tra scienziati e imprenditori furono la causa dello iato temporale tra la scoperta scientifica e la sua applicazione pratica. Nel 1766, il filosofo naturale inglese Henry Cavendish (1731-1810) presentava alla Royal Society la scoperta di un nuovo gas, denominato 'aria infiammabile' (l'idrogeno), tra le cui caratteristiche egli rilevava, senza peraltro insistere sulle possibili conseguenze di questa osservazione, quella di essere meno denso dell'aria atmosferica. Tale considerazione incuriosì un medico inglese, Joseph Black, allora impegnato ad approfondire la natura chimica di alcuni fluidi pneumatici. Sulla base dell'osservazione di Cavendish, Black propose di fare il seguente esperimento: dopo aver riempito una sottile membrana a forma di pallone con aria infiammabile, la massa del gas avrebbe reso il pallone più leggero dell'aria atmosferica permettendogli l'ascesa verso l'alto. Per stessa ammissione di Black, il successo dell'esperimento non lo indusse a pensare che fosse possibile produrne uno su più larga scala e ancora meno che da ciò si potesse realizzare il sogno di costruire macchine volanti; più semplicemente, l'esperimento era servito per confermare in modo facile e ingegnoso l'esattezza dell'osservazione di Cavendish sul peso specifico dell'idrogeno. Un altro filosofo naturale, Tiberio Cavallo (1749-1809), mosso dalle stesse intenzioni, realizzò un nuovo esperimento nel corso del quale ebbe modo di osservare che riempiendo di idrogeno alcune bolle di sapone queste si muovevano verso l'alto.

Quasi contemporaneamente agli esperimenti di Cavallo due imprenditori francesi, i fratelli Joseph-Michel (1740-1810) ed Étienne-Jacques Montgolfier (1745-1799), figli del proprietario di una cartiera situata ad Annonay, nei pressi di Lione, avevano cominciato, sul finire degli anni Settanta, a fare esperimenti atti a calcolare le relazioni tra le capacità di alcuni globi di carta riempiti con fluidi più leggeri dell'aria. è difficile pensare che questi esperimenti, molto simili a quello effettuato da Black nel 1766, fossero ispirati dalla lettura della memoria di Cavendish o da altri scritti scientifici. Nonostante i due fratelli avessero una discreta conoscenza delle scienze naturali, non è verosimile che fossero stati ispirati nelle loro ricerche da alcuni risultati ottenuti in modo frammentario e relativi a fenomeni estremamente circoscritti. Ripetendo gli esperimenti iniziati nella cartiera, a partire dalla fine del 1782 i due fratelli si convinsero che lo studio dovesse essere approfondito, dapprima provando a gonfiare piccoli palloni di carta, poi riempiendo di idrogeno palloni di carta rinforzata: più aumentavano le dimensioni dei palloni, più cresceva la loro capacità di compiere voli maggiormente alti e lunghi. Nel giugno del 1783, i due fratelli prepararono con grande cura una dimostrazione pubblica del funzionamento della nuova macchina aerostatica: alimentando una borsa di carta rinforzata con il fuoco ottenuto da un piccolo braciere, in pochi minuti si ebbe un pallone di oltre 30 m di circonferenza. Una volta liberata, la macchina volò, per circa 10 minuti, fino all'altezza di 2000 metri. L'eco e la risonanza dell'esperimento realizzato dai fratelli Montgolfier giunsero fino a Parigi dove, in gran fretta, fu istituita dall'Académie Royale des Sciences un'apposita commissione atta a valutare gli aspetti scientifici e tecnici di questa straordinaria impresa. Il successo dei lanci di palloni aerostatici contagiò ben presto tutta l'Europa e, nel giro di pochi mesi, numerosissime opere scientifiche e tecniche furono pubblicate sull'argomento.

