L'IRI dagli anni Trenta agli anni Settanta

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

L’IRI dagli anni Trenta agli anni Settanta

Franco Amatori

Nascita e primi anni dell’IRI

In uno dei suoi ultimi scritti, Joseph A. Schumpeter (1883-1950) riconosce che l’imprenditore va oltre la singola personalità: l’imprenditore e le sue iniziative possono appartenere a un’entità collettiva. Schumpeter fa l’esempio del ministero dell’Agricoltura americano, con la sua opera di risanamento del territorio dopo la grande crisi (R. Swedberg, Joseph A. Schumpeter. His life and work, 1991, trad. it. 1998, p. 189). L’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) appare in tali vesti sin dalle origini. Fondato nel gennaio del 1933 per tagliare i legami fra le maggiori banche del Paese e le grandi imprese industriali, si trovò a possedere più del 40% del capitale azionario italiano.

L’IRI era considerato dai suoi ideatori un ente provvisorio che, una volta risanate le imprese, avrebbe dovuto privatizzarle (‘smobilizzarle’, nel linguaggio di allora). Tutto ciò non fu possibile poiché dovette rilevare aziende nei cosiddetti core sectors della seconda rivoluzione industriale: la siderurgia, la cantieristica, la meccanica pesante, l’elettromeccanica, l’industria elettrica (D’Antone, in Storia dell’Iri, 1° vol., 2012). Si trattava di settori ad alta intensità di capitale, con imprese non solo costose da acquistare, ma, soprattutto, da gestire. In Italia non vi erano né capitali disponibili per questo tipo d’investimento, né capitalisti coraggiosi in grado di indebitarsi e di correre rischi in nome dell’interesse nazionale. Per questo, nel 1937, l’IRI venne dichiarato ente permanente e lo Stato italiano divenne il più grande proprietario d’industria in Europa, dopo l’Unione Sovietica.

Avere evocato questo Paese, il primo Paese socialista, può indurre a ipotizzare un tentativo di nazionalizzazione della nostra economia, sottratta al mercato e sottoposta a una serie di prezzi amministrati. Ma il fondatore dell’IRI aveva tutt’altre idee: Alberto Beneduce (1877-1944) apparteneva a quell’élite meridionale ‘illuminista’, seguace dell’intellettuale e uomo politico lucano Francesco Saverio Nitti (1868-1953), che riteneva l’industrializzazione l’unico modo per risolvere la questione meridionale. Con Nitti, Beneduce aveva fondato l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) e, in seguito, creerà alcune istituzioni finanziarie, come il CREDIOP (Istituto di CREDIto per le OPere Pubbliche) e l’ICIPU (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità), che si baseranno su un sistema di obbligazioni garantite dallo Stato; Beneduce utilizzerà lo stesso sistema per l’IRI, che rappresenterà nella storia italiana un’avventura imprenditoriale, nonostante un autorevole studioso inglese, Andrew Shonfield, l’abbia definito come «la più pazza nazionalizzazione della storia» (cit. in Amatori 2000, p. 143).

Beneduce dovette affrontare un vero e proprio uragano economico e, quindi, non mancarono nella soluzione ai gravi problemi da risolvere elementi di empirismo. Tuttavia, aveva alcune idee di fondo che applicò rigorosamente.

La prima, era che lo Stato si assumesse le sue responsabilità di proprietario e non svendesse le sue aziende. Beneduce privatizzò la Edison e la Bastogi perché per queste fu versato un prezzo congruo, ma respinse la richiesta di Giovanni Agnelli (1866-1945) che, alla testa di una cordata piemontese, voleva acquisire la SIP (Società Idroelettrica Piemonte). L’offerta venne giudicata insufficiente, così come quella dello stesso Agnelli, che voleva acquisire l’Alfa Romeo, e quella di Guido Donegani (1877-1947), che voleva inglobare nella Montecatini la Terni Chimica.

La seconda idea forte di Beneduce era introdurre una politica di razionalizzazione industriale basata sul settore. Alla superholding IRI, posseduta dallo Stato al 100%, facevano riferimento finanziarie settoriali di cui l’IRI controllava almeno il 51%: la STET (Società Torinese per l’Esercizio Telefonico), la Finmare (industria armatoriale) e la Finsider (siderurgia). A queste finanziarie facevano capo le aziende, le quali erano sottoposte ai dettami del codice civile e, quindi, operavano come imprese private.

Il terzo principio, conseguente a quest’ultimo punto, prevedeva che le aziende dovessero essere affidate alle cosiddette mani adatte, ossia a quelle di manager capaci come Ugo Bordoni (1884-1952) per la STET o Agostino Rocca (1895-1978) per la Finsider. Beneduce, che si circondò di collaboratori di prim’ordine come Donato Menichella (1896-1984), Francesco Giordani (1896-1961), Giuseppe Cenzato (1882-1969) e Pasquale Saraceno (1903-1991), risolse quindi brillantemente il nodo storico di un Paese che voleva industrializzarsi, ma al quale, come abbiamo detto, mancavano capitali e imprenditori (Amatori, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012).

La questione siderurgica e il piano Sinigaglia

Da quando, alla fine dell’Ottocento, era fallito il progetto di Vincenzo Stefano Breda (1825-1903) di creare a Terni una grande acciaieria a ciclo integrale, unica in Italia in grado di rifornire gli impianti impegnati nelle seconde lavorazioni, la siderurgia italiana aveva sempre avuto una vita stentata. Nel 1911 la crisi di sovrapproduzione aveva convinto il governo ad attuare un salvataggio da cui era sorto il cosiddetto trust siderurgico: all’interno di questo, la politica di cartello costringeva i grandi impianti a ciclo integrale a marciare a capacità ridotta, per non mettere in difficoltà le fabbriche minori e dotate di macchinari obsoleti. L’unico a opporsi a questa situazione fu un giovane ingegnere, Oscar Sinigaglia (1877-1953), che aveva, giovanissimo, raddrizzato le sorti della sua azienda di famiglia (una ditta che commerciava in acciaio), ma aveva anche a cuore le sorti dell’economia del Paese. Sinigaglia pensava che la questione siderurgica fosse la più importante dell’industria italiana, ma che, per offrire buoni prodotti a basso prezzo, occorresse puntare sul ciclo integrale. Condusse la sua lotta per più di un trentennio, sempre ostacolato dai grandi produttori di acciaio da rottame, fra i quali emergevano i Falck: i loro conti aziendali erano floridi; meno prosperi erano invece quelli del Paese. Infine, Sinigaglia divenne presidente della Finsider, la finanziaria dell’IRI dedicata all’industria siderurgica.

