L'IRAN

XXI Secolo (2009)

L’Irān

Bijan Zarmandili

La vocazione di appartenere a una civiltà che supera i confini nazionali è presente sin dall’antichità nell’animo iraniano: un fiero nazionalismo che interessa tutte le etnie, le classi e i ceti, ma anche i regimi che hanno governato e governano l’Irān, ha caratterizzato con perseveranza e costanza l’idea che questo Paese ha di sé e degli altri. Attraverso i secoli, per arrivare fino a quello attuale, il nazionalismo si è adattato alle condizioni geopolitiche della regione e del mondo intero.

Sono essenzialmente due i fattori che determinano tale nazionalismo: l’appartenenza dell’Irān alla minoranza sciita nel vasto arcipelago islamico e la diffusa fobia della nazione in pericolo. La coscienza di far parte della minoranza sciita e, dunque, il tentativo di trasformare questa consapevolezza in un soggetto peculiare della propria politica risalgono a Shāh Ismail Safavi (Šāh Ismā῾īl Ṣafavī, 16° sec.), ma si sono riproposti in forme rinnovate con l’avvento della rivoluzione khomeinista e con la nascita della Repubblica islamica iraniana nel 1979. Per un certo periodo la tendenza a esportare la rivoluzione islamica verso i Paesi dove erano presenti delle comunità sciite (῾Irāq e Arabia Saudita in particolar modo) è stata forte in diversi ambienti del regime islamico iraniano, ma furono gli otto anni di guerra con l’Irāq (1980-1988) a dissuadere i dirigenti politici iraniani dal perseguire tale obiettivo. La tentazione di porre la Repubblica islamica iraniana al centro di un fronte sciita contrapposto ai sunniti è tornata con la caduta del regime di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn) in ῾Irāq (2003) e in seguito con i mutamenti geopolitici nella regione dovuti al conflitto armato in ῾Irāq, alla guerra in Afghānistān, al rafforzamento delle posizioni degli ḥezbollāh in Libano e a quelle di Ḥamās nell’amministrazione nazionale palestinese. Tutto questo è stato giudicato dai dirigenti iraniani come premessa favorevole alla centralizzazione del fattore religioso nei conflitti in corso e al ruolo egemone che la Repubblica islamica iraniana potrà giocare in tale contesto.

Di pari passo con il processo di affermazione del peso strategico dell’Irān nella regione mediorientale e nel Golfo Persico, è cresciuta però anche la paura di essere aggrediti dall’esterno. Torna viva la memoria delle fobie ataviche, quando gli arabi e poi i mongoli devastarono e conquistarono l’Irān, e tornano a dolere le ferite più recenti, i torti e le aggressioni che il Paese ha subito quando, nell’agosto del 1953, un colpo di Stato rovesciò il governo di Mohammad Mossadegh (Moḥammad Moṣaddeq), ordinato e coordinato dal personale in loco dei servizi segreti americani, la CIA (Central Intelligence Agency). Mossadegh, figura di pri-mo piano tra i protagonisti politici del Novecento, aveva nazionalizzato le industrie petrolifere del Paese vincendo un complesso contenzioso politico e giuridico contro il governo e le compagnie petrolifere britanniche che avevano il monopolio del greggio iraniano. Ancora oggi, tra le condizioni che i dirigenti iraniani pongono agli Stati Uniti per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Teherān e Washington, è presente la clausola secondo la quale l’Irān pretende le scuse ufficiali degli Stati Uniti per la sua complicità nel colpo di Stato contro il legittimo governo di Mossadegh. Ad acuire il sentimento di precarietà e di minaccia è stato poi l’attacco iracheno diretto contro l’Irān a un anno dalla costituzione della Repubblica islamica, una guerra che ha provocato oltre un milione di vittime nei due Paesi. Gli iraniani hanno avuto la precisa percezione che quel conflitto non sia stato opera solamente del regime di S. Hussein, ma anche della maggior parte dei Paesi occidentali, i quali, attraverso il sostegno politico e militare all’Irāq, hanno tentato di sconfiggere la rivoluzione islamica. Una convinzione che permane tuttora, rafforzata dall’accerchiamento imposto alla Repubblica islamica in seguito alla sua decisione di dotarsi dell’energia nucleare.

Il militarismo emergente

La gestione politica del complesso delle nuove ambizioni geostrategiche e dei sentimenti provocati dal timore di un attacco dall’esterno ha provocato spesso forti contrasti tra le diverse anime del regime islamico iraniano. A fasi alterne la politica estera della Repubblica islamica iraniana è stata perseguita con un certo pragmatismo e, tutto sommato, è stata caratterizzata da atteggiamenti sostanzialmente moderati da parte delle autorità politiche del Paese. Se gli otto anni del governo di Akbar Rafsanjani (Akbar Hāšemi Rafsan;ǧāni, 1989-1997) sono passati con la preoccupazione di ricostruire l’Irān dopo i danni subiti dalla guerra con l’Irāq e con l’intento di non allargare l’isolamento del Paese nel contesto internazionale, i successivi otto anni del governo di Mohammad Khatami (Moḥammad Ḫātami, 1997-2005) si sono spinti oltre, cercando il confronto e un maggiore consenso nei teatri della politica mondiale, in particolare in Europa, con la quale si era stabilito un dialogo critico su diversi temi, persino su quello più spinoso, il dossier nucleare iraniano.

