L'industria dei composti azotati

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

L’industria dei composti azotati

Luigi Cerruti

I composti contenenti azoto di interesse industriale sono molti ed estremamente diversificati fra di loro, dalle fibre poliammidiche come il nylon agli esplosivi ad alto potenziale come il tritolo. Ma, in ultima istanza, la produzione di tutti questi composti dipende da quella di un’unica sostanza, l’ammoniaca, e dalla sua trasformazione in acido nitrico. In effetti si può parlare di ‘industria dei composti azotati’ (breviter, industria dell’azoto) in relazione alla produzione di pochissimi composti, dovendo aggiungere per motivi storici e di rilevanza economica, oltre all’ammoniaca e all’acido nitrico, anche la calciocianamide e l’urea. Il riferimento fondamentale a un unico prodotto – l’ammoniaca – non rende l’industria dell’azoto meno importante, essendo essa indispensabile sia in tempo di pace, in relazione ai fertilizzanti azotati, sia in tempo di guerra, in relazione agli esplosivi.

Oltre alla sua rilevanza economica e strategica, l’industria dell’azoto possiede inoltre alcune caratteristiche intrinseche che la rendono unica nel panorama dei grandi comparti produttivi dell’industria chimica inorganica, e che si possono chiarire riferendoci all’equazione di sintesi dell’ammoniaca dagli elementi:

[1]

La prima caratteristica è l’apparente disponibilità dei reagenti. L’azoto costituisce i quattro quinti dell’atmosfera, e quindi è ovunque ‘a portata di mano’; quasi lo stesso si potrebbe dire dell’idrogeno, presente nell’acqua, poco costosa e ubiqua. Si tratta però di una disponibilità apparente: l’azoto è un gas piuttosto inerte e richiede una grande quantità di energia per entrare in reazione; l’idrogeno di per sé è molto reattivo, ma il suo ottenimento a partire dall’acqua richiede parecchia energia. Da questo punto di vista, la sintesi dell’ammoniaca si ridurrebbe a un problema energetico, ma si deve tener conto di una seconda caratteristica, da riferirsi alle condizioni termodinamiche nelle quali la reazione [1] ha una ‘resa’ in ammoniaca soddisfacente. Il sistema in cui avviene la reazione dev’essere portato ad alta temperatura e ad alte pressioni, e i parametri in gioco – reagenti, temperatura e pressione – hanno posto problemi serissimi ai tecnologi che hanno cercato di realizzare la reazione a livello industriale. Ad alte temperature, l’idrogeno si dissocia e reagisce con metalli e leghe; nel caso degli acciai, il processo può portare a fenomeni di decarburazione e di infragilimento, con gravi conseguenze sulla resistenza meccanica alle alte pressioni. Si trattava di una sfida difficile per i metallurgisti, mentre l’esigenza di portare enormi quantità di gas ad alte pressioni creava un’analoga sfida agli ingegneri elettromeccanici. Va infine aggiunto che nel gergo dei chimici la reazione [1] rappresenta un metodo di ‘fissazione dell’azoto’, cioè di passaggio da un elemento gassoso a composti facilmente condensabili, oppure già liquidi o solidi a temperatura ambiente.

Se si mettono insieme le grandi opportunità di mercato – fertilizzanti ed esplosivi in primo luogo –, le necessità strategiche di autosufficienza in caso di guerra, e infine i rapporti stringenti con altri settori industriali di punta, si comprende come l’industria dell’azoto possa aver avuto un ruolo non secondario nella storia dello sviluppo economico del nostro Paese.

Il problema dei composti azotati alla fine dell’Ottocento

Alla fine dell’Ottocento erano ben chiare le connotazioni strategiche della disponibilità di grandi quantità di azoto fissato, ed era evidente la palese impotenza dell’industria chimica a offrire metodi di fissazione che fossero validi dal punto di vista economico. D’altra parte, nel 1894 due scienziati inglesi, il fisico Lord John William Strutt Rayleigh e il chimico Sir William Ramsay, al fine di isolare l’argo avevano utilizzato due metodi diversi per formare composti con l’azoto. Rayleigh aveva utilizzato scariche elettriche in presenza di ossigeno per formare monossido d’azoto NO; Ramsay aveva fatto reagire l’azoto con magnesio metallico ad alta temperatura, ottenendo nitruro di magnesio solido. Dei due metodi, solo il primo presentava qualche possibilità di sfruttamento commerciale, e comunque la procedura di fissazione dell’azoto mediante scariche elettriche divenne notissima proprio per il clamore suscitato dalla scoperta dei gas nobili.

Nel descrivere la corsa alla fissazione dell’azoto è facile stabilire una data precisa da cui far partire il racconto. Si deve infatti risalire al discorso inaugurale che un altro inglese, Sir William Crookes (1832-1919), tenne a Bristol nel 1898, al convegno annuale di un’organizzazione di cui era presidente, la British association for the advancement of science (Address of the president before the British association for the advancement of science, Bristol, 1898, «Science», 28 ottobre 1898, pp. 561-75, e 8 novembre 1898, pp. 601-12). Fu un discorso straordinario, dovuto a un uomo fuori dal comune. Quasi quarant’anni prima, all’inizio della sua carriera come analista professionista, Crookes aveva isolato un nuovo elemento, il tallio, e aveva pubblicato la notizia della scoperta su una rivista da lui fondata nel 1859 e di cui era direttore e proprietario, «Chemical news» (On the existence of a new element, probably of the sulphur group, 30 marzo 1861, pp. 193-94). Nel 1863, a soli 31 anni, era stato eletto membro della Royal society, ottenendo il massimo onore che può essere concesso a uno scienziato inglese.

L’argomentazione di Crookes pubblicata in «Science» nel 1898 inizia con una constatazione: «Il grano è il cereale più nutriente della grande razza caucasica, che include i popoli dell’Europa, degli Stati Uniti, dell’America Britannica [e] gli abitanti bianchi» (p. 564) delle altri parti del mondo. Quindi delinea l’esistenza di un problema drammatico: la rincorsa tra crescita della popolazione, messa a coltura di nuove terre e raccolto di grano sta per essere perduta. Per di più, il «mondo dei mangiatori di pane» ha aumentato ininterrottamente il suo consumo pro capite: «non si possono predire i dettagli dell’imminente catastrofe, ma è abbastanza chiaro dove si sta andando» (p. 569). Il rimedio che Crookes indica è quello dei concimi azotati, ma qui si incontra un limite invalicabile: le riserve di nitro del Cile, l’unico minerale utilizzabile, si esauriranno molto presto. Crookes indica la soluzione nel «bruciare» l’azoto sotto l’azione di un potente arco elettrico, facendo sì che l’azoto passi dallo «stato libero» a quello «fissato che richiede il grano» (p. 573). Questa, nella sostanza, la linea di ragionamento di Crookes; tuttavia il ricorrente discorso sul grano, che compare come base nutritiva non sostituibile, insospettisce un po’. Perché non tenere conto di altri alimenti? Crookes è limpido:

Noi siamo nati mangiatori di pane. [...] La fissazione dell’azoto non è molto distante nel futuro. A meno che la si possa classificare tra le certezze a venire, la grande razza caucasica cesserà di essere la più avanzata del mondo, e sarà spazzata via da razze cui il pane di grano non è il substrato della vita (p. 569).

L’atteggiamento culturale di fondo di una simile presa di posizione è tipicamente positivista, ma è presente anche una forte componente ideologica, un razzismo che non sorprende affatto in qualcuno che apparteneva alla classe dirigente della Gran Bretagna imperiale della regina Vittoria.

L’appello di Crookes, lanciato al termine dell’Ottocento, risuonò per decenni nel secolo successivo, richiamato come un ritornello in ogni discorso o scritto dedicato al problema dei rifornimenti di azoto fissato per la produzione di fertilizzanti e di esplosivi. In ogni caso, fino alla Prima guerra mondiale le sole fonti di azoto fissato per uso industriale e commerciale rimasero essenzialmente quelle ‘naturali’, ovvero il nitro del Cile e l’ammoniaca ricavata dalle acque di lavaggio del gas di città.

Le due fonti consolidate di azoto fissato avevano un impiego industriale diverso. Il nitro del Cile era utilizzato in parte come fertilizzante e in parte – trattato con acido solforico – forniva acido nitrico, una sostanza indispensabile per molte altre industrie, in primo luogo quelle degli esplosivi e dei coloranti. L’ammoniaca ottenuta dalle acque di lavaggio era commercializzata come solfato d’ammonio e utilizzata come fertilizzante.