Lo stesso IRI, nel secondo dopoguerra, aveva visto a rischio la propria sopravvivenza, nel clima liberista imperante. Il fatto è, però, che non esistevano in Italia forze economiche private che potessero rilevare le grandi aziende di proprietà della holding pubblica. Ciò fu osservato con grande realismo anche da un antistatalista come il presidente della Confindustria Angelo Costa (1901-1976). In questo modo, a nessuno venne più in mente di abolire l’IRI. Tuttavia, nel febbraio del 1948, venne approvato uno statuto che lasciava al sistema dell’impresa pubblica il massimo della libertà da parte della politica (Amatori, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012).

In questo clima si concretizzava il cosiddetto piano Sinigaglia, che prevedeva la costruzione di un nuovo impianto a ciclo integrale alla periferia Ovest di Genova, a Cornigliano, la specializzazione degli altri due impianti a ciclo integrale, Piombino (rotaie) e Bagnoli (lamiere per navi), e la chiusura di piccoli impianti inefficienti, come quelli di Savona e Bolzaneto.

Sinigaglia, con grande abilità e pazienza, convinse le autorità americane a concedergli quasi la metà dei fondi del piano Marshall stanziati per l’Italia. Il cuore del progetto era la nuova fabbrica di Cornigliano. In una visione molto espansiva dell’economia italiana, la fabbrica, grazie all’installazione di un laminatoio continuo a nastri larghi, doveva realizzare – sull’esempio americano – una produzione di massa, ma, al tempo stesso, specializzata, così da collegarsi strettamente allo sviluppo del settore dei beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici), dell’elettromeccanica, dell’industria alimentare (prodotti in scatola). L’innovazione a Cornigliano era, soprattutto, un’innovazione organizzativa, quella che scattava quando uno stabilimento siderurgico superava la soglia delle 2000 tonnellate di produzione giornaliere. Al di sotto di questa soglia, l’organizzazione era una sorta di ‘legalizzazione dell’ovvio’ dove tutto procedeva come in una grande bottega, con una notevole dose di empirismo.

Lo stabilimento di Cornigliano, che Sinigaglia volle costruito e gestito fin dal 1951 da una società autonoma, la Cornigliano SpA, nasceva da un radicale aggiornamento dei progetti precedenti e teneva conto del notevole aumento della domanda di laminati piatti sottili e dell’affermazione in tutto il mondo dei nuovi impianti di laminazione in continuo. Alla fine degli anni Cinquanta rappresentava la fabbrica italiana a ciclo integrale con la maggiore capacità produttiva in funzione per quanto concerneva la ghisa e l’acciaio ottenuto, data la migliore qualità del prodotto, con il procedimento Martin-Siemens; ma, naturalmente, a caratterizzare lo stabilimento era soprattutto il settore della laminazione. Gli impianti, in particolare i più sofisticati dei reparti di laminazione, erano tutti di provenienza americana. A proposito di questi gioielli dello stabilimento, le fonti aziendali enfatizzavano il diverso rapporto uomo-macchina da essi richiesto e anche la necessità di regolarità e coordinazione organizzativa. Alla rivista dell’azienda, l’ingegner Cesare De Franceschini, direttore della sezione laminatoi, dichiarava:

prima che nascessero le industrie moderne, il lavoro di laminazione non si basava, come oggi, su un’impostazione così tecnica e scientifica. Ci si fidava molto dell’altissima esperienza di vecchi capi operai che conoscevano tutte le regole, tutti i trucchi per ottenere un buon prodotto. Praticamente si laminava a mano, tirando le lamiere sotto i rulli con le tenaglie. Oggi, al contrario, tecnica e scienza costituiscono il fondamento di un moderno impianto di laminazione. Oggi niente è più affidato alle decisioni, alle pur felici intuizioni dell’operatore, il quale, ad esempio un tempo stabiliva volta per volta il numero dei passaggi che il lingotto doveva subire. Oggi si studia ogni lavorazione a fondo e si elaborano precise tabelle di laminazione che sfruttano al massimo le possibilità offerte dalle macchine sempre più perfezionate e veloci. Da queste tabelle non ci si può discostare se non a scapito del ritmo produttivo e della qualità (cit. in Amatori 1980, p. 593).

In effetti, con la realizzazione dello stabilimento di Cornigliano appare avviato a compimento anche in Italia quello che un tempo appariva un traguardo lontano, e cioè l’esercizio di unità produttive aventi capacità superiore alle 2000 tonnellate al giorno. Un fatto del genere ha avuto precise implicazioni per quanto concerne l’investimento, l’utilizzazione degli impianti e la conseguente necessità di controllo della forza lavoro. Nel 1959 per ogni operaio occupato venivano investiti nel nuovo stabilimento 28 milioni di lire, mentre l’investimento per ogni tonnellata di acciaio prodotta era di 144.000 lire, laddove, per uno stabilimento analogo d’anteguerra, si avevano rispettivamente 20 milioni e 74.000 lire (il tutto in lire 1958). La necessità di tenere gli impianti attivi, tanto da raggiungere un adeguato volume di produzione per bilanciare gli oneri degli investimenti, costituiva un vero e proprio assillo per la dirigenza, che doveva garantirsi nel modo più accurato la regolarità del flusso produttivo senza alcun intralcio da parte della forza lavoro: questa doveva essere controllata e sollecitata in modo diverso rispetto al passato, così, per es.,

negli impianti più meccanizzati, il cottimo di squadra diviene più che un incentivo, un elemento integrativo del salario di posto; mentre sempre maggiore importanza acquistano ai fini dei rendimenti degli uomini le ‘buone relazioni’ fra maestranze e direzione (Amatori 1980, p. 59).

Non a caso, nel 1953, sin dall’inizio dell’attività dello stabilimento, la Cornigliano decideva di adottare per l’inquadramento retributivo del suo personale i criteri della job evaluation o Avl (Analisi e valutazione del lavoro). Il sistema prescelto era il basic steel americano nella versione della Armco Steel Company, nei cui stabilimenti un gruppo di tecnici dei ‘tempi e metodi’ era rimasto per un anno a studiarne le applicazioni. Da parte aziendale la job evaluation era considerata come un fattore di chiarezza e obiettività per porre fine a posizioni di privilegio. Certo, il sistema mostrerà i suoi limiti nel corso del tempo, tanto da essere sostituito nel 1973 dall’inquadramento unico. Tuttavia, esso va compreso all’interno dello sforzo di completa visibilità dell’impianto, regolato da un organigramma che prevedeva, fra line e staff, in totale cinquantanove posizioni, una fitta rete cui non sarebbe sfuggito alcun dettaglio della vita nello stabilimento (Osti, Ranieri 1993).