La vera rottura, la svolta sostanziale nei rapporti tra la Repubblica islamica e l’Occidente, si è verificata nel 2005, con l’arrivo di Mahmud Ahmadinejad (Maḥmūd Aḥmadinežād) alla presidenza della Repubblica. Le ragioni di tale mutamento vanno cercate innanzitutto all’interno della stessa geografia politica iraniana. La classe politica che si è affacciata al nuovo secolo è sostanzialmente diversa rispetto a quella che si era formata nei primi anni della rivoluzione khomeinista. A modificare la dialettica politica in seno al regime è stata soprattutto la comparsa di una nuova componente negli equilibri di potere in Irān, fino ad allora monopolizzato in prevalenza dalle diverse anime del clero sciita: l’imporsi sulla scena politica come forza emergente dei militari, alleati del clero, ma potenzialmente anche rivali della teocrazia sciita. Nella storia contemporanea iraniana i militari non avevano mai svolto un ruolo determinante nei momenti decisivi della vita del Paese. Fu Reza Khan (Rizā Ḫān), fondatore della dinastia Pahlavi, che ha regnato in Irān dal 1925 fino alla costituzione della Repubblica islamica nel 1979, a organizzare un esercito moderno, disfatto tuttavia in pochi giorni verso la fine della Seconda guerra mondiale con l’occupazione del Paese da parte delle truppe anglo-sovietiche. Le forze armate iraniane erano state successivamente rimesse in piedi e dotate di sofisticate armi altamente tecnologiche negli anni Settanta con l’aiuto degli Stati Uniti, che attraverso lo scià Reza Pahlavi (Moḥammad Rizā Pahlavi) consideravano l’Irān come la ‘gendarmeria’ degli interessi americani nel Golfo Persico e nella regione mediorientale. Ma i militari dello scià lo abbandonarono non appena l’āyatollāh Ruhollah Khomeini (Ruḥ Allāh Musavi Ḫomeyni), reduce dal suo esilio parigino, scese all’aeroporto Mehrabad di Teherān. Il periodo tumultuoso che seguì i primi tempi della rivoluzione islamica, con l’estromissione dell’esercito regolare e la costituzione delle formazioni paramilitari (i pāsdārān, le Guardie della rivoluzione) e i basiǧ (volontari al servizio della moralità islamica), fu caratterizzato da un vuoto sul piano della sicurezza e probabilmente costituì anche il motivo per il quale S. Hussein si illuse di poter sconfiggere il khomeinismo in una guerra lampo di poche settimane. La grande mobilitazione popolare e l’enfasi dell’orgoglio nazionalistico iraniano fecero tuttavia svanire le illusioni di una vittoria facile sul campo, e la guerra durò otto anni. È stato durante quella tragedia che è nata nelle trincee una nuova classe privilegiata, osannata dal regime e glorificata per il suo sacrificio e per il suo amor patrio: il nazionalismo iraniano aveva partorito un fenomeno inedito, il militarismo, che era stato sottovalutato in un primo momento anche da parte della stessa teocrazia sciita la quale, per diciassette anni, dalla fine della guerra Irān-῾Irāq fino all’arrivo di Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica, lo aveva controllato ignorandone le ambizioni politiche.

Il successo di Ahmadinejad alle presidenziali del 2005 ha colto di sorpresa diversi ambienti della politica iraniana, ma soprattutto ha costituito un rebus inspiegabile per la quasi totalità delle cancellerie occidentali, abituate fino a quel momento a ragionare intorno alla dialettica politica iraniana a partire dalle contrapposizioni tra riformisti, conservatori e pragmatici in seno della teocrazia sciita. Ahmadinejad, non a caso, è stato immediatamente definito un ultraconservatore e, quindi, espropriato degli elementi inediti da lui stesso introdotti nella geografia politica del Paese, con la conseguenza di ignorare gli effetti che la sua elezione avrebbe avuto sulle sorti future del regime. Prima di raggiungere il vertice della Repubblica, Ahmadinejad era conosciuto in Irān innanzitutto per la spartana e marcatamente populista gestione dell’amministrazione comunale della capitale. Teherān, abitata da oltre 12 milioni di persone e città simbolo per la sua complessità e per il suo peso politico, era sicuramente un’arena formidabile per la formazione dei nuovi amministratori e del personale politico emergente, ma non rappresentava l’intero Paese, una galassia eterogenea di realtà diverse, in particolare nei suoi numerosi centri abitati dalle minoranze etniche e nelle sue immense zone rurali.

A lanciare la candidatura di Ahmadinejad e a mettere in moto la sua macchina elettorale per le presidenziali era stato il potentissimo corpo dei pāsdārān, un’organizzazione capillare in grado di mobilitare l’elettorato in ogni angolo della Repubblica. Alle straordinarie capacità organizzative delle moschee, ritenute nuclei indispensabili per la mobilitazione delle masse durante le aspre battaglie politiche interne al regime, oppure nel corso delle minacce esterne, si aggiungevano le caserme e le stazioni dei pāsdārān e dei volontari basiǧ in ogni angolo del Paese, decisi a lanciare Ahmadinejad come il volto nuovo del regime, l’incorruttibile paladino dei mostazafin, i diseredati, il difensore degli autentici valori religiosi e nazionali per i quali la nazione si era ribellata alla dittatura dello scià nel secolo scorso.