Nel 1900, in Europa ammontava a 500.000 t la produzione di sali ammoniacali derivati dalle officine del gas e dalle cokerie, mentre l’importazione di nitro del Cile ammontava a 1.150.000 t, di cui 500.000 erano destinate alla Germania. Di quest’ultima enorme quantità, è interessante vedere l’uso: 200.000 t erano impiegate nella coltivazione della barbabietola, un eguale ammontare era destinato ad altre colture (cereali e piante a tubero) e il resto era utilizzato dall’industria chimica. Queste cifre ‘tonde’ sono tratte da un contributo del tedesco Adolph Frank (1834-1916) – un personaggio di cui parleremo più oltre – pronunciato nel 1906 a Roma in occasione del Sesto congresso internazionale di chimica e pubblicato quello stesso anno in italiano con il titolo Sulla utilizzazione diretta dell’azoto atmosferico, per la produzione di materie fertilizzanti e di altri prodotti chimici. Le cifre sono particolarmente interessanti perché rappresentano il punto di vista di uno scienziato-imprenditore che con il lancio della calciocianamide si apprestava a entrare in concorrenza con le usuali fonti di azoto fissato nella parte più ampia del mercato, quella dei fertilizzanti.

In una situazione tecnologica e di mercato in cui l’acido nitrico era ricavato così facilmente dal nitro del Cile, l’idea di ottenere l’acido dall’ammoniaca poteva apparire bizzarra. E in effetti questa idea fu realizzata da uno scienziato molto particolare.

Nel 1902 il tedesco Wilhelm Ostwald (1853-1932) era uno dei chimici più famosi del mondo (era stato uno dei fondatori della chimica fisica), autore di grandi trattati e buon divulgatore, nonché filosofo della scienza e avversario dichiarato dell’atomismo dell’austriaco Ludwig Edvard Boltzmann. Ostwald non credeva nell’esistenza degli atomi, ma sapeva manipolare perfettamente le sostanze: nel 1902, infatti, brevettò un processo di produzione dell’acido nitrico a partire dall’ammoniaca. Il primo passo, il più difficile, consisteva nell’ossidazione dell’ammoniaca a monossido d’azoto NO, e fu realizzato con l’utilizzo di opportuni catalizzatori (Ostwald aveva studiato a fondo il fenomeno della catalisi). Una volta ottenuto l’ossido d’azoto, le successive ossidazioni ad acido nitrico erano abbastanza semplici. Il processo Ostwald rimase ‘in sonno’ fino alla Prima guerra mondiale (si veda oltre).

Competizione e creatività tecnologica

La sfida scientifica ed economica rappresentata dalla fissazione dell’azoto fu raccolta da innumerevoli ricercatori, con esiti in generale assai deludenti. Il primo processo di fissazione dell’azoto portato a livello industriale si ebbe nella periferica Norvegia, ed ebbe all’origine l’incontro fortuito fra un fisico e un ingegnere.

Kristian Birkeland (1867-1917), professore di fisica all’Università di Christiania (oggi Oslo), era impegnato in un progetto che potrebbe apparire fantascientifico: la costruzione di un cannone in grado di lanciare un proiettile mediante un campo elettromagnetico invece che tramite gli usuali esplosivi. Fra le difficoltà da lui incontrate vi erano i cortocircuiti dovuti alla formazione di archi elettrici, e nel 1901 egli aveva depositato un brevetto basato su un suo metodo per evitare quei fastidiosi cortocircuiti. In quello stesso anno fu invitato a una cena a cui era presente anche Samuel Eyde (1866-1940), un ingegnere impegnato nello sviluppo delle ricche risorse idroelettriche della Norvegia e interessato all’uso dell’elettricità per ossidare l’azoto atmosferico sul modello dell’esperienza di Rayleigh. Durante la loro prima conversazione, le scariche elettriche che avevano ostacolato le ricerche di Birkeland sul cannone elettromagnetico divennero di colpo provvidenziali, indispensabili per la fissazione dell’azoto. Il giorno seguente i due erano già soci d’affari.

Un impianto pilota entrò in funzione nel 1903, la produzione commerciale a Notodden (Norvegia meridionale) fu avviata nel 1905, e successivi ampliamenti degli impianti si ebbero nel 1907 e nel 1911. Il sistema di ossidazione dell’azoto era molto particolare. Nella fornace dov’era introdotta la miscela di azoto e ossigeno, le scariche elettriche erano prodotte in modo tale da ‘occupare’ una parte notevole del sistema di reazione. Si formava un insieme di scariche ad arco fra elettrodi metallici percorsi da corrente alternata e posti equatorialmente rispetto a un elettromagnete alimentato con corrente continua. A ogni cambiamento di polarità cambiava anche la direzione delle scariche che sotto l’azione del campo magnetico venivano a formare nel complesso un disco fiammeggiante. La formazione dell’arco veniva osservata attraverso una finestrella di mica. Una volta ottenuto il monossido d’azoto NO, la trasformazione in acido nitrico diventava relativamente semplice, perché il monossido si ossida facilmente a ossidi superiori che per assorbimento in acqua danno acido nitrico e ancora NO, che viene riciclato.

L’innovazione di Birkeland ed Eyde non rimase senza concorrenti. Nel 1907 vennero pubblicati i primi dettagli di un nuovo tipo di fornace elettrica per la produzione di monossido d’azoto, progettata dall’ingegnere tedesco Harry Pauling (1875-1956). Una differenza fondamentale rispetto al progetto dei norvegesi era la notevole semplificazione dell’apparato, dovuta all’assenza del campo magnetico utilizzato per aprire a disco le scariche. Nel forno di Pauling era la reciproca inclinazione a 90° degli elettrodi e la stessa corrente dei gas insufflata nell’apparato a generare un ventaglio di scariche, con una superficie di circa un metro quadro. Alla semplificazione strutturale corrispondeva anche un risparmio energetico del 10%, in quanto non c’era bisogno di alimentare degli elettromagneti. Nello stadio di sviluppo, la fornace di Pauling risultava avere un rendimento in monossido d’azoto molto basso. Un’indagine specifica mise in evidenza che gli elettrodi sprigionavano un pulviscolo di ossido ferrico che in sospensione nella miscela gassosa agiva da catalizzatore e accelerava la decomposizione dell’ossido d’azoto. È questo un esempio limpido del fatto che nella messa a punto di un impianto chimico si ha una continua interazione fra gli aspetti squisitamente chimici e quelli più marcatamente ingegneristici. La prima installazione del processo Pauling fu realizzata nel 1905 dalla tedesca Salpetersäure-Industrie-Gesellschaft nei pressi di Innsbruck (Austria), e nel 1909 l’impianto era già dotato di 24 fornaci.

L’Italia non mancò all’appuntamento con questo primo metodo di fissazione dell’azoto. Ne fu artefice Carlo Rossi (1877-1924) che aveva studiato a Torino al Museo industriale e si era laureato in chimica all’università nel 1901. La sua carriera si svolgeva tranquilla presso il Cotonificio Cantoni di Legnano, quando un mutamento nelle condizioni di lavoro delle maestranze femminili gli offrì un’occasione inaspettata per fare un salto decisivo nel campo imprenditoriale. Nel 1906 l’Italia aveva firmato a Berna una convenzione internazionale sull’abolizione del lavoro notturno, convenzione che ebbe una prima applicazione nel 1907 con una legge (la nr. 816 del 10 novembre) che, sia pure con alcune deroghe, proibiva il lavoro notturno delle donne. Con le macchine ferme durante la notte, si creava un surplus di energia idroelettrica a basso costo, che Rossi pensò di sfruttare importando in Italia la recentissima tecnologia di fissazione dell’azoto messa a punto da Pauling. Nello stesso 1907, con il finanziamento ottenuto da una banca cattolica, il Piccolo credito casalese, fondò la Società elettrochimica dott. Rossi (trasformatasi nel 1910 nelle Officine elettrochimiche dott. Rossi) per la produzione di clorati alcalini e di acido nitrico. Il capitale investito – un milione di lire – era cospicuo, e d’altra parte nel consiglio di amministrazione della nuova società sedevano l’industriale chimico milanese Emilio Lepetit (1869-1919) e gli industriali cotonieri di Legnano Enea Banfi e Giuseppe Frua. Nel 1911 erano in funzione a Legnano sei forni con una potenza installata di 4000 CV; nel 1914 fu aperto un nuovo stabilimento con forni Pauling nella zona di Ponte Mammolo a Roma, con una potenza installata di 6600 CV.