L’Alfa Romeo e le grandi reti

L’Alfa Romeo di Giuseppe Luraghi

L’innovazione all’interno dell’IRI negli anni Cinquanta appare pervasiva. Riguarda anche un’azienda come l’Alfa Romeo, che applica tecnologie e design originali per trasferire nelle vetture di gran turismo i risultati ottenuti nelle competizioni sportive.

L’Alfa Romeo, che era parte dell’Istituto fin dalla sua nascita, nel 1933, usciva dalla guerra in condizioni peggiori rispetto alle altre case automobilistiche. Il 60% degli impianti era distrutto, l’indirizzo produttivo completamente da riconsiderare a causa della fine delle commesse statali e dello smantellamento – imposto dagli alleati – dell’industria aeronautica, settore a cui la società aveva dedicato ingenti risorse. In discussione era la sua stessa esistenza, considerato l’incerto futuro dell’IRI, dal quale era stata ‘salvata’. Nel 1945, l’unico l’elemento di forza appariva la coesione fra il vertice aziendale, i lavoratori e le loro organizzazioni, dovuta al passato antifascista di Pasquale Gallo, designato dal Comitato di liberazione nazionale (CNL) quale commissario straordinario. Ma contavano, soprattutto, l’orgoglio professionale e lo speciale spirito di ‘appartenenza’ di tecnici e operai. Pur di sopravvivere, si decise di fabbricare cucine economiche, mobili, infissi metallici, respingenti per i cavi ferroviari, fino al 1947, quando fu possibile riprendere la produzione di veicoli industriali e di vetture di grossa cilindrata.

La svolta si verificò nel 1948, con la nascita della finanziaria dell’IRI destinata a raggruppare le partecipazioni pubbliche dell’industria meccanica (Finmeccanica): questo rendeva stabile l’assetto azionario e consentiva al gruppo dirigente, rinvigorito dall’arrivo a capo della progettazione di Orazio Satta Puliga (1910-1974), di dare inizio al tentativo di passaggio, pur nel solco della ‘tradizione Alfa Romeo’, a una produzione di dimensioni industriali. L’esito, due anni dopo, era l’uscita di una 4 cilindri di 1884 cm3 a carrozzeria portante, in grado di raggiungere i 150 km orari: la 1900, di cui fra il 1950 e il 1959 verranno costruiti 21.000 esemplari. Per la nuova macchina venne utilizzata una catena di montaggio ‘parziale’; nonostante ciò, il tempo necessario a produrre una vettura scese da 1080 ore nel 1951 a 518 nel 1954. L’impresa voleva dare di sé una nuova immagine: «oggi, al di là dei cancelli, non si parla di corse, non si parla di piloti; il lavoro e lo studio hanno assorbito ogni sforzo, l’Alfa Romeo ha compiuto il salto nel mondo industriale» (Amatori 1996, pp. 148-49).

La società del Portello non abbandonerà più l’indirizzo inaugurato con l’uscita della 1900, tendente a conferire definitivamente una dimensione industriale alla sua produzione automobilistica: era una politica fortemente sostenuta dal direttore generale della Finmeccanica, Giuseppe Luraghi (1905-1991), che nel 1960 assunse la massima carica aziendale, ed era rafforzata dall’arrivo di agguerriti manager, come Franco Quaroni, proveniente dalla Pirelli, posto a capo del settore commerciale, e Rudolf Hruska (1915-1995), già impegnato alla Porsche, che dirigerà lo stabilimento del Portello (Pozzi 2012).

L’Alfa Romeo, pur nell’ambito di una strategia di differenziazione che si riallacciava alla sua tradizione agonistica, ricercava ora i grandi numeri. Nel 1954 realizzava, addirittura, un prototipo di berlina con un motore da 900 cm3; le risorse tecniche dell’azienda, tuttavia, ne sconsigliarono la produzione su vasta scala. Nello stesso anno, il tentativo era coronato da successo con la Giulietta, di media cilindrata (1290 cm3), un classico esempio di vettura da turismo con caratteristiche sportive che s’impose anche sui mercati esteri e che, primo modello dell’Alfa, venne costruita in più di 100.000 unità (precisamente 177.688), sino al 1965. Ancora maggior fortuna toccò alla Giulia, di 1570 cm3 di cilindrata quando venne presentata nel 1962, successivamente fu prodotta in diverse versioni per più di un milione di esemplari, sino al 1976. A partire dal 1964, della Giulia vennero preparati a Milano solo i gruppi meccanici; il resto del processo produttivo si svolgeva nel nuovo stabilimento di Arese, la cui estensione superava di otto volte la superficie del Portello.

Ormai, l’Alfa aveva nettamente sostituito la Lancia al secondo posto fra le case automobilistiche italiane: restava, naturalmente, una casa di nicchia che, tuttavia, doveva confrontarsi con dimensioni del tutto inusitate rispetto al passato. Fra il 1954 e il 1959 si costruirono 100.000 esemplari della Giulietta, mentre, nei primi quarantacinque anni di attività della società milanese erano uscite dai suoi impianti appena 33.500 automobili. Il salto quantitativo dette quindi origine a una forte pressione per il cambiamento delle strutture aziendali esigendo una diversa qualità gestionale e organizzativa. Si imposero la costruzione di nuovi impianti alla giusta dimensione di scala, il rinnovo dei macchinari, in particolare per lo stampaggio, la saldatura e l’assemblaggio, il mutamento dell’organizzazione del lavoro, così da eliminare ogni ostacolo alla fluidità del processo produttivo. Impressiona la crescita del capitale fisso: da poco più di 3 milioni per dipendente nel 1958, a quasi 11 milioni otto anni dopo. Per evitare il rischio di una contemporanea forte ascesa dei costi unitari, la dirigenza fu costretta a mantenere un costante collegamento con il mercato, riformando in profondità l’organizzazione commerciale. Anche una casa di nicchia entrava, quindi, in una prospettiva ‘fordista’, da seconda rivoluzione industriale, che non consentiva più il riferimento a una domanda composta di poche migliaia di affezionati intenditori, ma richiedeva la capacità di coniugare strategia di differenziazione e produzione di massa (Amatori 1996).

L’Autostrada del Sole

Se è certamente da segnalare, fra le attività innovative dell’IRI, l’assunzione del controllo della RAI (Radiotelevisione Italiana) proprio quando questa iniziava a realizzare gli impianti di televisione e, nel campo del trasporto aereo, la creazione dell’Alitalia nel 1957 (L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri, 1998), l’impegno dell’Istituto si rivelò di particolare importanza nella costruzione delle grandi reti, anzitutto quella autostradale.