Lo stordimento iniziale nel vedere realizzato il sogno di Icaro non impedì ad alcune menti più fredde di studiare le possibili applicazioni dell'invenzione dei fratelli Montgolfier. Già nel novembre del 1783 veniva pubblicato un pamphlet intitolato The air balloon: or a treatise on the aerostatic globe sui possibili usi della macchina aerostatica a scopi militari. Anche Benjamin Franklin (1706-1790), con il consueto senso pratico che lo contraddistingueva, prevedeva per le mongolfiere un grande avvenire nel decidere l'esito delle battaglie. Uno dei primi a volare in mongolfiera fu il chimico Guyton de Morveau, il quale, nel 1793, attirò l'attenzione di Lazare Carnot (1753-1823) sul possibile loro impiego militare per il bombardamento delle linee nemiche; già nell'aprile del 1794 venne istituita la prima Compagnie d'Aérostatiers, le cui incursioni, nei mesi successivi, si distinsero con successo in alcune battaglie. Anche se l'uso e la produzione dei palloni aerostatici non raggiunsero mai livelli industriali, il loro momentaneo successo indusse alcuni imprenditori e scienziati a fondare alcune società di lavorazione dei gas, in particolare di idrogeno, che sopravvissero allo scopo immediato per cui erano state ideate sviluppandosi poi, all'inizio del XIX sec., per rispondere adeguatamente alle sollecitazioni dell'industria dell'illuminazione artificiale.

L'uso dei gas si diffuse anche nella nascente industria farmaceutica. Infatti, alle soglie del XVIII sec. due erano le acquisizioni significative raggiunte nella farmacologia teorica: la prima era l'accertata consapevolezza che l'analisi e l'estrazione dei 'semplici' da sole non potevano più garantire ai medici un orizzonte di ricerca sufficiente per rispondere esaurientemente all'espansione della domanda di nuovi farmaci; la seconda consisteva nell'ascesa di una nuova disciplina, la chimica, di cui si intravedevano i benefici, ma che restava troppo ancorata ai metodi e alle ambizioni speculative degli alchimisti per poter essere di utilità nella produzione di farmaci efficaci. Il Settecento, a conclusione di un lungo processo non privo di tensioni e di arresti, farà della farmacologia una disciplina essenzialmente chimica e lascerà sempre più al margine l'antica e prestigiosa tradizione dei semplici. Questa evoluzione, sottraendo il potere corporativo agli speziali a cui era affidata la preparazione delle farmacopee, costituì un forte stimolo alla produzione liberalizzata e manifatturiera dei farmaci con fondamento chimico.

Un esempio significativo di questa evoluzione ci viene dalla produzione dei gas. In molti paesi, e particolarmente in Inghilterra, la scoperta di nuovi gas ispirò ricerche sulla loro possibile applicazione nella cura di diverse malattie. Nel 1764 il chirurgo inglese David Macbride (1726-1778) identificava nell''aria fissa' (anidride carbonica) un efficace rimedio contro la putrefazione delle ferite d'arma da fuoco e, più in generale, contro la putrefazione della carne. Sull'esito di questo rimedio la documentazione è scarna, anche se è noto che James Cook (1728-1779) lo utilizzò durante il suo viaggio nel Pacifico alla fine degli anni Sessanta. La possibilità di combinare artificialmente l'aria fissa con alcune acque minerali permise la scoperta di numerosi nuovi farmaci capaci di eliminare i calcoli biliari. Interessante è il caso del medico inglese Thomas Beddoes (1760-1808), che si interessò dell'impiego dei gas nella medicina. A tale scopo aveva prodotto diversi medicinali a base di aria fissa capaci, a suo parere, di curare l'asma, i calcoli, le malattie veneree, la tubercolosi e altri mali diffusi. Nel 1797 aveva addirittura aperto la Pneumatic Institution, una sorta di officina-laboratorio di gas terapeutici per lo smercio e la diffusione dei nuovi farmaci. A livello accademico i tentativi compiuti in Inghilterra di diffondere e commercializzare i gas per la cura delle malattie ebbero scarso successo, anche se questi rimedi conobbero grande popolarità tra il pubblico. La scienza ufficiale, rappresentata dalla Royal Society, non ritenendoli sufficientemente attendibili, ne scoraggiava la produzione e l'uso.