Non deve stupire la prontezza con cui in Italia si rispose all’innovazione proposta da Pauling, in quanto il nostro Paese era all’avanguardia nell’elettrosiderurgia, grazie ai forni progettati da Ernesto Stassano (1859-1922). Con i brevetti Stassano era stata costituita nel 1905 a Torino la Società dei forni termoelettrici, che fu la prima del genere nel mondo e diffuse l’elettrosiderurgia non solo in Italia, ma anche in Germania, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Nello stesso periodo in cui si proponeva la fissazione dell’azoto con i forni elettrici ad arco, stava però fiorendo un altro metodo, basato sulla produzione di calciocianamide. Lo stesso Rossi, spinto dalle esigenze belliche, nel 1916 aprì uno stabilimento a Domodossola per la produzione congiunta di carburo di calcio e di calciocianamide. Dello sviluppo della produzione di calciocianamide in Italia parleremo nel prossimo paragrafo; qui possiamo accennare alla scoperta, in parte fortuita, della calciocianamide.

La preparazione di calciocianamide da carburo di calcio e azoto atmosferico fu brevettata nel 1895 da Frank e da un polacco naturalizzato tedesco, Nikodem Caro (1871-1935). La scoperta del nuovo composto non era stata intenzionale. Frank e Caro avevano cercato di mettere a punto un nuovo processo per la sintesi di cianuri, composti allora assai ricercati per il loro impiego nella metallurgia dell’oro. In un primo tempo, i due avevano effettivamente ottenuto i cianuri attraverso la reazione fra carburo di bario e azoto atmosferico, realizzata ad alta temperatura in un forno elettrico:

[2]

Per diminuire i costi di produzione, avevano poi pensato di passare dal carburo di bario al carburo di calcio, molto meno costoso e di cui in quegli anni si cominciava ad avere una certa disponibilità sul mercato. In questo caso, però, la reazione che aveva luogo nel forno era la seguente:

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Frank e Caro furono colpiti dal fatto che il rendimento in cianuri era molto basso, e ci misero qualche tempo a riconoscere la natura del nuovo composto, la calciocianamide CaCN2. Si trattava comunque di un possibile metodo di fissazione dell’azoto, e, dopo una lunga sperimentazione, nel 1898 fu fondata a Berlino la Cyanidgesellschaft mbH, con la partecipazione dei due scopritori, di importanti imprese chimiche tedesche e della Deutsche Bank. Ma il colpo di fortuna doveva ancora venire. La reazione per ottenere ammoniaca dalla calciocianamide è la seguente:

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A livello industriale, la reazione è condotta facendo interagire la calciocianamide con vapore d’acqua ad alta temperatura, così si comprende l’iniziale riservatezza con cui Albert Rudolph Frank (1872-1965), figlio di Adolph, trattò la scoperta avvenuta nel 1901 che la calciocianamide rilasciava ammoniaca una volta mescolata con il terreno agricolo. La prospettiva di un immenso mercato per la calciocianamide come fertilizzante spinse avanti le ricerche per la sua produzione industriale, ricerche che, date le alte temperature di esercizio e i problemi di corrosione dei materiali dei forni, durarono fino al 1904. Ma, come si è già accennato, a questo punto lo scenario si spostò in Italia.

Una produzione d’avanguardia in Italia: la calciocianamide

Tra le tante ricchezze naturali della Germania guglielmina non vi erano grandi risorse idroelettriche. Per impiantare il processo di produzione della calciocianamide i dirigenti della Cyanidgesellschaft avrebbero potuto orientarsi verso l’Austria, seguendo le orme di Pauling, ma sulle scelte degli imprenditori tedeschi intervenne il chimico agrario Angelo Menozzi (1854-1947), che funse da intermediario scientifico-economico fra Berlino e Milano.

Come genealogia accademica, Menozzi apparteneva alla seconda generazione della ‘scuola’ di Stanislao Cannizzaro, essendo allievo di Guglielmo Körner, che – già collaboratore di Cannizzaro a Palermo – nel 1867 aveva fondato il Laboratorio di chimica organica della Scuola superiore di agricoltura di Milano. In questa scuola Menozzi nel 1876 si laureò, nel 1896 assunse la direzione del Laboratorio di chimica agraria e nel 1900 divenne professore ordinario di chimica agraria.

A favore della proposta di Menozzi agli imprenditori tedeschi, giocarono diversi fattori significativi: innanzitutto la disponibilità di capitali locali e di buone risorse idroelettriche in molte zone della penisola; in secondo luogo, in Italia era già ben avviata la produzione del carburo di calcio, l’intermedio necessario per ottenere la calciocianamide; infine, si sarebbe potuto sviluppare un piano di informazione e propaganda verso gli agricoltori, portato avanti da Menozzi stesso, da altri docenti universitari e dai titolari delle cattedre ambulanti di agricoltura.

Forte delle licenze ottenute dalla Cyanidgesellschaft, nel 1904 si costituì a Roma la Società italiana per la fabbricazione dei prodotti azotati e di altri prodotti per l’agricoltura. Al capitale sociale (sei milioni di lire) concorsero banche milanesi e napoletane e la Società italiana di elettrochimica, che vi contribuì anche con un suo stabilimento a Piano d’Orta, una frazione del comune di Bolognano (al tempo in provincia di Chieti). La produzione a fini commerciali fu avviata nel 1905, per la prima volta nel mondo, sulla base di 500 t all’anno. L’azoto era ottenuto attraverso la liquefazione dell’aria con una macchina di Linde e la successiva distillazione frazionata; il carburo di calcio era fornito da una società di punta del settore, denominata Carburo romano.

Inizialmente ci si scontrò con una grave difficoltà: i forni per la reazione del carburo con l’azoto erano riscaldati dall’esterno a temperature fra i 1000 e i 1600 °C, e con il tempo si usuravano. D’altra parte, la reazione è esotermica, e nel 1906 Frank introdusse un’importante innovazione; era sufficiente innescare la reazione con un elettrodo posto all’interno di un forno termicamente isolato e la temperatura si manteneva alta a causa dello stesso calore di reazione.

I nuovi forni furono installati a Piano d’Orta e la capacità produttiva fu portata a 4000 t all’anno. Questa fabbrica fu l’unica al mondo a produrre calciocianamide fino al 1908, anno in cui la Carburo romano ottenne le licenze per aprire un analogo stabilimento a Terni. Nel 1909 l’American cyanamid company avviò la produzione di calciocianamide presso le cascate del Niagara, e più tardi altri impianti furono aperti in Italia a Saint-Marcel (Valle d’Aosta) e ad Ascoli Piceno. Come si è già detto, in seguito alla grande richiesta di azoto fissato per le esigenze belliche entrò nel settore anche Rossi, che nel 1916 installò a Domodossola uno stabilimento per la calciocianamide.

La soluzione tedesca: il processo Haber-Bosch

Ben al di là dell’appello razzista di Crookes, la questione della fissazione dell’azoto divenne veramente drammatica durante la Prima guerra mondiale. Il segnale che stava avvenendo qualcosa di nuovo fu dato dall’inattesa capacità della Germania di rifornire i diversi fronti con enormi quantità di esplosivi. Dato che il blocco navale britannico impediva qualunque rifornimento di nitro del Cile agli imperi centrali, questi erano stati privati di una materia prima fondamentale per le produzioni militari, così che l’acido nitrico poteva essere ottenuto solo mediante l’ossidazione dell’ammoniaca. Quindi era stato quest’ultimo composto a diventare l’obiettivo primario dell’industria chimica tedesca in tempo di guerra. Nel 1917, Ettore Molinari (1867-1926), il nostro migliore chimico industriale, esaminò sugli «Annali di chimica applicata» (Lo sviluppo di alcune grandi industrie chimiche in rapporto alla guerra, 1-2, pp. 13-41) i diversi processi mediante i quali i tedeschi avrebbero potuto ottenere l’ammoniaca e, giunto al processo di sintesi dagli elementi, scrisse:

Questo processo s’era dimostrato, anche prima della guerra, economicamente vantaggioso, e non vi è dubbio che dopo la guerra l’ammoniaca più economica sarà quella ottenuta con il processo Haber (p. 26).

Abbiamo visto che nel primo decennio del Novecento le vie più battute per la fissazione dell’azoto passavano attraverso la formazione di calciocianamide, oppure attraverso la combustione diretta dell’azoto nel forno ad arco; entrambi questi processi richiedevano però grandi quantità di energia, e il secondo era competitivo solo nelle irripetibili condizioni dell’impervia Norvegia.