All’inizio degli anni Cinquanta divenne evidente in tutta la sua gravità il problema delle infrastrutture di collegamento all’interno del territorio nazionale. Se l’Italia poteva contare su un’adeguata rete ferroviaria, i collegamenti stradali erano del tutto insufficienti. Nel 1940, su 20.000 km di strade, il 30% era senza pavimentazione. Quanto alla rete autostradale, erano in esercizio solo alcuni tratti, la Milano-Laghi, la Milano-Brescia, la Firenze-Mare, l’autocamionabile Genova-Serravalle. Era inesistente, però, un piano organico in questo campo.

Nel 1954, mentre stava entrando in produzione la prima utilitaria italiana, la Fiat 600, con il contributo della stessa Fiat, dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), della Pirelli e dell’Italcementi, nasceva la SISI (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane): la società di engineering formulò un progetto per il tratto autostradale fra Milano e Napoli, poi donato allo Stato. Dopo aver constatato l’inadeguatezza dell’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade Statali) a raggiungere un risultato del genere, nell’aprile del 1956 il governo affidò alla tecnocrazia dell’IRI il compito di costruire l’asse portante del piano autostradale nazionale, ovvero l’Autostrada del Sole Milano-Napoli. Il presidente dell’Iri Aldo Fascetti (1901-1960) offrì a Fedele Cova (1904-1987), amministratore delegato della società dell’IRI Cementir (Cementerie del Tirreno), il ruolo di amministratore delegato della Concessioni e costruzioni autostrade SpA, con cui la holding pubblica dava inizio al proprio impegno in campo autostradale.

La società Autostrade poteva in realtà avvalersi solo di un progetto, quello della SISI, fondato su ipotesi non verificate e, in larga parte, già invecchiate; ma il problema più grave era dato dalla mancanza di finanziamenti adeguati e di capacità manageriali specifiche. Cova risolse pragmaticamente questi problemi, organizzando con i manager più importanti della società un viaggio negli Stati Uniti per aggiornarsi sulle più moderne tecnologie di costruzione e gestione delle autostrade. Il viaggio, che si svolse nella seconda metà del 1956, fu utilissimo per impadronirsi dei sistemi tecnici gestionali e finanziari che presiedevano all’esercizio delle turnpikes, le autostrade a pedaggio statunitensi. In Italia, Cova puntò quindi a riproporre il modello americano, dalla segnaletica all’impiego di guardrail, dall’eliminazione degli incroci a raso alle tecniche di esazione dei pedaggi, alla manutenzione, al controllo generale attuato tramite un elaboratore centrale Remington Rand comprato negli Stati Uniti. Si decise, inoltre, la costruzione di aree attrezzate di sosta per i rifornimenti, che venne lasciata in concessione alle società petrolifere per evitare un impegno diretto della società Autostrade.

Cova approntò per la società Autostrade un’organizzazione che faceva perno su una Direzione generale da cui dipendevano le Direzioni centrali (Amministrazione e Affari generali, e Direzione tecnica) e quelle periferiche (a loro volta articolate in Direzione d’esercizio – una volta entrata in funzione l’autostrada – e Direzione lavori, da cui dipendevano le imprese di costruzioni); all’inizio del 1957 i principali tratti del percorso erano già stati appaltati. Alla riorganizzazione si affiancò una vivace campagna di promozione: per l’opinione pubblica la nuova autostrada assunse un valore anche simbolico di volano per lo sviluppo locale e questo facilitò il rapido avanzamento dell’opera, che richiedeva l’espropriazione di terreni e decreti d’urgenza per il cambiamento di destinazione delle aree interessate. Il compimento dell’autostrada fu rapidissimo. Nel 1958 giunse a Parma, nel 1959 a Bologna, nel 1960 a Firenze e, infine, nel 1964 a Napoli.

La teleselezione

Se Cova vide realizzata la sua creatura più importante, l’Autostrada del Sole, Guglielmo Reiss Romoli (1895-1961), il grande manager che riorganizzò la telefonia italiana nel dopoguerra, scomparve precocemente e non poté che porre le premesse per il risultato più importante ottenuto dalla finanziaria dell’IRI per le telecomunicazioni, la STET, di cui era presidente, ovvero la teleselezione nazionale.

Triestino di famiglia ebrea, irredentista militante, aveva aderito al movimento nazionalista e aveva combattuto come volontario nella Prima guerra mondiale. Dopo la guerra era approdato alla Banca commerciale italiana per la quale, come mandatario generale, aveva riorganizzato il gruppo Italgas e, attraverso la finanziaria SOFINDIT (SOcietà Finanziaria INDustriale ITaliana), si era occupato del gruppo SIP e poi della STET, costituita nel 1933. Alla STET era tornato, dopo molte traversie dovute soprattutto alle persecuzioni razziali, come direttore generale nel gennaio del 1946.

La situazione della telefonia italiana era allora piuttosto confusa: erano attive cinque concessionarie private a ciascuna delle quali era assegnata una zona del territorio nazionale, mentre l’Azienda di Stato per i servizi telefonici (ASST) aveva il compito di gestire il servizio telefonico interurbano a grande distanza, quello internazionale e anche di esercitare una funzione di controllo sulle cinque concessionarie. La STET controllava quelle delle prime tre zone, la Società telefonica tirrena (TETI) a sua volta controllata dalla Centrale del gruppo Pirelli-Orlando, mentre la SET (Società Esercizi Telefonici) era parte del gruppo svedese Ericsson, presente in Italia anche attraverso la società manifatturiera Fatme e la compagnia d’impiantistica SIELTE (Società Impianti ELettrici e TElefonici). Le concessioni, firmate nel 1925, erano destinate a scadere dopo un trentennio.

Si aprì allora un ampio dibattito politico che vedeva, da una parte, il Partito comunista sostenere la nazionalizzazione del sistema telefonico e, dall’altra, in prima linea, il Partito liberale, quale portavoce delle istanze di privatizzazione. Reiss Romoli, forte degli ottimi risultati delle sue controllate, riuscì a ottenere l’‘irizzazione’ dell’intero sistema. Questo esito venne sanzionato dal d.m. dell’11 dicembre 1957, approvato insieme al piano regolatore telefonico nazionale, che definiva l’organizzazione territoriale in 21 compartimenti, 231 distretti e 1400 settori; vennero allora stabiliti anche il piano di numerazione, i criteri d’instradamento delle comunicazioni e gli altri criteri utili a definire le modalità d’interconnessione tra gli impianti delle concessionarie e l’azienda di Stato. Il piano strategico di Reiss Romoli, imperniato sulla STET, rappresentava una premessa essenziale per superare le dimensioni ancora prevalentemente locali della rete telefonica e dare impulso allo sviluppo della teleselezione: l’operazione doveva puntare all’espansione dell’infrastruttura telefonica (reti e abbonati) che avrebbe sostenuto la modernizzazione economica e sociale del Paese senza perdere di vista gli aspetti della produttività e redditività nella gestione delle imprese pubbliche coinvolte (Bottiglieri 1984).