La campagna elettorale di Ahmadinejad si aprì con la denuncia degli elementi di debolezza del regime: la corruzione di quella parte del clero e del ceto politico arricchitasi alle spalle delle masse dei diseredati, la persistenza di una crisi economica ormai endemica, la disoccupazione della maggioranza della popolazione formata da giovani al di sotto dei 25 anni, ma innanzitutto il fallimento dei riformisti che nel corso dei due mandati presidenziali di Khatami non erano stati capaci di rispondere alle esigenze primarie della popolazione e si erano mostrati propensi a dialogare, trattare e, magari, cedere al nemico, ossia agli Stati Uniti. Ahmadinejad lanciò una piattaforma, nella sostanza di stampo populista, sintetizzata dallo slogan: «dividere i proventi dell’industria petrolifera tra il popolo». I pāsdārān, attraverso un uomo di origini umili, figlio di un fabbro, che aveva combattuto il nemico iracheno dentro le trincee, devoto al puro verbo del khomeinismo rivoluzionario, attaccarono senza mezzi termini la corruzione dilagante e uomini come Rafsanjani, da sempre l’eminenza grigia del regime, ma anche il ‘re del pistacchio’ per l’immensa ricchezza accumulata con la coltivazione di pistacchi nelle sue terre. Ma ciò che ha permesso ad Ahmadinejad di vincere il primo turno delle presidenziali sul candidato riformista e il secondo turno contro un uomo forte come Rafsanjani è stato innanzitutto il fatto di aver cavalcato il fallimento politico del riformismo di Khatami.

Gli otto anni del suo governo avevano cambiato il Paese. Con lui era nata e cresciuta una vivace società civile in grado di promuovere intellettuali, scrittori, cineasti di prestigio internazionale, una stampa libera e indipendente e una dialettica politica e culturale di alto livello negli atenei del Paese tra gli studenti e il corpo accademico. Erano soprattutto i giovani e le donne i maggiori sostenitori del presidente, che trovavano in lui un solido punto di riferimento per la democratizzazione del Paese e per coniugare i principi della religione con i diritti e il rispetto delle regole individuali, negati e calpestati dal regime teocratico. Nel corso di dibattiti pubblici alcuni intellettuali islamici avevano discusso persino della riforma della religione islamica sul modello del protestantesimo cristiano – tra i protagonisti, Ali Akbar Ganji (῾Ali Akbar Ganǧi), il dissidente, seguace del sociologo iraniano Ali Shariati (῾Ali Šari῾ati, 1933-1977), che per le sue idee sulla riforma dell’islam è stato incarcerato dal 2001 al 2006 – e del rischio della degenerazione della teocrazia in una sorta di fascismo di matrice religiosa.

La diffusione del dibattito libero e la vivacità intellettuale tra i giovani, le donne e gli strati colti della società provocarono tuttavia anche una dura reazione delle parti più retrive del clero e degli ambienti legati ai pāsdārān e ai basiǧ che operavano già come corpi separati dello Stato, controllando gli apparati della sicurezza. Furono incarcerati, in numero imprecisato, riformisti e dissidenti e le rivolte negli atenei represse nel sangue, mentre le squadre della morte uccidevano decine di dissidenti in circostanze tuttora non chiarite (1999-2001). Il governo di Khatami restava intanto prigioniero dei propri errori, della debolezza del suo piano politico ed economico e dell’insidia dei conservatori che contavano sul sostegno della Guida della rivoluzione, l’āyatollāh Ali Khamenei (῾Ali Ḥoseyni Ḫamene᾿i), per isolare Khatami e che puntualmente riuscivano nel loro intento. Mentre l’esecutivo e il Maǧlis, il Parlamento di maggioranza riformista, cercavano di aprire spazi alla democrazia, altri organi, quello giudiziario innanzitutto e i vertici della teocrazia, condizionavano, neutralizzavano e svuotavano progressivamente tutte le aperture alle riforme e chiudevano le prospettive di dialogo proposte dal governo all’interno, ma anche con gli interlocutori esterni. Nelle istituzioni del Paese, infatti, vige una non dichiarata ma esplicita dualità di potere.

L’architettura della Costituzione della Repubblica islamica, approvata dal referendum plebiscitario del 30-31 marzo 1979 (con oltre il 98% dei consensi), è stata costruita sulle ibride basi di una concezione semidemocratica della società, assegnando al giudizio del voto popolare la scelta del potere esecutivo e di quello legislativo, ma sottoponendo sia i candidati alla presidenza della Repubblica sia quelli alla Camera dei deputati all’approvazione preventiva degli organi sotto il controllo della Guida (Consiglio per la determinazione delle scelte e Consiglio dei guardiani). La Guida della rivoluzione controlla e sceglie inoltre lo Stato maggiore delle forze armate, il Consiglio di sicurezza nazionale e i responsabili dell’ordinamento giudiziario. La Guida, attraverso il Consiglio per la determinazione delle scelte, valuta infine la conformità con le regole dell’islam e con gli interessi nazionali dei decreti votati dal Maǧlis e delle decisioni prese dall’esecutivo, in particolare su materie che riguardano le scelte della politica estera e la sicurezza del Paese. L’insieme dei poteri riservati alla Guida della rivoluzione, che rappresenta la massima carica dello Stato, oltre che la sua suprema autorità spirituale, è inserito, appunto, nel concetto di velayat-e-faghih (wilāyat al-faqīh), l’articolo della Costituzione che riguarda la sorveglianza e il controllo dell’esecutivo da parte del leader spirituale supremo, voluto insistentemente dal fondatore della Repubblica, l’āyatollāh Khomeini. L’unico organo costituzionale che opera al di sopra dei poteri della Guida della rivoluzione è l’Assemblea degli esperti (sottoposta al voto popolare), in grado di abrogare la carica assegnata alla Guida e di sostituirla. Evento tuttavia che non si è mai verificato e che è difficile si possa verificare nell’odierno equilibrio di forze tra le diverse anime della teocrazia sciita iraniana.