Furono due tedeschi, il chimico fisico Fritz Haber (1868-1934) e un tecnologo dell’azienda chimica BASF (Badische Anilin- und Soda-Fabrik), l’ingegnere Carl Bosch (1874-1940), a risolvere definitivamente il problema, attraverso le ricerche di Haber e la preveggente imprenditorialità di Bosch. Quest’ultimo seppe organizzare al meglio le grandi risorse di ricerca della BASF, già allora la più potente impresa chimica del mondo: in particolare, creò un nuovo grande centro di ricerca, in cui primeggiava la figura di Alwin Mittasch (1869-1953), uno dei maggiori studiosi di catalisi di ogni epoca. Il significato di questa cooperazione fra competenze così diverse diventa più chiaro quando si ricordi che il processo per ottenere l’ammoniaca è particolarmente arduo in quanto richiede alte pressioni, alte temperature e catalizzatori adeguati, ponendosi così fra quelli che impongono una stretta connessione fra gli aspetti impiantistici e quelli strettamente chimici e chimico-fisici. Il risultato della collaborazione fra scienza accademica e ricerca applicata, condotta all’interno dell’impresa, si materializzò nei grandi impianti di Oppau e Merseburg, che permisero alla Germania in guerra, come detto, di rifornire i diversi fronti con immense quantità di esplosivi.

Dopo una lunga sperimentazione con impianti pilota nel sito di Ludwigshafen, nel settembre 1913 la BASF avviò lo stabilimento di Oppau, con una capacità di ammoniaca di sintesi di 30 t al giorno. Spesso si connette questa data a una presunta preparazione della BASF a un’economia di guerra. La realtà storica è del tutto diversa. Prima dello scoppio della guerra la strategia imprenditoriale della BASF puntava esclusivamente al mercato dei fertilizzanti, com’è dimostrato dal fatto che, nell’agosto del 1914, esisteva in Germania un solo piccolo impianto per l’ossidazione dell’ammoniaca ad acido nitrico, e questo impianto non apparteneva alla BASF.

Il ‘successo’ tedesco nel campo della produzione di esplosivi, costato milioni di morti, aveva chiarito l’aspetto militare e strategico della sintesi dell’ammoniaca e della sua trasformazione in acido nitrico. Nessuna nazione dimenticò il carattere da Giano bifronte della fissazione dell’azoto: il passaggio dal mercato dei fertilizzanti ai campi di battaglia era relativamente semplice, ma proprio per questo si doveva essere pronti ad affrontare ogni evenienza. Nel 1930, un articolo non firmato del prestigioso mensile statunitense «Industrial and engineering chemistry» (Pressure-synthesis operations of the Du Pont ammonia corporation, 5, pp. 433-37) riferiva che nel 1917-18 il consumo di esplosivi delle truppe statunitensi schierate in Europa era stato pari a 500 t di ammoniaca al giorno, e inoltre affermava che con due soli grandi impianti di ammoniaca sintetica gli Stati Uniti avevano ormai una capacità produttiva adeguata a quel ‘consumo’. L’articolo era dedicato all’impianto di Belle (West Virginia) della Du Pont ammonia corporation (vedi anche oltre), e con una certa soddisfazione si sottolineava che questo era «particolarmente ben situato per gli scopi della difesa nazionale, in quanto [era] ben nell’entroterra» (p. 433).

Luigi Casale: la risposta italiana alla sfida tedesca e l’appuntamento con il Giappone

Fu proprio durante la Prima guerra mondiale che Luigi Casale (1882-1927) iniziò le ricerche che dovevano condurlo alla messa a punto del suo processo originale per la sintesi dell’ammoniaca a medie pressioni. Non si trattava di un’impresa da poco, se si pensa che lo stesso governo francese acquistò i diritti di sfruttamento dei brevetti Haber-Bosch proprio all’indomani della vittoria militare: la guerra aveva battuto la potenza militare tedesca, ma non la sua tecnologia. In un simile clima culturale (ed economico), poteva sembrare temerario cimentarsi nella concorrenza con la BASF, l’impresa di punta della chimica mondiale.

Il coraggio con cui Casale si buttò in questa impresa aveva radici tutte personali, in quanto ben poco nel suo ambiente scientifico avrebbe potuto dargli lo slancio necessario.

Laureatosi a Torino nel 1908, era diventato assistente e poi primo aiuto di Michele Fileti (1851-1914) presso l’Istituto di chimica generale; qui, come a Napoli dove si trasferì nel 1915, il clima culturale era dominato in modo quasi maniacale da ricerche molto specializzate di chimica organica. Unica ‘boccata d’aria’ (ma quanto mai significativa) fu il soggiorno di circa un anno presso il laboratorio berlinese di Walther Hermann Nernst (1864-1941), un maestro indiscusso nel campo della termodinamica. Fra il 1917 e il 1919 Casale si applicò tenacemente alla messa a punto di un impianto pilota che gli permettesse di ottenere gli ingenti finanziamenti per portare la produzione a livello di mercato. Nell’impegno scientifico e tecnologico era affiancato dalla moglie Maria Sacchi (1889-1950), anch’essa laureata in chimica ed esperta analista.

L’inizio della sperimentazione semindustriale avvenne nello stabilimento dell’azienda Chimico mineraria Rumianca, situato presso la cittadina di Rumianca (oggi Pieve Vergonte), nell’alto Novarese. Il sito e l’azienda non soddisfecero le esigenze dei due sperimentatori che, appoggiati dal grande chimico Giacomo Ciamician, decisero di trasferire le proprie ricerche presso la IDROS, una società elettrica ed elettrochimica di Terni. Della Rumianca era vicepresidente Lorenzo Allievi (1856-1941), un ingegnere elettrotecnico autore di importanti memorie scientifiche, che nel 1893 aveva lasciato l’insegnamento universitario per dedicarsi all’imprenditoria. Allievi era uno degli amministratori della Carburo romano, e si rese conto non solo dell’importanza delle ricerche di Casale, ma anche della concorrenza che queste avrebbero rappresentato per la produzione di calciocianamide della propria azienda. Così ostacolò l’espansione della IDROS bloccandone le forniture di energia elettrica, sulla base di un precedente accordo con il Comune di Terni per lo sfruttamento delle acque del fiume Nera. Iniziava un braccio di ferro che ebbe una soluzione inaspettata.

Negli ultimi mesi del 1920, Casale richiese numerosi brevetti presso le maggiori nazioni industriali, comprese Stati Uniti e Gran Bretagna. Già le prime notizie seguite al deposito dei brevetti attirarono grande attenzione sul processo Casale, perché l’autonomia brevettuale rispetto al processo tedesco si basava su una moltitudine di approcci originali ed efficienti. Lo scienziato italiano aveva saputo introdurre notevoli innovazioni: in particolare, per un riciclo dei prodotti di reazione funzionale rispetto allo scambio di calore con la miscela di reazione, per la ricircolazione mediante un iniettore e non mediante una pompa, per le scelte cruciali dei catalizzatori e del rapporto fra temperatura e pressione a cui far avvenire la reazione. Il confronto fra i disegni delle torri di reazione nel processo Haber-Bosch e nel processo Casale rende evidente la maggiore complessità dell’impianto progettato dall’italiano, sicuramente guidato da attente e sottili considerazioni di carattere termodinamico.

È a questo punto che iniziò a prospettarsi un incontro, allora insolito, fra Casale e un intraprendente giapponese. Nel 1906 Shitagau Noguchi (1873-1944), un ingegnere elettrico laureatosi all’Università imperiale di Tokyo, aveva fondato un’impresa idroelettrica per rifornire di elettricità alcune miniere d’oro. Entrò quindi nel settore chimico per utilizzare il surplus di energia elettrica prodotto dalla sua centrale; nel 1908 inaugurò un impianto per la produzione di carburo di calcio nella città costiera di Minamata, e nel 1909 acquistò le licenze per la produzione di calciocianamide con il processo Frank-Caro. La sua impresa assunse il nome di Compagnia giapponese per i fertilizzanti azotati (Nihon chisso hiryo, chiamata brevemente Nichitsu), e durante la Prima guerra mondiale Noguchi accumulò notevoli capitali, tali da permettergli un ‘salto tecnologico’. Ovviamente, anche in Giappone era stato dato risalto alla radicale innovazione introdotta dalla BASF nei processi di fissazione dell’azoto, e Noguchi e altri imprenditori giapponesi – suoi concorrenti diretti – avevano seguito con grande attenzione le notizie provenienti dall’Europa su quanti stavano raccogliendo la sfida lanciata dall’industria tedesca, in particolare il francese Georges Claude. Noguchi era incerto se insistere ancora sulla calciocianamide o puntare sulla sintesi dell’ammoniaca, tecnologicamente molto più ardua.