Su questa base proseguivano l’estensione e l’aggiornamento tecnologico della rete telefonica nazionale, già nel 1960 comparabile, in termini di utenze, ai livelli medi europei, anche se le regioni meridionali mostravano una densità telefonica inferiore alla media nazionale.

Una forte spinta ad accentuare lo sviluppo del comparto si ebbe in seguito alla nazionalizzazione del settore elettrico: nell’ottobre del 1964 venivano concentrate nella SIP (Società Idroelettrica Piemonte), insieme con le società ex elettriche, le cinque concessionarie telefoniche che facevano riferimento alla STET. La società esito della fusione assumeva la nuova denominazione di SIP-Società italiana per l’esercizio telefonico, con un capitale sociale posseduto per il 53,2% dalla STET. Questa concentrazione, l’aumento delle tariffe e l’apporto finanziario determinato dagli indennizzi derivanti dalla nazionalizzazione degli impianti elettrici SIP furono alla base dell’accelerazione che doveva concretizzare, alla fine degli anni Sessanta, il sistema globale della teleselezione da utente, totalmente automatizzata, dapprima in ambito nazionale (nel 1970) e poi internazionale (L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri, 1998).

Nel corso di undici anni, dal 1962 al 1973, era più che raddoppiato il numero degli abbonati italiani in rapporto alla popolazione (da 7,1 a 15,4 ogni 100 abitanti): un livello superiore al dato analogo francese (−4%), vicino a quello tedesco (+1%), ma ancora inferiore rispetto a quello britannico (+4,5%). Una vivace domanda, un programma sostenuto di investimenti in impianti e l’adeguamento progressivo delle tariffe ai costi avevano consentito alla concessionaria pubblica di raggiungere gli obiettivi prefissati nelle convenzioni con l’Istituto, che puntavano al miglioramento del servizio e alla crescita continua di traffico e utenze.

Nel decennio che va dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica ai primi anni Settanta non era solo il comparto telefonico, bensì l’intero assetto del settore telecomunicazioni che faceva capo al gruppo pubblico ad apparire in continuo movimento, anche in ragione dell’accelerato sviluppo tecnologico delle connessioni internazionali e intercontinentali per la trasmissione di dati sui diversi supporti, dal cavo al satellite, tipico del fascio di innovazioni della cosiddetta terza rivoluzione industriale.

Verso la terza rivoluzione industriale

L’uso civile dell’energia nucleare

In un celebre articolo che affronta il tema della selezione dei dirigenti aziendali in rapporto alla capacità innovativa delle imprese, gli economisti Daron Acemoğlu, Philippe Aghion e Fabrizio Zilibotti sostengono che l’impresa pubblica non sa lanciarsi oltre la frontiera dell’innovazione (Acemoğlu, Aghion, Zilibotti 2006). È una tesi che l’IRI sembra smentire negli anni Cinquanta e Sessanta, perseguendo le nuove prospettive aperte nel settore energetico dalla tecnologia elettronucleare, ma anche operando con una forte spinta innovativa nel settore delle telecomunicazioni e nell’elettronica.

Nel dicembre del 1955 l’Istituto costituiva la Società elettronucleare nazionale (SENN), di cui controllava l’82,5% del capitale; nell’azionariato erano inoltre presenti i maggiori gruppi elettrocommerciali privati. Alla SENN veniva attribuito il compito di progettare e realizzare una centrale destinata a produrre energia elettronucleare presso la foce del Garigliano, a Sessa Aurunca; l’impianto, finanziato per il 60% del costo dalla Banca mondiale, avrebbe messo a disposizione del Mezzogiorno un miliardo di kWh.

Nel frattempo si strinsero accordi con la General electric per la fabbricazione in Italia, da parte di aziende della holding siderurgica Finsider, di acciai speciali e semilavorati da impiegare nella costruzione della nuova centrale; l’Ansaldo ottenne infine la licenza di sfruttamento di brevetti della società americana, per produrre macchinari e attrezzature destinati alle centrali elettronucleari. Con la legge di nazionalizzazione del dicembre 1962, e l’istituzione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), la centrale divenne proprietà del nuovo ente.

Gli esiti successivi del settore non tolgono comunque forza all’indirizzo espresso dall’IRI negli anni Cinquanta, che collocava il settore pubblico sulla frontiera tecnologica della precoce sperimentazione del nucleare a scopi pacifici, anche nell’ambito della collaborazione internazionale promossa dal programma americano Atom for peace nel 1953 e dell’Euratom nel 1957. L’interesse dell’Istituto per l’energia nucleare aveva valenza sia in termini di rilevanza strategica nel quadro della politica energetica nazionale, sia in termini di scelta industriale, in cui far avanzare la formazione delle competenze e la produzione delle imprese manifatturiere del gruppo, in un ambito individuato come uno dei settori propulsivi per lo sviluppo economico nazionale proprio per suoi contenuti di innovazione tecnologica e scientifica e, quindi, di promozione della ricerca applicata all’industria (Amatori, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012).

L’elettronica

L’alleanza con imprese straniere operanti sulla frontiera tecnologica della terza rivoluzione industriale non rimase isolata all’episodio del nucleare. Sono da citare, nel comparto elettrotecnico e nell’elettronica, la Microlambda (una joint venture della Finmeccanica, costituita nel 1951), che utilizzò le conoscenze e le esperienze della statunitense Raytheon manufacturing company per la produzione di radar e complessi elettronici negli stabilimenti napoletani, e la Marconi italiana, partecipata dalla Marconi britannica, che costruì all’Aquila una nuova fabbrica per la produzione di valvole per radioricevitori. Il settore elettronico dell’IRI registrò in questi anni continui progressi, anche se circoscritti a poche iniziative industriali.