Una delle scoperte farmaceutiche più clamorose della fine del Settecento fu quella dell'azione degli anestetici. Il principio di Ippocrate secondo il quale "alleviare il dolore è un'opera divina" trovava finalmente strumenti efficaci, verificati sperimentalmente. Prima dell'Ottocento, i rimedi utilizzati per l'anestesia dei pazienti erano gli estratti di mandragola e di oppio, che si rivelavano però inefficaci a lenire i dolori più acuti come quelli che seguivano le amputazioni o altre operazioni chirurgiche parimenti traumatiche. In questi casi, la possibilità di salvare un paziente dalla morsa, spesso mortale, dei dolori, era perlopiù legata all'abilità e soprattutto alla rapidità del chirurgo a eseguire l'operazione. La scoperta di un gas, il protossido di azoto, introdusse una svolta fondamentale nelle ricerche sui rimedi anestetici. La paternità di questa scoperta è stata a lungo contesa. Alcuni storici l'attribuiscono al medico americano William Paul Crillon Barton (1786-1856), che nel 1808 aveva scoperto gli effetti esilaranti di questo gas ed era stato il primo scienziato ad averne promosso l'uso generalizzato. In realtà la scoperta è da attribuire al chimico inglese Humphry Davy (1778-1829). Questi, che era stato allievo di Beddoes da cui aveva appreso l'azione terapeutica dei gas, aveva collaborato, fin dalla sua fondazione, alle attività della Pneumatic Institution. Nel 1798 Davy isolò il protossido d'azoto e l'anno successivo pubblicò un resoconto dettagliato degli effetti di questo gas sul corpo umano. Gli esperimenti, realizzati da Davy direttamente su sé stesso, avevano dato risultati assai curiosi. Dopo aver inalato una prima quantità del gas, prudentemente miscelata con una data quantità di aria atmosferica, Davy rilevava che alla prima sensazione di pesantezza della testa e di perdita del movimento volontario, seguiva, dopo pochi minuti, una sensazione di debole pressione su tutti i muscoli. Contemporaneamente provava una sorta di piacevole solletico per tutto il corpo e la percezione degli oggetti circostanti era come offuscata da una nebbia, mentre l'udito aveva acquisito un sovrappiù di finezza.

Sorpreso dalle prodigiose qualità del protossido d'azoto, Davy continuò sistematicamente le esperienze, incominciando a intuirne le possibili applicazioni terapeutiche. Fu allora che decise di realizzare un esperimento pubblico inalando protossido d'azoto puro. Gli effetti provocati nel primo esperimento si erano amplificati a tal punto che Davy raggiunse uno stato in cui niente esisteva fuor che il pensiero; l'Universo non era composto che di idee, di impressioni di piacere e di dolore. Ma non erano questi gli unici effetti del gas esilarante: in due occasioni, afflitto da un mal di denti persistente, Davy aveva sperimentato che dopo l'inalazione il dolore era scomparso. Purtroppo, gli effetti esaltanti ed esilaranti del protossido d'azoto furono considerati da Davy molto più interessanti di quanto non fosse la virtù anestetica sperimentata in modo così occasionale e dopo queste esperienze abbandonò le ricerche sulle possibili applicazioni del gas. Le inalazioni di gas esilarante stavano infatti diventando una moda diffusa nell'alta società inglese e, pertanto, stavano perdendo quel valore scientifico e terapeutico che era stato a esse conferito da Davy.

Sarà necessario aspettare qualche decennio perché queste prime esperienze siano percepite dalla comunità medica come un'utile indicazione per risolvere i problemi connessi al dolore fisico. Come in molti altri settori della chimica sperimentale, la scoperta di una nuova sostanza e il riconoscimento delle sue potenzialità applicative costituivano due fasi distinte e spesso contraddittorie della conoscenza scientifica. Un gas utilissimo veniva dunque confinato dal suo scopritore al soddisfacimento della crescente curiosità della classe aristocratica inglese per la mera spettacolarità delle scoperte scientifiche. Il piacere che poteva derivare dal suo utilizzo era divenuto di gran lunga più importante della proprietà di ottundere la sensazione del dolore. A causa di questo grave pregiudizio l'uso terapeutico, e con esso la produzione industriale dei gas anestetici, dovette ancora attendere più di un secolo.