All’inizio del 1921, accompagnato da altri due dirigenti della Nichitsu, arrivò in Europa per valutare direttamente la situazione. In febbraio s’incontrò con Casale e visitò il suo impianto sperimentale a Terni. In quel torno di tempo Casale ricevette le visite degli emissari di altre due imprese giapponesi, ma l’impianto era di dimensioni ingannevolmente modeste, e fra tanti visitatori Noguchi fu l’unico a essere veramente impressionato dalle sue innovazioni tecnologiche. Casale lasciò inoltre trapelare che erano giunte richieste di licenze dagli Stati Uniti. Fra queste richieste vi era quella della potente Du Pont, che in seguitò acquisì veramente i diritti sul processo Casale per conto della sua Du Pont ammonia corporation. Con Noguchi si avviò una dura trattativa; lo scienziato italiano chiese una cifra molto elevata per concedere la licenza e alla fine l’imprenditore giapponese lasciò nelle sue mani un cospicuo anticipo.

Da questo fruttuoso incontro la posizione negoziale di Casale risultò molto rafforzata, anche nell’ambito italiano. Il 23 aprile 1921 fu firmato un compromesso per la costituzione della Società italiana ammoniaca sintetica (SIAS), di cui venivano a far parte la IDROS e la Carburo di Allievi, nonché il capitale virtuale dei brevetti di Casale e i capitali più tangibili dell’industriale Guido Donegani (1877-1947), allora presidente della grande azienda chimica Società anonima delle miniere di Montecatini (nota come Montecatini). Quattro giorni dopo, il 27 aprile, nasceva a Lugano l’Ammonia Casale, creata per gestire commercialmente i brevetti del chimico italiano. Il 24 maggio veniva costituita ufficialmente a Roma la SIAS, con un capitale sociale di 23 milioni di lire, di cui 5 rappresentati dal valore stimato dei brevetti intestati a Casale. Infine, quell’anno tanto importante per Casale si chiuse il 12 dicembre con la cessione della licenza a Noguchi, che consegnò in cambio lettere di credito per 10 milioni di lire.

Nel 1923 erano in costruzione o già operativi impianti a Nera Montoro (Italia), Nobeoka (Giappone), Sabiñánigo (Spagna), Saint-Auban (Francia). Si deve aggiungere un ‘particolare’ assai importante, che spesso viene dimenticato nella discussione delle innovazioni tecnologiche: Casale curò non solo l’aspetto chimico del processo, ma fece sì che l’intera impiantistica fosse italiana. Si può capire l’orgoglio con cui nel 1923 Miolati parlava di Casale al Primo congresso nazionale di chimica pura e applicata:

Dopo aver organizzato un corpo scelto di tecnici italiani egli ha voluto che anche il macchinario necessario al suo processo fosse costruito da ditte italiane; Con la loro intelligente e volenterosa collaborazione

[...] fu possibile costruire tutto il macchinario in Italia; ed all’estero viene esportato non solo il processo ideato e studiato da un italiano, ma anche il macchinario costruito, in modo perfetto, dai nostri operai (A. Miolati, L’ammoniaca sintetica in Italia, in Atti del I Congresso nazionale di chimica pura e applicata, a cura di D. Marotta, Roma 1923, p. 79).

Fra le grandi aziende meccaniche o metallurgiche che collaborarono alla costruzione dell’impiantistica, Miolati citava la Armstrong di Pozzuoli, la Fonderia del Pignone, gli Stabilimenti di Dalmine della Società Leonardo da Vinci.

Casale morì ad appena 45 anni; lasciava dietro di sé un’industria avviata e un grande esempio di capacità scientifiche e imprenditoriali. Al momento della sua morte (1927), utilizzavano i suoi brevetti 22 fabbriche di dieci Paesi diversi, aventi una potenzialità produttiva totale di 760 t/g di ammoniaca anidra. È chiaro che Casale aveva potuto fare affidamento su un sistema industriale certamente maturo nella siderurgia e nella meccanica, ma ancor più su un’industria elettromeccanica d’avanguardia, capace di produrre compressori in grado di raggiungere 500÷900 atm e di mantenere imponenti flussi di gas. Un altro importante chimico italiano, Giuseppe Bruni (1873-1946), stimava che fra il 1922 e il 1925 l’Italia avesse esportato macchinari destinati agli impianti Casale per 50 milioni di lire (G. Bruni, Luigi Casale, «La chimica e l’industria», 1927, p. 90).

L’opera di Giacomo Fauser

Avviandoci a discutere l’opera di Giacomo Fauser (1892-1971), stiamo entrando nella parte ‘finale’ della nostra ricerca. In realtà si tratta di un ‘finale’ non in quanto a estensione del racconto (siamo più o meno alla sua metà), ma in quanto la figura di Fauser fu dominante per decenni nell’ambito dell’ingegneria chimica, italiana e internazionale. È quest’ultimo riferimento che ci invita a un chiarimento preliminare sulla storia dell’ingegneria chimica, prima di entrare nel merito della biografia di questo personaggio.

Una nuova professione non si crea d’incanto, e men che meno una professione che intenda associare nel proprio nome due discipline con storia e atteggiamenti culturali assai diversi, come la chimica e l’ingegneria. In questo caso si deve giungere alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando negli Stati Uniti gli studi di ingegneria andarono verso l’istituzionalizzazione accademica dell’ingegneria chimica, una specialità che fino allora era stata appannaggio di interessi e tirocini personali.

Un esempio famoso verso la formalizzazione della professione è quello di un corso di studi quadriennale molto specializzato organizzato nel 1888 da Lewis Norton (1855-1893) del prestigioso Massachusetts institute of technology (MIT). In effetti, il primo titolo di bachelor fu conseguito nel 1889 in un’istituzione ‘minore’, il Rose polytechnic institute nell’Indiana, mentre il primo titolo assegnato dal MIT risale al 1891. Seguirono altre istituzioni, ma solo nel 1903 il MIT poté conferire un PhD (doctor of philosophy) in ingegneria chimica. Nel 1908, a vent’anni di distanza dall’iniziativa di Norton, gli ingegneri chimici statunitensi fondarono l’American institute of chemical engineers, con una quarantina di soci.

Se ora allarghiamo l’orizzonte alle altre grandi nazioni di tradizione scientifica, vediamo che l’Italia per molti versi non sfigura affatto. Nel 1900 l’allora Istituto tecnico superiore di Milano aprì una sottosezione in ingegneria chimica, e nel 1906 il Politecnico di Torino istituì la laurea in ingegneria chimica. Francia e Gran Bretagna seguirono a distanza di decenni, mentre il caso più evidente di resistenze disciplinari è quello della Germania, dove si dovette attendere fino agli anni Sessanta del Novecento prima che le figure del chimico industriale e dell’ingegnere meccanico fossero fuse in una singola professione sancita accademicamente. Nel Politecnico di Milano si mantenne fino al secondo dopoguerra la denominazione Laurea in ingegneria industriale, Sottosezione chimica. Se questa denominazione nascondeva a mala pena una certa prudenza nel tutelare il destino professionale dei neolaureati, la preparazione pluridisciplinare dovette essere ottima, data l’eccellente riuscita di allievi come Fauser e, poco più tardi, Giulio Natta (che nel 1963 sarebbe stato insignito del premio Nobel per la chimica).

Fauser crebbe in un ambiente familiare orientato verso la tecnica e la produzione industriale, in quanto il padre era proprietario di una fonderia. Laureatosi in ingegneria industriale nel 1913, in quello stesso anno, appena ventunenne, ottenne il primo brevetto per un sistema di elettrolisi dell’acqua in grado di fornire ossigeno in modo efficiente. Il brevetto era nato dall’effettiva realizzazione di particolari celle a diaframma per fornire all’impresa paterna la quantità di ossigeno necessaria per la saldatura autogena, diventata ormai indispensabile nell’industria meccanica. Durante la guerra, le ‘celle Fauser’ furono adottate anche in altre officine italiane impegnate nella produzione aeronautica, essendo diventate ‘provvidenziali’ per ottenere le commesse delle forze armate.