Nel 1959 la Finmeccanica costituiva la ATES (Aquila Tubi Elettronici e Semiconduttori), che rilevò lo stabilimento dell’Aquila dalla Marconi italiana mentre, nel 1960, si costituiva a Napoli la società Selenia alla quale vennero conferiti gli impianti della Microlambda posta in liquidazione; questa vicenda ha per protagonista un rappresentante della tecnocrazia dell’IRI, l’ingegner Carlo Calosi, di cui si racconta la storia nelle pagine successive. La nuova società Selenia era partecipata paritariamente dalla Finmeccanica e dalla Raytheon, ciascuna con il 40% del capitale, mentre il restante 20% apparteneva alla Edison; impegnata prevalentemente in programmi internazionali rivolti a produzioni militari, si giovava dell’assistenza tecnica, di un flusso di commesse e dell’organizzazione commerciale della Raytheon. La ATES, intanto, cambiava la ragione sociale in Aziende tecniche elettroniche del Sud e trasferiva a Napoli la sua sede legale; ampliava la divisione tubi catodici dello stabilimento dell’Aquila e creava una nuova fabbrica a Catania per la produzione di semiconduttori all’interno di un programma concordato con la nota società americana RCA (Radio Corporation of America) (Colli, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012).

Nel panorama mondiale gli anni Sessanta segnarono un’accelerata espansione dell’industria elettronica, con un incessante progresso tecnologico e un’estensione delle sue applicazioni a sempre nuovi campi industriali e dei servizi. In questa contingenza l’Italia mostrava la sua debolezza, sia per le dimensioni della domanda sia sul piano dell’offerta. Erano insufficienti le misure di sostegno allo sviluppo del settore, mentre nei maggiori Paesi industriali l’elettronica veniva considerata più che mai un campo strategico di cui andava supportata l’attività di ricerca e sviluppo applicativo. Il ritardo italiano era all’origine di un minore afflusso di investimenti esteri che, invece, risultavano orientati verso Gran Bretagna, Germania e Francia. Da noi si doveva riscontrare persino il disimpegno di alcuni fra i maggiori produttori americani, già attivi in precedenza, come la Raytheon e la Fairchild. A tale situazione l’Istituto reagì nella seconda metà degli anni Sessanta con l’avvio del nuovo ciclo di sviluppo, in cui il tasso di espansione della domanda nazionale di prodotti e componenti elettronici superava ormai largamente la media del settore manifatturiero e l’elettronica si collocava fra i comparti che nel futuro avrebbero più inciso sulla competitività internazionale, essendo alla base di tutti i settori, in posizione simile a quella occupata dalla macchina a vapore nella prima rivoluzione industriale.

Nel 1969, l’IRI approntò un programma di riassetto ed espansione del settore con un orizzonte temporale decennale. Questo programma venne approvato dal governo, che lo inserì nel piano economico nazionale 1971-75. Una serie di interventi trovò allora realizzazione, a partire dal trasferimento al gruppo STET della Selenia e dell’Elsag, aziende elettroniche già facenti capo alla Finmeccanica. Questo riassetto aveva come obiettivo la sinergia fra ricerca, produzione industriale ed esercizio nel campo delle telecomunicazioni; la STET poteva infatti garantire alle imprese le risorse finanziarie necessarie alla modernizzazione imposta dallo sviluppo tecnologico del settore. Alla fine del 1973 il gruppo di imprese che faceva capo alla STET (Selenia, Elsag e Sit-Siemens) era operativo nella produzione di apparecchiature e sistemi elettronici per applicazioni civili e militari (telecomunicazioni, automazione, avionica, radar e missili), contava sei stabilimenti in attività e tre in fase di costruzione; nel triennio 1971-73 aveva creato 15.000 nuovi posti di lavoro (circa la metà nel Meridione).

Nel 1971 la STET rilevava la maggioranza (60%) della Società generale semiconduttori (SGS) a seguito dell’abbandono, nel 1968, del socio americano Fairchild, e della difficoltà dei soci di minoranza privati italiani (Olivetti e Fiat); di fronte agli elevati costi di ricerca e sviluppo richiesti per competere in un settore ad alto rischio arrivava la rinuncia dei soci privati: a seguito dell’integrazione della SGS con l’ATES componenti elettronici nell’ambito STET, ricadde quindi sull’IRI tutto lo sforzo per garantire continuità di sviluppo all’unica presenza italiana nel comparto chiave della componentistica attiva. Con due stabilimenti in Italia, a Milano e a Catania, e tre all’estero, in Gran Bretagna, in Francia e a Singapore, il nuovo complesso era il terzo in Europa (5,4% della produzione). L’occupazione complessiva della SGS-ATES alla fine del 1973 era di 7900 persone, di cui 3000 all’estero, con un aumento di 1600 addetti nel biennio successivo all’integrazione nella STET.

Sempre a questi anni risale un decisivo impulso pubblico all’attività di ricerca, anzitutto con il raddoppio del Centro studi e laboratori per telecomunicazioni (CSELT) di Torino, costituito alla fine del 1964, operativo nell’ambito delle applicazioni elettroniche di avanguardia, e poi con gli investimenti destinati ai laboratori Sit-Siemens e SGS-ATES di Milano e Selenia di Roma.

Alla fine degli anni Sessanta, l’Istituto valutava con attenzione anche l’opportunità di un impegno diretto nel campo della progettazione e produzione di calcolatori elettronici: i rischi tecnici e commerciali, così come l’imponente impegno necessario in attività di ricerca, apparvero allora eccessivi e l’iniziativa venne circoscritta a una collaborazione con la Siemens AG per la vendita sul mercato italiano, attraverso la Siemens Data (costituita nel 1969, di cui la casa tedesca possedeva il 51% e la STET il 49%), di sistemi di elaborazione dati prodotti dalla partner estera.

Un approfondimento supplementare sulle prospettive di sviluppo del settore informatico riguardò poi il problema della componente software: l’IRI promosse allora una ricerca nei Paesi più avanzati sull’utilizzo delle nuove tecnologie proprio per valutare l’impatto della spesa destinata alla progettazione dei software, che rappresentavano l’elemento critico per lo sfruttamento efficace delle potenzialità degli elaboratori elettronici. L’esito operativo dell’indagine fu la costituzione, agli inizi del 1969, della Società italiana sistemi informativi elettronici-Italsiel.

Al capitale della nuova società parteciparono, insieme all’IRI, la STET, la Finmeccanica e altre imprese e banche del gruppo per un totale del 58%; la restante quota di capitale fu sottoscritta da ENI, EFIM (Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere), Banca d’Italia, Banca nazionale del lavoro e diverse imprese private, fra cui la Olivetti. Questo vasto concorso di azionisti non derivava dalla necessità di fabbisogno di capitale, perché quello dell’Italsiel non era particolarmente elevato, bensì dall’interesse dell’iniziativa in un ambito che imponeva la più elevata specializzazione per stare al passo con le esperienze internazionali. La prima software house italiana, di iniziativa pubblica, rispondeva infatti a una domanda, fino a quel momento non soddisfatta dal mercato nazionale, di consulenza specialistica, formazione di tecnici e produzione di programmi adeguati al funzionamento informatizzato delle nuove procedure di gestione aziendali: innanzitutto della Pubblica amministrazione (centrale e locale), ma comune a i tutti i settori, dal manifatturiero, alle banche ai servizi.