Il concetto di velayat-e-faghih è stato spesso criticato non soltanto dal riformismo religioso più radicale, ma anche da alcuni ambienti della stessa teocrazia, che lo giudicano in contrasto con la tradizione della šarī῾a. Lo criticò aspramente, all’indomani dell’arrivo in patria di Khomeini, l’anziano āyatollāh Mohammad Shariat-Madari (Moḥammad Šari῾atmadāri), considerato allora di grado più alto nella gerarchia sciita rispetto allo stesso Khomeini. L’āyatollāh Shariat-Madari rifiutò di partecipare all’Assemblea costituente, perché a suo parere poco democratica, e bocciò il referendum con il quale veniva approvata la Costituzione. L’āyatollāh Shariat-Madari morì poco dopo e non ebbe la forza di opporsi al prestigio politico di cui Khomeini godeva nel Paese, ma il rifiuto del velayat-e-faghih venne ripreso da un altro grande mollā della gerarchia sciita, l’āyatollāh Ali Montazeri (Ḥoseyn ῾Ali Montaẓari), considerato a sua volta il delfino di Khomeini, ma estromesso dai suoi incarichi e messo in prigione per la sua decisa opposizione alla linea khomeinista. L’āyatollāh Montazeri è tuttora agli arresti domiciliari nella sua abitazione nella città santa di Qom.

Questo difficile e complesso equilibrio ha condizionato la presidenza di Khatami: il risultato è stato il caos dilagante, l’aggravamento delle condizioni economiche delle classi meno agiate e il lento allontanamento della base elettorale dei riformisti, in particolare i giovani e le donne, dal presidente, incapace di superare il muro alzato dai conservatori di fronte alle sue proposte riformiste. L’allontanamento si è trasformato poi in delusione e in distacco finale, prima con l’astensionismo durante le elezioni amministrative del 2004 e poi con il lasciare campo libero all’avversario da parte dei candidati riformisti nel corso delle presidenziali del 2005. Così, a vincere le elezioni e a salire al vertice della Repubblica islamica è stato Ahmadinejad, il volto semisconosciuto del regime, che sfrutta abilmente la crisi di credibilità politica dei riformisti e la corruzione dilagante in diversi settori del clero, puntando, grazie al sostegno impareggiabile dei pāsdārān, alla mobilitazione della maggioranza meno abbiente del Paese.

Prospettiva nucleare

Con Ahmadinejad si è rotto un equilibrio giocato, sin dall’avvento della Repubblica islamica, tra l’anima moderata e riformista del clero sciita e quella conservatrice e pragmatica. L’Irān è entrato nel nuovo secolo con una strategia completamente rinnovata rispetto al passato e ha consegnato diversi organi del regime al corpo dei pāsdārān pur conservando il proprio armamentario religioso-ideologico. I pāsdārān hanno messo progressivamente radici in alcune strutture portanti dell’apparato statale: non soltanto nelle Forze armate e di sicurezza, ma anche nell’esecutivo presieduto da Ahmadinejad, nell’industria bellica, nei vasti settori delle infrastrutture, nei porti e aeroporti, nelle banche e nelle industrie petrolifere e del gas. I pāsdārān controllano ovunque i meccanismi decisionali con una presenza occulta o palese.

Il nuovo secolo ha segnato, però, anche l’inizio dei grandi sconvolgimenti a livello mondiale e innanzitutto ai confini della Repubblica islamica. La tragedia dell’11 settembre portò a impegnare militarmente gli Stati Uniti prima in Afghānistān e poi in ῾Irāq. La nuova classe dirigente iraniana valutò tale evento come una minaccia per la propria sicurezza e avvertì che il cerchio si stava chiudendo intorno alla Repubblica islamica, ma nello stesso tempo vi scorse anche segnali di debolezza della superpotenza americana e cercò di accentuarli mettendo a disposizione delle forze antiamericane in ῾Irāq e in Afghānistān tutto il suo aiuto materiale e politico.

La fine dei Ṭālibān a Kābul (2001) e la caduta di S. Hussein a Baġdād (2003), ambedue nemici accaniti degli āyatollāh iraniani, furono giudicate a Teherān come nuove opportunità per elevare la Repubblica islamica al rango di potenza regionale. Il raggio dell’influenza iraniana nella regione si allargò dal Sud sciita dell’Irāq, agli ḥezbollāh libanesi e al movimento palestinese di Ḥamās. La guerra tra gli ḥezbollāh libanesi e Israele nel luglio e agosto del 2005 aprì un fronte virtuale tra l’Irān e lo Stato israeliano, accorciando la distanza tra i due rivali che ambiscono all’egemonia nella regione mediorientale.