Al termine della Prima guerra mondiale, Fauser affrontò il problema ciclopico della sintesi dell’ammoniaca a partire dagli elementi. Costruì il primo reattore sperimentale nell’officina del padre, utilizzando un residuato di guerra, un obice da 320 mm; l’impianto pilota era in grado di dare 100 g di ammoniaca all’ora. Nel 1921 avviò quel rapporto con la Montecatini che segnò gran parte della sua vita professionale. Per intervento di Ettore Conti, imprenditore dell’industria elettrica, fu messo in contatto con Donegani, che abbiamo già visto interessato ai brevetti di Casale. L’intesa tra Fauser e Donegani fu immediata, e nacque una collaborazione destinata a far sì che la Montecatini diventasse un’impresa d’avanguardia proprio nel settore della fissazione dell’azoto.

L’incontro fra i due avvenne il 26 maggio, e già il 31 maggio nacque la Società elettrochimica novarese, con un capitale di 3 milioni di lire, a cui partecipavano la Montecatini con 2 milioni, Fauser con 500.000 lire, e lo stesso Conti. Intanto erano stati depositati i primi importanti brevetti, denominati Apparecchio Fauser per la produzione di ammoniaca sintetica (23 aprile) ed Elettrolizzatore Fauser per la produzione di idrogeno e ossigeno (14 maggio). Nel 1922 fu messo in funzione a Novara il primo impianto semindustriale, con una produzione giornaliera di 100 kg di ammoniaca.

È interessante che una delle caratteristiche essenziali del processo adottato da Fauser sia stata dettata dal limite di resistenza meccanica della colonna di catalisi; come si è detto, questa era costituita da un cannone residuato di guerra, che poteva ‘lavorare’ a pressioni non superiori alle 200 atm. Nel 1924 avvenne nell’impianto di Novara il passaggio alla scala industriale, con una potenzialità di 12 t al giorno.

Negli anni successivi vennero costruiti impianti per la sintesi dell’ammoniaca a Merano, Mas, Coghinas e Crotone, e nel 1936 fu raggiunto un totale di 100.000 t di azoto fissato. Nello stesso periodo, il processo Fauser-Montecatini fu utilizzato in stabilimenti costruiti in molti altri Paesi; nel 1930 erano in funzione impianti in Svezia, Germania, Giappone, Polonia e Belgio, e nel 1940 essi erano saliti a 25, con una potenzialità di 500.000 t annue di azoto fissato.

La produzione di ammoniaca offrì a Fauser la possibilità di impegnare le sue altissime capacità tecnologiche nell’intera famiglia di problemi di chimica industriale che abbiamo visto essere strettamente connessi con il primo e cruciale passo dell’ottenimento dell’ammoniaca.

Per quanto riguarda la preparazione dell’idrogeno e dell’azoto, a metà degli anni Trenta Fauser mutò radicalmente i metodi impiegati nei primi impianti. Inizialmente aveva utilizzato celle elettrolitiche per ricavare l’idrogeno, di cui una parte veniva bruciata per privare l’aria di ossigeno e ottenere azoto (era il metodo già seguito da Casale). Nel 1936, in un grande impianto a San Giuseppe di Cairo preparò l’idrogeno da gas di cokeria e l’azoto per distillazione frazionata dell’aria, e gli stessi metodi vennero utilizzati ad Apuania. Per i prodotti a valle del processo di sintesi dell’ammoniaca, mise a punto impianti per la preparazione dell’acido nitrico, sia diluito sia concentrato. Per avere l’acido concentrato, seguì un procedimento del tutto originale, che aggirava l’uso di acido solforico concentrato come disidratante. Il primo impianto di questo tipo fu avviato a Bussi nel 1932, seguito da un secondo a Merano. Sul piano dei sali ammoniacali utilizzabili in agricoltura, Fauser inventò apparecchi originali per ottenere solfato d’ammonio (brevetti a partire dal 1927) e nitrato d’ammonio (brevetti a partire dal 1930). Si noti che il nitrato d’ammonio fuso può essere impiegato nella preparazione di esplosivi.

Fauser risolse in modo magistrale anche altri importanti problemi di chimica industriale, fra i quali vanno ricordati la produzione di urea (si veda oltre) e l’idrogenazione di combustibili poveri. La trattazione di quest’ultimo tema esula dall’ambito ristretto delle produzioni riferite all’azoto fissato, tuttavia diventa pertinente se si considerano congiuntamente la biografia scientifica di Fauser e la molteplice valenza delle innovazioni tecnologiche.

La messa a punto di diversi processi di idrogenazione di combustibili avvenne nell’ambito dell’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC), costituita il 17 febbraio 1936 in compartecipazione fra Stato e Montecatini. Fauser diresse la progettazione di due complessi impianti, a Bari e a Livorno, veri capolavori di ingegneria chimica che stavano alla pari con le più avanzate realizzazioni tedesche.

Lo schema dell’impianto di Bari, destinato alla lavorazione del greggio albanese, era veramente splendido. Qui seguiamo la descrizione datane da Fauser l’anno successivo, in un articolo su cui torneremo più oltre (La produzione di benzina e lubrificanti per idrogenazione catalitica sotto pressione, «La chimica e l’industria», 1937, 3, pp. 113-22). La distillazione del petrolio grezzo dava direttamente una quantità modestissima di benzina e una discreta porzione di ‘olio medio’. Quest’ultimo, per essere convertito in benzina subiva un’idrogenazione in fase vapore. Dal residuo della distillazione veniva separato l’asfalto, che era sottoposto a una prima idrogenazione in fase liquida e a una seconda in fase vapore, insieme agli oli medi. I materiali ricavati dopo la separazione dell’asfalto erano anch’essi idrogenati in fase liquida, e davano ancora piccole quantità di benzina, di ‘olio Diesel’ e di paraffina, e una discreta quantità di olio lubrificante. Un punto economicamente cruciale delle tecnologie impiegate era che l’idrogeno necessario era ricavato dai gas ‘permanenti’ formatisi in seguito a reazioni parassite nello stadio di idrogenazione. Questi gas ‘permanenti’, formati in gran parte da metano, erano infatti convertiti in due stadi, e con processi catalitici ad alta temperatura, in idrogeno e anidride carbonica. L’ottenimento di idrogeno da metano fu oggetto di un brevetto specifico da parte di Fauser, e qui va sottolineato che, se la messa a punto dei processi di idrogenazione poteva utilizzare le conoscenze accumulate nel campo della sintesi dell’ammoniaca, l’utilizzo del metano per ricavare idrogeno diventerà utilissimo nel secondo dopoguerra con lo sfruttamento dei giacimenti di metano nella pianura padana, e andrà a vantaggio dell’industria dell’ammoniaca.

È facile comprendere quali fossero la quantità e la qualità della ricerca che avevano dovuto precedere e accompagnare la costruzione degli impianti. Essi richiedevano processi in cui intervenivano, ancora una volta, catalizzatori, alte pressioni e alte temperature, e quindi, rispettivamente, ricerche chimico-fisiche, meccaniche e metallurgiche. Anche quest’ultimo settore di ricerca è messo in evidenza da Fauser nel suo articolo; egli sottolinea che gli acciai speciali con tenori elevati di nichel e di cromo, ritenuti indispensabili per la resistenza meccanica alle alte pressioni e quella chimica alla corrosione, erano stati sostituiti da altri, di costo più modesto, rivestiti da leghe, con scarse caratteristiche meccaniche, ma con alta resistenza alla corrosione. Impianti come quelli di Livorno e di Bari si ponevano quindi come vere sfide tecnologiche, a un tempo proposte e acuite dalla politica autarchica voluta dal regime fascista.

Fauser affrontava ogni ‘sfida’ con un metodo di lavoro molto articolato, impegnativo al massimo. La ricerca era condotta mediante un approccio sperimentale, nel quale la prospettiva aperta dalla teoria era immediatamente vagliata in laboratorio. Qui si potrebbe parlare di approccio ‘chimico’, e d’altra parte l’attrezzatura del laboratorio in cui lavorava Fauser nel 1924 comprova la rilevanza delle pratiche chimiche nelle sue ricerche. L’ingegnere Dino Maveri ci ha lasciato (1978) questa testimonianza, legata al suo arrivo a Novara nel 1924:

Il laboratorio era costituito da un grande stanzone di metri 8×8 circa. Al centro addossato ad un pilastro un banco per analisi chimiche con il reagentario. A sinistra una cappa a due scomparti e lungo le pareti ripiani a sbalzo in cemento piastrellati che dovevano servire al montaggio di apparecchiature di prova. A destra una porta immetteva in un locale triangolare dove a stento erano contenute la bilancia di precisione, una scrivania da ufficio e due sedie. Questo era l’ufficio del laboratorio ricerche dove Fauser discusse con tecnici e chimici studi e ricerche relative alle sue invenzioni (cit. in http://www.liceoantonelli.novara.it/pagineweb/Storiaindustriachimica/MNaltrilabo.htm, 24 sett. 2013).