Un protagonista dell’high-tech IRI: Carlo Calosi

Un percorso professionale che, nell’ambito dell’Istituto, si qualifica come particolarmente innovativo è quello di Carlo Calosi (1905-1997). Laureatosi in ingegneria navale e meccanica a Genova nel 1927, affiancò alla carriera accademica l’insegnamento delle discipline tecniche nei corsi che l’IRI organizzava per indirizzare i laureati dagli ambienti della ricerca alle carriere professionali nelle imprese. Nel Regio silurificio italiano (impresa partecipata al 40% dall’IRI) mise a punto nel 1941 la realizzazione di un siluro per la marina italiana, una produzione talmente innovativa per l’industria bellica da richiamare l’attenzione della US Navy: nel 1944, Calosi venne portato negli Stati Uniti e, in accordo con il governo Badoglio, costretto a collaborare con gli alleati alla realizzazione dei primi sistemi radar.

L’esperienza americana si rivelò per l’ingegnere italiano estremamente proficua. Nel dopoguerra decise infatti di spostare il baricentro del suo lavoro a Boston, alla Submarine, mentre contemporaneamente collaborava anche con l’università di Harvard e il MIT (Massachusetts Institute of Technology). Nel 1947 entrò poi a far parte di una grande impresa industriale, la Raytheon, e nel 1951, vicepresidente per l’Europa della stessa, realizzò una joint venture tra l’impresa americana e la Finmeccanica, di cui era ancora consulente: si costituiva così la Microlambda, nella quale Calosi assunse la carica di direttore tecnico.

L’impresa italiana, la prima attiva nella produzione di radar, realizzò allora una felice ibridazione fra il modello di progettazione americano su licenza Raytheon e le modalità di produzione italiane, ancora su scala limitata. I rapporti fra il dirigente e i vertici della Finmeccanica alla metà degli anni Cinquanta si rivelarono piuttosto turbolenti, tanto da indurlo a ritornare, momentaneamente, negli Stati Uniti, mentre un gruppo di progettisti della Microlambda fondava una piccola impresa, la Sindel, capace di mantenere la relazione di collaborazione con la Raytheon. Superati i contrasti con la Finmeccanica, Calosi realizzò nel 1960 la fusione di Microlambda e Sindel per dar vita alla Selenia, sempre con la partner americana Raytheon.

L’impegno di Calosi quale amministratore delegato per un decennio, collocò la Selenia in una posizione di primo piano nel settore degli armamenti (per il sistema integrato di difesa della NATO) e, in seguito, nel settore elettronico. Ancora a Calosi, capace organizzatore della produzione e tecnocrate di punta dell’impresa pubblica, si rivolgerà, nell’autunno del 1966, Saraceno, in qualità di presidente di una commissione attivata presso il ministero della Ricerca scientifica e tecnologica, destinata a formulare il piano italiano per la ricerca nell’ambito di un più ampio disegno europeo. Anche in questo caso, pur con la coscienza di un ritardo tecnologico italiano difficile da colmare in breve tempo, il ruolo dell’IRI si mostrava significativo: alla Ricerca e sviluppo il gruppo destinerà nel 1966 risorse pari al 16% di tutte le spese sostenute dalle imprese italiane (Felisini, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012).

Le telecomunicazioni

Nel settore delle telecomunicazioni internazionali la STET assunse, nel 1965, il controllo delle due società Italcable e Telespazio. La loro integrazione nel gruppo pubblico era l’esito della fusione nell’Italcable delle due società Sarca Molveno (ex elettrica) e Italtel (Società Italiana per le Telecomunicazioni); a questo punto, la STET controllava il 60% del capitale dell’Italcable che, a sua volta, possedeva al pari della STET e della RAI, un terzo del capitale della Telespazio. I servizi di telecomunicazione internazionale arrivarono a dipendere da un unico centro direttivo: il nuovo assetto consentiva quindi di stipulare una convenzione con lo Stato che, nel 1968, affidava all’Italcable in concessione sino al 1996 il servizio telegrafico con l’estero (esclusi i Paesi confinanti con l’Italia e quelli affacciati sul Mediterraneo), e i servizi telex, telefonico e di trasmissione di dati e immagini con tutti i Paesi extraeuropei, con collegamenti su ogni tipo di supporto (radio, filo, cavo sottomarino, fibra ottica e satellitare).

Ancora sulla frontiera tecnologica si collocava la partecipazione dell’Italcable al progetto internazionale di messa in opera del sistema cablofonico sottomarino TAT 5/MAT 1, che collegava l’Italia con la penisola iberica e gli Stati Uniti, entrato in servizio nel 1970. Gli investimenti in impianti effettuati dall’Italcable tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta (quando occupava 2000 persone) erano diretti anche alla modernizzazione del centro operativo di Acilia (Roma) e al riassetto della stazione radioricevente automatica del Cimino (Viterbo), mentre la consociata Telespazio forniva la tecnologia per i collegamenti satellitari. Nel 1965 a quest’ultima venne assegnata la concessione statale in esclusiva per 25 anni dell’impianto e dell’esercizio delle telecomunicazioni per mezzo di satelliti artificiali; la società partecipò, inoltre, all’organizzazione mondiale Intelsat, che nel 1969 rese operativo il sistema di satelliti in servizio per l’intero pianeta. Nell’arco di sei anni (1968-73), i circuiti in esercizio che facevano capo all’attività di vettore esercitata dalla Telespazio si estesero a tutti i continenti: erano utilizzati dalla consociata Italcable per i servizi telefonici e telegrafici e dalla RAI per quelli televisivi. Alla fine del periodo considerato erano trenta i Paesi collegati via satellite con l’Italia.

La Telespazio, oltre al telecomando dei satelliti tramite le stazioni di terra, svolgeva anche un complesso servizio di studio e consulenza tecnica per progetti di vari enti italiani e internazionali, come la sperimentazione Terra per il rilevamento via satellite dei dati concernenti le risorse terrestri, l’ambiente e la meteorologia.

Era ancora la STET a valorizzare alla metà degli anni Sessanta il patrimonio di competenze accumulato dal gruppo pubblico nel campo della progettazione, installazione e gestione di reti di telecomunicazione con la partecipazione nella SIRTI (Società Italiana Reti Telefoniche Interurbane), portata nel 1966 dal 10 al 50%: la società, posseduta a metà con il gruppo Pirelli, realizzava l’anno seguente un Consorzio internazionale per Sistemi di comunicazione via satellite-Sts con la Sit-Siemens e l’americana Gte per la progettazione e l’impianto di stazioni terrene per le comunicazioni satellitari (L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri, 1998).