La polvere da sparo

La produzione industriale della polvere da sparo e le ricerche chimiche sul suo migliore rendimento costituirono, a partire dalla seconda metà del XVII sec., uno dei settori strategici delle economie dei principali Stati europei. Le frequenti guerre e la crescente importanza delle armi da fuoco in uso nelle battaglie fecero aumentare la domanda degli ingredienti necessari alla produzione della polvere. Verso la metà del XVIII sec., l'industria francese delle polveri contava già un traffico annuale di oltre 3 milioni di libbre (1500 t) di materie prime e quasi 2 milioni (1000 t) di prodotto finito. Grazie a una ricca documentazione, il caso francese rappresenta l'esempio storico più significativo del passaggio dalla manifattura alla produzione industriale. Dal 1665 la produzione e la commercializzazione della polvere da sparo in Francia erano regolate da un sistema di monopolio, gestito in appalto dalla Ferme des Poudres, un'istituzione voluta da Colbert per coordinare la produzione in modo più efficiente e diretto. All'inizio del XVIII sec., come altre istituzioni centralizzare volute da Colbert, anche la Ferme des Poudres incominciò a manifestare le deficienze economiche e tecniche del sistema degli appalti. Se da un lato, infatti, la Ferme realizzava in condizioni di monopolio profitti enormi, soprattutto con la commercializzazione della polvere da fucile, dall'altro trascurava di approvvigionare l'armata francese con una polvere qualitativamente paragonabile a quella prodotta nei vicini Paesi Bassi e in Inghilterra. Oltre alla cattiva qualità della polvere da sparo, la Ferme raramente soddisfaceva le quantità richieste dai militari. Questa inefficienza fu una delle cause che portarono alla sconfitta della Francia durante la guerra dei Sette anni (1756-1763), tanto che la maggior parte dei generali non mancò di sottolineare che le vittorie riportate dal nemico erano dovute principalmente alla superiorità della polvere da sparo impiegata.

Ottenere il salnitro, l'ingrediente principale per la produzione della polvere, era possibile attraverso il lavaggio di terre o superfici salnitrose, oppure, come accadeva più di frequente, dall'estrazione dai depositi naturali dell'Egitto o dell'India. L'importazione di un prodotto essenziale alla strategia militare della Francia, però, rendeva particolarmente debole e invisa la politica commerciale della Ferme. A fronte di questa difficile situazione il ministro riformatore Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-1781), illuminista e abile economista, il 1° luglio 1775 nominava Lavoisier direttore della Régie Nationale des Poudres, l'istituto fondato per volere del ministro al fine di sostituire l'antica Ferme. Con questa nomina Turgot sperava che sia l'amministrazione sia la produzione tecnica e industriale del salnitro subissero un radicale miglioramento. Dal punto di vista delle aspettative di Turgot e del suo ambizioso progetto di riforma generale delle finanze e del commercio nazionali, la nomina di Lavoisier costituì senza dubbio il solo e più eclatante successo di una breve stagione di riforme, altrimenti segnata da disillusioni e difficoltà di ogni genere.

Quando Lavoisier diverrà régisseur, la privativa nazionale delle polveri poteva già contare su diverse migliaia di dipendenti, ripartiti in 40 dipartimenti del paese. Questi erano impiegati alla raccolta del salnitro, alla sua raffinazione, alla fabbricazione della polvere e, infine, alla sua commercializzazione e distribuzione. Il contributo di Lavoisier alla trasformazione industriale della produzione delle polveri, più che a scoperte scientifiche nuove o particolarmente innovative, deve essere ricondotto alla radicale riforma della politica scientifica tradizionale. Quando Lavoisier entrò nella Régie Nationale des Poudres si era già distinto sia come chimico sia come amministratore estremamente abile. Alla Ferme Générale (l'esattoria nazionale), di cui era divenuto membro aggiunto nel 1768, aveva già applicato con successo le sue profonde conoscenze scientifiche per redimere l'annosa questione dell'edulcorazione del tabacco, un prodotto di cui la Ferme deteneva il monopolio. In questa circostanza Lavoisier aveva appreso come l'incremento delle entrate dipendesse oltre che dalla razionalizzazione dei processi amministrativi anche dalla capacità tecnica e scientifica di manipolare le sostanze. Naturalmente la questione della polvere da sparo era molto più complicata, sia per il carattere strategico della sua produzione sia per la complessità teorica del problema posto da un suo decisivo miglioramento. Le misure di Lavoisier per la riforma della Régie si distinsero innanzitutto per il loro carattere di gradualità. Il chimico francese volle prendere in primo luogo coscienza dei processi produttivi e della loro gestione. Nel frattempo, egli incominciò, nel suo laboratorio all'Arsenal, a eseguire alcuni esperimenti tra cui l'analisi e la sintesi dell'acido nitroso, la decomposizione e lo studio delle acque madri, cioè dei liquidi residui della cristallizzazione del salnitro e l'analisi delle ceneri di salnitro.