Fauser, ingegnere, lavorava volentieri al tavolo da disegno, ponendo attenzione a ogni dettaglio delle apparecchiature, e badando contestualmente alla loro efficienza e al costo di realizzazione. Seguiva la realizzazione dei prototipi, dal singolo apparecchio fino agli impianti, e il loro collaudo. In un certo senso, la progettazione di un impianto non terminava mai. Al momento della commissione di un’ulteriore installazione, riesaminava il progetto, apportando innovazioni secondo il mutato ‘stato dell’arte’ (espressione che non si riferisce soltanto alle conoscenze del tempo, ma anche alla creatività personale di Fauser).

Il trasferimento internazionale di tecnologie

Il trasferimento di tecnologie a livello internazionale è tipico dell’industria chimica ed era già presente negli ultimi decenni dell’Ottocento con i casi emblematici della diffusione di due processi di produzione, quello del belga Ernest Solvay per la soda e dello svedese Alfred Nobel per la dinamite. Abbiamo visto l’importanza di questi trasferimenti per Casale, e anche Fauser li seguì personalmente, partecipando in modo rilevante all’indubbio successo dei processi Fauser-Montecatini.

Per l’espansione all’estero del processo di sintesi dell’ammoniaca, la Montecatini seguì una strada interessante, al fine di diventare una vera e propria multinazionale. Nel 1926 l’azienda fondò a Bruxelles la Ammoniaque synthétique et dérivés (ASED), avendo per questa iniziativa un socio importante, la Evence Coppée, un’impresa specializzata nell’impiantistica per forni a coke e installazioni a essi collegate. La ASED doveva sia produrre fertilizzanti sia fornire e costruire impianti Fauser per l’ammoniaca sintetica. Sempre nel 1926, fu costituita nei Paesi Bassi la Compagnie néerlandaise de l’azote, che nel 1930 avviò la produzione di ammoniaca nel sito di Sluiskil. Questa espansione internazionale fu estremamente utile per la Montecatini quando dovette affrontare la crisi di sovrapproduzione di ammoniaca conseguente alla crisi economica del 1929, in quanto accrebbe notevolmente il suo peso nel costituendo cartello internazionale avendo alle spalle il (doveroso) appoggio dei governi del Belgio e dei Paesi Bassi.

La morte prematura di Casale impedisce di fare un confronto realistico fra la sua opera e quella di Fauser, ma è certo che nella produzione di ammoniaca il contributo di Casale non si esaurì nel tempo. Non solo ancora oggi è attiva l’impresa che porta il suo nome, ma i dati storici (si veda van Rooij 2005, p. 358) mostrano che nel 1936 – cioè a un decennio dalla morte di Casale – l’utilizzo dei brevetti di Casale e Fauser si era accresciuto in tutti i Paesi: per la sintesi dell’ammoniaca, la capacità produttiva installata nel mondo usava il processo Haber-Bosch per il 32,74% (contro il 72,72% del 1927), il Casale per il 14,51% (contro l’11,62%), il Fauser per il 10,65% (contro il 4,32%), il Claude per il 16,45% (contro il 5,36%) e il metodo della statunitense Nitrogen engineering company per il 13,71% (contro lo 0,47%). I processi di Casale e di Fauser erano dunque assai competitivi, anche se altri brevetti, come si vede, parteciparono al complessivo indebolimento dell’iniziale predominio del processo Haber-Bosch.

Malgrado la presenza in Italia di due distinte iniziative finanziarie e produttive – quelle basate sui brevetti di Casale e di Fauser –, nel 1924 due banche di investimento svizzere costituirono a Milano la Azogeno- Società anonima per la fabbricazione della ammoniaca sintetica e prodotti derivati. Al capitale di 10 milioni di lire partecipava anche la Société chimique de la-Grande-Paroisse (località alla periferia di Parigi), che era titolare del brevetto Claude.

Il primo impianto della Azogeno venne localizzato a Bussi, in Abruzzo, e un secondo a Vado Ligure; malgrado le difficoltà tecniche e la dura concorrenza (anche politica) della Montecatini, la Azogeno sopravvisse. Negli anni, la rilevanza del capitale estero nella Azogeno diminuì, al punto che nel 1938 il capitale azionario risultava nelle mani della Compagnia imprese elettriche liguri e dell’Italgas; in quell’anno l’Istituto mobiliare italiano (IMI) concesse all’Azogeno un cospicuo mutuo; nel rapporto al comitato esecutivo dell’IMI era sottolineato come lo stabilimento di Bussi fosse anche particolarmente bene ubicato dal punto di vista militare. Quest’ultima valutazione ci rinvia agli aspetti politici e strategici dell’industria dei composti azotati, aspetti particolarmente rilevanti in Italia nei due decenni di regime fascista. Si deve però notare che, pur all’interno della prospettiva autarchica, il governo di Benito Mussolini non ostacolava la collaborazione tecnologica a livello internazionale.

Un caso straordinario di collaborazione internazionale vide come protagonista Fauser quando s’impegnò nella progettazione degli impianti di idrogenazione dell’ANIC. Una parte delle indagini sull’idrogenazione dei materiali albanesi fu condotta nel laboratorio novarese di Fauser e in quello della grande azienda chimica tedesca IG Farben a Ludwigshafen, e proprio sulla base di queste esperienze fu costruito a Novara un impianto semi-industriale. Data la complessità dei problemi, serviva molto altro know-how.

In Europa operava, all’Aia nei Paesi Bassi, la International hydrogenation patent company; a essa partecipavano grandi aziende petrolifere e chimiche – come la statunitense Standard oil, l’anglo-nederlandese Royal-Dutch shell, la britannica Imperial chemical industries, l’IG Farben – e a essa si affiliò anche l’ANIC. Fauser parlò a lungo di questo accordo in una conferenza del febbraio 1937, tenuta nella sede milanese dell’Associazione italiana di chimica. Due degli argomenti toccati da Fauser in quell’occasione sono particolarmente interessanti. Il primo parte dalla complessità tecnologica dell’idrogenazione:

Le difficoltà tecniche dei problemi da risolvere richiedevano la collaborazione scientifica e tecnica delle principali organizzazioni industriali italiane, oltre che un notevole sforzo finanziario (G. Fauser, La produzione di benzina, cit., p. 119).

Anche il secondo argomento riguarda la questione tecnologica: «i grandi organismi industriali che si occupano dell’idrogenazione dei combustibili» sono giunti «ad un accordo generale sullo scambio reciproco di brevetti, invenzioni ed esperienze tecniche […] allo scopo di ricavare i massimi vantaggi dalle enormi spese nei lavori di ricerca» (p. 114). Secondo Fauser, «questo costituisce senza dubbio un esempio senza precedenti di cooperazione tecnica internazionale», e si può ben dire che la Chimica (nel testo con la maiuscola) attenua «le ineguaglianze nelle risorse dei popoli» e, così facendo, «diminuisce le probabilità dei conflitti internazionali e serve efficacemente la causa della pace mondiale» (p. 122). Le parole «pace mondiale» furono proprio le ultime della conferenza. Esse assumevano un certo rilievo mentre erano in corso la guerra civile spagnola e il massiccio intervento italiano a fianco dell’esercito nazionalista, ed esprimevano il pensiero di una persona che tanto aveva fatto per soddisfare al meglio gli interessi nazionali dell’Italia.

L’ultimo successo di Fauser: la produzione industriale dell’urea

Fauser fu uno degli ingegneri chimici più creativi di ogni tempo. Non fu mai un accademico, anche se ebbe l’onore di diventare membro dell’Accademia dei Lincei. In coerenza con il suo destino di grande tecnologo, entrò a far parte del corpo dirigente della Montecatini, negli anni Venti come consulente tecnico e dal 1937 come membro del consiglio d’amministrazione. Il suo ultimo grande successo nel campo dei composti azotati fu la sintesi industriale dell’urea, un successo già preannunciato a metà degli anni Trenta e realizzato pienamente nel secondo dopoguerra.