Conclusioni

L’IRI è stato senza dubbio uno dei protagonisti di quella stagione straordinaria che è stata definita miracolo economico. Il responsabile delle Relazioni esterne dell’Istituto, Franco Schepis, scriveva alla fine degli anni Sessanta:

Un turista straniero arriva in Italia con un aereo dell’Alitalia? Alitalia è la compagnia aerea dell’Iri. Sbarca a Genova da uno dei più bei transatlantici del mondo come la Michelangelo o la Raffaello, la Cristoforo Colombo o la Leonardo da Vinci? Sono dell’Iri. Noleggia una macchina veloce ed elegante come un’Alfa Romeo? È dell’Iri. Per uscire da Genova percorre la prima strada sopraelevata costruita in Italia? È dell’Iri, ed è stata realizzata con l’acciaio della Finsider (Iri) e il cemento della Cementir (Iri). Uscito dalla città prende un’autostrada della più estesa rete esistente in Europa? È dell’Iri. Si ferma per pranzare in un autogrill? È dell’Iri. Assaggia i prodotti della Motta e dell’Alemagna? Sono aziende Iri. Dopo pranzo, telefona a qualcuno della sua città, usando la prima teleselezione integrale da utente del continente? È una linea della Sip, cioè dell’Iri. Arrivato a destinazione, deve cambiare della valuta? Va in una delle principali banche italiane (la Banca Commerciale Italiana o il Banco di Roma o il Credito Italiano)? È anch’essa dell’Iri (Amatori, in Storia dell’Iri, 2° vol., 2012, p. 4).

In quest’apologo c’è la chiara percezione di che cosa rappresentasse l’IRI al culmine del suo successo. Questo fu reso possibile dal disegno organizzativo ideato da Beneduce e richiamato all’inizio di queste pagine, che prevedeva la proprietà pubblica insieme a uno stile imprenditoriale e manageriale privato, oltre a soci di minoranza che, attratti da ottimi ritorni, dessero fiducia allo Stato non facendo mancare il loro supporto finanziario. Restava un interrogativo, che riguardava la natura e la lealtà dello Stato in Italia. Sorto frettolosamente alla metà dell’Ottocento, era stato costretto a darsi una struttura accentrata che si era sovrapposta a una società divisa e frammentata. Era inevitabile che intervenisse la mediazione politica, con tutta la sua carica di discrezionalità. Non bisogna dimenticare che l’IRI aveva un padrone – lo Stato, appunto – e che questo significava ricondurre la sua attività all’iniziativa politica. Quando le circostanze inducevano a un controllo più stretto da parte di chi poteva esercitare i diritti di proprietà, l’IRI, pur con le sue eccellenti capacità organizzative e la sua carica d’innovazione, entrava in crisi. Ciò avvenne negli anni Settanta, quando la rarefazione di risorse finanziarie si fece sentire. Nel periodo qui considerato, invece, i rapporti fra la politica e il management furono complessivamente buoni.

Negli anni del fascismo, il regime totalitario non aveva bisogno delle imprese dell’IRI per ottenere consenso. Fu quindi possibile per Mussolini porre a capo delle aziende o delle finanziarie pubbliche manager scelti per la loro professionalità e non per ragioni di appartenenza politica. Dopo la guerra, una classe dirigente ‘distratta’ dalle vicende della ricostruzione applicò nei confronti dell’IRI una ‘negligenza benigna’. Ebbero così spazio uomini come Oscar Sinigaglia, Giuseppe Luraghi, Fedele Cova, Guglielmo Reiss Romoli, Carlo Calosi. Le cose cominciarono a cambiare nel 1956, quando venne istituito il ministero delle Partecipazioni statali.

Prima di allora, il sistema delle imprese pubbliche appariva come una piramide rovesciata. Per prime venivano le aziende, poi le finanziarie e, quindi, la super holding IRI. Questa era la condizione basilare perché agissero le ‘mani adatte’ perché una tecnocrazia efficiente e brillante producesse innovazione ad alto livello. Con il ministero si realizzava una catena di comando che vedeva prevalere i politici. Sempre più si posero all’Istituto obiettivi extraaziendali, vincoli di localizzazione severi come quelli imposti dalla legge 634 del 1957, secondo la quale l’IRI doveva collocare il 60% dei nuovi investimenti e il 40% di quelli complessivi nel Meridione. Questi vincoli avrebbero potuto essere sopportabili se fossero stati orientati verso obiettivi di razionalità produttiva, come nel caso dello stabilimento di Taranto, per il quale un management assai selezionato prevedeva la fabbricazione di grandi tubature per metanodotti e di lamiere per navi, vale a dire prodotti ad alto valore aggiunto. Si preferì, per motivi di consenso politico, puntare sulle produzioni di massa. Il management subì allora l’iniziativa dei partiti e dei sindacati: alla fine, poté solo ‘navigare a vista’.

Opere

L’istituto per la ricostruzione industriale – Iri. Elementi per la sua storia dalle origini al 1982, a cura di V.A. Marsan, documento interno Iri, Roma 1998.

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B. Bottiglieri, Guglielmo Reiss Romoli, in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Milano 1984, pp. 501-47.

G.L. Osti, R. Ranieri, L’industria di stato dall’ascesa al degrado.Trent’anni nel gruppo Finsider: conversazioni con Ruggiero Ranieri, Bologna 1993.

F. Amatori, Impresa e mercato. Lancia 1906-1969, Bologna 1996.

L’evoluzione delle industrie ad alta tecnologia in Italia. Entrata tempestiva, declino e opportunità di recupero, a cura di C. Bussolati, F. Malerba, S. Torrisi, Bologna 1996.

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D. Pozzi, Giuseppe Luraghi: una sfida al capitalismo italiano, Venezia 2012.

Storia dell’Iri, 1° vol., Dalle origini al dopoguerra 1933-1948, a cura di V. Castronovo, Roma 2012 (in partic. L. D’Antone, L’architettura di Beneduce e Menichella, pp. 229-67); 2° vol., ‘Il miracolo economico’ e il ruolo dell’Iri, 1949-1972, a cura di F. Amatori, Roma 2012 (in partic. F. Amatori, Un profilo d’insieme: l’età dell’Iri, pp. 3-55; A. Colli, La grande stagione dell’Iri, pp. 58-150; D. Felisini, Biografie di un gruppo dirigente: 1945-1980, pp. 152-258).