Cominciò così la fase più acuta delle ostilità tra l’Irān e lo Stato ebraico, con Ahmadinejad che auspicava la cancellazione dell’entità sionista dalla carta geografica e i dirigenti israeliani che si preparavano a un conflitto armato contro la Repubblica islamica, mentre premevano sull’alleato americano perché usasse la forza per attuare un cambio di regime in Irān. Ma questa fase è stata anche quella più complessa e conflittuale tra Teherān e la comunità internazionale a causa del dossier nucleare iraniano.

Le ambizioni nucleari iraniane risalgono a quando in Irān regnava ancora lo scià che, con gli aiuti degli stessi americani e di diversi Paesi europei, si preparava a dotarsi di siti nucleari a Bushehr e a Isfahan. La fine della monarchia e i successivi lunghi anni di guerra con l’Irāq congelarono i piani nucleari, anche perché le ridottissime risorse economiche del Paese, stremato dalla guerra, non permettevano progetti di quella portata né mire egemoniche e gare costose con altre potenze, con Israele in particolare, che nel frattempo aveva sviluppato il proprio piano nucleare.

L’Irān riprese a coltivare di nuovo le ambizioni nucleari negli anni Novanta, prima con Rafsanjani e dopo con Khatami, e furono innanzitutto i russi a rispondere positivamente alle richieste degli iraniani per rimettere in piedi i siti di Bushehr e di Isfahan. Tornarono in Irān anche gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia nucleare (l’Irān è stato uno dei primi Paesi a firmare il Trattato di non proliferazione nucleare) per verificare le vere intenzioni dei dirigenti locali che da sempre hanno sostenuto la volontà di sviluppare un piano nucleare unicamente per scopi di uso civile. A non fidarsi delle dichiarazioni ufficiali che provenivano da Teherān sugli intenti nucleari del regime, erano gli americani e gli israeliani che iniziarono una vasta attività diplomatica presso le cancellerie di mezzo mondo per porre fine alle ambizioni nucleari dei dirigenti iraniani, convinti che il Paese si sarebbe dotato in breve tempo della bomba atomica. Gli Stati Uniti diederono intanto battaglia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per ottenere sanzioni contro l’Irān.

La febbre nucleare si alzò intorno al 2004 quando Francia, Inghilterra e Germania cominciarono le trattative con Teherān al fine di raggiungere una soluzione diplomatica che potesse scongiurare l’uso della forza per bloccare l’arricchimento dell’uranio nei siti iraniani, in particolare in quelli segreti, a cominciare dal sito di Natanz. Le trattative con gli europei giunsero al 2005 senza produrre nulla di concreto, fino all’arrivo alla presidenza della Repubblica di Ahmadinejad che immediatamente interruppe il negoziato con la troika europea, mentre la scelta nucleare divenne lo strumento principale per ravvivare l’orgoglio nazionale e il tema centrale dei diritti ‘sacrosanti’ a cui l’Irān non poteva rinunciare.

Raggiungere la Cina e l’India

Visto da Teherān, il nucleare serve non solo a pareggiare i conti con le altre potenze della regione, con l’India, il Pakistan e con Israele, che possiedono la bomba atomica, ma innanzitutto è indispensabile per preparare il Paese alle sfide del futuro, quando l’asse delle potenze mondiali dall’Occidente si sposterà verso l’Asia. A giudizio degli strateghi iraniani il declino inarrestabile della superpotenza americana porterà inevitabilmente a rafforzare le due potenze asiatiche emergenti, la Cina e l’India, alle quali l’Irān è destinato a unirsi. ‘Bisogna prepararsi a fare arrivare a Teherān il treno che è partito da Pechino e sta passando per Nuova Delhi’, questo è in sintesi il progetto strategico per il futuro della Repubblica islamica su cui sono concentrate tutte le attenzioni e tutte le battaglie che la nuova casta militarista e nazionalista iraniana combatte dentro e fuori del Paese. Grande attenzione è rivolta anche alla prospettiva di alleanza con la Russia, un’altra potenza rivale degli Stati Uniti e in cerca di vicini alleati per estendere la propria influenza in chiave antiamericana.

Convivono due opposti fenomeni nel corpo e nell’anima di questa nuova classe dirigente che ambisce a portare la Repubblica islamica iraniana al livello degli altri giganti asiatici. Da una parte un forte credo ideologico-religioso che richiama il khomeinismo rivoluzionario di prima maniera, abbandonato nel corso degli anni per cedere alle lusinghe occidentali in nome del riformismo e del pragmatismo, e dall’altra l’ossessione di raggiungere presto il livello tecnologico delle società postindustriali dotandosi dell’energia nucleare per imporre un salto di qualità al Paese e, qualora si rendesse necessario, trasformarla in arma di difesa. Con la doppiezza che caratterizza il rinnovato nazionalismo iraniano, rinvigorito dallo straordinario potere che nel frattempo ha acquistato il corpo dei pāsdārān, dovranno fare i conti non solo gli avversari esterni della Repubblica islamica, ma anche la stessa teocrazia sciita che fatica a controllare il militarismo emergente e a imporre alla nuova classe dirigente la propria egemonia.