Accanto a questo programma di ricerche, Lavoisier promosse all'Académie Royale des Sciences di Parigi l'istituzione di un premio per l'anno 1778 sull'origine e la natura del salnitro. Il premio fu vinto dai fratelli Thouvenel, uno commissario delle polveri a Nancy e l'altro medico di una certa reputazione, e le memorie più significative furono pubblicate, sotto l'egida dell'Académie, nel 1786. Questa iniziativa, destinata alla soluzione di un problema essenzialmente chimico, l'analisi del salnitro, era stata affiancata da Lavoisier a un'inchiesta interna alla Régie, attraverso la quale si sperava di ottenere in modo sistematico informazioni chiare sui metodi di produzione adottati nelle diverse industrie. Il questionario poneva 33 domande inerenti ai laboratori, alle tecniche, alle operazioni e altri quesiti principalmente legati alla produzione del salnitro. Il risultato dell'inchiesta, come del resto del premio istituito dall'Académie, denunciava la carenza di conoscenze teoriche e, in taluni casi, la scarsa dimestichezza con la chimica.

In questa situazione la riforma voluta da Lavoisier fu insieme semplice ed efficace. La prima innovazione consisteva nell'introdurre l'areometro nell'analisi delle acque madri: così il chimico francese uniformava gli standard di analisi sottoponendoli a rigidi criteri quantitativi. Come per la chimica teorica, anche alla Régie la bilancia idrostatica faceva trionfalmente il suo ingresso come strumento di standardizzazione delle procedure di analisi comuni; già a partire dal 1776, la Régie ordinava al costruttore parigino di strumenti Mossy alcuni areometri, originariamente ideati da Lavoisier, con una gradazione atta alla misurazione delle acque madri. La seconda innovazione consisteva nella sostituzione delle ceneri vegetali con la potassa. La pubblicazione, nel 1779, de L'art de fabriquer le salin et la potasse, infatti, si inseriva nell'ampio disegno di ristrutturazione della produzione della polvere da sparo, nel tentativo cioè di applicare le più recenti scoperte scientifiche sulla sintesi chimica dei sali al miglioramento del tradizionale sistema di produzione: i risultati pratici che fecero seguito a questa pubblicazione furono sorprendenti. Durante i primi anni Ottanta, nella nitriera di Saint-Denis, la sostituzione degli alcali di derivazione vegetale con la potassa fece aumentare la produzione di salnitro di oltre l'80%, laddove le fabbriche dei dintorni parigini che traevano ancora gli alcali dalle ceneri vegetali non erano riuscite a superare un incremento del 3%. L'importanza della potassa come ingrediente necessario all'aumento della produzione del salnitro fece sorgere, un po' in tutta la Francia, numerose manifatture e industrie di alcali, tanto che nel 1790 la produzione nazionale di essi aveva superato la quantità di 1,2 milioni di libbre (600 t ca.) annuali. Lo sviluppo e le conseguenti esigenze di un importante settore dell'industria strategica nazionale avevano dunque stimolato il sorgere di nuove manifatture e industrie chimiche.

Oltre che l'applicazione di innovazioni tecniche e produttive, Lavoisier incoraggiò lo sviluppo della ricerca chimica pura, in vista di un miglioramento qualitativo della polvere da sparo. Un esempio di questa tendenza fu l'immediato tentativo da parte di Berthollet di utilizzare praticamente l'isolamento di una nuova sostanza, il clorato di potassio, e la scoperta delle sue proprietà detonanti. La memoria di Berthollet, presentata all'Académie Royale des Sciences, sembrava indicare che l'uso di questa nuova sostanza potesse condurre alla produzione di una polvere di qualità superiore. Lavoisier, in collaborazione con altri suoi colleghi della Régie Nationale des Poudres, si mise subito al lavoro per sperimentare nuove soluzioni e combinazioni. Questa intensa fase di sperimentazioni di una scoperta scientifica in ambito applicativo subì una brusca interruzione il 27 ottobre 1788, quando, nel corso di un esperimento con il clorato di potassio, un'enorme esplosione presso la polveriera di Essonnes costò la vita a un collega di Lavoisier, suscitando grande impressione sull'opinione pubblica. Anche Lavoisier, salvo per pura coincidenza, sembrò esitare seriamente sull'utilità di sfruttare, senza conoscerne esattamente le conseguenze, le scoperte teoriche più recenti e, dopo l'incidente, mise fine al primo tentativo di applicazione dei risultati della ricerca fondamentale all'industria chimica.