La sintesi dell’urea appartiene alla storia più nota della chimica classica, perché, quando fu ottenuta (casualmente) dal chimico tedesco Friedrich Wöhler (1800-1882), la reazione suscitò enorme interesse, in quanto, per la prima volta, si era ottenuta in laboratorio una sostanza tipica del metabolismo umano. La reazione decorre in due stadi:

[5]

Ammoniaca e anidride carbonica reagiscono per dare un composto chiamato carbammato d’ammonio, che a sua volta si ‘riarrangia’ e si scinde in urea e acqua. L’alto contenuto di azoto e la sua ‘naturalità’ rendono immediatamente l’urea un candidato ideale per un uso come fertilizzante, tuttavia la necessità di partire per la sintesi dall’ammoniaca ha reso a lungo impraticabile la sua produzione industriale.

Non è certo un caso che i primi importanti brevetti per la sintesi dell’urea fossero intestati a Bosch, il tecnologo tedesco che abbiamo incontrato come partner di Haber nella sintesi dell’ammoniaca messa a punto dalla BASF. Fra il 1916 e il 1917, Bosch e Wilhelm Meiser brevettarono in Germania, Austria e Ungheria un processo industriale per la produzione di urea, e dopo la fine della guerra estesero i loro diritti agli altri Paesi industrializzati. Il processo era interessante perché, evitando la formazione di carbammato solido, poteva procedere in continuo invece che a lotti discontinui. La soluzione trovata dai ricercatori tedeschi consisteva nel miscelare i due gas in quantità stechiometriche, a pressioni fra le 50 e le 100 atm, mantenendo tutto il sistema, condutture e compressori compresi, fra i 130 e i 140 °C, in modo da evitare la separazione del carbammato liquido o solido. Quando veniva raggiunta la concentrazione di equilibrio dell’urea, la miscela era spostata in un deflegmatore, dove l’urea era condensata e i vapori dei reagenti ancora presenti erano avviati al riciclo. In contrasto con la semplicità del processo, si ponevano due diversi problemi. Il primo era di natura chimica: la reazione [5] complessiva è completamente reversibile, con una resa che dipende dalle condizioni termodinamiche del sistema e che impone comunque il riciclo di grosse quantità di reagenti. Di qui il fatto che per decenni le varianti del processo Bosch-Meiser si esercitarono sulle modalità di recupero del prodotto e di riciclo dei reagenti. Il secondo problema era tipico degli impianti chimici e riguardava l’azione corrosiva che il sistema carbammato-urea esercita sui metalli.

Come già nel caso dell’ammoniaca e dell’acido nitrico, Fauser risolse brillantemente entrambi i problemi. Il primo impianto per la produzione di urea con il processo Fauser entrò in funzione a Novara nel 1935, con una capacità annua di sole 1800 t, ma già il secondo impianto, realizzato a San Giuseppe di Cairo nel 1939, aveva una capacità di 100.000 t/a. Nel secondo dopoguerra, Fauser realizzò una nuova serie di innovazioni, che rendevano a un tempo più complessi e più efficienti il sistema di reazione, la separazione dell’urea e il riciclo dei reagenti non consumati. I nuovi brevetti portarono la Montecatini (e poi la Montedison) all’avanguardia nel mondo per quanto riguardava la sintesi dell’urea. Nel 1953 fu avviato un impianto a Novara per una produzione annua di 40.000 t di urea e un secondo impianto a Ferrara per complessive 75.000 t. Il successo internazionale fu confermato dalla penetrazione nel difficile mercato degli Stati Uniti, dove nel 1959 era in costruzione il quinto impianto dedicato allo sfruttamento dei brevetti Fauser-Montecatini, avente una capacità produttiva annua di 73.000 t. Verso la fine degli anni Settanta erano una sessantina gli impianti che, dai Paesi Bassi all’India, utilizzavano il nuovo processo Fauser per l’urea.

Per sottolineare le difficoltà insite nella ricerca e sviluppo in campo chimico, e la problematicità delle decisioni manageriali, possiamo riferirci a un ‘mancato incontro’ della Montecatini a livello internazionale. Nell’agosto 1953, due dirigenti di un’azienda chimica dei Paesi Bassi, De Nederlandse Staatsmijnen (Le miniere di Stato nederlandesi), vennero in Italia per discutere con Fauser i problemi della produzione di urea e visitarono l’impianto di Novara, ritenuto il più avanzato nel mondo. La Staatsmijnen aveva messo a punto un proprio processo, e i suoi dirigenti e tecnologi valutarono a lungo se acquistare o meno la licenza del processo Fauser, che avrebbe ridotto i rischi di ricerca e sviluppo per quanto concerneva i procedimenti di riciclo. In definitiva, nel dicembre di quello stesso anno decisero di andare avanti con il loro processo, che presentava un piccolo, ma significativo vantaggio, consistente nel combattere la corrosione mediante l’aggiunta alla miscela di reazione di una piccola quantità di ossigeno. Il processo fu portato a livello di impianto quattro anni dopo, nel 1957, ma permasero varie difficoltà, e la Staatsmijnen non fu mai in grado di commercializzare i risultati di un lungo periodo di ricerca e sviluppo.

Osservazioni finali

Com’è facile immaginare, la storia dello sviluppo tecnologico nel campo dei composti azotati è continuata ben oltre i limiti temporali che ci siamo posti. Ancora oggi, infatti, nel 21° sec., vi sono processi di grande successo internazionale dovuti a tecnologi italiani, e quindi questo saggio non può avere delle ‘conclusioni’. Si possono comunque fare alcune osservazioni finali.

I nostri grandi innovatori non erano ricercatori solitari. Casale fondò l’8 luglio l925 a Terni la Società italiana ricerche industriali (SIRI). Questa impresa succedeva alla SIAS (si veda sopra), di cui acquisiva lo stabilimento per l’ammoniaca sintetica. Casale, che era socio di maggioranza della SIRI, vi radunò un corpo scelto di collaboratori, chimici e ingegneri, e istituì nel corpo della fabbrica un centro di ricerca prestigioso, che diede importanti risultati ben oltre la sua morte prematura.

Quanto a Fauser, abbiamo visto la modestia del suo laboratorio presso la Società elettrochimica novarese, in cui però aveva già preziosi collaboratori, come il citato Maveri. Con un certo ritardo rispetto alla ricchezza dei risultati acquisiti, il 13 novembre 1934 la Montecatini inaugurò a Novara il Laboratorio di chimica inorganica, in cui Fauser poté proseguire autonomamente le sue ricerche; infine nel 1940, sempre a Novara, fu aperto l’Istituto di chimica per ricerche scientifiche (subito intitolato a Donegani), di cui sarà a capo Gerlando Marullo, un altro ingegnere da tempo collaboratore di Fauser.

Una seconda osservazione riguarda la natura sistemica dei successi conseguiti da Casale e da Fauser. Con termini come processo Casale (e simili) ci si riferisce a impianti molto complessi, strutturati a monte e a valle dell’apparato in cui avviene la reazione che interessa. Se ne è fatto cenno più volte, ma si deve sempre tener presente che alla realizzazione di un impianto ‘Casale’ o ‘Fauser’ deve concorrere un intero sistema di industrie specializzate. E ancora, un ‘semplice’ sistema industriale non basta per creare l’ambiente socioeconomico vitale per il lancio e la sopravvivenza di una grande innovazione. Si deve parlare di un ‘sistema nazionale per l’innovazione’, di cui fanno parte molti attori, pubblici e privati: università e politecnici, centri di ricerca, imprese e imprenditori, forza lavoro specializzata, banche d’investimento, legislatori, utenti dell’innovazione, acquirenti dei prodotti innovativi e così via. Da questo punto di vista, nell’Italia uscita dalla Prima guerra mondiale, pur lacerata e finita sotto il dominio di una dittatura, cominciavano a comparire i tratti caratteristici di un sistema per l’innovazione, pronto a servire gli interessi della nazione secondo gli orientamenti politici e culturali della classe dirigente.

Infine, un’ultima sottolineatura va posta sulla collaborazione e sulla competizione a livello internazionale, di cui fu protagonista l’industria italiana dei composti azotati. Il successo internazionale, durato per decenni anche nei Paesi industrialmente più avanzati, ha rappresentato il coronamento, visibile e indubbio, dell’opera dei nostri tecnologi e del nostro sistema nazionale per l’innovazione.

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