Gli stimoli più forti per realizzare il sogno della grandezza politica, economica e militare dell’Irān sono le stesse caratteristiche fisiche e geografiche del Paese, collocato in uno dei punti nevralgici e strategicamente vitali del mondo di oggi. Con i suoi oltre 70 milioni di abitanti su una superficie di 1.648.195 km2 (è il 17° Paese più grande del mondo); con un territorio confinante a nord con il Mar Caspio e con l’Asia centrale, a occidente con la Turchia e l’Irāq, a oriente con il Pakistan e l’Afghānistān e a sud con il Golfo Persico; con un tasso di alfabetismo che tocca l’86% (indice tra i più alti dei Paesi non occidentali) e l’urbanizzazione che raggiunge il 66%, l’Irān avrebbe tutte le necessarie potenzialità per ambire a un posto tra le potenze. A incoraggiarlo in tal senso sono le sue riserve di petrolio, pari a 137,5 miliardi di barili (secondo Paese al mondo) e le sue riserve di gas calcolate intorno a 26.740 miliardi di m3 (secondo Paese al mondo).

Il quadro strategico dentro il quale agisce l’Irān contiene tuttavia una sorta di ambiguità e di incertezza sottolineata spesso dagli stessi analisti iraniani. Per poter raggiungere l’obiettivo di trasformare il Paese in una potenza riconosciuta e temuta, in quale direzione la Repubblica islamica dovrà muoversi e poggiare l’asse portante della sua politica estera? Verso il Nord (l’Asia centrale), verso il Sud (il Golfo Persi-co), verso l’Est (il subcontinente indiano), oppure ver-so l’Ovest (il Medio Oriente)?

Nella politica estera iraniana è da sempre esistita una forte tendenza critica nei confronti dell’eccessiva attenzione verso il Medio Oriente, che sottolinea come l’Irān non sia un Paese arabo e che esiste una antica avversione tra gli arabi e i persiani. La scelta più favorevole e conveniente sarebbe quella verso l’Asia centrale e orientale, dove si possono trovare altri popoli iranici e dove vive la maggioranza degli stessi musulmani. In altre parole, l’eccessiva energia politica e diplomatica, il denaro, ma anche gli sforzi militari, in direzione del Medio Oriente arabo vengono quindi giudicati come un errore strategico per il futuro della Repubblica islamica. Ricordiamo che non è casuale e privo di significato storico il fatto che l’unico Paese arabo alleato dell’Irān nel corso degli ultimi anni, tra l’altro per motivi prevalentemente opportunistici, è stata la Siria, mentre il resto del mondo arabo resta ostile all’Irān. In qualche misura questa analisi è stata implicitamente tenuta presente dai governi precedenti a quello di Ahmadinejad, anche dal governo del riformista Khatami, che pur conservando le caratteristiche di fondo della politica mediorientale della Repubblica islamica, cioè, il non riconoscimento dello Stato ebraico e il sostegno agli ḥezbollāh libanesi, è stato di fatto equidistante rispetto ai conflitti mediorientali e assente nella dialettica palestinese. Alcuni accademici iraniani, consiglieri per la politica estera del governo di Khatami, avevano persino suggerito di passare dalla negazione dell’esistenza dello Stato ebraico a una politica di costante critica alle scelte del suo governo, simile alla politica adottata da alcuni Paesi europei nei confronti d’Israele. Si trattava ovviamente di una posizione minoritaria, ma il fatto stesso che qualcuno lo suggerisse al governo veniva comunque considerato come il segnale di un certo dinamismo nella politica mediorientale di Teherān.

Opzioni di tale portata sono state completamente abbandonate con l’arrivo al potere di Ahmadinejad e dei pāsdārān, sollecitati ad allargare l’influenza iraniana in direzione mediorientale principalmente in seguito ai mutamenti geopolitici che si erano verificati a causa della guerra americana in ῾Irāq. La guerra in ῾Irāq e la disgregazione di fatto del suo tessuto geografico e nazionale avevano inoltre risvegliato una crisi da tempo sopita nella regione: il conflitto tra gli sciiti e i sunniti. L’Irān, nazione abitata al 90% da sciiti, che per vent’anni ha ospitato e ha protetto i movimenti sciiti iracheni perseguitati dal regime di Saddam Hussein, si è configurato come il fattore determinante per qualsiasi prospettiva di stabilità in ῾Irāq e ha tentato di allargare la propria egemonia religiosa (quindi, politico-militare) sull’intera regione meridionale dell’Irāq a maggioranza sciita. L’immediata reazione della minoranza sunnita irachena, implicitamente sostenuta dall’Arabia Saudita ma anche dalle altre nazioni arabo-sunnite, alla presenza dominante degli sciiti filoiraniani nell’Irāq post Saddam, ha acuito il conflitto tra sunniti e sciiti e ha favorito in Irān l’idea di una internazionale sciita come contrappeso al sunnismo filoccidentale che per anni ha caratterizzato la politica della maggioranza dei governi arabi. L’asse della politica estera della Repubblica islamica si è spostato considerevolmente verso il Medio Oriente e si è intensificato l’intreccio degli interessi iraniani con quelli degli ḥezbollāh libanesi, con i movimenti religiosi e radicali palestinesi e con tutte le altre formazioni di opposizione all’interno dei Paesi arabi.