Un altro elemento innovativo introdotto nella vita della Régie da Lavoisier consistette nella riforma del sistema educativo. Prima del 1775, i régisseur venivano reclutati tra la piccola nobiltà, gli avvocati e i mercanti, senza che la conoscenza scientifica o chimica avesse alcun peso sulla scelta dei candidati. Come nella maggior parte degli incarichi statali disponibili nella Francia dell'Ancien Régime, il nepotismo e il mecenatismo dominavano su qualsiasi altro tipo di considerazione. Lavoisier, senza entrare in conflitto con questo sistema, cercò di superarlo introducendo un corso obbligatorio di formazione. L'istituzione di una école des Poudres nei primi anni Ottanta era stata preceduta dall'obbligo di seguire, nelle università, nei collegi o privatamente, corsi esterni di matematica e chimica. Inoltre, la volontà di rinforzare l'immagine e il prestigio della professionalità scientifica si manifestò fin dal 1776, quando Lavoisier nominò régisseur il figlio di un semplice sarto, Chevrand, un chimico che si era distinto esclusivamente per la sua abilità nel condurre esperimenti. Quando, nel 1783, l'école des Poudres poté finalmente contare su un'organizzazione istituzionale più solida, furono istituiti i corsi di tirocinio professionale. L'insegnamento si divideva in due parti, una teorica, durante la quale venivano impartiti agli allievi i principî di matematica e chimica, e una pratica, divisa in tre stadi, ove si insegnavano le tecniche relative alla produzione della polvere da sparo. Il corso nel suo complesso durava dai due ai quattro anni, ricalcando così i sistemi collaudati dei corsi per ingegneri della celebre école des Ponts et Chaussées.

Il successo delle riforme scientifiche, istituzionali e amministrative introdotte da Lavoisier nella fabbricazione industriale del salnitro si manifestò in uno straordinario incremento della quantità della polvere prodotta e negli altrettanto importanti miglioramenti del prodotto finito. La produzione del salnitro da 1,7 milioni di libbre (850 t ca.) del 1775 raggiunse gli oltre 3,5 milioni (1750 t ca.) nel 1787. La portata delle armi che usavano tale polvere passò da 150 a 260 m, rendendo quest'ultima la migliore d'Europa. Pochi settori dell'industria chimica settecentesca seppero combinare altrettanto felicemente l'incremento della produzione con un costante contributo dell'innovazione scientifica e tecnologica.

Chiusasi l'esperienza alla Régie Nationale des Poudres, nel luglio del 1793, Lavoisier riassumeva efficacemente nel passo che segue i principî che stavano dietro alla propria filosofia e che, sperava, avrebbero dovuto costituire il modello nazionale dello sviluppo industriale:

Si sa oggi che la forza e la potenza di una nazione non attiene solamente alla fertilità del suo suolo, all'estensione della sua popolazione e alla ricchezza e libertà dei suoi cittadini. La potenza delle nazioni è certamente composta da tutti questi elementi, ma spetta all'industria di metterli in opera e di farne un tutto organizzato. L'industria è la vita di uno Stato civilizzato. […] Ma questa industria che dà movimento a tutto, che vivifica tutto, riceve la propria forza da un impulso originario costituito dalle scienze. […] Dato lo stato della perfezione a cui sono giunti oggi i procedimenti della tecnologia, le grandi fabbriche non possono sostenere la concorrenza che con l'ausilio di grandi macchinari; dal momento che una parte delle arti, specialmente quella tintoria, sono continuamente obbligate a ricorrere al soccorso della chimica, è evidente che non si può sperare nel successo se non ci si occupa incessantemente di perfezionare le scienze matematiche, fisiche e chimiche, le quali devono servire da guida agli industriali e agli artigiani nelle loro attività e imprese. (Oeuvres, IV, pp. 616-617)

L'industria chimica che, soprattutto in Inghilterra, si era sviluppata indipendentemente dai progressi della scienza teorica, si sarebbe evoluta nel secolo successivo ricalcando la prospettiva delineata da Lavoisier.

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