L’Irān pone il centro della sua politica mediorientale essenzialmente su queste due questioni: la rivalità con Israele e la coesione degli sciiti. E cerca di confermare il proprio status di potenza a cominciare dal Medio Oriente per raggiungere successivamente un livello più elevato in un asse ipotetico che partendo da Pechino arriverebbe, appunto, a Teherān.

L’incertezza per il futuro

Gli anelli deboli di tale strategia per il futuro si nascondono sia nei rapporti altamente conflittuali con gli Stati Uniti sia nella stessa dialettica tra le forze contrapposte che compongono il regime iraniano. Secondo molti analisti la generazione degli ex combattenti e dei pāsdārān ha una visione del futuro del Paese sostanzialmente differente rispetto a quella della teocrazia che ha avuto in mano senza rivali le redini del potere per due decenni. Se il nazionalismo, tipico della casta militare, se il rigore ideologico e religioso, ma anche i sogni di grandezza, caratterizzano il comportamento dei neoconservatori, la teocrazia, forte della sua lunga esperienza nella gestione del potere, mira al mantenimento dello status quo in una visione sostanzialmente più pragmatica e più realista.

I sintomi di queste opposte prospettive per il futuro dell’Irān si sono avvertiti a partire dal 2005 sia in politica estera sia in politica interna, ma soprattutto nella questione nucleare. Ahmadinejad è riuscito a ottenere la sostanziale coesione della popolazione intorno alle sue rivendicazioni di diritto al nucleare, ma la sua politica sociale e quella economica, causa del progressivo impoverimento degli strati meno abbienti, ha provocato un crescente malcontento nella sua stessa base elettorale e la disaffezione verso la Repubblica islamica.

Emergono spesso in superficie i contrasti tra i neoconservatori e la vecchia guardia teocratica attraverso la preoccupazione di quest’ultima per i pericoli che il Paese corre a causa del comportamento avventuristico della nuova generazione dei dirigenti. I timori riguardano la probabilità sempre più concreta di un attacco militare contro l’Irān da parte degli Stati Uniti, una guerra che rischia di incendiare l’intera regione. Ma i timori riguardano anche il perdurare dell’isolamento del Paese e delle sanzioni che le Nazioni Unite impongono all’economia e alla finanza iraniana. La sorte della rivalità latente in corso dipenderà per buona parte dalle condizioni stabilite dalla stessa Costituzione della Repubblica islamica che lega ogni prospettiva futura alle posizioni, agli umori, ma soprattutto al potere di veto di cui gode, come abbiamo sottolineato in precedenza, la Guida della rivoluzione, carica prima ricoperta dall’āyatollah Khomeini e successivamente dall’āyatollāh Khamenei. Similmente a quanto già visto durante il mandato di Khatami sarà determinante il velayat-e-faghih. Le questioni che riguardano il futuro del Paese vanno quindi considerate in relazione alla personalità della prossima Guida e alle decisioni dell’attuale leader spirituale. Non a caso i neoconservatori sono particolarmente sensibili a tale prospettiva e il loro attivismo in questa direzione accentua le lotte intestine del regime.

Tali conflitti e incertezze si sono particolarmente acutizzati all’indomani delle elezioni presidenziali che si sono svolte il 12 giugno del 2009, elezioni contestate da due dei candidati, Mir Hussein Moussavi (Mir Ḥoseyn Musavi) e Mehdi Karrubi, che avevano sfidato Mahmud Ahmadinejad. L’accusa di brogli e di falsificazione delle schede elettorali da parte di Ahmadinejad, che, con il sostegno dell’āyatollāh Ali Khamenei, si era attribuito il 62% dei voti, ha trascinato il Paese nel giro di pochi giorni in un caos politico e sociale senza precedenti, con milioni di cittadini che si sono riversati nelle piazze per chiedere la revisione del voto e la fine della dittatura. Il movimento di protesta è stato violentemente represso da Khamenei e Ahmadinejad, ma oramai si è rotto un tabù trentennale con il rifiuto della base di riconoscere la legittimità della Guida della Rivoluzione.

L’altra incognita è legata alle future relazioni con gli Stati Uniti. Anche su questo punto i pareri sono contrastanti e provocano divergenze spesso insanabili tra le opposte fazioni. I motivi delle ostilità tra l’Irān e gli Stati Uniti sono molteplici e riguardano fatti storici e avvenimenti più recenti, ma è difficile pensare che possano restare immutati per sempre indipendentemente dai cambi della guardia sia alla Casa Bianca sia nella leadership iraniana. Non sono pochi però coloro che vedono nel futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Irān un processo negoziale e giudicano le aspre fasi dello scontro come l’inevitabile preludio alle prossime trattative. Dal loro punto di vista la Repubblica islamica resta un fattore vitale per la strategia americana nel Medio Oriente e nel Golfo Persico, come gli Stati Uniti sono indispensabili in qualsiasi soluzione strategica per il futuro iraniano. Gli stessi osservatori sostengono inoltre che le tensioni tra Teherān e Washington servono innanzitutto a rafforzare le posizioni degli altri interlocutori e degli alleati americani nell’area (Israele in primo luogo, ma anche Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Turchia) e in Occidente (Europa e Giappone). L’Irān sotto sorveglianza, costantemente minacciato e isolato, favorisce, più che gli Stati Uniti, i loro alleati e i loro potenziali rivali. Dunque, non appena saranno modificati gli attuali equilibri e superati gli odierni fattori di ostilità, i due Paesi saranno destinati a normalizzare le loro relazioni in nome delle reciproche esigenze politiche e strategiche.

In un primo momento la prospettiva di un dialogo costruttivo tra gli Stati Uniti e l’Irān si è rafforzata con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca. La nuova amministrazione americana ha sostanzialmente mutato l’approccio con la Repubblica islamica rispetto alla precedente amministrazione, offrendo, non solo il riconoscimento del regime con gli auguri ai dirigenti locali per il capodanno iraniano, il 21 marzo del 2009, ma trattando la leadership della Repubblica islamica come possibile e potenziale interlocutore in un processo negoziale che comprende l’insieme dei contenziosi tra le due parti, a cominciare dal dossier nucleare. L’offerta del presidente americano all’Irān si è arricchita poi con due discorsi, uno al Parlamento di Ankara e l’altro all’Università del Cairo, rivolti al mondo islamico, al quale Barack Obama ha teso la mano e ha fatto capire che il suo dialogo con l’islam rientra in una visione più ampia, quella cioè di una strategia che però deve fare i conti con la drammatica crisi politica iraniana e con le incertezze che tale conflitto determina nei rapporti tra l’Irān e gli Stati Uniti.

Permangono tuttavia anche motivazioni che sono diametralmente opposte all’ipotesi di una normalizzazione dei rapporti tra l’Irān e gli Stati Uniti. Sin dal novembre del 1979, quando un gruppo di attivisti khomeinisti i quali si autodefinirono ‘Studenti seguaci della linea dell’imām’ occupò la sede diploma-tica statunitense a Teherān e per 444 giorni tenne sotto sequestro i diplomatici americani, si è aperto uno iato incolmabile tra Teherān e Washington con la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

Il ricordo di quei drammatici giorni è ancora vivo in ambedue le capitali e a esso si sono aggiunti nel frattempo numerosi altri episodi di ostilità reciproca. Quello che impedisce la normalizzazione dei rappor-ti, ritengono molti strateghi statunitensi, è la natura stessa del regime islamico in Irān e propongono una gamma di opzioni per rimuoverlo: a) l’uso della forza; b) l’applicazione di strumenti di soft-power; c) la provocazione di una rivolta dal basso mediante il sostegno dell’opposizione; d) l’appoggio alle rivendicazioni delle minoranze etniche (curdi, arabi nel Sud, azeri nel Nord e beluci all’Ovest).

Resta inoltre all’orizzonte anche la scelta dell’imposizione di una dura politica di contenimento contro l’Irān che potrebbe portare allo svuotamento del regime iraniano, come è successo nell’ex Unione Sovietica, fino all’isolamento politico, finanziario ed economico del Paese attraverso l’applicazione sempre più massiccia delle sanzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma anche di sanzioni extra ONU, su cui insistono gli Stati Uniti. Anche se tali sanzioni difficilmente potranno toccare il polmone principale dell’economia iraniana, alimentata in primo luogo dai proventi della vendita di petrolio e di gas che aumentano costantemente il proprio prezzo e dei quali non potranno fare a meno i Paesi consumatori di energia in Occidente e soprattutto le emergenti potenze economiche mondiali, ossia Cina e India. L’Irān inoltre è in grado di resistere a lungo, date le sue enormi potenzialità agricole e i suoi stretti rapporti commerciali con diversi Paesi che sfuggono al controllo statunitense. Non va inoltre sottovalutata la lunga esperienza di sopravvivenza economica che la Repubblica islamica iraniana ha accumulato nel corso degli otto anni di guerra contro l’Irāq.

Resta ovviamente in piedi anche la scelta, da parte degli Stati Uniti, di una operazione che preveda sia l’uso della forza su scala ridotta, sia la sollevazione contro il regime, sfruttando il malcontento popolare e le ripercussioni sulla popolazione di una crisi economica endemica; ma anche la combinazione di una rivoluzione di ‘velluto’, simile a quelle che si sono verificate in alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, con un attacco esterno contro i centri nevralgici del potere in Irān (le basi dei pāsdārān, i siti nucleari, alcuni palazzi del potere e le installazioni petrolifere), potrebbe risultare un’arma a doppio taglio, risvegliare l’antico orgoglio nazionalistico della popolazione e tradursi paradossalmente nel rafforzamento delle posizioni dell’ala radicale del regime islamico.

D’altro canto, anche in diversi ambienti del potere iraniano, vi è chi punta a resistere e a sconfiggere il grande Satana, concetto con il quale è cresciuta l’intera generazione dei nuovi paladini della rivoluzione khomeinista, e che si è rafforzato in particolare in questa fase in cui gli Stati Uniti faticano a conservare e a controllare la propria tradizionale supremazia politica nella regione e sono (e resteranno per un lungo tempo) impegnati in due guerre dalle prospettive incerte in ῾Irāq e in Afghānistān.

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